di Emanuela Pessina

BERLINO. Secondo alcune agenzie stampa, i capi di Governo dei 27 Paesi dell'Unione europea si incontreranno l'8 dicembre a Bruxelles per una cena informale di lavoro in cui si discuterà di alcune  modifiche al trattato Ue. Una cena, spiegano alcune fonti, che vuole concedere ai leader europei più tempo per discutere di questioni oscure quali la stabilizzazione delle banche e la creazione di un muro di protezione che limiti la crisi del debito: problematiche tanto gravi da assomigliare sempre più a vere e proprie sfide, in un’atmosfera di assoluta e palese disarmonia fra i capi di Stato europei. Il Consiglio europeo, quello ufficiale, è previsto invece per il giorno dopo: ma che questo nuovo incontro fornisca una risoluzione definitiva alla crisi, in realtà, non se l’aspetta più nessuno.

La notizia arriva pochi giorni dopo i rumors che vedevano la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy impegnati nella stesura di un patto di stabilità da applicare solo ad alcuni Stati secondo il modello degli accordi di Schengen: uno stratagemma pensato per evitare le eventuali resistenze di certi Paesi. Secondo questo trattato “esclusivo”, in pratica, solo gli Stati che godono di un rating tripla-A potrebbero essere messi in condizione di emettere titoli di debito autonomamente.

Diffusa sabato dal quotidiano popolare tedesco Bild, e ripresa poi da tutta la stampa internazionale, l’indiscrezione non ha mancato di suscitare ovunque indignazione e incertezza. La prospettiva di dividere Eurolandia ha infatti messo in luce ancora una volta la debolezza della moneta unica, e cioè la mancanza di una coesione politica di base che permetta ai suoi leader di prendere decisioni economiche sicure senza ricorrere a continui compromessi. La moneta unica si scopre sempre più simile a un palazzo di vetro e acciaio costruito su un terreno ad alto rischio sismico, caratterizzato da forze interne che premono. Anche il trattato esclusivo, di per sé, non è che una soluzione di mezzo, perché prova a ravvicinare la politica economica della Germania a quella del resto della zona euro, forse l’attrito principale che mina la costruzione della moneta unica.

Perché il nodo cruciale della crisi dell’euro, in realtà, si è ridotto all’intransigenza di Angela Merkel (e del suo governo) nei confronti degli Eurobond, da molti considerati l’unica ricetta valida contro la crisi del debito sovrano. La posizione della Cancelliera è determinata: no agli Eurobond senza un controllo internazionale che possa garantire il rispetto delle regole da parte dei singoli Paesi. A spiegare la visione tedesca ci ha pensato il presidente della Bundesbank tedesca, Jens Weidmann, che ha ammesso di non essere contro gli Eurobond a priori: l’Europa si potrà assumere responsabilità comuni solo alla fine di un processo politico di integrazione degli Stati membri.

Il processo indicato da Weidmann presuppone innanzitutto l’unificazione fiscale e un controllo comune sui bilanci dei singoli stati della zona euro. In particolare, secondo il presidente della banca federale tedesca, l’istituzione Europa dovrebbe avere il diritto di intervenire anche drasticamente nei singoli Paesi quando questi non rispettassero le regole. Anche se, ha ammesso Weidmann, dopo una rigida politica che crei una maggiore convergenza economica tra i membri dell'Eurozona, gli Eurobond potrebbero non essere più necessari. Difficile capire la visione della Germania sia un ulteriore compromesso per guadagnare tempo, quindi, o se venga proposta come soluzione concreta.

A non concedere nulla all’intransigenza dalla Germania, neppure il beneficio del dubbio, è la stampa internazionale. “Più che un’idea è un´ideologia, che nella cultura economica nazionale ha radici lontane, risalenti al periodo fra le due guerre”, ha commentato Barbara Spinelli su La Repubblica. “È la cosiddetta dottrina della «casa in ordine» (Haus in Ordnung), secondo la quale ogni Stato deve prima raddrizzare le storture e far pulizia nel proprio recinto, e solo dopo può contare sulla cooperazione e la solidarietà internazionali”. Per Anatole Kaletsky del Times di Londra “la Germania è nuovamente in guerra con l’Europa, almeno nel senso in cui la politica tedesca si è posta traguardi che sono tipici delle guerre, come la dislocazione dei confini internazionali e l’assoggettamento di altri popoli”.

Ai giornalisti e agli economisti internazionali viene spontaneo associare la rigidezza della Germania alla sua storia, ma forse non si considera che quello che la Cancelliera pretende è ancor’oggi alla base della società tedesca. Nella sua struttura sociale, la Germania punta tutto sul rispetto reciproco tra i singoli individui, comunemente disciplinato dalle regole del gioco: e il rispetto delle regole è, in questo senso, insito nella società e nelle abitudini umane. Forse, la Germania sta solo cercando di imporre un modello di funzionamento. Che tutta l'Europa ci debba riconoscere é altra cosa.

 

 

di Carlo Musilli

Certi giorni la Borsa è un luogo incantato, regno della speranza. Ieri è stato uno di quei giorni. Eppure le premesse lasciavano presagire tutt'altro. L'agenzia di rating americana Moody's aveva evocato possibili "default a catena" nell'Eurozona, mentre dall'Ocse erano arrivati drammatici tagli alle stime di crescita per il 2012. In risposta, i listini europei hanno registrato un boom che non si vedeva da tempo, ben oltre il solito "rimbalzo tecnico" che tradizionalmente fa seguito a un'infilata di chiusure in rosso. Parigi ha guadagnato addirittura il 5,46%, Francoforte e Milano il 4,6%, appena un centesimo sotto Madrid (+4,59%).

Sembra una follia, considerando lo scenario lugubre che si apre di fronte alle nostre economie. Ma nel regno della fantasia tutto è possibile, specialmente quando si tratta di far salire il prezzo delle azioni. Come al solito, si compra sulle voci. Non sulle notizie.

Stavolta la trionfale cavalcata borsistica è stata propiziata dalle indiscrezioni comparse sulla stampa tedesca e italiana. Domenica il quotidiano La Stampa ha scritto che il Fmi avrebbe concesso al nostro Paese un prestito da 600 milioni nel caso in cui la crisi dei conti pubblici si fosse ulteriormente aggravata. I fondi sarebbero stati restituiti con interessi molto vantaggiosi, compresi fra il 4 e il 5%, ben al di sotto dai rendimenti di mercato, e avrebbero dato al governo Monti 18 mesi di tempo per varare le riforme necessarie. Una manna dal cielo, peccato che ben presto sia arrivata una secca smentita: "Non ci sono colloqui con le autorità italiane su un programma di finanziamento", facevano sapere ieri mattina dall'istituzione con sede a Washington.

Parole che non sono bastate a calmare l'euforia dei mercati, galvanizzati in modo decisivo da un altro motivo di speranza. Secondo il sito internet della tedesca Bild (il giornale più letto d'Europa), da giorni sarebbero in corso trattative segrete fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy per arrivare a una modifica lampo dei trattati europei. La rapidità sarebbe garantita dal modello degli accordi di Schengen: una serie di intese bilaterali fra i Paesi disposti a dare subito l'ok.

Poi chi vuole si aggrega alla comitiva. Lo scopo sarebbe di creare un nuovo Trattato di Stabilità europea da approvare già all'inizio del prossimo anno. Pare che nel testo siano previste sanzioni contro gli Stati che non rispettano le regole di bilancio (fino alla perdita di sovranità per i casi più gravi) e controlli comunitari sui conti di ogni paese.

Queste voci hanno iniziato ad avere una qualche concretezza soltanto ieri pomeriggio, quando in un comunicato dei più vaghi il governo di Berlino ha ammesso che, al prossimo vertice Ue del 9 dicembre, Francia e Germania "presenteranno proposte comuni". Insomma, nessuna smentita. La febbre da rialzo pareva a questo punto giustificata, tanto più che nel frattempo Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, per la prima volta si era detto possibilista sull'emissione degli eurobond, fino ad allora tanto vituperati dai tedeschi.

D'altra parte, che questo ambizioso progetto possa davvero realizzarsi, per giunta in tempi così stretti, è tutto da dimostrare. Perciò adesso mettiamo da parte la fantasia e leggiamo un po' di dati Ocse. Numeri gelidi, impietosi, ma - questi sì - calcolati su base scientifica. Secondo l'organizzazione internazionale, "le economie avanzate stanno rallentando e l'eurozona appare in lieve recessione". Rimangono "seri rischi di peggioramento legati alla possibilità di un default sovrano e dei suoi effetti sui creditori, alla perdita di fiducia nei mercati del debito e nell'unione monetaria stessa". Prospettive particolarmente buie per l'Italia, che l'anno prossimo vedrà contrarsi il suo Pil dello 0,5% (contro il +1,6% prospettato solo sei mesi fa). La disoccupazione, invece, aumenterà all'8,3%.

A questi oscuri presagi si affiancano quelli di un'istituzione per sua natura meno credibile, ma ben più minacciosa. L'agenzia Moody's ha lanciato un allarme catastrofico: le probabilità di più default fra i paesi dell'area euro "non sono più insignificanti". E una serie di fallimenti "aumenterebbe significativamente la possibilità che uno o più paesi, oltre al default, escano da Eurolandia".

Tutti segnali ignorati ieri dai mercati finanziari. In ogni caso l'exploit borsistico di un lunedì finalmente roseo non è sufficiente ad allentare la tensione sul mercato obbligazionario. Lo spread sui nostri titoli di Stato rimane ancora pericolosamente vicino ai 500 punti e nell'ultima asta del Tesoro i Btp a 15 anni sono stati piazzati con un rendimento del 7,30% ( ben oltre quel 7% considerato dagli analisti come soglia di non ritorno).

Oggi e domani Monti sarà a Bruxelles per partecipare a Eurogruppo e Ecofin in qualità di ministro dell'Economia. Quando tornerà, dovrà limare le misure da mettere in campo il prossimo 5 dicembre, quattro giorni prima del vertice europeo. Insomma, non ci rimane molto da attendere. Ancora un paio di settimane e sapremo se ieri le borse hanno avuto ragione.

di Sara Seganti

Gli occhi sono puntati su Jersey. E’ una piccola isola alle dipendenze della corona inglese diventata meta di quei fondi d’investimento spregiudicati al tal punto da essere ribattezzati “fondi avvoltoio”, intenti a compiere speculazioni sul debito sovrano di paesi poveri e fortemente indebitati. Jersey è prima di tutto un paradiso fiscale e, in secondo luogo, anche un buco nella rete di protezione legale che l’Inghilterra ha voluto garantire a quei 40 paesi poveri entrati nel programma di alleggerimento del debito promosso dalla comunità internazionale.

La legge inglese, approvata nel marzo 2011 e tra le prime del suo genere, vieta di intentare cause legali per speculare sui debiti sovrani di quei paesi poveri fortemente indebitati ma non si applica ai suoi territori d’oltremare. Pertanto i fondi avvoltoi si sono spostati nelle zone franche e, proprio in un tribunale di Jersey, il prossimo mese, si deciderà della sorte di 100 milioni di dollari che la Repubblica Democratica del Congo rischia di essere costretta a pagare al fondo d’investimento FG Hemisphere a fronte di un debito iniziale di 37 milioni, circa un terzo della cifra richiesta adesso, in valore reale.

La Repubblica Democratica del Congo, il secondo paese più povero del mondo, ha contratto un debito con lo stato bosniaco quando era governata dal dittatore Mobutu Sese Seku negli anni ’80. FG Hemisphere ha rilevato questo debito e sta cercando da alcuni anni di rifarsi dell’investimento, fino ad arrivare al tentativo, qualche tempo, fa d’impossessarsi dell’ambasciata della Repubblica Democratica del Congo a Washington, senza però riuscirci.

Il fenomeno non è nuovo, ma sta assumendo proporzioni inquietanti. Negli ultimi anni, 54 fondi d’investimento privati hanno intentato cause legali contro paesi poveri fortemente indebitati chiedendo risarcimenti per 1,5 miliardi di dollari, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale. Allo stato attuale, i fondi avvoltoi hanno già ricevuto indennizzi per almeno 1 miliardo di dollari.

Queste compagnie d’investimento private hanno acquistato, o più spesso hanno rilevato da altri stati, una parte del debito sovrano di un paese nel caos o in guerra, comunque in stato di “shock” per usare la terminologia di Naomi Klein. Non appena la congiuntura economica si fa più favorevole, quando cioè gli investitori tornano ad operare nel paese in questione, spesso incoraggiati dai programmi di alleggerimento del debito a livello internazionale, i “fondi avvoltoio” riescono a rientrare del loro investimento iniziale maggiorato da elevati interessi e commissioni. Il tutto sempre in dollari, aggravando ancora di più il già pesante fardello sulle spalle di paesi dalle valute deboli.

Fondi avvoltoi a parte, sono alcuni anni che la piaga del debito del terzo mondo ha riscosso l’attenzione del grande pubblico grazie a campagne d’opinione e testimonial, anche molto criticati, come Bono degli U2. In molti, comunque, hanno lavorato per portare a conoscenza del grande pubblico la gravità della situazione debitoria che rinchiude, tra interessi elevati, corruzione, condizionamenti politici e assenza di sviluppo, quei paesi poveri fortemente indebitati all’interno di un orizzonte senza speranze.

I 48 paesi più poveri totalizzano circa 168 miliardi di dollari di debito che non possono permettersi di ripagare. La morsa del debito non fa che acuire l’estrema povertà in cui versano le genti di paesi già poveri e colpisce le risorse naturali, oppure provoca la privatizzazione dei servizi, l’apertura di mercati o, più semplicemente, l’eliminazione di servizi di base come sanità e istruzione.

Le istituzioni multilaterali come Banca mondiale e Fondo monetario, tra i maggiori responsabili di questo stato di cose, hanno preso atto della situazione e negli ultimi anni hanno avviato un primo programma di alleggerimento del debito selezionando 40 paesi poveri altamente indebitati - “HIPC” – ai quali paesi donatori e istituzioni multilaterali hanno cancellato parte del debito, per un totale di 110 miliardi di dollari dal 1996 a oggi.

Una cifra ragguardevole, ma ancora insufficiente per far ripartire economie così minate, soprattutto visto che i creditori privati non hanno nessun vincolo, né nessun incentivo, a partecipare al programma di alleggerimento del debito.

La morsa del debito è uno dei maggiori strumenti di ricatto e controllo dei paesi poveri e il meccanismo dei prestiti del fondo monetario è noto per essere una delle concause del sottosviluppo di molti paesi del sud del mondo.

Dittatori, regimi oppressivi e funzionari corrotti sono gli interlocutori con cui le istituzioni internazionali hanno spesso portato avanti i programmi di prestiti al terzo mondo. Una storia costellata di furti, di debiti contratti illegalmente, di progetti fallimentari che non hanno innescato nessuno sviluppo.

Non è possibile separare la questione politica dalla questione del debito. Jubilee Dept Campaign, una delle organizzazioni più attive su questo fronte, coltiva la speranza che possano ancora funzionare le influenze politiche e, perciò, chiede al governo inglese uno sforzo di pressione sui territori d’oltremare, nella speranza che dal Regno Unito possa partire un’ondata di leggi a livello internazionale per bandire una pratica che ha tutti i connotati del banditismo finanziario.

di Emanuele Vandac

Il governo britannico ha dimostrato preoccupazione per le sorti dell’industria finanziaria, il suo campione nazionale, minacciato dal rischio di nuove crisi sistemiche ma anche dall’impatto delle nuove regole sugli obblighi di coefficienti patrimoniali, meglio conosciuti con il nome tecnico di Basilea 3. A questo scopo ha dato vita ad un nuovo organismo, il Financial Policy Committee (FPC), che agisce nell’alveo del mandato al mantenimento della stabilità finanziaria della Banca d’Inghilterra. Obiettivo ufficiale del FPC è “identificare, monitorare, e prendere provvedimenti per eliminare o ridurre i rischi sistemici con particolare attenzione alla protezione e all’incremento della resilienza del sistema finanziario del Regno Unito”.

Il FPC, che non avrà veri poteri fino all’approvazione della riforma sulla finanza che dovrebbe essere approvata il prossimo anno, è presieduto dal Governatore della Banca d’Inghilterra ed è composto da dirigenti di alto rango della Banca d’Inghilterra e della FSA (Financial Services Authority, la CONSOB locale) oltre che da quattro membri esterni. Da febbraio, in ogni caso, sono insediati gli undici membri del Comitato pro tempore, mentre i resoconti dei loro meeting sono disponibili online sul sito della Bank of England.

Uno di questi è Robert Jenkins, ex manager della F&C Asset Management, il quale, alla vigilia di un incontro programmato del FPC sul tema della stabilità finanziaria e sugli indirizzi politici per conseguirla, ha rilasciato una serie di dichiarazioni che hanno fatto sobbalzare sulla sedia molti pezzi grossi della City.

Da persona senza peli sulla lingua, quale egli é, Jenkins ha se l’è presa con i banchieri che guardano a possibili interventi regolamentari come bambini (viziati) e piagnucolosi, cui sta per essere tolto il giocattolo preferito. La loro lobby dapprima ha sostenuto che non c’era alcun bisogno di riforme; con l’esplosione di Lehman e il conseguente terremoto hanno finalmente compreso che un cambio di marcia (anche formale) era inevitabile. Ma a quel punto hanno cominciato a sostenere che, per essere efficaci, le riforme dovrebbero essere attuate a livello globale.

Intanto hanno guadagnato tempo, dato che alle banche del Regno è stato concesso di poter attendere fino al 2019 per mettersi in regola con le disposizioni sulla solidità patrimoniale stabilite da Basilea. Quando gli stessi mercati hanno fatto capire che i tempi erano troppo dilatati e che il rafforzamento patrimoniale deve avvenire in tempi assai più celeri, la loro risposta è stata: “Poiché non possiamo fare aumenti di capitale, perché non vi sono investitori, finiremo per ridurre la leva”.

Il che significa che presteranno di meno. E la colpa, guarda caso, non è loro, delle banche, ma del regolatore. “In breve” ha continuato Jenkins, “la tattica di lobby è convincere gli opinionisti, l’opinione pubblica e i politici che un eccesso di prudenza in questo momento potrebbe produrre danni all’economia. Questa barzelletta non fa più ridere. Si tratta di una strategia non solo disonesta dal punto di vista intellettuale, ma anche dannosa”.

Jenkins, che secondo il Guardian sta facendo di tutto per accreditarsi come paladino della virtù bancaria (perduta), è un fiume in piena. Smonta pezzo per pezzo tutta la mitologia costruita dalle banche come un argine invalicabile ad ogni tentativo di riforma che suoni anche lontanamente vicino ad una responsabilizzazione del settore: “La verità è che le banche hanno molti modi per rafforzare i loro bilanci senza fare danni all’economia. Per esempio, tagliando i bonus, evitando di prendersi rischi incrociati su settori diversi [tasso contro cambio contro credito eccetera… ndr], ricorrendo al debito a durata predeterminata e perfino al capitale di rischio. Perché, se gli investitori sono poco inclini ad entrare nel capitale delle banche, si può sempre convincerli pagandoli di più. Il capitale c’è: solo che purtroppo si dovrà pagarlo di più e tirare un po’ (ma solo un po’) la cinghia.

Jenkins ha concluso con una lapidaria descrizione di come si è evoluto nel tempo il “mestiere” del banchiere: “Una professione basata sull’integrità e la prudenza oggi appoggia una strategia di lobby che sfrutta la mistificazione e la paura”. Ma per fortuna, secondo Jenkins, “non tutti i banchieri appoggiano questo stile. Dovrebbero distinguersi dagli altri e prenderne le distanze.” Chissà se quest’ultima parte del ragionamento troverà orecchi attenti e ricettivi.

di Emanuele Vandac 

Tanto tuonò che (quasi) piovve. Moody’s torna a minacciare il dogma di fede della tripla A del debito sovrano francese: il possibile persistere di un contesto caratterizzato da costi elevati di finanziamento, sostiene l’agenzia di rating, può rendere più ardua la gestione del bilancio pubblico da parte del governo, con implicazioni creditizie negative.

Il pretesto che consente a Moody’s di venire allo scoperto è quello del rialzo dello spread sui titoli di stato francesi nei confronti di quelli tedeschi, registrato nelle ultime settimane: lo scorso 17 novembre, infatti, il suo valore ha sfondato la soglia psicologica dei 200 punti base, mentre attualmente viaggia tra i 155 e i 170 centesimi (un segnale molto preoccupante, visto che, solo quattro mesi fa, il debito italiano si trovava nella stessa posizione).

In effetti, un incremento di un punto percentuale nel rendimento dei titoli di stato equivale ad un aumento di circa 3 miliardi di euro l’anno di spesa per interessi; anche le prospettive di crescita economica della République non sono incoraggianti. The Economist ricorda come il solitamente aitante ed ottimista Sarkozy abbia dovuto recentemente ammettere in un’intervista che il tasso di crescita del PIL atteso per il 2012 al massimo raggiungerà l’1% (contro l’1,75% programmato). Le previsioni delle banche, sempre secondo il settimanale britannico, sono ancora più deprimenti, e tendono a divergere sensibilmente in funzione della nazionalità dell’istituto: la francese Natixis la attesta allo 0,5%, mentre alla yankee Citigroup va la palma del pessimismo, convinta come è non andrà oltre un simbolico 0,1%.

Questo vuol dire che, per conseguire i risultati attesi in termini di taglio del deficit, sarebbero necessari, rispettivamente, altri 5 o 9 miliardi di tagli. Sarkozy però difficilmente li metterà in cantiere, considerato che la prossima primavera lo attendono le presidenziali, e che il sentiment dei francesi è di maggior disponibilità verso aumenti delle tasse rispetto che ai tagli del suo imponente apparato pubblico ad un tempo fiore all’occhiello e zavorra finanziaria del Paese. Non a caso, la gran parte dei provvedimenti che vedranno la luce l’anno venturo sono nuove imposte: IVA, tasse sulle imprese (aumenti del 5%) e sui ricchi.

Che di downgrading francese si parli sempre più spesso tra gli operatori di mercati non è un mistero. La stessa Moody’s il 17 ottobre ha minacciato di mettere il debito sovrano francese sotto negative outlook (la procedura di rivisitazione dei conteggi che potrebbe sfociare in un downgrade).

In quell’occasione, le preoccupazioni dell’agenzia si appuntavano sulla tenuta dei conti francesi dopo la crisi del 2008, che ha lasciato il governo “con uno spazio di manovra limitato”, ulteriormente compresso dal possibile sostegno al sistema europeo (erano i giorni in cui si discuteva febbrilmente del fondo di garanzia ESFS, di cui la Francia è il secondo contribuente per importanza) e/o alle sue banche (ieri e oggi molto esposte sulla Grecia).

Fu in quell’occasione che Moody’s emise quel verdetto che deve essere costato nottate insonni all’orgoglioso Sarkozy: “la Francia è il più debole tra i paesi con la tripla A.” Interessante, a questo proposito, l’incidente in cui è incappata qualche giorno fa Standard & Poor’s, che, a causa di un errore tecnico, ha dato l’impressione che la Repubblica sia in qualche modo sotto osservazione.

Insomma, se ieri il problema erano i vincoli di bilancio e gli shock provocati alla finanza pubblica dai salvataggi (passati e futuri, effettivi o potenziali), oggi la paura arriva da una possibile perdita di fiducia dei mercati nell’emittente Francia. Il Ministro delle finanze francese ha risposto alle esternazioni di Moody’s in modo piccato, con un comunicato nel quale ha spiegato che le attuali condizioni cui si approvvigiona il tesoro francese sono “molto favorevoli”.

E in effetti, sembra dargli ragione un comunicato della AFT (Agence France Trésor) che spiega che il tasso medio ponderato del debito francese a medio lungo termine si attesta sul 2,78%, uno dei livelli più bassi dalla nascita dell’euro. Secondo il ministro francese, inoltre, le misure del pacchetto di emergenza da oltre 7 miliardi del 7 novembre sono state studiate per evitare impatti negativi sulla crescita economica.

Si preannunciano tempi particolarmente difficili per Sarkozy: da un lato dovrà continuare la sua lotta maniacale per il mantenimento della tripla A, e dall’altra tenere sotto controllo i conti continuando ad aumentare la pressione fiscale senza poter toccare la spesa. In fondo, la Francia è il secondo contribuente della European Financial Stability Facilty e il suo merito di credito è uno dei pilastri del gigante dai piedi di argilla, concepito per salvare l’euro.

Dunque la Francia deve mantenere alto il suo merito creditizio per consentire al sistema di sopravvivere e di salvare, tra le altre, anche le banche francesi, zavorrate da tonnellate di titoli greci ed italiani. Fino a che non si comprenderà che la vera soluzione alla crisi è una banca centrale in grado di mettere tutta la sua forza al servizio del riacquisto del debito pubblico europeo in condizioni di crisi, ogni misura, e ogni sacrificio, rischiano di essere dolorosi ma inutili.


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