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di Emanuele Vandac
Come noto, la cosiddetta “crisi del debito” euro è causata dalla speculazione internazionale. A differenza di quanto si vuole far credere, il problema non è finanziario, ma politico: nel corso degli ultimi tre anni, i Paesi dell’Area euro hanno dimostrato di non essere in grado di agire di concerto, tanto per impreparazione che per opportunismo politico dettato da problemi domestici.
Una “crisi” che viene da lontano, dunque, e che sfrutta le debolezze intrinseche del sistema Europa per riorganizzare il continente nel modo desiderato dagli Stati Uniti. Per dirne una: che i due uomini della provvidenza siano entrambi italiani e che entrambi si chiamino Mario è un fatto casuale. Che siano o siano stati entrambi alle dipendenze della Goldman Sachs no.
Si sa, situazioni di emergenza richiedono soluzioni estreme: solo facendo appello a un’emergenza - che esiste solo nelle sale cambi delle banche e dei fondi che hanno scatenato la “crisi” - si poteva giustificare la sconvolgente scelta di Germania e Francia di auto-costituirsi in direttorio permanente a baluardo della salvezza dell’euro.
Viene così evocato un altro spettro che per qualche decennio era rimasto chiuso dentro un armadio: l’antica e a quanto pare mai sopita brama germanica di dominare il continente e di imporre a tutti gli altri, i più deboli, i meno organizzati, gli “inferiori”, le sue proprie regole. La specialità di questo gioco demenziale consiste nello spingere i paesi recalcitranti e o politicamente deboli verso il precipizio della dissoluzione della moneta unica al fine di estorcere loro le misure desiderate: ci si augura vivamente che nell’equazione trovi posto anche la considerazione del rischio calcolato che anche chi spinge finisca nel burrone.
Quella di Sarkozy, invece, è semplicemente la brama di un uomo malato di grandeur, desideroso di far bella figura facendosi vedere quanto più possibile in giro con il primo della classe, nella speranza che quest’ultimo lo aiuti durante il compito in classe. In Italia, intanto, viene installato un “tecnico” che ridà fiducia ai mercati facendo una manovra che più italiana non avrebbe potuto essere: una bordata impressionante di tasse, strappate dalle tasche dei soliti noti tra patetismi d’accatto ed evocazioni mesmeriche. Una manovra “facile” in modo imbarazzante, e per giunta svincolata da fastidiose ricadute elettorali; il tutto per dire che, sarà pure un governo “tecnico”, ma gli interessi tutelati, come quelli colpiti, sono sempre gli stessi.
L’Europa, per la verità, ha disperato bisogno di una Banca Centrale Europea che possa sostenere in caso di necessità i governi: come ha fatto, guarda caso, la Federal Reserve. Questo è l’unico caso in cui l’indebita e irritante pressione americana sui governi europei potrebbe effettivamente portare a qualcosa di utile per gli europei. Non appena insediato a Francoforte, l’ex uomo della Goldman Sachs, infatti, ha fatto capire che la BCE è pronta a continuare e perfino a rafforzare gli acquisti di titoli italiani e spagnoli, purché i paesi dell’Eurozona prendano impegni seri e formali in tema di disciplina fiscale.
L’apertura di Draghi arriva, guarda caso, appena qualche giorno prima dell’euro summit dell’8 e 9 dicembre. Il duo Merkel-Sarkozy ha deciso che prenderà decisioni (per lo meno) per gli altri 17 paesi dell’area euro, se non anche per gli altri 10: per questo i due si sono incontrati ieri a Parigi con l’obiettivo di stendere il piano definitivo da lanciare ufficialmente mercoledì. A valle di un colloquio di due ore, si sono fatti immortalare nell’ormai consueta conferenza stampa comune nella quale, tanto per cambiare, hanno fatto sapere di essere d’accordo su tutto.
Il risultato del tête-à-tête è una modifica dei trattati, sulla quale il dinamico duo va avanti a tutta birra, a dispetto della contrarietà di alcuni paesi quali Gran Bretagna, Irlanda e Olanda, che fieramente avversano l’idea, sapendo che ci sono ottime probabilità di perdere i referendum che tassativamente dovrebbero ratificare i cambiamenti (e questo la dice lunga sul curioso significato che sta assumendo la parola “democrazia” nel nostro continente). Questa la bozza che hanno in mente: il nuovo trattato dovrebbe prevedere sanzioni automatiche in caso di sforamento dei limiti di deficit; secondo Reuters una “supermaggioranza” di stati, però, potrebbe immunizzare il paese spendaccione dalla giusta punizione.
Ma gli arzigogoli barocchi per cui gli europei vanno famosi (e per i quali potrebbero rimetterci le penne vien da aggiungere) non finiscono qui. Per compiacere Monsieur, sembra che sarà pure prevista una clausola secondo cui la Corte di Giustizia europea potrebbe essere chiamata a valutare (udite udite!) se i nuovi vincoli di bilancio sono riflessi correttamente nelle legislazioni nazionali degli Stati membri, anche se essa non sarà in grado di rigettare le leggi di bilancio.
La disciplina di bilancio, inoltre, diverrà un dogma di fede da scrivere a chiare lettere nelle costituzioni di tutti gli eurostati. In poche parole, molto rumore per nulla, o quasi. La speranza è che questo topolino partorito dalla montagna possa convincere il sig. Draghi ad aprire i cordoni della borsa o, per meglio dire, far partire le rotative che stampano le variopinte banconote europee. I due capoclasse hanno concluso con il loro convinto nyet sugli eurobond, non sia mai che un debito tedesco possa essere mai confuso con un debito italiano o spagnolo!
Che la preoccupazione americana sia alta si capisce dal fatto che Timothy Geithner, autoinvitatosi, sarà domani in Europa, a dare una mano, alla maniera americana, of course (è la quarta visita da settembre). Incontrerà, in Germania, i boss della BCE e il ministro delle finanze tedesco: non è necessario essere maghi per indovinare che si parlerà di quantitative easing, beninteso nell’esclusivo interesse degli europei.
E se ci fossero dubbi su quanto a Washington siano preoccupati e vogliosi di rendersi utili in tema di riforme europee, arriva anche Standards & Poors’: proprio mentre i due capi europei discutevano, la rating agency ha fatto sapere ai mercati di essere pronta ad abbassare il rating di 15 stati: da ieri sono a rischio di un downgrade di un notch Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Olanda e Lussemburgo; non che cambi molto le cose, ma anche Estonia, Francia, Irlanda, Italia, Malta, Portogallo, Slovacchia, Slovenia and Spagna rischiano un declassamento di ben due livelli.
Poiché, come dice Paul Donovan, un capo della ricerca di UBS Londra, “le azioni dei governi europei negli ultimi tre anni hanno dimostrato l’incapacità di agire collegialmente, la mossa di S&P’s potrebbe rendere più desiderabile una soluzione che ‘blindi’ Francia e Germania”. Il timing dell’agenzia di rating è sospetto, così come fanno pensare le altre circostanze sopra accennate: la Goldman Sachs al governo dell’Italia e della moneta europea e le insistenti visite di Geithner. Proprio niente di casuale.
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di Emanuele Vandac
Per quanti auspicano un cambiamento nel mandato della Banca Centrale Europea, diretto a renderla prestatore di ultima istanza su modello della Federal Reserve americana, il discorso pronunciato giovedì da Mario Draghi all’Europarlamento appare promettente. Non a caso, la stampa americana, dal New York Times al Wall Street Journal, nell’occasione ha dato un’ampia copertura alle parole del Presidente. Il mandato attuale della BCE è il “mantenimento della stabilità dei prezzi”: si tratta, in tutta evidenza, di un’impostazione ereditata dalla Bundesbank, sulla quale è stato plasmato l’istituto monetario europeo.
Innanzitutto, Mario Draghi ha posto l’accento sulla sua interpretazione del ruolo che dovrebbe avere l’istituzione di cui è il capo: “Stabilità dei prezzi”, secondo il Governatore, deve essere intesa “in entrambe le direzioni”. Senza sminuire il terrore germanico per l’iperinflazione sperimentata negli anni Venti del secolo scorso, Draghi ha posto l’accento sul rischio opposto, quello rappresentato dalla deflazione. E, cosa ancora più rilevante, la BCE è legittimata ad agire utilizzando tanto la leva dei tassi d’interesse ufficiali, quanto l’“implementazione di misure non standard”.
Parole importanti, che al di là della necessaria cautela rappresentano il tentativo di andare oltre una visione germano-centrica dell’Istituzione. La banca centrale ha dimostrato chiaramente l’intenzione di agire per sostenere e fluidificare il mercato: acquistando titoli italiani e spagnoli per un totale stimato di 200 miliardi di euro, abbassando di 25 centesimi il tasso ufficiale il 3 novembre e, solo qualche giorno fa, prendendo parte all’iniziativa concordata dalle principali banche centrali mondiali per abbassare il costo di accesso ai fondi denominati in dollari americani.
Draghi, ovviamente, è ben lontano dall’aver anche ventilato la possibilità di fare quantitive easing (stampa di moneta per assorbire i titoli di stato di paesi sotto stress): ha però detto chiaro e tondo che una situazione di mercato “patologica” dei mercati dei titoli di stato di diversi paesi può “difficoltizzare la capacità di intervento della banca centrale, dal momento che l’efficacia della politica monetaria è funzione dei prezzi dei bond”.
Se i prezzi dei titoli precipitano, i tassi d’interesse salgono in modo incontrollato, le banche sono in seria difficoltà (tanto perché i loro attivi si sgretolano quanto in conseguenza della chiusura dei mercati interbancari). Se le banche non si prestano denaro tra loro, imprese e famiglie non verranno finanziate: per tutte queste ragioni, la BCE è perfettamente titolata ad agire sui mercati, ovvero ad agire in modo “non conforme ai suoi normali standard”. Sia chiaro, aggiunge Draghi, che “questo tipo di interventi possono solo essere limitati (nel tempo e nella quantità ndr). I governi - da soli e collettivamente - dovranno recuperare la propria credibilità”.
Per questo, secondo Draghi, i tempi sono maturi per un nuovo “patto fiscale”, che vincoli i governi dell’area Euro alla disciplina di bilancio: un primo abbozzo della famosa “unione fiscale”, la cui assenza è poi la ragione per la quale la divisa comune europea si è trovata sguarnita di fronte agli attacchi speculativi. Una mano tesa, dunque, al progetto tedesco di modifica dei trattati, con sanzioni automatiche per gli “spendaccioni”, che incontra il favore anche del nuovo campione del rigore italico, e il recalcitrante sostegno di Sarkozy.
Insomma nel suo discorso Draghi ha detto: se voi governi farete i vostri compiti (e sarà lì che bisognerà preoccuparsi, specie in Italia), la BCE continuerà a sostenere i mercati dei titoli di stato e forse anche aumenterà anche il suo impegno diretto sui mercati. Come sottolinea il New York Times di venerdì scorso, con questa clausola apposta in calce al nuovo contratto verbale tra la BCE, i governi e le banche, Draghi ha voluto fare proprie almeno in parte le ossessioni dei tedeschi, che continuano a rimanere fedeli al divieto dogmatico per cui la banca centrale non deve finanziare i governi, mentre restano affezionati all’idea ricattare, se non proprio mandare a fondo, quelle che, con qualche ragione, considerano le cicale d’Europa.
Senza però tenere nella dovuta considerazione il fatto che la morte delle cicale provocherebbe gravissimi guai anche alle formiche “a tripla A”. In poche parole, come sostiene un analista di Barclays Capital citato dal NYT, “Draghi ha ventilato un aumento degli interventi di supporto della banca centrale, se nel prossimo summit europeo verranno concordate regole fiscali più severe”.
In effetti, sarebbe teoricamente facile mettere in minoranza i tedeschi al consiglio della BCE (dove si decide a maggioranza) e dove i rappresentanti tedeschi sono due su un totale di 23; tuttavia è improbabile che i rappresentanti degli altri paesi si convincano a mettersi in una posizione di conflitto con il gigante teutonico. Perché una vera trasformazione accada, sarà necessario che Angela Merkel e il capo della Bundesbank Jens Weidmann si convincano che non esiste una vera alternativa a contrastare la speculazione rafforzando le banche ed erigendo un firewall contro le vendite massive.
Il gioco di Angela Merkel è però molto, molto pericoloso: come nota Ezra Klein sul suo blog sul Washington Post, la sua scelta di trasformare in una “maratona” un processo che potrebbe essere veloce come una competizione sui cento metri, le permette di costringere con le buone o le cattive i paesi non germanici verso il patto fiscale di cui parla anche Draghi, e di cui si conosceranno i dettagli al prossimo euro-vertice dell’8 e 9 dicembre. Ma così facendo, “non sta somministrando le dovute cure a un paziente molto, molto malato. Se da una parte è vero che questo paziente deve impegnarsi a fare una vita più sana e responsabile, per farlo dovrà prima sopravvivere”.
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di Mario Braconi
Anche se la strada per la risoluzione della crisi dell’euro indotta dalla speculazione internazionale è chiara, l’ostinazione tedesca rischia di condurre un intero continente al disastro. In effetti, la crisi finanziaria che sta attanagliando l’Europa e che inevitabilmente si propagherà per il resto del mondo, rappresenta il fallimento della politica. A queste amare conclusioni si viene indotti apprendendo l’esito dell’incontro dell’Eurogruppo (i ministri finanziari dei 17 Paesi dell’area Euro), tenutosi l’altro ieri.
L’unico dato certo è l’intransigenza tedesca a contrastare ogni tentativo di trasformare la Banca Centrale Europea in prestatore di ultima istanza sul modello della Federal Reserve americana. In presenza di questo tabù imposto a centinaia di milioni di cittadini di altri stati-partner (?) da un unico governo in vena di dominio mondiale, l’unica strada possibile è puntare sulla EFSF (European Financial Stability Facility).
Peccato, davvero, che la dotazione del fondo sia insufficiente a contrastare la marea ribassista della grande speculazione, che continua a buttare giù i corsi dei titoli di stato dei Paesi sotto attacco. Non avere una vera rete di protezione contro i tentacoli degli speculatori e le reazioni isteriche dei tarantolati dal panic selling significa portare a casa un debito pubblico sempre più caro. Il conto degli interessi futuri (multipli rispetto a pochi mesi fa) si abbatte come un ariete sulla fragile architettura delle manovre finanziarie disegnate per riportare in pareggio i bilanci, trasformando lo scenario di lacrime e sangue in una Apocalisse della finanza pubblica.
L’Italia deve garantire quasi l’8% di interessi per farsi prestare denaro a tre anni mentre sul mercato secondario un BOT con vita residua di 4 mesi circa rende più del 5%: non è dunque fuori luogo il monito di Olli Rehn, capo economista della Commissione Europea, il quale ha avvisato Monti che l’Italia dovrà assumere ulteriori misure rispetto ai piani già adottati per riuscire a conseguire l’obiettivo del pareggio nel 2013. Ma questo non interessa alla signora Merkel, decisa a tutto, pur di non mettere in discussione il dogma di fede germanico di una Banca Centrale Europea che non potrà mai essere prestatore di ultima istanza; e, naturalmente, a punire puntigliosamente i cittadini dei paesi governati da buffoni dalle mani bucate.
I risultati di questa politica brillante si vedono: la grande idea partorita dal summit dell’altro ieri è stata, niente meno, quella di bussare alla porta del Fondo Monetario Internazionale, cui si chiede, ormai in modo esplicito, un aumento del supporto indiretto (tramite la EFSF) che diretto (mediante la negoziazione di “bilaterali” con i Paesi in difficoltà).
A conferma dell’infimo livello della politica europea bastano le parole del capo di EFSF, Klaus Regling, il quale ha confidato alla Reuters di avere seri dubbi sul fatto che gli investitori metteranno molto denaro nel Fondo nei prossimi giorni o nelle prossime settimane, aggiungendo di non essere in grado di tirare fuori una stima su quanto potrebbe valere a regime la potenza di fuoco dello strumento.
Non proprio il genere di discorso che possa far scaldare il cuore ai mercati. Non è stato da meno Jan Kees de Jager, ministro delle finanze di un altro Stato a tripla A, l’Olanda: “Dobbiamo guardare al FMI, che potrebbe rendere disponibili denari per il fondo di emergenza. Credo che i paesi europei e non dovranno prepararsi a versare più denaro al Fondo Monetario”.
In effetti, a dispetto dell’oltranzismo della Germania, qualcosa si sta muovendo dietro le quinte, se è vero che secondo il 40% degli economisti sentiti da Reuters per un sondaggio, è possibile che entro sei mesi la Banca Centrale Europea farà “quantitive easing” ovvero stamperà moneta per assorbire emissioni obbligazionarie di euro-stati in difficoltà.
Come scriveva ieri sul Guardian l’economista Mark Weisbrot, quella che stiamo vivendo è, più che una crisi del debito, una crisi dettata dall’incapacità dei politici europei, le cui mani sono legate da idee obsolete e pericolose: non aver soccorso la Grecia un anno e mezzo fa ha già scatenato una crisi disastrosa, di cui tutti i popoli europei dovranno pagare le conseguenze in termini di austerità, tagli allo stato sociale, tasse più elevate, erosione dei diritti.
La folle politica del “rischio calcolato”, condotta dalla Germania, è interamente centrata sull’obiettivo di ricondurre all’ordine gli altri Paesi, senza alcuna considerazione per ciò che è veramente necessario: stimolare la crescita all’interno e all’esterno dell’Area. Weisbrot ricorda come dal 2008 la Federal Reserve americana abbia “creato” oltre 2.300 miliardi di dollari poi usati per comprare titoli-carta straccia: perché la BCE non può fare altrettanto?
Se non si sono verificati problemi di inflazione negli USA, si può ritenere che lo stesso potrebbe accadere anche in Europa. L’inerzia della politica europea è un rischio anche per le economie esterne all’Area euro. Per questa ragione, Weisbrot sta raccogliendo firme alla sua petizione con la quale chiede alla Federal Reserve di dare il buon esempio, comprando essa stessa titoli di stato europei. Una provocazione? Forse, ma se fossero un po’ più responsabili, i politici europei dovrebbero prenderla in considerazione.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Secondo alcune agenzie stampa, i capi di Governo dei 27 Paesi dell'Unione europea si incontreranno l'8 dicembre a Bruxelles per una cena informale di lavoro in cui si discuterà di alcune modifiche al trattato Ue. Una cena, spiegano alcune fonti, che vuole concedere ai leader europei più tempo per discutere di questioni oscure quali la stabilizzazione delle banche e la creazione di un muro di protezione che limiti la crisi del debito: problematiche tanto gravi da assomigliare sempre più a vere e proprie sfide, in un’atmosfera di assoluta e palese disarmonia fra i capi di Stato europei. Il Consiglio europeo, quello ufficiale, è previsto invece per il giorno dopo: ma che questo nuovo incontro fornisca una risoluzione definitiva alla crisi, in realtà, non se l’aspetta più nessuno.
La notizia arriva pochi giorni dopo i rumors che vedevano la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy impegnati nella stesura di un patto di stabilità da applicare solo ad alcuni Stati secondo il modello degli accordi di Schengen: uno stratagemma pensato per evitare le eventuali resistenze di certi Paesi. Secondo questo trattato “esclusivo”, in pratica, solo gli Stati che godono di un rating tripla-A potrebbero essere messi in condizione di emettere titoli di debito autonomamente.
Diffusa sabato dal quotidiano popolare tedesco Bild, e ripresa poi da tutta la stampa internazionale, l’indiscrezione non ha mancato di suscitare ovunque indignazione e incertezza. La prospettiva di dividere Eurolandia ha infatti messo in luce ancora una volta la debolezza della moneta unica, e cioè la mancanza di una coesione politica di base che permetta ai suoi leader di prendere decisioni economiche sicure senza ricorrere a continui compromessi. La moneta unica si scopre sempre più simile a un palazzo di vetro e acciaio costruito su un terreno ad alto rischio sismico, caratterizzato da forze interne che premono. Anche il trattato esclusivo, di per sé, non è che una soluzione di mezzo, perché prova a ravvicinare la politica economica della Germania a quella del resto della zona euro, forse l’attrito principale che mina la costruzione della moneta unica.
Perché il nodo cruciale della crisi dell’euro, in realtà, si è ridotto all’intransigenza di Angela Merkel (e del suo governo) nei confronti degli Eurobond, da molti considerati l’unica ricetta valida contro la crisi del debito sovrano. La posizione della Cancelliera è determinata: no agli Eurobond senza un controllo internazionale che possa garantire il rispetto delle regole da parte dei singoli Paesi. A spiegare la visione tedesca ci ha pensato il presidente della Bundesbank tedesca, Jens Weidmann, che ha ammesso di non essere contro gli Eurobond a priori: l’Europa si potrà assumere responsabilità comuni solo alla fine di un processo politico di integrazione degli Stati membri.
Il processo indicato da Weidmann presuppone innanzitutto l’unificazione fiscale e un controllo comune sui bilanci dei singoli stati della zona euro. In particolare, secondo il presidente della banca federale tedesca, l’istituzione Europa dovrebbe avere il diritto di intervenire anche drasticamente nei singoli Paesi quando questi non rispettassero le regole. Anche se, ha ammesso Weidmann, dopo una rigida politica che crei una maggiore convergenza economica tra i membri dell'Eurozona, gli Eurobond potrebbero non essere più necessari. Difficile capire la visione della Germania sia un ulteriore compromesso per guadagnare tempo, quindi, o se venga proposta come soluzione concreta.
A non concedere nulla all’intransigenza dalla Germania, neppure il beneficio del dubbio, è la stampa internazionale. “Più che un’idea è un´ideologia, che nella cultura economica nazionale ha radici lontane, risalenti al periodo fra le due guerre”, ha commentato Barbara Spinelli su La Repubblica. “È la cosiddetta dottrina della «casa in ordine» (Haus in Ordnung), secondo la quale ogni Stato deve prima raddrizzare le storture e far pulizia nel proprio recinto, e solo dopo può contare sulla cooperazione e la solidarietà internazionali”. Per Anatole Kaletsky del Times di Londra “la Germania è nuovamente in guerra con l’Europa, almeno nel senso in cui la politica tedesca si è posta traguardi che sono tipici delle guerre, come la dislocazione dei confini internazionali e l’assoggettamento di altri popoli”.
Ai giornalisti e agli economisti internazionali viene spontaneo associare la rigidezza della Germania alla sua storia, ma forse non si considera che quello che la Cancelliera pretende è ancor’oggi alla base della società tedesca. Nella sua struttura sociale, la Germania punta tutto sul rispetto reciproco tra i singoli individui, comunemente disciplinato dalle regole del gioco: e il rispetto delle regole è, in questo senso, insito nella società e nelle abitudini umane. Forse, la Germania sta solo cercando di imporre un modello di funzionamento. Che tutta l'Europa ci debba riconoscere é altra cosa.
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di Carlo Musilli
Certi giorni la Borsa è un luogo incantato, regno della speranza. Ieri è stato uno di quei giorni. Eppure le premesse lasciavano presagire tutt'altro. L'agenzia di rating americana Moody's aveva evocato possibili "default a catena" nell'Eurozona, mentre dall'Ocse erano arrivati drammatici tagli alle stime di crescita per il 2012. In risposta, i listini europei hanno registrato un boom che non si vedeva da tempo, ben oltre il solito "rimbalzo tecnico" che tradizionalmente fa seguito a un'infilata di chiusure in rosso. Parigi ha guadagnato addirittura il 5,46%, Francoforte e Milano il 4,6%, appena un centesimo sotto Madrid (+4,59%).
Sembra una follia, considerando lo scenario lugubre che si apre di fronte alle nostre economie. Ma nel regno della fantasia tutto è possibile, specialmente quando si tratta di far salire il prezzo delle azioni. Come al solito, si compra sulle voci. Non sulle notizie.
Stavolta la trionfale cavalcata borsistica è stata propiziata dalle indiscrezioni comparse sulla stampa tedesca e italiana. Domenica il quotidiano La Stampa ha scritto che il Fmi avrebbe concesso al nostro Paese un prestito da 600 milioni nel caso in cui la crisi dei conti pubblici si fosse ulteriormente aggravata. I fondi sarebbero stati restituiti con interessi molto vantaggiosi, compresi fra il 4 e il 5%, ben al di sotto dai rendimenti di mercato, e avrebbero dato al governo Monti 18 mesi di tempo per varare le riforme necessarie. Una manna dal cielo, peccato che ben presto sia arrivata una secca smentita: "Non ci sono colloqui con le autorità italiane su un programma di finanziamento", facevano sapere ieri mattina dall'istituzione con sede a Washington.
Parole che non sono bastate a calmare l'euforia dei mercati, galvanizzati in modo decisivo da un altro motivo di speranza. Secondo il sito internet della tedesca Bild (il giornale più letto d'Europa), da giorni sarebbero in corso trattative segrete fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy per arrivare a una modifica lampo dei trattati europei. La rapidità sarebbe garantita dal modello degli accordi di Schengen: una serie di intese bilaterali fra i Paesi disposti a dare subito l'ok.
Poi chi vuole si aggrega alla comitiva. Lo scopo sarebbe di creare un nuovo Trattato di Stabilità europea da approvare già all'inizio del prossimo anno. Pare che nel testo siano previste sanzioni contro gli Stati che non rispettano le regole di bilancio (fino alla perdita di sovranità per i casi più gravi) e controlli comunitari sui conti di ogni paese.
Queste voci hanno iniziato ad avere una qualche concretezza soltanto ieri pomeriggio, quando in un comunicato dei più vaghi il governo di Berlino ha ammesso che, al prossimo vertice Ue del 9 dicembre, Francia e Germania "presenteranno proposte comuni". Insomma, nessuna smentita. La febbre da rialzo pareva a questo punto giustificata, tanto più che nel frattempo Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, per la prima volta si era detto possibilista sull'emissione degli eurobond, fino ad allora tanto vituperati dai tedeschi.
D'altra parte, che questo ambizioso progetto possa davvero realizzarsi, per giunta in tempi così stretti, è tutto da dimostrare. Perciò adesso mettiamo da parte la fantasia e leggiamo un po' di dati Ocse. Numeri gelidi, impietosi, ma - questi sì - calcolati su base scientifica. Secondo l'organizzazione internazionale, "le economie avanzate stanno rallentando e l'eurozona appare in lieve recessione". Rimangono "seri rischi di peggioramento legati alla possibilità di un default sovrano e dei suoi effetti sui creditori, alla perdita di fiducia nei mercati del debito e nell'unione monetaria stessa". Prospettive particolarmente buie per l'Italia, che l'anno prossimo vedrà contrarsi il suo Pil dello 0,5% (contro il +1,6% prospettato solo sei mesi fa). La disoccupazione, invece, aumenterà all'8,3%.
A questi oscuri presagi si affiancano quelli di un'istituzione per sua natura meno credibile, ma ben più minacciosa. L'agenzia Moody's ha lanciato un allarme catastrofico: le probabilità di più default fra i paesi dell'area euro "non sono più insignificanti". E una serie di fallimenti "aumenterebbe significativamente la possibilità che uno o più paesi, oltre al default, escano da Eurolandia".
Tutti segnali ignorati ieri dai mercati finanziari. In ogni caso l'exploit borsistico di un lunedì finalmente roseo non è sufficiente ad allentare la tensione sul mercato obbligazionario. Lo spread sui nostri titoli di Stato rimane ancora pericolosamente vicino ai 500 punti e nell'ultima asta del Tesoro i Btp a 15 anni sono stati piazzati con un rendimento del 7,30% ( ben oltre quel 7% considerato dagli analisti come soglia di non ritorno).
Oggi e domani Monti sarà a Bruxelles per partecipare a Eurogruppo e Ecofin in qualità di ministro dell'Economia. Quando tornerà, dovrà limare le misure da mettere in campo il prossimo 5 dicembre, quattro giorni prima del vertice europeo. Insomma, non ci rimane molto da attendere. Ancora un paio di settimane e sapremo se ieri le borse hanno avuto ragione.