di Ilvio Pannullo

Il tempo è arrivato. Si sono aperte le danze e per noi è arrivato, purtroppo, il momento di salire sulla pista da ballo. Dopo la Grecia, che da tempo ha finito di ballare e che appare oramai sfiancata e prossima al collasso, dopo l’Irlanda e il Portogallo, che sono già da qualche mese in condizioni di difficoltà nel disperato tentativo di rinnovare il proprio debito pubblico, sembra sia infine giunto il nostro tempo.

La notizia è di quelle che passano in secondo piano. Non si parla del marciume che avviluppa il mondo del calcio, né del ciarpame senza pudore che allevia lo stress da lavoro del nostro infaticabile Governo. Si parla solo di economia pubblica, dunque poca cosa. In un periodo dove non si può parlare di riforme senza venire immediatamente fulminati dal timore per la “salute” del debito pubblico, una notizia entra ed esce dalla consapevolezza collettiva con una rapidità fulminante: le banche italiane sono state messe sotto osservazione dalle agenzie di rating.

Si teme per un declassamento che minerebbe la loro credibilità economica e che, come inevitabile conseguenza, trascinerebbe con sé un ripensamento dell’affidabilità del sistema italiano nel suo complesso. I falchi della speculazione sono già in volo, eppure ancora nulla si muove.

Accade così che l’agenzia di rating americana Moody's abbia messo sotto osservazione, per un possibile taglio, il rating di 16 istituti di credito italiani. Si tratta - scrive Moody's - di una misura conseguente all'annuncio dell'analoga mossa annunciata il 17 giugno scorso per il rating assegnato all'Italia. I rating dei 16 istituti messi sotto osservazione "sono sensibili anche a moderate variazioni dell'affidabilità creditizia del governo e della sua capacità di supportare le banche del Paese", spiega Moody's nel rapporto. Come a dire che le sorti dell’uno (il Governo) sono legate alle sorti dell’altro (il sistema bancario): simul stabunt simul cadent dicevano i latini.

Ed i nomi fanno impressione: gli istituti che rischiano il taglio sono la Cassa Depositi e Prestiti (!!), Intesa Sanpaolo, Banca Imi, Banca CR Firenze, Banca Monte dei Paschi di Siena, Mps Capital Services, Banco Popolare, Banca Nazionale del Lavoro, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, Banca Popolare Friuladria, Banca Carige, Banca Sella Holding, Cassa di Risparmio di Bolzano-Sudtirol, Cassa di Risparmio di Cesena, Banca Padovana Credito Cooperativo, Cassa Centrale Banca, Cassa Centrale Raiffeisen,e l’ Istituto Servizi Mercato Agroalimentare.

Le banche il cui outlook (la previsione sul merito creditizio, ndr) diventa “negativo” sono invece Ubi, Credito Emiliano, Credito Valtellinese, Bancaperta, Banca delle Marche, Banca Italease, Banca Agrileasing, Banca Popolare Alto Adige, BancApulia, Banca Popolare di Cividale, Banca Tercas, Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti e Banca Popolare di Spoleto. Altre banche del Paese, tra cui anche Unicredit e Bpm, non sono state prese in considerazione nella nota - spiega Moody's - perché hanno già outlook negativo o sono già state messe sotto osservazione per un possibile taglio. Riassumendo, si potrebbe dire che la credibilità del sistema bancario italiano è dunque peggiore di quella del suo primo ministro. E non era facile arrivare a tanto.

L’Italia, che dal 2000 in poi sembra abbia registrato il peggior tasso di crescita del pianeta (con l’eccezione di Zimbabwe e Haiti) non perde infatti occasione per ridurre la sua velocità di marcia. In questa cupa cornice, nel quinto anno della Grande Crisi che ha preso il via nell’estate del 2007, non stupisce che l’Italia, al solito, faccia fatica a mantenere un’andatura di marcia appena accettabile. Dalla stima iniziale dell’1,1% di crescita per il 2011, siamo già scesi, secondo il Centro studi Confindustria allo 0,9%. Ma non si tratta di un rallentamento congiunturale, in sintonia con l’economia mondo: il Bel Paese si sta avvitando su se stesso, al punto che “in assenza di riforme strutturali” la crescita rischia addirittura di dimezzarsi a un modesto 0,6%.

Insomma, non basta la valvola di sfogo dell’export su cui fa conto l’industria italiana che trae profitto dalla corsa della locomotiva tedesca. Una gigantesca cappa d’incertezza, drogata dalla paura di possibili se non probabili “sberle” fiscali per tener fede alle promesse europee (altro che sgravi...), incide sui consumi delle famiglie, mentre i ritardi nei pagamenti, soprattutto sul fronte della Pubblica Amministrazione, frena, se non paralizza, buona parte della piccola industria a partire dall’edilizia. Così facendo, però, per paradosso si allontana l’aggancio con l’Europa.

Secondo i calcoli di Banca d’Italia, infatti, per rispettare senza particolari sacrifici l’appuntamento con il pareggio di bilancio nel 2014, sarebbe sufficiente che l’Italia crescesse al 2% annuo, cosa che richiede scelte in grado di “rafforzare la fiducia di famiglie e imprese e innalzare le rispettive propensioni a consumare e investire”. Ovvero, delle due l’una. O si investe in quelli che Confindustria chiama i “campi da dissodare” (semplificazione, realizzazione di opere pubbliche, liberalizzazioni e apertura del mercato in molti servizi, più formazione, efficienza della pubblica amministrazione, contrasto all’evasione, riforma fiscale) oppure in un futuro non tanto lontano sarà necessaria una riforma economica che gronderà lacrime e sangue, addirittura peggiore di quella varata del 1992 richiesta da Bruxelles per entrare nell’Unione Economica Monetaria.

Stavolta non prenderà, forse, la forma di un prelievo forzoso sui depositi bancari (“lo scippo”, come lo definì il suo autore Giuliano Amato), ma non si limiterà di sicuro a far pagare un piccolo prelievo forzoso ai proprietari di yacht, come lascia intendere oggi lo stesso Amato. O si guadagna di più, insomma, o sarà necessario pagare di più. Anche perché con i tempi che corrono non è sensato sperare in un consenso politico sull’unica riforma che potrebbe far tornare il Paese a crescere: un taglio strutturale della spesa pubblica. E allora prepariamoci a indossare l’elmetto.

Non ci vuole né un genio, né complessi modelli econometrici - tanto centrali nell’opera di indottrinamento delle grandi università d’economia dell’occidente civilizzato - per comprendere che l’Italia è il prossimo “pilastro” dell’area euro che potrebbe cadere sotto i colpi della speculazione. Questo perché, al solito, si preferiscono i quattrini facili che si fanno giocando contro i Buoni del Tesoro Pluriennali, piuttosto che il finanziamento dell’economia reale. Le ragioni? Oltre all’elevato debito pubblico e al basso tasso di crescita, a creare seri problemi al nostro paese è la scarsa solidità patrimoniale delle imprese: una nuova caduta delle quotazioni azionarie metterebbe a serio rischio una parte consistente del made in Italy che sta in piedi solo grazie al paracadute delle banche (a loro volta garantite da diritti reali di pegno costituiti sulle azioni delle società loro debitrici).

Non si tratta di fare inutile allarmismo. Ma la situazione è difficile. Di più: critica. E non se ne viene fuori se non si riscopre un obiettivo comune su cui far convergere un’ampia maggioranza d’interessi dei cittadini accantonando le questioni più futili. La politica urlata, da troppo tempo, nasconde il vuoto politico.

di Ilvio Pannullo

Sembra quasi si nascondano. Le decisioni da prendere sono molto importanti e invece di condividere la responsabilità delle scelte con le popolazioni interessate, i governanti europei - più burocrati che statisti - decidono di riunirsi nel pieno della notte, quasi a voler evitare il contatto con la realtà. È accaduto così che l’altro ieri sera i ministri finanziari dell'Eurozona non abbiano dato il via libera alla quinta tranche da 12 miliardi di prestito alla Grecia, in attesa della fiducia al nuovo Governo Papandreou, che si voterà domani, e del tanto sofferto si di Atene al piano di austerità.

Se da una parte è dunque vero che l'eurogruppo ha effettivamente preso l’impegno con Atene, per sostenere il debito ellenico attraverso un ulteriore prestito di 12 miliardi, dall’altra è vero anche che il Fondo Monetario Internazionale ha imposto che l’erogazione dell’aiuto sia vincolata all’approvazione di riforme socialmente devastanti. Drastico il commento del tedesco Wolfgang Schäuble, Ministro Federale delle Finanze: “Tutto dipenderà dalla Grecia”.

Dunque, l'Eurogruppo apre (forse) i cordoni della borsa.  Ma solo per 12 miliardi (8 a carico dell'Europa, 4 del Fmi). Il minimo indispensabile per garantire ad Atene due mesi di ossigeno. Tuttavia, nemmeno quest'obiettivo minimo, del resto, è dato per sicuro al termine della cena di lavoro che ha riunito i grandi d'Europa. Il Fondo Monetario, infatti, insiste perché gli aiuti vengano erogati solo dopo il si del Parlamento greco al “pacchetto austerità” messo a punto con gli esperti di Bce, Ue e dello stesso Fmi. Una scena già vista molte volte, tanto in Centro-America quanto nel Sudest-Asiatico: si prestano a nazioni in difficoltà ingenti somme a tassi usurai, per poi far pagare capitale e interessi alle popolazioni, con tagli alla spesa sociale e privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali.

 Essendo tuttavia  in gioco, questa volta, il futuro di uno Stato europeo ed essendo gravi ed esponenziali le possibili conseguenze di una bancarotta nell’eurozona, nelle more di una decisione, l'Europa potrebbe limitarsi a versare una tranche da 6 miliardi, sufficiente per sopravvivere fino a fine luglio, guadagnando tempo per individuare un accordo definitivo sui quattrini: almeno 100 miliardi oltre ai 110 già approvati e concessi nel 2010, necessari per evitare il default.

Stavolta l'operazione dovrebbe coinvolgere anche i privati sotto una forma “volontaria”: i titoli greci in scadenza dovrebbero essere rimborsati integralmente (al 100%), ma le banche saranno obbligate a sottoscriverne di nuovi con scadenze lunghe e cedole possibilmente basse.

E' questa una delle ipotesi prese in considerazione nella riunione serale dei ministri delle Finanze dell'Unione, che trattano sulla base della formula già adottata a Vienna nel 2009 per gli aiuti alle economie dell'Est Europa: accanto agli Stati, come in quell'occasione, si dovranno muovere in forma “volontaria” le grandi banche allargando il credito ad Atene.

Intenzione questa che è sintomo di quanto poco si creda a livello europeo a una possibile ripresa del Governo greco: temendo il peggio si cerca di estendere le responsabilità al maggior numero di soggetti.  Mal comune mezzo gaudio. Con i titoli del debito pubblico a breve scadenza vendibili sui mercati solo a rendimenti altissimi - a differenza di quelli a lunga scadenza - i mercati dimostrano di aver già espresso il loro giudizio, lasciando trapelare la convinzione di un prossimo imminente crollo.

Strozzato dagli usurai della BCE e del FMI, il premier greco George Papandreou ha chiesto così il voto di fiducia in Parlamento dopo il rimpasto di Governo. Mossa questa che ha placato gli animi del suo partito, mentre l’opposizione conservatrice rimane ferma nella sua richiesta di elezioni anticipate, dopo aver rifiutato l’invito del premier a formare un Governo di unità nazionale. A spiazzare tutti è stata l’abile mossa del primo ministro Papandreu di concedere al suo primo avversario politico, l'attuale ministro della Difesa, Evangelos Venizelos, la poltrona più importante: quella del Ministero delle Finanze. La votazione della fiducia si terrà domani.

Papandreou ha inoltre chiesto che venga convocato in autunno un referendum per varare un “cambiamento del sistema politico” del Paese, inclusi emendamenti alla Costituzione. “Vi chiedo il voto di fiducia - ha detto il premier in Parlamento - perché siamo giunti ad un bivio critico: il debito e i deficit sono problemi nazionali che ci hanno condotto in uno stato di sovranità limitata, che ci ha permesso di sfuggire alla bancarotta ma da cui dobbiamo venire fuori ad ogni costo”. La manovra politica non ha però minimamente fiaccato lo spirito degli indignati greci, che ogni giorno continuano a darsi appuntamento in Piazza della Costituzione, davanti la sede del Governo ormai scenario di continui violenti scontri con le forze dell’ordine. La protesta è popolare e nazionale e, oltre ad Atene, anche a Salonicco, a Sparta e in tutta la Grecia si continua a scendere in piazza sventolando le bandiere nazionali e fischiando la rabbia di una situazione che oggi è critica e, per domani, si prevede peggiore.

Mentre la Grecia brucia di rabbia, i Ministri dell’eurogruppo si sono nuovamente mostrati divisi sulla gestione del piano di aiuti e in particolar modo sull’ipotesi di un ingresso dei privati nella gestione della crisi greca. Jean-Claude Juncker, il primo ministro del Lussemburgo che presiede anche i vertici dei 17 ministri delle Finanze della zona euro, ha detto chiaramente che gli aiuti ci saranno se la Grecia riuscirà a far passare la manovra di 28 miliardi di euro con tagli alla spesa, aumenti delle tasse e nuove riforme economiche entro la fine del mese.

Da una parte dunque gli indignati in piazza, che si organizzano tramite i social network creando legami internazionali tra movimenti che coinvolgono tanto i giovani, quanto le famiglie e i cinquantenni travolti dalla crisi; dall’altra i freddi contabili delle istituzioni economiche internazionali, strozzini legalizzati dalla legge del profitto, che richiedono tagli alle pensioni, alla scuola pubblica, alla sanità e a tutto quanto ricordi l’idea di una redistribuzione del reddito tra le classi sociali più fortunate e quelle più povere.

Il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito, infatti, l’élite politica dell’Europa che sta giocando col fuoco per via dei suoi fallimenti nel contrasto alla crisi economica che sta divorando la Grecia. Il controllore che ha sede a Washington ha previsto che potrebbe scatenarsi una nuova ondata di agitazioni nei mercati finanziari se i leader europei puntelleranno ancora la disastrata periferia dell’eurozona. Se si pensa che nel suo rapporto quadrimestrale sulla salute dell’economia globale, il FMI ha apertamente attaccato la sovranità della prima superpotenza mondiale, affermando che il governo degli Stati Uniti dovrebbe smettere di rinviare le decisioni sofferte che sono richieste per tenere sotto controllo il forte deficit di bilancio, si comprenderà forse meglio chi tira i fili dello spettacolo e chi, invece, si limita a stare sulla scena con la stessa dignità di un pupazzo.

Il direttore del FMI, Jose Vinals, ha affermato: “Non ci possiamo permettere un’economia mondiale in cui decisioni di questa importanza vengono posticipate perché ci si permette di giocare col fuoco”. Secondo il FMI, se questi problemi non verranno presi di petto, nuovi “contraccolpi” potrebbero “riverberarsi nel resto del mondo” che metterebbero in “seria difficoltà” le banche per poter raccogliere i fondi.

Già le banche. La salute finanziare e la credibilità delle banche su tutto e tutti. Il crudo messaggio rivolto ai leader dei paesi industrializzati è giunto proprio mentre la Germania e la Francia stavano cercando di mostrare un fronte unito nelle trattative del secondo salvataggio per la Grecia. Insomma o si fa quello che dicono loro, o si muore.

 

 

di Sara Seganti

Una settimana intensa per i biocarburanti è appena trascorsa. Il bioetanolo e il biodiesel, due tra i biocarburanti più diffusi, rappresentano un’alternativa a benzina e gasolio e sono prodotti a partire da materie prime alimentari. I biocarburanti hanno origine da fonti rinnovabili e rientrano, perciò, nella direttiva comunitaria 2009/28 che fissa, come obiettivo generale, per l'Unione Europea una quota del 20% di energia rinnovabile rispetto al consumo totale di energia, da conseguire entro il 2020.

In seguito all’emanazione di questi obiettivi vincolanti, l’Unione ha specificato che, per quanto riguarda i biocarburanti, essi devono garantire la sostenibilità, intesa principalmente come tutela della biodiversità, e la riduzione dei gas serra rispetto all’utilizzo delle energie fossili. Tradotto: non si possono produrre biocarburanti con la deforestazione e poi pretendere di usufruire degli incentivi europei per le rinnovabili.

E questo è già qualcosa, ma a livello internazionale si sta prendendo coscienza che i problemi causati dai biocarburanti non si esauriscono affatto nella questione ambientale tout court.

Infatti i vincoli posti dall’Unione, fin qui, non sono bastati a indirizzare la produzione di biocarburanti in una direzione compatibile con gli equilibri alimentari dei paesi in cui vengono prodotti. L’aumento esponenziale della produzione, conseguenza degli incentivi europei e della crescita del prezzo del petrolio, richiede sempre più terra da convertire dalla produzione di derrate alimentari destinate al mercato interno, alla produzione di biocarburanti per il mercato esterno.

Nei paesi in via di sviluppo, dove la terra si svende ancora con facilità, i prezzi degli alimenti stanno salendo a dismisura: e così, anche per via dei biocarburanti, si apre la strada alla possibilità di una vera e propria crisi alimentare. Se il cibo si trasforma in benzina, come correre ai ripari?

Lo scorso 24 maggio è uscito il protocollo sui biocarburanti del GBEP (Global Bioenergy Partnership), cui aderiscono 23 paesi tra emergenti e industrializzati e 13 istituzioni internazionali con lo scopo di coordinarsi, su base volontaria, riguardo alle linee di indirizzo sulle bioenergie.

Il GBEP punta il dito sulla necessità di garantire un livello di sostenibilità nella produzione dei biocarburanti, attraverso l’individuazione di 24 criteri da rispettare, tra cui figurano, sì, il contenimento dei livelli di emissioni di gas e la tutela della diversità biologica, ma anche, il calmieramento dei prezzi e la reperibilità dei generi alimentari nei paesi in via di sviluppo.

Il 31 maggio è stata la volta del Guardian, autorevole quotidiano d’oltre Manica, che ha pubblicato uno speciale sulla speculazione in atto nella corsa alla terra africana per la produzione di biocarburanti, all’origine di forti squilibri alimentari locali.

Quasi la metà dei 3.2 milioni di ettari di terra coltivata per i biocarburanti, nei paesi che vanno dal Mozambico al Senegal, può essere ricollegata a 11 aziende inglesi indifferenti alla questione alimentare, complici governi locali conniventi e lauti guadagni. E sono ben 7 le aziende italiane nelle prime file del business dei biocarburanti in Africa.

A completare il quadro è arrivato, lo scorso 1° giugno, il rapporto Oxfam (un coordinamento di diverse Ong), dal titolo evocativo “Growing a Better Future” (Coltivare un futuro migliore) sull’imminente crisi alimentare dove i biocarburanti figurano come una delle principali cause.

Se si smettesse di ridurre la produzione alimentare, dati alla mano, sarebbe possibile sfamare una popolazione mondiale che dovrebbe raggiungere una cifra stimata, nel 2020, vicina ai 10 miliardi di esseri umani. Ma per questa data il prezzo di un alimento base come il mais, già al suo massimo storico, sarà più che raddoppiato. Sono sempre di più le persone che spendono fino all’80% di quel che guadagnano unicamente per nutrirsi: secondo le recenti stime della Banca Mondiale, solo per i rincari alimentari degli ultimi mesi, dallo scorso giugno a oggi, sono entrati sotto la soglia di povertà già 44 milioni di persone. I biocarburanti sono allora davvero energie rinnovabili?

Sono in molti oggi a sostenere di no. Circa il 40% del grano prodotto negli Stati Uniti finisce nei biocarburanti e, ad oggi, il 18% dei biocarburanti usati nel Regno Unito sono prodotti a partire da grano e frumento, cereali che rappresentano l’alimentazione di base del mondo in via di sviluppo.

Dato che gli obiettivi Ue prevedono di raddoppiare l’utilizzo di biocarburanti nei prossimi dieci anni, queste percentuali sono destinate a salire mettendo seriamente a rischio la sostenibilità alimentare nei paesi in via di sviluppo.

E non bisogna neanche dimenticare che l’effetto serra, generato dai sistemi di produzione estensivi dei biocarburanti, potrebbe seriamente ridimensionare i risultati positivi ottenuti sulle emissioni di carbonio.

Sarebbe utile, innanzitutto, che l’Ue si assumesse le sue responsabilità stilando delle linee guida più rigide per fare rientrare i biocarburanti nel conteggio delle rinnovabili.
Si è giunti al paradosso che con lo scopo di tutelare l’ambiente, proprio nel nome dello sviluppo sostenibile, si aggravano le già difficili condizioni di vita del mondo in via di sviluppo. Questa sembra essere la riprova che gli incentivi sono strumenti da utilizzare con cautela perché, nel nostro mondo globalizzato, influenzare gli equilibri economici in modo artificiale può trasformare facilmente una buona idea in un pessimo risultato.

E, giacché le alghe sono la next big thing tra le fonti per produrre biocarburanti di seconda generazione, speriamo di riuscire a organizzarci per tempo e salvare almeno quelle, prima che chi si nutre di alghe non abbia più niente da mangiare.

 

 

di Sara Seganti

Lo sanno tutti e non si parla d’altro. Dominique Strauss-Kahn, presidente dimissionario del Fondo Monetario Internazionale, socialista francese, è in attesa di giudizio negli Stati Uniti, in seguito all’arresto con l’accusa di violenza sessuale ai danni di una donna impiegata come cameriera in un grande albergo. Lo sciacallaggio mediatico sulla vicenda è della peggior specie: ipocrisie e svelamenti si susseguono da giorni sui media di tutto il mondo. Confidenti e scavafango, riflettori accesi, manette, dirette e editoriali, il copione si ripete e le acque si confondono.

Colpevole o innocente che sia, Strauss-Kahn finisce qui la sua carriera politica, e non sarà il candidato dei socialisti francesi per il dopo Sarkozy. Del resto, fuori dall’Italia, accuse simili non sono compatibili con un ruolo pubblico di primo piano.Sul piano processuale, spetterà alla giustizia americana stabilire se ci sia stata violenza o no, ma politicamente la sentenza è stata già scritta scandagliando nei dettagli l’acclarata disinvoltura sessuale di Strauss-Kahn. Tralasciando i destini dell’uomo, è possibile che uno scandalo sessuale metta in discussione l’orientamento del Fondo Monetario Internazionale e gli equilibri di potere all’interno di uno dei baluardi del neoliberismo nord-americano? Che ricadute possono avere le gesta erotiche di DSK sulla gestione economica del mondo globale?

Il Fondo, in teoria istituzione sovranazionale, è in pratica da sempre uno strumento della gestione autoritaria del mondo da parte degli Stati Uniti: nel corso degli anni ha, infatti, spesso usato la gestione del debito come forma di ricatto politico verso i paesi in via di sviluppo. Sotto la direzione di Strauss-Kahn ha dato qualche segnale di redenzione, ma solo qualche. Strauss-Kahn, infatti, in seguito alla crisi del 2008, ha giocato un ruolo di primissimo piano nel superamento dell’estremismo neo-liberista, mediando tra Stati-Uniti, Ue e paesi emergenti per imporre a livello internazionale una minima forma di regolamentazione dei mercati finanziari e un maggiore impegno degli stati nell’economia.

Strauss-Kahn è anche uno dei più autorevoli sostenitori dell’euro in un momento particolarmente difficile per l’idea politica europea, nonché uno dei principali gestori dei pacchetti di salvataggio dei paesi dell’euro in difficoltà. Grecia, Irlanda e Portogallo devono ringraziare anche il suo intervento se, tutto sommato, la gestione del loro debito finora è rimasta sopportabile.

Uomo politico autorevole, Strauss-Kahn è un esponente socialista, e questo ha la sua importanza, perché il debito dei paesi europei insolventi è già da un pezzo diventato un problema politico. Se, ad esempio, si seguisse l’idea di Angela Merkel di ristrutturare il debito greco, in pratica dichiarando il paese in bancarotta, quali sarebbero poi i rischi per l’ordine sociale, e per la stessa giovane democrazia ellenica? Queste non sono questioni che si affrontano solo a suon di punti percentuali. E per un’Europa di fronte al bivio più importante della sua storia comunitaria, Strauss-Kahn era un interlocutore politico importante.

Il Fondo Monetario Internazionale è oggi teatro di una lotta di potere, segno dei tempi cambiati: l’indebolimento economico europeo e nord-americano ha favorito le ambizioni dei paesi detti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud-Africa). Con la fine indecorosa di Strauss-Khan, i BRICS hanno pensato fosse finalmente arrivato il momento di assumere la Presidenza del Fondo Monetario, storicamente appannaggio dell’Europa. I BRICS rappresentano, infatti, più del 40% della popolazione mondiale e del 16% del Pil globale, e sono in aperto disaccordo sulla gestione della crisi europea da parte del FMI.

Del resto, avendo subito trattamenti molto più duri in passato dallo stesso organismo internazionale, e fanno fatica ad accettare l’imponenza degli strumenti messi in campo per soccorrere questo o quel paese europeo. In questo contesto, per la prima volta, i BRICS richiedono a gran voce di vedere riconosciuto il loro peso in seno al Fondo Monetario, presentando candidati più che autorevoli turchi, indiani, messicani e altri. Queste pressioni arrivano in un momento particolarmente delicato: siamo infatti di fronte al primo cambio di vertice in un’istituzione finanziaria internazionale da quando la Cina detiene buona parte del debito pubblico americano.

Ma quello che era sembrato possibile fino a qualche giorno fa, dalla lettura dei giornali internazionali sembra un’ipotesi già superata. Il riequilibrio - parziale - sarà riscontrabile solo ai piani medio alti. I BRICS aumenteranno la loro influenza nelle sedi internazionali, avranno diritto a un numero maggiore di vice-direttori, ma il presidente del Fondo Monetario Internazionale, per questa volta, sembra proprio che resterà europeo.

La selezione, contrariamente al passato, sarà per titoli di merito e non solamente per influenze politiche, ci tengono a ribadire dal FMI, ma la posta in gioco è troppo alta perché l’Europa possa rinunciare alla  presidenza. La questione greca deve ancora trovare una soluzione convincente e, con essa, anche quella di Portogallo e Irlanda.

Nonostante tutto, quindi, l’Ue sembra avere ad oggi l’influenza necessaria per imporre il suo candidato, Christine Lagarde, attuale ministro dell’Economia francese, stimata economista e, soprattutto, donna. Lo scandalo sessuale di Strauss-Kahn ha contribuito a rendere evidente il processo inarrestabile di riequilibrio nelle istituzioni internazionali che i paesi emergenti richiedono a gran voce. Ma la strada, come si evince dalla scelta della Lagarde, è ancora lunga..

di Alessandro Iacuelli

E' un colpo praticamente senza precedenti: Microsoft ha comprato Skype. Senza precedenti perchè si tratta della più grande e più costosa operazione nella storia del colosso di Redmond: tra prezzo pagato e risanamento dei debiti della compagnia, il totale è di circa 8 miliardi e mezzo di dollari. Una cifra giudicata decisamente alta da moltissimi analisti economici e finanziari: è stata definita una scelta "antistrategica", ma in realtà l'azienda di Steve Ballmer ha compiuto un passo che un senso ce l'ha.

Da sempre Microsoft ha una posizione dominante sul mercato dei sistemi operativi per PC, un po' meno su quello dei server, ma soprattutto è storicamente stata debole su Internet. Dopo i fallimenti delle "reti alternative", come MSN, dopo che Bing, il suo motore di ricerca, non è andato oltre una piccola nicchia rispetto a colossi come Google, dopo che il suo web server IIS non è riuscito a contrastare Apache 2, a Redmond sperano ora che l'acquisizione di Skype dia una spinta decisiva alle operazioni di Microsoft su Internet.

Altro motivo importante è la buona integrazione già esistente di Skype con il settore mobile, nel quale Microsoft sta investendo pesantemente con lo sviluppo di un nuovo sistema operativo tutto dedicato agli smartphone, nel quale deve collocarsi il recente accordo con Nokia. Sono settori, questi, nei quali Microsoft per ora sta solo investendo senza grandi rientri: infatti, al momento la gran parte dei profitti deriva dai suoi prodotti software, Windows e Office in testa. Con Linux e OpenOffice di Sun che avanzano.

Con l’acquisto di Skype, Microsoft ha bruciato la concorrenza di Google e di Facebook: sia il motore di ricerca che il social network, infatti, si erano mossi nelle ultime settimane per mettere le mani sul servizio di telefonia online.

In pratica, con questa mossa costosa, Microsoft svela la sua strategia futura per non perdere mercato: Tv, pc, smartphone, giochi, per connettere gli utenti in tempo reale in tutto il mondo, come piano globale. A tale proposito, Steve Ballmer ha dichiarato che la tecnologia di Skype verrà utilizzata su tutti fronti: "Supporteremo Xbox, Kinect, Windows Phone e altri dispositivi Windows, daremo più possibilità ai nostri utenti", puntando a intergrare Skype in Live Messenger e connettere "gli utenti di Outlook, Msn, Hotmail, Lync, Xbox Live e altre community".

Continua Ballmer: "Le comunicazioni sono l'area fondamentale in cui la tecnologia può davvero cambiare la vita delle persone. Skype acquisisce 600 mila nuovi utenti ogni giorno e ha circa 25 milioni di utenti collegati in ogni momento". Per Ballmer, i numeri interessanti sono anche nella crescita economica: "Skype cresce del 20% ogni anno - dice l'AD - e stiamo pensando a strategie pubblicitarie per sfruttare al meglio la convergenza delle piattaforme".

Tony Bates di Skype aggiunge altri numeri: "Abbiamo circa 170 milioni di utenti al mese e ognuno di questi comunica in media per 100 minuti. Stimiamo una crescita del 45% per le inserzioni pubblicitarie". Ma Ballmer delinea chiaramente la strategia dietro l'acquisto di Skype: "Siamo interessati al mercato dei computer, delle piattaforme mobili e alle connected tv".

Lasciando da parte il tema delle connected tv, che merita un discorso a parte e da approfondire in modo diverso, con l'acquisizione di Skype ora Microsoft può integrare tecnologicamente computer e piattaforme mobili. Ma perchè Skype andava venduta, visto che i "numeri" degli utenti connessi sono tanto interessanti?

Skype, prima di essere acquisita da Microsoft, sperava di ottenere dalla quotazione in Borsa circa 7 miliardi di dollari; l'acquisizione è arrivata a 8,5. Pertanto chi l'ha venduta ha intascato un miliardo e mezzo di dollari in più. Secondo Bloomberg Microsoft ha pagato il 40% in più per avere Skype, come mossa difensiva per evitare che l'acquistassero Facebook o Google.

Da un punto di vista finanziario, prima ancora che tecnologico, gli analisti cercano di capire se Steve Ballmer abbia fatto un buon accordo, il che dipende da quanto Microsoft saprà implementare la "convergenza tecnologica" di cui parla. Senza dubbio ci sono vantaggi per Microsoft, se saprà integrare in fretta la tecnologia di Skype per dimostrarne il valore. Per molti Skype è più di un Voip, ma rappresenta un social network, è un modo per rimanere in contatto e ciò potrebbe risultare utile per Microsoft.

Alcune società di Wall Street vedono ad esempio l'effetto traino Skype nelle piccole e medie imprese, dove è molto diffuso: le piccole aziende usano Skype per le chiamate low cost, e Microsoft, dopo aver promesso che Skype rimarrà multipiattaforma (per Windows, Mac e Linux), dovrebbe mantenere anche l’approccio nella telefonia Internet a basso costo.

Analizzando la situazione, si possono fare alcune valutazioni riguardo a questa operazione. Indubbiamente le prospettive di guadagno di Microsoft sono di non poco conto: prima di tutto si dota di un importante tecnologia in fatto di comunicazioni voce e video.

Inoltre, secondo alcuni analisti, l'acquisto di Skype è da mettere in relazione con la partnership tra Microsoft e Nokia per la produzione di smartphone e lo sviluppo di Windows Phone 7: l'azienda di Redmond, infatti, ha assolutamente bisogno di un software che sia in grado di competere con le applicazioni mobile di Android (Google Voice) e di iOS (FaceTime).

Ma il vincitore reale di questa vicenda potrebbe essere Facebook, sostiene l'analisi di Gigaom: il social network conseguirebbe così il doppio intento di poter sviluppare una partnership con Skype (Microsoft è un investitore di Facebook) - di cui ha bisogno - e, nel contempo, di tener lontano dal gigante del VoiP il rivale Google; che, nonostante l'interesse all'acquisto, probabilmente non avrebbe avuto realmente bisogno di acquisire la tecnologia di Skype.

Intanto, Wall Street ha avviato la seduta in rialzo, spinta proprio da questa operazione di acquisto. Pochi minuti dopo l'inizio, il Dow Jones aveva già guadagnato lo 0,17%, il Nasdaq era cresciuto dello 0,36%.


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