di Emanuele Vandac

Come noto, la cosiddetta “crisi del debito” euro è causata dalla speculazione internazionale. A differenza di quanto si vuole far credere, il problema non è finanziario, ma politico: nel corso degli ultimi tre anni, i Paesi dell’Area euro hanno dimostrato di non essere in grado di agire di concerto, tanto per impreparazione che per opportunismo politico dettato da problemi domestici.

Una “crisi” che viene da lontano, dunque, e che sfrutta le debolezze intrinseche del sistema Europa per riorganizzare il continente nel modo desiderato dagli Stati Uniti. Per dirne una: che i due uomini della provvidenza siano entrambi italiani e che entrambi si chiamino Mario è un fatto casuale. Che siano o siano stati entrambi alle dipendenze della Goldman Sachs no.

Si sa, situazioni di emergenza richiedono soluzioni estreme: solo facendo appello a un’emergenza - che esiste solo nelle sale cambi delle banche e dei fondi che hanno scatenato la “crisi” - si poteva giustificare la sconvolgente scelta di Germania e Francia di auto-costituirsi in direttorio permanente a baluardo della salvezza dell’euro.

Viene così evocato un altro spettro che per qualche decennio era rimasto chiuso dentro un armadio: l’antica e a quanto pare mai sopita brama germanica di dominare il continente e di imporre a tutti gli altri, i più deboli, i meno organizzati, gli “inferiori”, le sue proprie regole. La specialità di questo gioco demenziale consiste nello spingere i paesi recalcitranti e o politicamente deboli verso il precipizio della dissoluzione della moneta unica al fine di estorcere loro le misure desiderate: ci si augura vivamente che nell’equazione trovi posto anche la considerazione del rischio calcolato che anche chi spinge finisca nel burrone.

Quella di Sarkozy, invece, è semplicemente la brama di un uomo malato di grandeur, desideroso di far bella figura facendosi vedere quanto più possibile in giro con il primo della classe, nella speranza che quest’ultimo lo aiuti durante il compito in classe. In Italia, intanto, viene installato un “tecnico” che ridà fiducia ai mercati facendo una manovra che più italiana non avrebbe potuto essere: una bordata impressionante di tasse, strappate dalle tasche dei soliti noti tra patetismi d’accatto ed evocazioni mesmeriche. Una manovra “facile” in modo imbarazzante, e per giunta svincolata da fastidiose ricadute elettorali; il tutto per dire che, sarà pure un governo “tecnico”, ma gli interessi tutelati, come quelli colpiti, sono sempre gli stessi.

L’Europa, per la verità, ha disperato bisogno di una Banca Centrale Europea che possa sostenere in caso di necessità i governi: come ha fatto, guarda caso, la Federal Reserve. Questo è l’unico caso in cui l’indebita e irritante pressione americana sui governi europei potrebbe effettivamente portare a qualcosa di utile per gli europei. Non appena insediato a Francoforte, l’ex uomo della Goldman Sachs, infatti, ha fatto capire che la BCE è pronta a continuare e perfino a rafforzare gli acquisti di titoli italiani e spagnoli, purché i paesi dell’Eurozona prendano impegni seri e formali in tema di disciplina fiscale.

L’apertura di Draghi arriva, guarda caso, appena qualche giorno prima dell’euro summit dell’8 e 9 dicembre. Il duo Merkel-Sarkozy ha deciso che prenderà decisioni (per lo meno) per gli altri 17 paesi dell’area euro, se non anche per gli altri 10: per questo i due si sono incontrati ieri a Parigi con l’obiettivo di stendere il piano definitivo da lanciare ufficialmente mercoledì. A valle di un colloquio di due ore, si sono fatti immortalare nell’ormai consueta conferenza stampa comune nella quale, tanto per cambiare, hanno fatto sapere di essere d’accordo su tutto.

Il risultato del tête-à-tête è una modifica dei trattati, sulla quale il dinamico duo va avanti a tutta birra, a dispetto della contrarietà di alcuni paesi quali Gran Bretagna, Irlanda e Olanda, che fieramente avversano l’idea, sapendo che ci sono ottime probabilità di perdere i referendum che tassativamente dovrebbero ratificare i cambiamenti (e questo la dice lunga sul curioso significato che sta assumendo la parola “democrazia” nel nostro continente). Questa la bozza che hanno in mente: il nuovo trattato dovrebbe prevedere sanzioni automatiche in caso di sforamento dei limiti di deficit; secondo Reuters una “supermaggioranza” di stati, però, potrebbe immunizzare il paese spendaccione dalla giusta punizione.

Ma gli arzigogoli barocchi per cui gli europei vanno famosi (e per i quali potrebbero rimetterci le penne vien da aggiungere) non finiscono qui. Per compiacere Monsieur, sembra che sarà pure prevista una clausola secondo cui la Corte di Giustizia europea potrebbe essere chiamata a valutare (udite udite!) se i nuovi vincoli di bilancio sono riflessi correttamente nelle legislazioni nazionali degli Stati membri, anche se essa non sarà in grado di rigettare le leggi di bilancio.

La disciplina di bilancio, inoltre, diverrà un dogma di fede da scrivere a chiare lettere nelle costituzioni di tutti gli eurostati. In poche parole, molto rumore per nulla, o quasi. La speranza è che questo topolino partorito dalla montagna possa convincere il sig. Draghi ad aprire i cordoni della borsa o, per meglio dire, far partire le rotative che stampano le variopinte banconote europee. I due capoclasse hanno concluso con il loro convinto nyet sugli eurobond, non sia mai che un debito tedesco possa essere mai confuso con un debito italiano o spagnolo!

Che la preoccupazione americana sia alta si capisce dal fatto che Timothy Geithner, autoinvitatosi, sarà domani in Europa, a dare una mano, alla maniera americana, of course (è la quarta visita da settembre). Incontrerà, in Germania, i boss della BCE e il ministro delle finanze tedesco: non è necessario essere maghi per indovinare che si parlerà di quantitative easing, beninteso nell’esclusivo interesse degli europei.

E se ci fossero dubbi su quanto a Washington siano preoccupati e vogliosi di rendersi utili in tema di riforme europee, arriva anche Standards & Poors’: proprio mentre i due capi europei discutevano, la rating agency ha fatto sapere ai mercati di essere pronta ad abbassare il rating di 15 stati: da ieri sono a rischio di un downgrade di un notch Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Olanda e Lussemburgo; non che cambi molto le cose, ma anche Estonia, Francia, Irlanda, Italia, Malta, Portogallo, Slovacchia, Slovenia and Spagna rischiano un declassamento di ben due livelli.

Poiché, come dice Paul Donovan, un capo della ricerca di UBS Londra, “le azioni dei governi europei negli ultimi tre anni hanno dimostrato l’incapacità di agire collegialmente, la mossa di S&P’s potrebbe rendere più desiderabile una soluzione che ‘blindi’ Francia e Germania”. Il timing dell’agenzia di rating è sospetto, così come fanno pensare le altre circostanze sopra accennate: la Goldman Sachs al governo dell’Italia e della moneta europea e le insistenti visite di Geithner. Proprio niente di casuale.

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