di Ilvio Pannullo

Juergen Stark, membro tedesco del direttivo della Banca Centrale Europea, ha rassegnato le sue dimissioni. Il gesto è stato motivato per il forte contrasto con il nuovo ruolo assunto dalla Eurotower di Francoforte. L’istituto, ancora per poco guidato dal francese Trichet, fu infatti immaginato e costituito dai banchieri europei per assicurare la stabilità dei prezzi e per garantire il sistema dei pagamenti nell’eurozona. Combattere l’inflazione e assicurare, dunque, la solvibilità degli istituti bancari troppo grandi per fallire. La Bce appare oggi, invece, l’unico strumento con cui un’Europa, priva di un’idea e di una guida politica, cerca di proteggersi dai continui terremoti finanziari.

Nella sostanza, da quando la crisi del debito sovrano ha iniziato a coinvolgere anche le realtà economicamente più solide della periferia europea, la Bce, per evitare che Stati come l’Italia e la Spagna - il cui prodotto interno lordo supera di uno o più volte l’intero prodotto di Grecia, Irlanda e Portogallo messi insieme - si trovassero nelle condizioni di non potersi più finanziare sul mercato, si è dimostrata disponibile ad acquistare, per sostenerne il prezzo, i titoli dei loro rispettivi debiti pubblici. Un’operazione dunque economicamente non redditizia, ma politicamente necessaria.

Inutile dire, quindi, che le dimissioni di Juergen Stark, considerato il “falco” tedesco, espressione degli interessi più conservatori della Germania in seno al direttivo della Banca Centrale Europea, da sempre contrario agli interventi a sostegno di Spagna e Italia, espongono i nostri Buoni del Tesoro Pluriennali al rischio di un ulteriore crollo di fiducia, domani sui mercati.

Se la Bce appariva, infatti, un unico blocco compatto dietro la volontà del suo Governatore, da due giorni a questa parte l’alto comando del Sistema Europeo di Banche Centrali appare molto simile al governo nostrano: pieno di fazioni, di cordate, di uomini che prima paventano dimissioni, poi non le propongono, infine le presentano, con l’immediato carosello per individuare il nome del relativo successore. Insomma, non un bello spettacolo e sicuramente non quello che serve per rassicurare i mercati sulla coesione dell’Istituto, in un momento tanto delicato come quello che stiamo vivendo.

Lo stesso premio Nobel per l'economia Paul Krugman, sul suo blog, ha spiegato così il perché quanto successo non potrà non avere conseguenze gravissime, per gli Stati già oggetto ultimamente di un ridimensionamento da parte dei mercati: "Con le sue dimissioni Stark ha dimostrato, volontariamente o no, che non c'è più alcun prestatore di ultima istanza, che nella zona euro non c'è abbastanza coesione politica per tutelare i paesi sotto attacco". E questo, prevede Krugman, si tradurrà in un rapido aumento degli spread sul debito di Italia e Spagna. Poco importa che la Germania abbia già annunciato il sostituto di Stark, Asmussen. Ormai la compattezza della Banca Centrale Europea risulta infatti compromessa, materializzandosi così, nel modo più traumatico possibile, l'ammonimento di Mario Draghi di giovedì scorso: "L'acquisto del debito da parte della Banca Centrale Europea non è scontato".

E davanti a questo cambiamento, come risponde il governo Italiano? Dopo che la Confindustria di Emma Marcegaglia gli ha fatto presente che "il paese è in pericolo" e il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha ricordato l'ovvio dato che "il tema della crescita è drammatico", Tremonti risponde proponendo "un inventario" delle misure adottate "per capire se hanno funzionato e per comunicare che ci sono”. “È uno sforzo da fare tutti insieme. Sono convinto - ha precisato il divino e odiosissimo Giulio - che siano state fatte molte cose giuste, che non sono note". Pare dunque sia solo un problema di comunicazione. Loro lavorano e lavorano bene: è il resto del mondo che non lo comprende a doversi adeguare. Soltanto poche settimane fa il Ministro lamentava che i cronisti non avessero colto nell’ennesima versione della manovra "ben 16 misure per la crescita". Purtroppo, non ha mai avuto la cortesia di elencare quali fossero.

L'ottimismo della volontà tremontiana si scontra però con il pessimismo dei dati, a cominciare dalla previsione del Fondo Monetario Internazionale che fotografa un paese immobile nel 2012, con il Pil che segnerà un misero +0,5%. È passato poco più di un mese da quando Tremonti stesso teorizzava l'impotenza del governo di fronte alla crescita. "Ci sono - diceva il professore - due rilevanti: il Pil, che non si fa per legge, e il bilancio dello Stato, che si fa per legge". E tra qualche mese compirà un anno anche l'annuncio del premier Silvio Berlusconi di una "frustata al cavallo di un'economia finalmente libera", cui fu dedicato persino un apposito Consiglio dei Ministri, imperniato sulla riforma, mai realizzata, dell'articolo 41 della Costituzione sulla libertà di impresa. Le cose, poi, sono andate in un altro modo. Perché riparlarne ora? Le ragioni sono almeno due.

In primo luogo, la crisi interna alla Bce - come detto - contribuirà ad ampliare il discredito dei mercati verso il nostro paese, già reso palese dalle reazioni delle Borse al varo della manovra da 60 miliardi in tre anni, appena approvata dal Senato: la tregua è durata meno di 24 ore, tanto in borsa quanto sul mercato del debito. In secondo luogo, il problema della crescita. La questione è sempre la stessa: quello che ci chiede l’Europa non è la riduzione del debito pubblico, ma la riduzione del rapporto debito pubblico/Prodotto Interno Lordo. Se il paese cresce poco o non cresce, dunque, pur ammettendo che il debito non aumenti, il rapporto peggiora, la fiducia dei mercati crolla, e rifinanziare il nostro debito diventa sempre più costoso. Il punto è che dopo quattro versioni della stessa manovra, ora a quota 60 miliardi, continuare a tagliare rischia di essere addirittura controproducente.

L'unica cosa peggiore di presentarsi al mercato come un paese ad alto debito e bassa crescita, è di presentarsi come un paese con fondamentali economici pessimi e per di più in recessione. Nessuno ci presterà più i soldi. Se ci sarà bisogno di annunciare nuovi tagli, il rigore non potrà quindi essere disgiunto da interventi per la crescita. Oppure l'immagine dell'Italia agli occhi degli investitori, che martedì devono comprare il nostro debito in un'asta molto importante per il Tesoro, peggiorerà ancora. Anche di queste prospettive fosche - più volte denunciate dalla Banca d'Italia - hanno parlato il governatore Mario Draghi e il Capo dello Stato Giorgio Napolitano al Quirinale, nel loro recente colloquio. E dell'adeguatezza della manovra dovrà discutere anche Silvio Berlusconi, martedì a Strasburgo, nel provvidenziale incontro che permette al premier di sfuggire all'interrogatorio della procura di Napoli. L’immagine del nostro paese è questa: cristallizzata dalla figura del nostro Premier, perennemente in fuga da se stesso, ma sempre pronto a regalare sorrisi. Peccato che nel mondo reale questi non paghino.

di Carlo Musilli

Il filo su cui balla l'Italia ha ricevuto uno scossone più forte del solito. Stamattina i Credit default swaps (Cds) sul nostro debito hanno fatto segnare il record storico a 505 punti base. Non si tratta di un tecnicismo inutile, ma di un serio campanello d'allarme. I Cds sono titoli derivati usati come polizze assicurative sul rischio di default e vengono considerati un termometro piuttosto attendibile del rischio-Paese, anche più del beneamato spread.

Tanto più che neanche su quel terreno le cose sono andate bene. Il differenziale fra Btp e Bund (cioè la quota che lo Stato deve pagare per convincere gli investitori a comprare i bond italiani invece dei tedeschi) è schizzato nuovamente a 384 punti. Anche questo è gravissimo, per due ragioni. Primo: lo spread sta tornando ai livelli dei primi di agosto, con la differenza che allora eravamo abbandonati a noi stessi, oggi siamo tenuti in vita dalla Bce, che continua ad acquistare i nostri titoli a piene mani. Il trucco che ci ha regalato qualche settimana di tregua, evidentemente, non funziona più.

Secondo: siamo in periodo di aste, quindi se lo spread viaggia fuori controllo il Tesoro è costretto a vendere titoli con un interesse sempre più insostenibile da pagare. La dimostrazione è arrivata questa mattina. Durante l'ultima asta dei Bot a un anno, il rendimento è salito fino al 4,152%. Una cifra altissima, che non veniva toccata dall'autunno del 2008, quando eravamo ancora in mezzo alla bufera Lehman Brothers.  Non basta. Oggi sono crollate anche le Borse, con Milano in rosso del 3,9%. Il tonfo si spiega per lo più con le ultime voci su un possibile default della Grecia, che rischierebbe di contagiare l'intera Eurozona (e i primi ad essere infettati saremmo noi italiani).

Atene non sta rispettando i patti con l'Ue in tema di bilancio e questo potrebbe impedirgli di ricevere la nuova tranche di aiuti, avvicinando l'incubo della bancarotta. Purtroppo non tutti in Europa si rendono conto di quello che significherebbe l'insolvenza di un Paese euro, al punto che diversi parlamentari tedeschi ipotizzano la strada del default "ordinato" per sbrogliare la matassa. Forse una strada impervia che avrebbe bisogno di particolari condizioni ed una condivisione politica che al momento, nella loro totale assenza, trasformano l’idea in un incubo.

di Carlo Musilli

La crescita rallenta e l'Europa viaggia verso la stagnazione economica. L'Italia, dal canto suo, approvando la manovra bis ha fatto quello che doveva per evitare il peggio. Questo il messaggio ufficiale lanciato oggi da Jean Claude Trichet, che ancora una volta ha dimostrato di essere un grande politico prima ancora che un banchiere. Come sempre, la vera notizia sta nelle parole che il francese ha evitato accuratamente di pronunciare.

Dal direttorio della Bce che si è riunito stamattina i mercati attendevano soprattutto un'indicazione sui bond italiani e spagnoli. Francoforte continuerà ad acquistarli? Il presidente Trichet ha elegantemente glissato spiegando che la misura "rientra nella politica monetaria". Quanto bastava per non scatenare il panico in Borsa e al tempo stesso evitare che il Governo italiano si sentisse troppo tranquillo. Ma anche un chiaro segnale d'assenso.

Questo significa che probabilmente nella riunione di oggi il banchiere francese ha convinto il suo collega Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, a smetterla di protestare. Una tesi che trova conferma nella reazione di Trichet a una domanda sulle frizioni con la Germania: "Noi siamo indipendenti - ha risposto alzando la voce - e prendiamo decisioni che a volte non piacciono ai Governi". Insomma, la Bce acquisterà altri titoli di Stato italiani, almeno per il momento. E' troppo importante per la stabilità dell'intera Eurozona. Occorre che Berlino se ne faccia una ragione.

Fortunatamente oggi Trichet aveva a disposizione un pretesto per parlar bene dell'Italia: il decretone passato ieri al Senato. "Vorrei sottolineare che abbiamo inviato dei messaggi al Governo italiano insieme a Mario Draghi" ha detto ancora il francese. Dopo alcune esitazioni, alcune complessità, alla fine si è visto qualcosa che va nella direzione dell'impegno iniziale. E il procedimento è ancora in corso.

Ma le misure prese confermano una cosa molto importante per il consiglio direttivo della Bce, cioè un primo impegno del Governo italiano. Ho parlato anche con il presidente Napolitano e ho avuto rassicurazioni. Bisogna mantenere le promesse per riportare credibilità e fiducia sui mercati". Parole ambigue. Non una vera promozione, né una pacca sulla spalla. Se consideriamo i nomi che Trichet sceglie di pronunciare - e soprattutto quelli che sceglie di tacere - sembra più che altro la conferma di un commissariamento.

 

di Ilvio Pannullo

L'autunno caldo è cominciato. Tornati dalle vacanze ci troviamo, infatti, un paese la cui credibilità appare in caduta libera, vista l’incapacità del governo di indicare una via d’uscita credibile per la crisi del debito, una manovra economica rabberciata e, per questo, inadeguata a raggiungere gli obiettivi necessari per rassicurare i mercati, i padroni della moneta europea pronti a castigare ogni nostro errore. Niente male, insomma. Più che l’autunno caldo, preoccupano veramente le previsioni per l’inverno, che si prevede rigido come non mai.

Si apre, infatti, una settimana che può cambiare il destino dell'Italia e dell'Europa. In queste ore difficili, tra la Banca Centrale Europea e la Banca d'Italia non c'è un solo interlocutore che non esprima "grandissima preoccupazione" per quello che sta accadendo nel nostro Paese. Il "caos totale" nel quale il governo è precipitato in questi ultimi due mesi, cambiando radicalmente per ben quattro volte il menu delle misure di risanamento per assicurare il pareggio di bilancio nel 2013, è una miccia accesa nel cuore della moneta unica.

Per ora, a disinnescarla ha contribuito proprio la Bce, che ha comprato a piene mani i Btp sul mercato secondario, per disarmare la speculazione internazionale. Ma, come ha precisato il governatore Trichet "sull'acquisto dei titoli di Stato sul mercato secondario si decide giorno per giorno". Una cosa, tuttavia, rimane certa: "Il Security Market Program non è un meccanismo permanente" e si pensa a "sanzioni preventive verso i Paesi che sforano i limiti di indebitamento”. Insomma, l’aria sta per cambiare e con la barchetta Italia che fa acqua da tutte le parti e, soprattutto, considerata l’assenza di un timoniere degno di questo nome, il rischio è che per noi si metta davvero male.

"L'Italia deve scegliere: o lancia un vero segnale di svolta sulla manovra, o si offre in pasto ai mercati esponendo l'intera Eurozona a un enorme pericolo". Queste le parole rassicuranti del governatore Mario Draghi, oramai pronto al trasloco con destinazione Francoforte. La linea generale circa l’atteggiamento da seguire nei confronti dei paesi pesantemente indebitati, tra cui il nostro, è, infatti, già stata delineata. E per non dare adito a dubbi Trichet è anche recentemente intervenuto al Forum annuale di Confindustria a Cernobbio, dichiarando che per il nostro paese è “essenziale” il pareggio di bilancio entro il 2013. Se si considerata la confusione sulla manovra e i dati macroeconomici dell’eurozona, ciò che viene definito “essenziale” appare ragionevolmente impossibile da ottenere.

"I dati della congiuntura internazionale non sono affatto confortanti", dicono, infatti, all'Eurotower. Eurolandia è in forte frenata. Come già anticipato dal Fondo monetario, le economie dell'area cresceranno nel 2011 solo dell'1,9%. Nel 2012 andrà peggio, con un deludente 1,4%. "Preoccupa il rallentamento della Germania", che dopo aver trainato il continente quest'anno, si fermerà l'anno prossimo a un fiacco 1,6%. L'Italia - manco a dirlo - va peggio di tutti: non supera lo 0,8% quest'anno, e si ferma allo 0,7% l'anno prossimo. C'è quindi un primo nodo da sciogliere: già con queste cifre, "la manovra da 45 miliardi messa in campo da Berlusconi andrebbe rafforzata ulteriormente". Se scende il Pil, infatti, crescono più del previsto il deficit e il debito. Dunque "servono più tagli di spesa, per garantire il pareggio di bilancio".

Ma la manovra appena varata dal centrodestra, nella sua quarta e schizofrenica versione, non dà garanzie. Né sulle singole misure, né sui saldi. Trichet lo ha già lasciato intendere. I suoi uomini sono stati ancora più espliciti. "L'Italia deve fare di più e di meglio. E deve farlo subito". I falchi del rigore, copiosamente presenti tra i politici e gli economisti tedeschi, hanno già criticato la Banca Centrale perché con i suoi interventi "ha agevolato il lassismo dei Paesi periferici dell'area". Il riferimento sembra proprio diretto al nostro Paese, considerando che, esclusa la Grecia già strozzata e l’Irlanda e il Portogallo prossimi a fare la stessa fine, di maiali nel recinto europeo ne rimangono solo due: noi e gli spagnoli. E qui arriva il colpo basso. "Altri Paesi - segnalano a Francoforte - si stanno dimostrando più responsabili. Uno su tutti: la Spagna, dove il Parlamento ha già varato la sua Legge Finanziaria ed ha approvato l'inserimento della disciplina di bilancio in Costituzione". Insomma, siamo sotto osservazione, pesati, misurati e, ad oggi, il giudizio è senza appello: fallimento.

L’immagine data alle istituzioni europee e ai mercati internazionali con le tre versioni estive del pacchetto anti-deficit è stata, infatti, "pessima": confusione, improvvisazione, approssimazione. Anche vista da Palazzo Koch, la manovra è apparsa un "patchwork indecifrabile". "E' arduo affidare al recupero di evasione fiscale un rientro dal deficit di così vasta portata", si sostiene in Bankitalia, in piena sintonia con i dubbi della Ue. Lo scontro per la futura leadership del centro-destra, tra Berlusconi e Tremonti, ha reso il governo totalmente incapace di fronteggiare la gravità della situazione in cui proprio il cavaliere e il professore hanno sprofondato il paese.

Quanto accaduto è, infatti, la dimostrazione che nessuno in questo esecutivo ha un'idea su ciò che è e su ciò che deve diventare la società italiana. Prima colpiscono il ceto medio con il contributo straordinario, poi colpiscono i pensionati con la gabella sulla naia e la laurea, poi fanno la faccia feroce contro gli evasori, dopo averli blanditi con lo scudo fiscale e con l'irresponsabile sostegno pre-estivo alla diffusa Vandea per le "vessazioni di Equitalia".

Così continuando il fallimento diventa più di un rischio. Diventa inevitabile. Ma rimane un punto: posto che le banche centrali sono create dalle banche nell’esclusivo interesse delle banche e considerando che, in caso di crisi, si muovono e agiscono per tutelare l’esclusivo interesse delle banche, ascoltata l’analisi del problema, è possibile immaginare una soluzione diversa da quella da loro immaginata e, seppur mediatamente, imposta? I banchieri, ovviamente, cercano soluzioni che non intacchino il loro status. Ed è sempre stato così, sin da quando fu ammessa la pratica del prestito a interesse, peraltro oggetto di feroci scontri tra le tre religioni monoteiste. I problemi che siamo chiamati ad affrontare, insomma, sono noti e sono note anche le soluzioni che sono state adottate nel corso della storia. Perché vi è più di una soluzione e non una sola, come l’intero mainstream va ripetendo ossessivamente.

Nel VI secolo a.C. gli Ateniesi, ad esempio, diedero poteri straordinari a un solo uomo per fare le riforme necessarie che avrebbero liberato Atene dalla stagnazione economica e dalla graduale riduzione in schiavitù delle classi inferiori. Si narra che quell'uomo, Solone, abbia forzato la remissione dei debiti, abbia proibito di dare in pegno se stessi o un membro della famiglia come garanzia per i prestiti e abbia liberato tutti quegli ateniesi che erano stati fatti schiavi attraverso impegni di questo tipo. Abrogò anche il duro codice istituito da Dracone (da cui il termine draconiano) e lo rimpiazzò con leggi più umane. Poi, decretando che le sue riforme sarebbero rimaste in vigore per dieci anni, Solone andò all'estero per una vacanza lunga diversi anni, probabilmente per far sì che nessuno provasse a fargli cambiare idea su ciò che aveva fatto.

Oggi, di fronte a circostanze che Solone avrebbe ben riconosciuto, l’ipotesi di una cancellazione del debito va emergendo gradualmente. Tralasciando la giurisprudenza internazionale del “debito detestabile” - sponsorizzata e utilizzata dagli Stati Uniti d’America per rifiutare il pagamento del debito accumulato dalla corona spagnola, in seguito alla conquista di Cuba nel 1898 - il problema è che tale annullamento richiede necessariamente una leadership carismatica, che sappia superare le forti e inevitabili resistenze da parte del settore bancario. L'assemblea ateniese ebbe problemi simili, per cui scelsero di dare a Solone poteri autocratici; oggi la soluzione dovrebbe necessariamente essere diversa.

L’idea di saldare un debito attraverso la costituzione di altri debiti ha già mostrato in Grecia i suoi effetti. A noi, che politicamente ed economicamente abbiamo un peso diverso da quello della Grecia, è stato concesso dalla BCE un paracadute, la cui presenza, però, sta per venir meno. Si vuole così imporre, in via preventiva, una manovra che non potrà non essere recessiva, vista l’incapacità dei nostri governanti a coniugare rigore e crescita, immaginando un qualche intervento per rilanciare qualche settore strategico per la crescita.

Se si considera che l’intera Europa vede costantemente rallentare il suo strutturale margine di crescita, vista la capacità economica e produttiva dei paesi emergenti, non resta che cambiare paradigma o immaginare una soluzione di compromesso tra il rigore contabile dei banchieri e il fallimento dell’Unione Economica e Monetaria. Un processo regolato di annullamento del debito diffonderebbe la pena in modo più uniforme, accelererebbe il processo di deleverage del debito che sta deprimendo l'attività economica e fornirebbe maggiori certezze sui risultati raggiungibili dal nostro continente. Non fare nulla ci garantirà il collasso dello Stato sociale e, verosimilmente, una generazione di laureati indebitati che staranno solo leggermente meglio rispetto agli schiavi per debito dell'Atene che Solone salvò da una vita di disperazione.

di Ilvio Pannullo

L’intervento di Giulio Tremonti al Meeting di Rimini ha lanciato una sottile provocazione che è utile raccogliere, per comprendere meglio quello che sta accadendo in questo periodo dove crisi finanziaria, crisi economica, crisi sociale, crisi energetica, crisi ambientale e crisi alimentare stanno scuotendo le fondamenta della casa comune, all’interno della quale vivono i popoli di tutto il mondo. “Molti errori - ha affermato il ministro italiano nel commentare l’attuale situazione dell’economia mondiale - sono stati finora commessi: non é stato ristrutturato il sistema bancario, anzi il denaro pubblico è stato usato per salvare le banche; non sono state scritte, se non per finta, le regole sulla finanza che, essendo materia complicata, dovevano essere proposte dai banchieri e non dovevano farle i governi”.

Le banche, dunque, nonostante siano state il centro propulsivo e d’incubazione dell’attuale crisi, sono state prima salvate grazie a fiumi di denaro pubblico, poi rafforzate con nuovi e truffaldini criteri di contabilità e, infine, premiate con la richiesta, da parte del mondo politico, di nuove regole per evitare che il piccolo incidente di percorso (dal quale dobbiamo e speriamo ancora di uscire) non si possa più ripresentare. Insomma, un vero affare. Roba da impero del male, altro che Stati canaglia!

Quello che deve essere a tutti i costi impedito è che la tesi di personaggi come George Soros diventi la soluzione, masticata e predigerita, che la classe politica propini al popolo europeo come panacea di tutti i mali.  Queste idee, infatti, sono abbastanza radicali da avere qualche probabilità di convincere i mercati, frenetici al limite dell’isteria, perché consapevoli dell’esistenza di problemi molto seri e spettatori dell’impotenza e dell’incapacità della classe dirigente europea d’immaginare un modo, una via da seguire per uscire dalla crisi del debito sovrano. Vista la profondità di questa crisi, tuttavia, vale la pena di provare a guardare un pochino più lontano (e forse anche più lontano di quanto non si faccia proponendo - come hanno fatto recentemente Francia e Germania - il blocco dei fondi europei per chi non abbia i conti in ordine).

Se le idee di Soros fossero tradotte in pratica, l’Unione Europea finirebbe per essere uno stranissimo animale, una specie di mostro mitologico dal corpo enorme e dalla testa microscopica. Con l’emissione di Euro Bond su larga scala, ad esempio, l’Unione Europea diventerebbe un’entità priva di una qualsivoglia funzione di governo al di fuori della sfera economica: un’entità politica, cioè, senza un Tesoro e con un bilancio minuscolo (pari all’1% del Pil dell’intera Europa) speso tutto in sussidi di dubbia utilità, ma con una moneta rivale del dollaro su scala globale, una Banca Centrale, una Corte di Giustizia, un Parlamento a elezione diretta e sul groppone un debito sovrano pari a minimo il 60% del Pil dell’eurozona, ma probabilmente anche di più, molto di più.

Sarebbe insomma la più grande tecno-struttura della storia, ma in quanto tale radicalmente incomprensibile ai cittadini europei. Tra l’altro, come sarebbe amministrata l’agenzia del debito, presumibile erede del fondo salva-Stati, istituito per fronteggiare la crisi greca? All’unanimità, a maggioranza, con voti pesati secondo il differente peso economico degli stati membri? Forse è arrivato il momento di provare quantomeno a rimettere il processo d’integrazione europea sui piedi, invece che sulla testa com’è ora, smettendo di consentire alla politica economica e finanziaria di guidare il processo politico europeo.

Gli Eurobond sono uno strumento fondamentale per la sopravvivenza dell’Unione Europea, ma per avere un’idea di quello che qui si vuole sostenere, basti pensare all’atteggiamento - degno del peggiore strozzino - tenuto dalla Finlandia in occasione della crisi Greca: per assicurare la quota finlandese al fondo Efsf la Grecia dovrà aprire un conto nella banca centrale finlandese, pagando la stessa somma dovuta dalla Finlandia all'EFSF come pegno. La Finlandia chiese anche, all'inizio delle contrattazioni, qualche immobile greco in pegno. Da qui ad ipotecare il Partenone la via è breve.

Non sarà tempo di provare a ragionare diversamente? Sempre e ovunque i cittadini pagano le tasse per avere in cambio alcune basilari funzioni di governo: legge e ordine, giustizia, sicurezza; e poi sanità, educazione, sicurezza sociale, una moneta come mezzo neutrale di scambio. Tassare e spendere per offrire alcuni o tutti (dipende, in ultima istanza, dalla sensibilità e dalle radici culturali di ogni popolo) quei beni pubblici, percepiti cioè dai cittadini come espressione di interessi collettivi, comuni, valori unitari superiori ai singoli interessi privati, consente a un governo di avere, anche e in seconda battuta, i mezzi per contrastare le crisi con la stabilizzazione macroeconomica anticiclica e la redistribuzione del reddito. Non si chiama comunismo, si chiama socialdemocrazia: una visione al tempo stesso democratica e socialista dello Stato. Niente di rivoluzionario, insomma.

Non si può, infatti, andare avanti all’infinito a fare le cose al rovescio, a confinare cioè l’Unione Europea a una missione di pura stabilità finanziaria e macroeconomica e far seguire da qui tutto il resto. Succede poi che la stabilità finanziaria viene meno e che a ciò segua il nulla. Occorre provare a guardare un po’ più avanti, a un assetto in cui la politica economico-fiscale derivi, come una logica conseguenza, dalle funzioni di governo tipiche di una forma statale, espressione di un dato contratto sociale - e non sia quella a guidare queste come accade invece nell’Unione Europea di oggi.

Alla fine, anche l’Unione Europea dovrà pure funzionare nell’unico modo logico e comprovato dalla storia: tassare e spendere per fornire alcune importanti funzioni di governo ai propri cittadini e su queste basi avere un Tesoro che accompagni l’azione della sua Banca Centrale, magari dopo averle cambiato Statuto, con qualche ampliamento degli obiettivi della sua azione. Qualcosa come un ministero europeo delle finanze che abbia legittimità finanziaria e politica.

Sono sessant’anni che se parla, si scrivono articoli e s’indicono convegni sul tema, ma non si scappa: bisogna realizzare gli Stati Uniti d’Europa. Per farlo ora sull’onda della più grande crisi economico-finanziaria dagli anni trenta, occorre - come sostenuto con forza anche recentemente da Emma Bonino sul Sole 24 Ore - vincere due grandi paure. La prima è quella di creare un super-stato europeo che soffochi gli stati nazionali. La seconda è quella che hanno tutti gli stati membri, chi più chi meno, di perdere sovranità proprie a favore di un centro federale.

Quanto alla prima, c’è da dire che la federazione che sarebbe realisticamente giusto fare oggi, lungi dall’essere un super-stato europeo sarebbe al contrario una “federazione leggera” che assorbirebbe e spenderebbe attorno al 5% del Pil europeo, mentre la spesa pubblica dei maggiori stati nazionali europei si aggira, oggi, attorno alla metà dei rispettivi Pil. Un bilancio da 600-700 miliardi di euro consentirebbe all’Unione di svolgere - anche e all’occorrenza - funzioni di stabilizzazione macroeconomica e di redistribuzione. Insomma, mettere in piedi una struttura istituzionale che abbia la legittimità a emanare atti di ordinaria politica fiscale, magari tassando di più gli Stati in espansione e meno quelli in recessione. Senza creare meccanismi ad hoc o peggio, dar luogo a tutta la pubblicità che circonda ogni vertice chiamato a decidere il prossimo pacchetto di aiuti ai paesi in difficoltà.

Le funzioni di governo che sarebbe logico spostare a livello europeo sono, in primo luogo, la difesa vista l’esistenza di ben 27 eserciti nazionali, 2 milioni di persone in divisa, per un costo complessivo di  230 miliardi di euro l’anno ed un’efficienza vicina allo zero; in secondo luogo, la diplomazia, compresi gli aiuti allo sviluppo e quelli umanitari; in terzo luogo, il controllo delle frontiere e dell’immigrazione, problema di carattere storico e non scaricabile sui singoli stati di confine; in quarto luogo, la creazione delle grandi reti infrastrutturali europee unitamente ad alcuni programmi di ricerca scientifica di grande respiro; il tutto senza smettere di fare quello che il bilancio dell’Unione fa già, ovvero gli aiuti alle regioni più povere e in ritardo di sviluppo.

Quanto alla perdita di sovranità questa c’è già ed è così evidente che è inutile avere remore o rimpianti. Mario Monti - il tecnico (o sarebbe meglio dire tecnocratico?) che potrebbe guidare un eventuale governo di transizione dopo la caduta del biscione - ha recentemente adombrato il concetto di un commissariamento del governo italiano da parte di “un governo tecnico sopranazionale…con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra, New York” a proposito della decisione, annunciata venerdì 5 agosto, di anticipare il pareggio di bilancio. In altre parole un golpe tecnocratico. Roba da Cile 2.0.

Ma per lo stesso commissariamento, va ricordato, sono già passati greci, portoghesi, irlandesi e spagnoli. E attenzione: anche la sovranità tedesca è, nei fatti, limitata dalle responsabilità che la Germania ha verso il resto dell’eurozona, nonostante giochi spesso pericolosamente a fare la parte dell’irresponsabile individualista. Indietro non è infatti possibile tornare, perché i debiti nazionali sono ormai quotati in euro, una moneta forte, ed un’eventuale fuoriuscita di una qualche nazione periferica dall’Unione Economica e Monetaria significherebbe esporre il paese de quo ad attacchi speculativi insostenibili.

Invece di avere un governo tecnico con sedi sparse in tutto il mondo, tanto vale allora avere un governo politico a livello federale a Bruxelles, con un mandato e dei poteri definiti e circoscritti per legge. Un governo cui tutti hanno già ceduto un pezzo della propria sovranità, e a cui tutti, in una logica di piena parità, dovrebbero riconoscere la possibilità di tassare e spendere cifre non enormi - una federazione leggera appunto - ma comunque significative. Sono ormai sessant’anni che l’Europa elude la soluzione del suo problema politico. Oggi, non fosse altro che per uscire da questa crisi e salvare l’euro, sembra a tutti arrivato il momento di rompere questo tabù e fare i conti la storia.

 


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