di Carlo Musilli

Non c'è pace per Barclays. La super-Banca inglese tartassata di recente dallo scandalo Libor è già alle prese con nuovi guai giudiziari. Il Serious Fraud Office (Sfo), l'ufficio antifrode del governo britannico, ha aperto un'indagine penale contro l'istituto per una serie di presunte mazzette spedite in Medio Oriente nei giorni più bui della crisi. Bustarelle non da poco, visto che hanno consentito a Barclays di evitare la bancarotta senza finire sotto l'ala protettiva dello Stato (e quindi dei contribuenti), come invece è capitato alla Royal Bank of Scotland e a Lloyds.

Il modo in cui il gigante della City è riuscito a salvarsi in piena tempesta finanziaria la dice lunga sul modello di business prediletto in terra anglosassone. Nel giugno 2008, la Banca inglese ha incassato 4 miliardi e mezzo di sterline dalla Qatar Holding, che fa parte del ricchissimo fondo sovrano dell'Emirato (già azionista di maggioranza dell'Istituto con il 6,65% del capitale). Appena 5 mesi dopo sono affluiti nelle casse di Barclays altri sette miliardi di sterline, stavolta dalle sconfinate tasche dello sceicco Mansur, il miliardario di Abu Dhabi noto ai calciofili come proprietario del Manchester City.

Di per sé queste operazioni non sono illegali e i due investitori non sono accusati di nulla. Il problema è la strada scelta dalla Banca per concludere gli affari: una raffica di mance davvero troppo generose a chi ha avuto la fortuna di fare da intermediario. Una delle più clamorose è stata quella offerta all'affascinante Amanda Stayeley, ex fidanzata del principe Andrea (secondogenito della Regina), che si è vista graziosamente recapitare una paghetta da quaranta milioni di sterline. Il suo unico merito è aver presentato il munifico Mansur ai manager di Barclays. Gente che sa sdebitarsi alla grande, quando le conviene.

In tutto - secondo le ricostruzioni dei giornali inglesi - per concludere la transazione con lo sceicco sono stati sborsati 300 milioni di sterline in commissioni sospette. Altri 100 milioni erano stati investiti nello stesso modo in occasione del maxi accordo con la Quatar Holding.

Prima dello Sfo, su questi stessi fatti aveva aperto un'inchiesta anche la Financial Services Authority (Fsa), la Consob britannica, che però ha il potere di indagare solo su transazioni interne al proprio sistema. I colleghi dell'antifrode invece hanno tutta l'autorità per far luce sull'operato di Barclays in Qatar. Le conseguenze per l'Istituto potrebbero essere quindi molto più gravi del previsto.

Questa nuova tegola si abbatte sulla Banca proprio mentre il management tenta di ripulirsi dal fango che l'ha inondato negli ultimi mesi. Giovedì scorso è stato nominato ufficialmente il nuovo amministratore delegato: Antony Jenkins. Un interno, anzi, un vero hooligan di Barclays, visto che dopo la prestigiosa laurea a Oxford ha passato 30 anni a lavorare per il leone blu. Negli ultimi tempi è stato responsabile della divisione retail and business, il rassicurante settore "depositi e prestiti". Soldi veri, insomma, roba per famiglie. Niente di più lontano dagli oscuri intrighi dell'alta finanza.

Jenkins ha quindi le carte in regola per recitare la parte dell'uomo senza macchia. Ma dovrà mettercela tutta, considerando che avrà l'ingrato compito di sostituire Bob Diamond, l'ex Ceo costretto alle dimissioni dopo lo scandalo legato alla manipolazione del tasso interbancario Libor. La sporca vicenda ha coinvolto anche altri importanti istituti europei, ma nessuno più di Barclays: anche il presidente Marcus Agius è stato costretto a fare i bagagli e a novembre sarà sostituito ufficialmente da David Walker.

"Barclays è una banca universale, con molte attività - ha detto Jenkins mentre si accomodava sul trono -. Abbiamo commesso gravi errori negli anni più recenti e abbiamo chiaramente fallito nel soddisfare le attese dei nostri azionisti. Abbiamo un obbligo nei confronti di clienti, azionisti, colleghi e verso la società. Ma la nostra è anche un'opportunità unica di ristabilire la reputazione di Barclays. Il viaggio richiederà tempo, abbiamo molto da fare, e cominceremo immediatamente".

Sullo scandalo Libor sono state aperte inchieste in Europa e negli Stati Uniti e Barclays ha già patteggiato una multa da 290 milioni di sterline. Ora, mentre vengono fuori altri fattacci, agli investitori non rimane che credere nella buonafede di Jenkins. Membro del Cda dal 2009, non si è mai accorto di nulla.

 

di Carlo Musilli

Non solo Grecia o Spagna, non solo eurozona. A incidere sull'andamento delle borse è anche quello che succede negli Stati Uniti. Ieri in chiusura di seduta tutti i principali listini europei (tranne Londra) hanno accelerato al ribasso dopo le parole di James Bullard, presidente della Federal Reserve di St. Louis. Con un tempismo eccezionale, il banchiere americano ha pensato bene di mortificare le speranze degli investitori di mezzo mondo.

"Penso che i mercati abbiano l'idea di qualche azione gigantesca in arrivo - ha detto in un'intervista alla Cnbc -, ma non sono sicuro che i dati la richiedano davvero. La probabilità non è così alta".  In altre parole, un nuovo round di "quantitative easing" da parte della Banca centrale americana è meno verosimile di quanto si pensi. L'espressione inglese indica un intervento di politica monetaria che punta a stimolare l'economia iniettando liquidità nel sistema tramite l'acquisto di titoli.

Eppure solo due giorni fa era nata la speranza che la Fed potesse riavviare il programma già il mese prossimo. A gettare il seme era stata la pubblicazione dei verbali dell'ultima riunione della Banca centrale Usa. Nel testo si legge che "numerosi membri ritengono necessarie ulteriori azioni finanziarie" da intraprendere "in tempi stretti" per rafforzare il cammino verso la ripresa.

Ma non basta. Ad alimentare l'illusione dei mercati ci ha pensato il Dipartimento del Lavoro americano, che ieri ha pubblicato dati peggiori delle attese sulle richieste dei sussidi di disoccupazione (cresciute in una settimana di 4.000 unità, contro stime che parlavano di una riduzione di 3.000 unità). Il ragionamento degli analisti sembrava lineare: in queste condizioni, il tasso di disoccupazione rimarrà sopra l'8%, un livello che spingerà la Fed a varare le tanto sospirate misure di stimolo.

Nemmeno per sogno. E Bullard ha spiegato il perché, smontando in poche parole le ragioni degli ottimisti. Quei verbali della speranza, in realtà, "sono un po' sorpassati (fanno riferimento a una riunione che si è tenuta fra il 31 luglio e il primo agosto, ndr), perché da allora abbiamo avuto alcuni dati che sono stati un po' più forti". La lentezza con cui l'economia americana si sta risollevando, quindi, con buona pace dei disoccupati, non basta a giustificare un'azione massiccia da parte dell'Istituto centrale. Se la crescita sarà al 2% per il resto dell'anno, la Fed probabilmente eviterà d'intervenire.

Bullard però non si è accontentato di anticipare le mosse della Banca centrale americana. E ha colto l'occasione per dare anche un giudizio sprezzante sui cugini d'oltreoceano, dicendosi "pessimista sulle capacità dell'Europa di affrontare la crisi del debito", a causa della mancanza di istituzioni sufficientemente robuste. I piani della Banca centrale Europea per sostenere i singoli Paesi, inoltre, rischiano - secondo l'americano - di politicizzare le scelte di politica monetaria.

E visto che al massimo si può sperare che l'Eurozona "se la cavi alla meno peggio", agli Stati Uniti non rimane che cercare di reagire: "La crisi europea colpisce l'economia americana - ha concluso Bullard -. Gli effetti diretti della crisi europea ci sono, sono tangibili, ma sono relativamente minori agli effetti di un crollo finanziario".

Il Presidente della Fed di St. Louis entra così di diritto nella tribù dei banchieri smemorati. Quelli che non ricordano - per senilità o malafede - come la crisi europea dei debiti sovrani sia in realtà una succursale americana. Quasi un prodotto d'esportazione, che viaggiando sull'Atlantico ha cambiato forma a poco a poco, ma che in origine aveva le sembianze dei mutui subprime made in Usa.

Le rampogne liberiste suonano ancor più fuori luogo oggi che gli Stati Uniti sono alle prese con un nuovo allarme recessione di cui davvero non possono accusare che se stessi. Appena due giorni fa, il Congressional budget office (l'ufficio d'analisi del Congresso), ha annunciato che il Pil americano rischia di tornare in rosso dello 0,5% nel 2013 (dopo il +2,1% di quest'anno), facendo risalire la disoccupazione di quasi un punto, al 9%.

Il fosco presagio diventerà realtà se non sarà scongiurato il cosiddetto "fiscal cliff", un "precipizio" scavato da una pericolosa combinazione: gli sgravi fiscali in scadenza nel gennaio 2013 e i contemporanei tagli alla spesa già previsti dalla legge. In una parola: austerity. Da tempo la Fed invoca un accordo fra Democratici e Repubblicani per disinnescare la bomba. Ma a novembre ci sono le elezioni presidenziali e la strada del compromesso, almeno per ora, sembra impraticabile.

 

 

di Carlo Musilli

E' una sorta di tour della pietà quello che attende nei prossimi giorni Antonis Samaras. Domani il premier greco accoglierà ad Atene il presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker (che domenica ha definito "tecnicamente possibile" l'uscita del Paese ellenico dall'euro). Il giorno seguente volerà a Berlino per incontrare la cancelliera Angela Merkel, mentre venerdì è atteso a Parigi dal presidente francese, François Hollande.

Per Samaras, lo scopo di questi vertici a ripetizione è uno solo: ottenere due anni in più per rendere operativi tagli e riforme strutturali concordati con la troika (Ue, Bce e Fmi) in cambio dell'ultimo piano d'aiuti. Il termine per riportare il deficit greco al 3% (dall'attuale 9,3%) scivolerebbe così dal 2014 al 2016.

La questione ha già prodotto più d'una frattura politica. La più evidente è quella tra frau Merkel da una parte, Hollande e Monti dall'altra. Se la cancelliera continua a rifiutare ogni revisione delle intese raggiunte con Atene, i leader di Francia e Italia si attestano su posizioni ben più morbide, terrorizzati dal possibile contagio greco su Roma e Madrid, che metterebbe anche Parigi a rischio infezione. Lo scudo anti-spread su cui sta ragionando la Bce ridurrebbe il pericolo di un'epidemia, ma l'opposizione della Germania è totale anche su questo fronte. Di tutto questo si parlerà nel corso di altri due vertici bilaterali: il primo dopodomani fra Hollande e Merkel, il secondo mercoledì 29 fra la cancelliera e Monti.

Restringendo la prospettiva, un'altra spaccatura legata alla Grecia è quella che minaccia di aprirsi nel Parlamento tedesco. Purtroppo per la Merkel, falchi e colombe coesistono anche all'interno di Cdu e Fdp, i due partiti di governo. Sabato il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, ha escluso l'ipotesi di nuovi aiuti ad Atene, sostenendo che sarebbe "stupido non preparare" un piano B per l'uscita del Paese dall'Eurozona. Di tutt'altro avviso il commissario europeo all'industria, il democristiano tedesco Guenther Oettinger, secondo cui "bisogna fare di tutto per mantenere la Grecia nell'euro, perché se fallissimo con un Paese il cui debito sovrano è solo il 3% del Pil dell'eurozona, nessuno avrebbe più fiducia in noi".

La sensazione è che i falchi siano destinati a prevalere, ma non in virtù di una superiore lungimiranza economica, quanto per mere ragioni di politica interna. Manca poco più di un anno alle elezioni politiche federali e in Germania il clima è già da campagna elettorale. Sembrerà assurdo, ma il rigorismo e l'intransigenza pagano: a inizio luglio la popolarità della Merkel era al 66%, il livello più alto degli ultimi tre anni.

Ogni giorno da Berlino si ripete che l'addio della Grecia all'eurozona sarebbe gestibile e il sospetto è che si tratti proprio di un bluff a fini politici. Forse gli elettori sarebbero felici di non doversi più preoccupare per Atene, ma le banche tedesche lo sarebbero molto meno, considerando che sono fra le più esposte in assoluto al debito ellenico.

Dal punto di vista greco, invece, la proroga di due anni sarebbe il minimo per ridare al Paese una flebile speranza di uscire prima o poi dalla recessione. Anzi, probabilmente questa concessione da sola non basterebbe. A prescindere dal fattore tempo, la Grecia ha in cantiere una nuova infornata di misure da macelleria sociale che risolleverà forse le finanze pubbliche, ma aggraverà ulteriormente la situazione dell'economia reale.

Secondo la stampa ellenica, il governo avrebbe quasi definito tutti i settori in cui operare i tagli da 11,5 miliardi di euro chiesti dalla troika. Lunedì mancavano all'appello solo 700 milioni, ma ieri era in agenda una riunione decisiva per chiudere la partita. Sembra che nel pacchetto allo studio siano previste nuove sforbiciate a stipendi pubblici, sanità e pensioni, oltre a una riduzione di 34mila unità dei dipendenti statali. Fonti ministeriali rivelano che l'obiettivo è ottenere il via libera della troika al piano entro metà settembre.

Sabato scorso, tuttavia, il settimanale tedesco Der Spiegel aveva scritto che la Grecia avrà bisogno complessivamente di 14 miliardi. Nel loro ultimo sopralluogo, i tecnici di Ue, Bce e Fmi avrebbero scoperto un nuovo buco di 2,5 miliardi di euro nel fabbisogno ellenico per il prossimo biennio, che si sommerebbe a quello su cui sono già stati calcolati i tagli.

Ieri intanto il Tesoro di Atene ha estinto un debito da 3,2 miliardi di euro arrivato in scadenza con la Bce. La settimana scorsa il Paese aveva concluso un'asta record di titoli di Stato a tre mesi proprio allo scopo di restituire il prestito a Francoforte e allontanare così lo spettro della bancarotta. Almeno per il momento. 

 

di Carlo Musilli

Si può mettere in piedi la truffa del secolo e poi riuscire a farla franca? Certo, basta essere una delle Banche d'affari più potenti e spietate al mondo. Basta chiamarsi Goldman Sachs. Dopo un anno d'indagini insieme all'Fbi, il Dipartimento della Giustizia americano ha stabilito che non ci sono prove sufficienti per perseguire penalmente il colosso di Wall Street in relazione allo scandalo dei mutui subprime del 2008. Rimarrà quindi senza colpevoli lo scempio speculativo all'origine dell'intera crisi globale, compresa quella dei debiti sovrani europei.

Com'è possibile un tale livello d'impunità? Le indagini erano partite da un duro rapporto del Congresso in cui Goldman era accusata di aver ingannato deliberatamente i propri clienti pur di trarre profitto da manovre iper-aggressive sui derivati. Secondo il senatore democratico Carl Levin, presidente della Commissione d'inchiesta, la Banca avrebbe mentito perfino al Congresso sulle operazioni legate al mercato immobiliare.

In sintesi, l'istituto scommetteva segretamente sul crollo, ma allo stesso tempo piazzava i titoli legati ai subprime spacciandoli per investimenti sicuri. Come se un gioielliere vendesse bulloni e chiavi inglesi allo stesso prezzo dei diamanti. Il raggiro è stato possibile grazie alla complicità delle agenzie di rating, che, in un incredibile conflitto d'interessi (erano pagate dalle stesse banche che emettevano i titoli), attribuivano a questi derivati il massimo giudizio d'affidabilità possibile, la mitica "tripla A".

All'inizio gli attori di questa gigantesca associazione a delinquere erano accecati dai guadagni favolosi che riuscivano a incassare. Poi si sono accorti che i titoli garantiti dai subprime erano carta straccia, perché gli americani non sarebbero più stati in grado di ripagare i mutui (o meglio: non lo erano mai stati, ma a un certo punto i prezzi delle case hanno smesso di salire, rendendo impossibile il giochetto di estinguere il vecchio mutuo con uno nuovo d'importo superiore). Ma hanno continuato con il loro business come nulla fosse. In fondo, l'alta finanza è una materia incomprensibile per i comuni mortali. Truffare è facilissimo, una tentazione irresistibile.

Nel dettaglio, il rapporto del Congresso fa riferimento a un'operazione di questo tipo chiamata Abacus 2007-AC1. Come sanzione per questa frode Goldman ha già pagato alla Sec (la Consob americana) una multa record da 550 milioni di dollari. Ed è stato un patteggiamento.

Quanto detto fin qui sarebbe teoricamente sufficiente a far esplodere una sollevazione popolare. A Washington lo sanno, per questo il Dipartimento di Giustizia si è affrettato a precisare che potrebbe intraprendere nuove azioni contro l'istituto se e quando emergeranno nuove prove. Non solo: ha anche ribadito che la lotta alle truffe finanziarie continua a essere una priorità assoluta.

Nelle intenzioni le autorità americane sono encomiabili. Nei fatti un po' meno. E non bisogna essere poi così malevoli per ricordare le generose donazioni arrivate proprio da Goldman Sachs alla prima campagna elettorale di Barack Obama, che in questi mesi è impegnato nella seconda. In effetti, di ricompense alla Banca ne erano già arrivate da parte dell'attuale amministrazione democratica. Ad esempio un prestito da 9 miliardi di dollari con cui non solo l'istituto si salvò dal fallimento, ma tornò addirittura in utile già nel 2010.

In casa Goldman sono però abituati a ricevere regalini apparentemente immeritati da governi e presidenti vari. E' successo di recente anche con l'Italia. Nel secondo trimestre del 2012 la Banca ha quasi azzerato l'esposizione sul nostro Paese: i titoli pubblici italiani sono praticamente scomparsi dal suo portafoglio (passando da 2,5 miliardi ad appena 191 milioni di dollari), mentre sono aumentati i derivati che assicurano da un eventuale default di Roma.

Non esiste un modo più sfacciato di scommettere sulla nostra bancarotta. Eppure proprio l'istituto americano è stato scelto dalla Cassa depositi e prestiti (controllata al 70% dal Tesoro) come consulente per acquistare il 30% di Snam da Eni, la cui separazione è stabilita dal decreto sulle liberalizzazioni. Nota storica: tra il 2005 e il 2011 l'attuale premier Mario Monti è stato international advisor per Goldman Sachs. Davvero una delle banche più potenti al mondo.  

 

di Carlo Musilli

La giostra degli scandali made in Britain non smette di girare. In piena noia agostana, le banche inglesi hanno deciso di stupirci con due nuove puntate della serie "I furbetti della City". La più interessante riguarda una valanga di polizze assicurative irregolari e paradossalmente produrrà effetti positivi sul Pil britannico. La seconda ha visto scendere in campo le autorità di controllo statunitensi per alcune transazioni sospette con l'Iran.

Iniziamo dalle polizze della discordia. La Financial Services Authority (la Consob inglese) ha ordinato ai cinque maggiori istituti di Sua Maestà di restituire i soldi incassati tramite i cosiddetti Ppi (Payment protection insurance). Si tratta di assicurazioni legate a mutui immobiliari e finanziamenti piazzate sul mercato con troppa allegria. Fra i clienti vittime di raggiro, centinaia di migliaia, molti sono stati indotti a sottoscriverle pur non avendo i titoli per, eventualmente, riscuoterle. Altri invece non ne avevano nemmeno fatto richiesta.

Per far fronte ai maxi rimborsi, le banche sono state costrette ad accantonare in tutto 11,34 miliardi di euro (9 miliardi di sterline). Secondo un'inchiesta del Financial Times, erano già stati pagati circa 4,8 miliardi di sterline fra il gennaio 2011 la fine dello scorso maggio. Gli istituti coinvolti sono Lloyds, Hsbc, Rbs, Barclays e Santander Uk. L'ultimo tecnicamente fa capo al colosso spagnolo Santander, ma nel Regno Unito si piazza al terzo posto per i depositi, al secondo per i mutui.

In modo perverso e un po' ironico, questa "paccata" di soldi in arrivo (per dirla con Fornero) avrà un effetto più che benefico sulle tasche degli inglesi. Qualcosa di simile a un taglio delle tasse. In termini di stimolo ai consumi, l'iniezione di liquidità nel sistema sarà più ampia di quella garantita dalle manovre del governo Cameron. La cifra in ballo è talmente alta che l'Office of Budget Responsibility ha ritoccato in positivo dello 0,5% i dati sul reddito disponibile per le famiglie. E la stima è per difetto, visto che prende in considerazione solo 6 dei 9 miliardi accantonati. Una cifra che a sua volta potrebbe salire fino a 15 miliardi, pari all'1% del Pil britannico.

La boccata d'ossigeno arriva con un tempismo davvero formidabile, visto che proprio ieri la Bank of England ha tagliato le previsioni sull'andamento dell'economia. Ora l'Istituto centrale ritiene che quest'anno la crescita del Pil si fermerà vicino allo zero, contro il +0,8% indicato nelle stime precedenti. Nel 2014 invece il tasso dovrebbe viaggiare intorno al +2%, ben al di sotto del +2,67% annunciato a maggio.

Non è finita: nel secondo trimestre del 2012 il Regno Unito ha registrato una flessione dello 0,7%, la più grave degli ultimi tre anni. Insomma, ora che i sudditi della Regina hanno più bisogno di soldi, le loro principali banche saranno costrette ad aprire i forzieri. Poco importa che per arrivare alla meta abbiano scelto la via più ingloriosa.

Ma lo scandalo dei Ppi è solo l'ultimo di una serie che negli ultimi tempi ha travolto i big della City. Ormai è storia la manipolazione del tasso interbancario Libor, che ha coinvolto diversi istituti (non solo inglesi), causando la clamorosa sostituzione dei vertici di Barclays. Sembra ormai archiviato anche il caso di Hsbc, pizzicata a riciclare i miliardi dei narcotrafficanti messicani. In entrambi i casi l'accusa è partita dai regolatori americani, che ancora non sembrano affatto stanchi di denunciare le malefatte british.

L'ultimo anatema è arrivato dal Department financial service di New York, che si è scagliato contro Standard Chartered, la cui attività si svolge prevalentemente in Asia, per aver ignorato il bando contro l'Iran (legato alle sanzioni per il programma nucleare) portando a termine circa 60.000 transazioni per 250 miliardi di dollari. E pare che nel mirino degli Usa ci siano anche altre operazioni dello stesso istituto in Myanmar, Sudan e Libia.

Standard Chartered però si è dimostrata molto meno remissiva delle sue sorelle inglesi, che si sono fulmineamente pentite dei propri peccati. Offesa dall'etichetta di "Banca canaglia", come è stata definita nel rapporto del Dfs, è passata subito al contrattacco, sostenendo che le transazioni non eseguite a norma di legge ammonterebbero a soli 14 milioni di dollari. La trama si complica. Appuntamento alla prossima puntata.    

 

 

 

 


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