di Mario Braconi

L’esito del vertice dell’8 e del 9 dicembre si può riassumere con la battuta di un diplomatico europeo citato da Reuters: “La Gran Bretagna si arrabbia, la Germania fa il broncio, la Francia esulta”. Sarkozy è apparso soddisfatto di aver aggregato attorno al progetto di riforma dei trattati europei i diciassette Paesi dell’area euro, e di aver conquistato l’appoggio di altri 6 stati dell’Unione Europea. Solamente sei, perché, oltre alla Gran Bretagna, che ha rotto apertamente, Svezia, Ungheria e Croazia hanno messo le mani avanti, sostenendo che il loro eventuale supporto potrà avvenire solo dopo un confronto parlamentare.

La Svezia non intende vincolarsi per il momento a regole disegnate per l’area euro, la Croazia sembra arenata su posizioni di euroscetticismo, mentre l’Ungheria, le cui finanze dipendono in modo sostanziale dal sostegno dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, non intende accettare condizioni che pongano limiti alla sua sovranità nazionale.

Non è escluso che la frattura consumatasi tra Unione Europea e Gran Bretagna sia stata propiziata da quella che un diplomatico di lungo corso definisce la “goffa tecnica negoziale” di Cameron. Obiettivo dichiarato di Cameron è quello di difendere l’industria finanziaria britannica, che con le sue commissioni e interessi, realizza circa il 10% del PIL del Regno Unito. Analizzando i dettagli, si comprende come la rigidità britannica non costituisca solo l’ennesimo esempio del tradizionale isolazionismo.

Cameron non intendeva fare compromessi sul mantenimento a Londra della European Banking Authority (EBA) e sulla libertà di stabilire autonomamente i requisiti patrimoniali delle banche, oggi più stringenti nel Regno Unito rispetto all’obiettivo del 9% previsto per le banche dell’area euro. Ma soprattutto vuole impedire a tutti i costi misure di dubbia utilità ma che comporterebbero un danno certo all’industria finanziaria: il divieto di effettuare transazioni denominate in euro in mercati diversi dall’eurozona (su Londra ne transitano circa la metà) e la cosiddetta Robin Hood tax sulle transazioni finanziarie (il cui gettito, secondo una stima riportata sul Guardian potrebbe aggirarsi attorno ai 60 miliardi di euro l’anno).

Non è scontato però che la mossa di Cameron abbia mietuto unanimi consensi in patria: secondo un operatore della City sentito dal Guardian, ad esempio, il veto di Cameron “non ci ha aiutati, anzi ci ha esposto”. Secondo Sony Kapoor del think-tank Re-define, “il Regno Unito si è isolato e ha perso la possibilità di influenzare il dibattito in modo produttivo, senza alcun tornaconto”; secondo Kapoor, è addirittura surreale sostenere di aver difeso gli interessi della City, quando, in materia di capitalizzazione, liquidità e struttura delle istituzioni finanziarie, il Regno Unito è oggi più avanti dei piani (futuri) dell’Unione Europea.

La sintesi migliore è quella di Vicky Redwood, economista alla Capital Economics, casa indipendente di ricerca macroeconomica: “Non è detto che la vita delle banche in Gran Bretagna sia così facile [in effetti si parla di riforme per separare le banche commerciali dalle banche d’affari, mentre i requisiti patrimoniali, come detto, sono pesanti], ma non essendo soggetti alle ‘loro’ regole possiamo rimanere competitivi: e questo è un bene.” Resta aperto il problema del fatto che oggi l’Unione Europa potrà imporre le sue regole a maggioranza, e farle implementare mediante la Commissione Europea e la Corte Europea di Giustizia, anche senza la Gran Bretagna.

Non sono emerse novità di rilievo sui contenuti del nuovo trattato, che dovrebbe essere siglato al massimo entro marzo del 2012: viene confermata infatti la struttura imposta dal direttorio franco-tedesco, che ribadisce l’obbligo che il deficit dei singoli stati non superi lo 3%, rendendolo ancora più tassativo. In caso di sforamento, scatteranno sanzioni automatiche, anche se è prevista una  scappatoia secondo cui la maggioranza qualificata può deliberare la mancata applicazione delle “punizioni”.

Più interessante la parte che riguarda i meccanismi difensivi: la BCE metterà la sua esperienze e conoscenze al servizio dello European Financial Stability Facility (EFSF), non solamente fungendo da agente nell’emissione della prima tranche di bond che verrà collocata il prossimo 13 dicembre. Viene anticipato a luglio 2012 il varo del ESM (European Stability Mechanism), che però, a causa del “nein” della Cancelliera non sarà una vera e propria banca, a differenza di quanto proposto da Van Rompuy. Si dà inoltre il via al leveraging del EFSF. Con il passaggio allo ESM, i fondi a disposizione del EFSF (attualmente 440 miliardi di euro, nella forma di garanzie prestate dagli stati membri) potranno essere aumentati (questa volta in forma di versamenti di cash) fino al limite massimo formalizzato nel documento di ieri (500 miliardi).

Mettendo insieme i due dati, limite massimo del contributo degli Stati più possibilità di indebitarsi (leveraging), ed ipotizzando un indebitamento pari al capitale, si raggiungerebbe una potenza di fuoco di circa 1.000 miliardi di euro. A questa somma si aggiungono gli ulteriori 200 miliardi (di cui 150 provenienti da Paesi dell’Area Euro) che, secondo il documento di ieri, potrebbero essere forniti nei prossimi dieci giorni dai paesi membri al Fondo Monetario Internazionale mediante accordi bilaterali. Il sistema di votazione del ESM prevede che, “quando è necessaria una decisione urgente relativa al soccorso finanziario in un contesto di pericolo per la continuità dell’area euro, l’unanimità viene rimpiazzata da una supermaggioranza dell’85%. Disposizione, questa, studiata per evitare il potere di ricatto dei paesi più piccoli, e pertanto fieramente osteggiata ad esempio da Finlandia e Slovacchia.

La cosa più importante è capire se quanto pattuito al vertice possa configurarsi come il fiscal compact (patto fiscale) che Draghi ha stabilito come pre-condizione al rafforzamento dell’azione diretta della BCE sui mercati dei titoli di stato. Il Presidente della BCE si è dimostrato cautamente soddisfatto: “L’accordo è la base per un buon patto fiscale e garantirà maggior disciplina da parte degli stati membri: riteniamo che verrà rimpolpato nei prossimi giorni”.

Per il momento, però, gli acquisti di titoli da parte della Banca Centrale saranno limitati a 20 miliardi a settimana: secondo un banchiere centrale che si è confidato con Reuters a condizione di non essere citato: “Vedrete altri acquisti, ma non il grande bazooka che i mercati e i media si attendono”.

E’ vero che la BCE si dimostra restia ad interagire pesantemente sui mercati: tuttavia, come nota Carlo Bastasin su Il Sole 24 Ore, con l’ulteriore taglio ai tassi della BCE può davvero convenire alle banche europee prendere in prestito all’1% per investire in titoli di stato che rendono oltre il 6%, portando casa un bel 5%. E’ questa anche la “dritta” di Sarkozy, che ai giornalisti ha detto che “ogni stato potrà contare sulle sue banche, che avranno liquidità a loro disposizione”.

Sarebbe una buona cosa, se non fosse che va in conflitto con le indicazioni alle banche che vengono fuori dagli stress test: smobilizzare titoli italiani e ricapitalizzarsi. Secondo l’economista Holger Schieding della banca privata tedesca Berenberg, infatti, “comprare titoli italiani è forse l’ultima cosa che le banche faranno con la liquidità in eccesso”.

di Carlo Musilli

Potremo ricordarci di oggi come del giorno in cui ci siamo salvati per un pelo. Oppure ritroveremo la data di venerdì 9 dicembre 2011 nei libri di storia come la data in cui ci rassegnammo al disastro, buttando al vento anche l'ultima occasione. Come se i maya avessero ciccato la loro profezia apocalittica di poco più d'un anno. Che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy non fossero due statisti in grado di salvare da soli l'Eurozona era chiaro da tempo, distratti come sono dalle loro ragioni di politica interna. Ma a Bruxelles, nel vertice Ue e nel successivo summit dell'area euro, dovranno far finta che le président e la cancelliera siano davvero quello che non sono. E firmare un accordo per mettere un freno alla crisi del debito.

Diciamo subito che le premesse sono pessime. In una giostra di rimpalli, tatticismi e dichiarazioni vacue, i leader di Francia e Germania hanno lasciato ampiamente intendere che non è lecito aspettarsi da loro la mossa decisiva. Il risultato è stato che le speranze di un intero continente sono crollate prima ancora che i capi di Stato e di governo si sedessero a tavola, ieri sera, per la loro "cena informale".

Ad aprire le danze ci aveva pensato quel genio di Steffen Seibert, portavoce della Merkel, che mercoledì aveva definito l'incontro "molto impegnativo", confermando la voce fatta trapelare da un oscuro funzionario tedesco secondo cui l'esecutivo di Berlino sarebbe sempre più pessimista riguardo una possibile soluzione dell'impasse. La cancelliera ha provato a correggere il tiro, ma è stata ancora una volta troppo timida. Sarkò invece ci ha messo il carico: "Il rischio d'esplosione dell'Europa non è mai stato così grande". Risultato: mercoledì e giovedì le Borse sono crollate e gli spread sono tornati a impennarsi.

Il tonfo di ieri è tanto più significativo perché arrivato in concomitanza con un altro evento che - in condizioni normali - avrebbe catalizzato l'attenzione di tutti. La Bce di Mario Draghi ha deciso di tagliare nuovamente i tassi d'interesse, portandoli ad un tondo 1%. Questo significa più soldi nel sistema, quindi dovrebbe piacere ai mercati. Invece non è stato così: le perdite sono continuate come nulla fosse. Perché?

La verità è che gli operatori si attendevano anche un'altra conferma da parte di Draghi. Volevano che il banchiere italiano ribadisse l'intenzione dell'Eurotower di proseguire ad libitum con la scorpacciata luculliana di titoli di Stato. Questo sì li avrebbe rassicurati: un surrogato accettabile di fronte alla consapevolezza che la Bce non può (e probabilmente non potrà mai) diventare prestatore di ultima istanza (vale a dire concedere crediti direttamente ai singoli Stati). Ma questo comportamento da parte dei mercati testimonia anche l'assoluta mancanza di fiducia in una soluzione politica. D'altra parte, se non ci credono i politici, è difficile chiedere uno slancio fideistico a chi per mestiere fa girare soldi.

Al momento, la questione più calda sul tavolo è la proposta franco-tedesca di modificare i trattati Ue. Si punta a blindare le discipline di bilancio dei vari Paesi membri, prevedendo delle sanzioni molto severe per chi sgarra. In realtà le ombre su questo progetto sono molte. Innanzitutto pare che sia frutto di una sorta d'imposizione da parte di Merkel a Sarkò, piuttosto che di un ponderato studio, considerando che i criteri di giudizio sui bilanci si annunciano talmente severi che la Francia sarà la prima ad essere colta in fallo.

In secondo luogo non è affatto detto che chiudere le casse europee in una botte di ferro sia la strada migliore per uscire dalla crisi. Forse così facendo si potranno calmare gli speculatori, raffreddando i timori incontrollati per la crisi dei debiti. Ma certamente non basterà a risolvere il vero problema di base: il fatto che ormai siamo in recessione. E in economia un sistema che non cresce non è sostenibile. Da questo punto di vista, anche le tanto sospirate e incerte riforme dell'Efsf e della Bce non potranno mai svolgere il ruolo di deus ex machina, a fronte della completa mancanza di un coordinamento politico unitario dell'Europa.

Ma di questo si parla poco. Affannati a spegnere l'incendio finanziario, non ci accorgiamo delle crepe sul muro che stanno per farci crollare il tetto sulla testa. Forse ci ricorderemo di oggi come del giorno in cui abbiamo creduto di salvarci. 

 

di Emanuele Vandac

Come noto, la cosiddetta “crisi del debito” euro è causata dalla speculazione internazionale. A differenza di quanto si vuole far credere, il problema non è finanziario, ma politico: nel corso degli ultimi tre anni, i Paesi dell’Area euro hanno dimostrato di non essere in grado di agire di concerto, tanto per impreparazione che per opportunismo politico dettato da problemi domestici.

Una “crisi” che viene da lontano, dunque, e che sfrutta le debolezze intrinseche del sistema Europa per riorganizzare il continente nel modo desiderato dagli Stati Uniti. Per dirne una: che i due uomini della provvidenza siano entrambi italiani e che entrambi si chiamino Mario è un fatto casuale. Che siano o siano stati entrambi alle dipendenze della Goldman Sachs no.

Si sa, situazioni di emergenza richiedono soluzioni estreme: solo facendo appello a un’emergenza - che esiste solo nelle sale cambi delle banche e dei fondi che hanno scatenato la “crisi” - si poteva giustificare la sconvolgente scelta di Germania e Francia di auto-costituirsi in direttorio permanente a baluardo della salvezza dell’euro.

Viene così evocato un altro spettro che per qualche decennio era rimasto chiuso dentro un armadio: l’antica e a quanto pare mai sopita brama germanica di dominare il continente e di imporre a tutti gli altri, i più deboli, i meno organizzati, gli “inferiori”, le sue proprie regole. La specialità di questo gioco demenziale consiste nello spingere i paesi recalcitranti e o politicamente deboli verso il precipizio della dissoluzione della moneta unica al fine di estorcere loro le misure desiderate: ci si augura vivamente che nell’equazione trovi posto anche la considerazione del rischio calcolato che anche chi spinge finisca nel burrone.

Quella di Sarkozy, invece, è semplicemente la brama di un uomo malato di grandeur, desideroso di far bella figura facendosi vedere quanto più possibile in giro con il primo della classe, nella speranza che quest’ultimo lo aiuti durante il compito in classe. In Italia, intanto, viene installato un “tecnico” che ridà fiducia ai mercati facendo una manovra che più italiana non avrebbe potuto essere: una bordata impressionante di tasse, strappate dalle tasche dei soliti noti tra patetismi d’accatto ed evocazioni mesmeriche. Una manovra “facile” in modo imbarazzante, e per giunta svincolata da fastidiose ricadute elettorali; il tutto per dire che, sarà pure un governo “tecnico”, ma gli interessi tutelati, come quelli colpiti, sono sempre gli stessi.

L’Europa, per la verità, ha disperato bisogno di una Banca Centrale Europea che possa sostenere in caso di necessità i governi: come ha fatto, guarda caso, la Federal Reserve. Questo è l’unico caso in cui l’indebita e irritante pressione americana sui governi europei potrebbe effettivamente portare a qualcosa di utile per gli europei. Non appena insediato a Francoforte, l’ex uomo della Goldman Sachs, infatti, ha fatto capire che la BCE è pronta a continuare e perfino a rafforzare gli acquisti di titoli italiani e spagnoli, purché i paesi dell’Eurozona prendano impegni seri e formali in tema di disciplina fiscale.

L’apertura di Draghi arriva, guarda caso, appena qualche giorno prima dell’euro summit dell’8 e 9 dicembre. Il duo Merkel-Sarkozy ha deciso che prenderà decisioni (per lo meno) per gli altri 17 paesi dell’area euro, se non anche per gli altri 10: per questo i due si sono incontrati ieri a Parigi con l’obiettivo di stendere il piano definitivo da lanciare ufficialmente mercoledì. A valle di un colloquio di due ore, si sono fatti immortalare nell’ormai consueta conferenza stampa comune nella quale, tanto per cambiare, hanno fatto sapere di essere d’accordo su tutto.

Il risultato del tête-à-tête è una modifica dei trattati, sulla quale il dinamico duo va avanti a tutta birra, a dispetto della contrarietà di alcuni paesi quali Gran Bretagna, Irlanda e Olanda, che fieramente avversano l’idea, sapendo che ci sono ottime probabilità di perdere i referendum che tassativamente dovrebbero ratificare i cambiamenti (e questo la dice lunga sul curioso significato che sta assumendo la parola “democrazia” nel nostro continente). Questa la bozza che hanno in mente: il nuovo trattato dovrebbe prevedere sanzioni automatiche in caso di sforamento dei limiti di deficit; secondo Reuters una “supermaggioranza” di stati, però, potrebbe immunizzare il paese spendaccione dalla giusta punizione.

Ma gli arzigogoli barocchi per cui gli europei vanno famosi (e per i quali potrebbero rimetterci le penne vien da aggiungere) non finiscono qui. Per compiacere Monsieur, sembra che sarà pure prevista una clausola secondo cui la Corte di Giustizia europea potrebbe essere chiamata a valutare (udite udite!) se i nuovi vincoli di bilancio sono riflessi correttamente nelle legislazioni nazionali degli Stati membri, anche se essa non sarà in grado di rigettare le leggi di bilancio.

La disciplina di bilancio, inoltre, diverrà un dogma di fede da scrivere a chiare lettere nelle costituzioni di tutti gli eurostati. In poche parole, molto rumore per nulla, o quasi. La speranza è che questo topolino partorito dalla montagna possa convincere il sig. Draghi ad aprire i cordoni della borsa o, per meglio dire, far partire le rotative che stampano le variopinte banconote europee. I due capoclasse hanno concluso con il loro convinto nyet sugli eurobond, non sia mai che un debito tedesco possa essere mai confuso con un debito italiano o spagnolo!

Che la preoccupazione americana sia alta si capisce dal fatto che Timothy Geithner, autoinvitatosi, sarà domani in Europa, a dare una mano, alla maniera americana, of course (è la quarta visita da settembre). Incontrerà, in Germania, i boss della BCE e il ministro delle finanze tedesco: non è necessario essere maghi per indovinare che si parlerà di quantitative easing, beninteso nell’esclusivo interesse degli europei.

E se ci fossero dubbi su quanto a Washington siano preoccupati e vogliosi di rendersi utili in tema di riforme europee, arriva anche Standards & Poors’: proprio mentre i due capi europei discutevano, la rating agency ha fatto sapere ai mercati di essere pronta ad abbassare il rating di 15 stati: da ieri sono a rischio di un downgrade di un notch Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Olanda e Lussemburgo; non che cambi molto le cose, ma anche Estonia, Francia, Irlanda, Italia, Malta, Portogallo, Slovacchia, Slovenia and Spagna rischiano un declassamento di ben due livelli.

Poiché, come dice Paul Donovan, un capo della ricerca di UBS Londra, “le azioni dei governi europei negli ultimi tre anni hanno dimostrato l’incapacità di agire collegialmente, la mossa di S&P’s potrebbe rendere più desiderabile una soluzione che ‘blindi’ Francia e Germania”. Il timing dell’agenzia di rating è sospetto, così come fanno pensare le altre circostanze sopra accennate: la Goldman Sachs al governo dell’Italia e della moneta europea e le insistenti visite di Geithner. Proprio niente di casuale.

di Emanuele Vandac

Per quanti auspicano un cambiamento nel mandato della Banca Centrale Europea, diretto a renderla prestatore di ultima istanza su modello della Federal Reserve americana, il discorso pronunciato giovedì da Mario Draghi all’Europarlamento appare promettente. Non a caso, la stampa americana, dal New York Times al Wall Street Journal, nell’occasione ha dato un’ampia copertura alle parole del Presidente. Il mandato attuale della BCE è il “mantenimento della stabilità dei prezzi”: si tratta, in tutta evidenza, di un’impostazione ereditata dalla Bundesbank, sulla quale è stato plasmato l’istituto monetario europeo.

Innanzitutto, Mario Draghi ha posto l’accento sulla sua interpretazione del ruolo che dovrebbe avere l’istituzione di cui è il capo: “Stabilità dei prezzi”, secondo il Governatore, deve essere intesa “in entrambe le direzioni”. Senza sminuire il terrore germanico per l’iperinflazione sperimentata negli anni Venti del secolo scorso, Draghi ha posto l’accento sul rischio opposto, quello rappresentato dalla deflazione. E, cosa ancora più rilevante, la BCE è legittimata ad agire utilizzando tanto la leva dei tassi d’interesse ufficiali, quanto l’“implementazione di misure non standard”.

Parole importanti, che al di là della necessaria cautela rappresentano il tentativo di andare oltre una visione germano-centrica dell’Istituzione. La banca centrale ha dimostrato chiaramente l’intenzione di agire per sostenere e fluidificare il mercato: acquistando titoli italiani e spagnoli per un totale stimato di 200 miliardi di euro, abbassando di 25 centesimi il tasso ufficiale il 3 novembre e, solo qualche giorno fa, prendendo parte all’iniziativa concordata dalle principali banche centrali mondiali per abbassare il costo di accesso ai fondi denominati in dollari americani.

Draghi, ovviamente, è ben lontano dall’aver anche ventilato la possibilità di fare quantitive easing (stampa di moneta per assorbire i titoli di stato di paesi sotto stress): ha però detto chiaro e tondo che una situazione di mercato “patologica” dei mercati dei titoli di stato di diversi paesi può “difficoltizzare la capacità di intervento della banca centrale, dal momento che l’efficacia della politica monetaria è funzione dei prezzi dei bond”.

Se i prezzi dei titoli precipitano, i tassi d’interesse salgono in modo incontrollato, le banche sono in seria difficoltà (tanto perché i loro attivi si sgretolano quanto in conseguenza della chiusura dei mercati interbancari). Se le banche non si prestano denaro tra loro, imprese e famiglie non verranno finanziate: per tutte queste ragioni, la BCE è perfettamente titolata ad agire sui mercati, ovvero ad agire in modo “non conforme ai suoi normali standard”. Sia chiaro, aggiunge Draghi, che “questo tipo di interventi possono solo essere limitati (nel tempo e nella quantità ndr). I governi - da soli e collettivamente - dovranno recuperare la propria credibilità”.

Per questo, secondo Draghi, i tempi sono maturi per un nuovo “patto fiscale”, che vincoli i governi dell’area Euro alla disciplina di bilancio: un primo abbozzo della famosa “unione fiscale”, la cui assenza è poi la ragione per la quale la divisa comune europea si è trovata sguarnita di fronte agli attacchi speculativi. Una mano tesa, dunque, al progetto tedesco di modifica dei trattati, con sanzioni automatiche per gli “spendaccioni”, che incontra il favore anche del nuovo campione del rigore italico, e il recalcitrante sostegno di Sarkozy.

Insomma nel suo discorso Draghi ha detto: se voi governi farete i vostri compiti (e sarà lì che bisognerà preoccuparsi, specie in Italia), la BCE continuerà a sostenere i mercati dei titoli di stato e forse anche aumenterà anche il suo impegno diretto sui mercati. Come sottolinea il New York Times di venerdì scorso, con questa clausola apposta in calce al nuovo contratto verbale tra la BCE, i governi e le banche, Draghi ha voluto fare proprie almeno in parte le ossessioni dei tedeschi, che continuano a rimanere fedeli al divieto dogmatico per cui la banca centrale non deve finanziare i governi, mentre restano affezionati all’idea ricattare, se non proprio mandare a fondo, quelle che, con qualche ragione, considerano le cicale d’Europa.

Senza però tenere nella dovuta considerazione il fatto che la morte delle cicale provocherebbe gravissimi guai anche alle formiche “a tripla A”. In poche parole, come sostiene un analista di Barclays Capital citato dal NYT, “Draghi ha ventilato un aumento degli interventi di supporto della banca centrale, se nel prossimo summit europeo verranno concordate regole fiscali più severe”.

In effetti, sarebbe teoricamente facile mettere in minoranza i tedeschi al consiglio della BCE (dove si decide a maggioranza) e dove i rappresentanti tedeschi sono due su un totale di 23; tuttavia è improbabile che i rappresentanti degli altri paesi si convincano a mettersi in una posizione di conflitto con il gigante teutonico. Perché una vera trasformazione accada, sarà necessario che Angela Merkel e il capo della Bundesbank Jens Weidmann si convincano che non esiste una vera alternativa a contrastare la speculazione rafforzando le banche ed erigendo un firewall contro le vendite massive.

Il gioco di Angela Merkel è però molto, molto pericoloso: come nota Ezra Klein sul suo blog sul Washington Post, la sua scelta di trasformare in una “maratona” un processo che potrebbe essere veloce come una competizione sui cento metri, le permette di costringere con le buone o le cattive i paesi non germanici verso il patto fiscale di cui parla anche Draghi, e di cui si conosceranno i dettagli al prossimo euro-vertice dell’8 e 9 dicembre. Ma così facendo, “non sta somministrando le dovute cure a un paziente molto, molto malato. Se da una parte è vero che questo paziente deve impegnarsi a fare una vita più sana e responsabile, per farlo dovrà prima sopravvivere”.

di Mario Braconi

Anche se la strada per la risoluzione della crisi dell’euro indotta dalla speculazione internazionale è chiara, l’ostinazione tedesca rischia di condurre un intero continente al disastro. In effetti, la crisi finanziaria che sta attanagliando l’Europa e che inevitabilmente si propagherà per il resto del mondo, rappresenta il fallimento della politica. A queste amare conclusioni si viene indotti apprendendo l’esito dell’incontro dell’Eurogruppo (i ministri finanziari dei 17 Paesi dell’area Euro), tenutosi l’altro ieri.

L’unico dato certo è l’intransigenza tedesca a contrastare ogni tentativo di trasformare la Banca Centrale Europea in prestatore di ultima istanza sul modello della Federal Reserve americana. In presenza di questo tabù imposto a centinaia di milioni di cittadini di altri stati-partner (?) da un unico governo in vena di dominio mondiale, l’unica strada possibile è puntare sulla EFSF (European Financial Stability Facility).

Peccato, davvero, che la dotazione del fondo sia insufficiente a contrastare la marea ribassista della grande speculazione, che continua a buttare giù i corsi dei titoli di stato dei Paesi sotto attacco. Non avere una vera rete di protezione contro i tentacoli degli speculatori e le reazioni isteriche dei tarantolati dal panic selling significa portare a casa un debito pubblico sempre più caro. Il conto degli interessi futuri (multipli rispetto a pochi mesi fa) si abbatte come un ariete sulla fragile architettura delle manovre finanziarie disegnate per riportare in pareggio i bilanci, trasformando lo scenario di lacrime e sangue in una Apocalisse della finanza pubblica.

L’Italia deve garantire quasi l’8% di interessi per farsi prestare denaro a tre anni mentre sul mercato secondario un BOT con vita residua di 4 mesi circa rende più del 5%: non è dunque fuori luogo il monito di Olli Rehn, capo economista della Commissione Europea, il quale ha avvisato Monti che l’Italia dovrà assumere ulteriori misure rispetto ai piani già adottati per riuscire a conseguire l’obiettivo del pareggio nel 2013. Ma questo non interessa alla signora Merkel, decisa a tutto, pur di non mettere in discussione il dogma di fede germanico di una Banca Centrale Europea che non potrà mai essere prestatore di ultima istanza; e, naturalmente, a punire puntigliosamente i cittadini dei paesi governati da buffoni dalle mani bucate.

I risultati di questa politica brillante si vedono: la grande idea partorita dal summit dell’altro ieri è stata, niente meno, quella di bussare alla porta del Fondo Monetario Internazionale, cui si chiede, ormai in modo esplicito, un aumento del supporto indiretto (tramite la EFSF) che diretto (mediante la negoziazione di “bilaterali” con i Paesi in difficoltà).

A conferma dell’infimo livello della politica europea bastano le parole del capo di EFSF, Klaus Regling, il quale ha confidato alla Reuters di avere seri dubbi sul fatto che gli investitori metteranno molto denaro nel Fondo nei prossimi giorni o nelle prossime settimane, aggiungendo di non essere in grado di tirare fuori una stima su quanto potrebbe valere a regime la potenza di fuoco dello strumento.

Non proprio il genere di discorso che possa far scaldare il cuore ai mercati. Non è stato da meno Jan Kees de Jager, ministro delle finanze di un altro Stato a tripla A, l’Olanda: “Dobbiamo guardare al FMI, che potrebbe rendere disponibili denari per il fondo di emergenza. Credo che i paesi europei e non dovranno prepararsi a versare più denaro al Fondo Monetario”.

In effetti, a dispetto dell’oltranzismo della Germania, qualcosa si sta muovendo dietro le quinte, se è vero che secondo il 40% degli economisti sentiti da Reuters per un sondaggio, è possibile che entro sei mesi la Banca Centrale Europea farà “quantitive easing” ovvero stamperà moneta per assorbire emissioni obbligazionarie di euro-stati in difficoltà.

Come scriveva ieri sul Guardian l’economista Mark Weisbrot, quella che stiamo vivendo è, più che una crisi del debito, una crisi dettata dall’incapacità dei politici europei, le cui mani sono legate da idee obsolete e pericolose: non aver soccorso la Grecia un anno e mezzo fa ha già scatenato una crisi disastrosa, di cui tutti i popoli europei dovranno pagare le conseguenze in termini di austerità, tagli allo stato sociale, tasse più elevate, erosione dei diritti.

La folle politica del “rischio calcolato”, condotta dalla Germania, è interamente centrata sull’obiettivo di ricondurre all’ordine gli altri Paesi, senza alcuna considerazione per ciò che è veramente necessario: stimolare la crescita all’interno e all’esterno dell’Area. Weisbrot ricorda come dal 2008 la Federal Reserve americana abbia “creato” oltre 2.300 miliardi di dollari poi usati per comprare titoli-carta straccia: perché la BCE non può fare altrettanto?

Se non si sono verificati problemi di inflazione negli USA, si può ritenere che lo stesso potrebbe accadere anche in Europa. L’inerzia della politica europea è un rischio anche per le economie esterne all’Area euro. Per questa ragione, Weisbrot sta raccogliendo firme alla sua petizione con la quale chiede alla Federal Reserve di dare il buon esempio, comprando essa stessa titoli di stato europei. Una provocazione? Forse, ma se fossero un po’ più responsabili, i politici europei dovrebbero prenderla in considerazione.


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