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di Carlo Musilli
La differenza tra un Fondo salva-Stati e uno Stato che si salva è la stessa che passa tra finanza e economia reale. La condizione sociale dei comuni cittadini non migliorerà quindi grazie al tanto atteso Esm. L'acronimo inglese sta per "European Stability Mechanism", il nuovo strumento inaugurato lunedì in Lussemburgo dai ministri delle Finanze dell'Eurozona.
Si tratta di un fondo permanente che nel tempo sostituirà i due fondi provvisori Efsf e Efsm. La sua capacità di prestito, a pieno regime, arriverà a 500 miliardi di euro. A beneficiarne saranno i Paesi di Eruolandia in crisi finanziaria, che potranno richiedere l'intervento dell'Esm per raffreddare gli spread. Il Fondo è abilitato ad acquistare titoli di Stato sul mercato primario (dove vengono collocati i bond di nuova emissione) e secondario (dove si scambiano i titoli già in circolazione), in modo da abbassare i tassi d'interesse e scoraggiare la speculazione internazionale.
Non solo: potrà anche prestare soldi direttamente alle banche, senza passare attraverso la mediazione dei singoli Stati ed evitando quindi di appesantire i debiti pubblici. Questo secondo potere tuttavia gli sarà conferito solo quando la vigilanza sugli istituti di credito dell'Eurozona sarà accentrata nelle mani della Bce. Su questo punto manca ancora il via libera della Germania e "ci vorrà ancora un po' di tempo", come ha ammesso il direttore dell'Esm, il tedesco Klaus Regling.
Dal punto di vista dei singoli Paesi, la riduzione dei differenziali renderà i debiti sovrani più sostenibili, allontanando lo spettro della bancarotta. Gli Stati che riceveranno l'aiuto del Fondo potranno quindi risparmiare sugli interessi da pagare ogni anno per finanziarsi sui mercati. E' bene chiarire però che tutto questo non si tradurrà affatto in una maggiore disponibilità di fondi per la spesa pubblica. E' solo finanza.
I soldi in arrivo dall'Esm serviranno ad evitare i default delle banche e delle casse pubbliche: non saranno mai impiegati per reindirizzare le politiche di spesa. Nemmeno un euro per l'industria, i consumi o l'occupazione. Con tutto ciò il Fondo salva-Stati non ha nulla a che vedere.
A questo punto si potrebbe avanzare un'obiezione: se l'Esm evita il fallimento dello Stato, non mette forse le basi per il successivo rilancio dell'economia? Purtroppo no. Per ottenere gli aiuti, il Paese in difficoltà dovrà prima siglare con il Fondo un "memorandum of understanding", ossia un accordo in cui sono specificare le condizioni necessarie per l'avvio dei prestiti. La stessa trafila sarà necessaria anche per attivare il piano Omt della Banca centrale europea, che prevede acquisti "illimitati" di titoli Stato (quindi potenzialmente molto maggiori rispetto a quelli dell'Esm).
E' proprio questo memorandum il punto centrale: il rischio è che popolazioni già prostrate dall'austerità si vedano imporre nuove misure di rigore volte esclusivamente a stabilizzare i conti. Poco importa se gli effetti sull'economia reale saranno inevitabilmente recessivi. Il crollo del Pil è visto come un danno collaterale da sopportare con rassegnazione.
E' questa la ragione per cui la Spagna non si è ancora decisa a presentare una formale richiesta di aiuti, pur avendone evidentemente bisogno. Madrid ha da poco varato tagli alla spesa e aumenti d'imposte per 40 miliardi, che si aggiungono alla stangata da 65 miliardi approvata solo cinque mesi fa con la finanziaria 2012. Ora l'Esecutivo di Mariano Rajoy teme che il ricorso all'Esm possa dare l'occasione a Bruxelles di esigere l'ennesima infornata d'interventi anti-deficit e pro-recessione. Con buona pace degli indignados e di tutti gli spagnoli che nelle ultime settimana sono scesi in piazza per protestare.
In Italia simili manifestazioni di ribellione non si vedono, eppure non è un caso se il premier Mario Monti, dopo aver sostenuto la creazione dell'Esm, si è subito affannato a spiegare che il nostro Paese non ne avrà bisogno. A Palazzo Chigi sanno benissimo che, quando la Spagna chiederà aiuto, buona parte degli speculatori ripiegherà sui mercati italiani. A quel punto anche Roma potrebbe essere costretta ad implorare l'intervento del Fondo, eventualmente affiancato o sostituito dalla Bce.
Tutto questo in uno scenario sempre più drammatico, visto che due giorni fa il Fondo monetario internazionale ha tagliato nuovamente le stime sul nostro Pil (-2,3% nel 2012 e -0,7% nel 2013). Ecco perché il salva-Stati, nonostante il nome, dovrebbe farci sempre più paura.
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di Carlo Musilli
Fra le grandi banche d'affari americane era l'unica ad essersi salvata, ma ora anche per lei è arrivato il conto da pagare. Lo Stato di New York ha fatto causa a JP Morgan, chiedendole di restituire i soldi rubati con la truffa del secolo, quella dei mutui subprime. La stessa che prima ha fatto esplodere la finanza americana, poi ha contagiato l'intera Europa, trasformandosi a poco a poco in crisi dei debiti sovrani.
In realtà, sulla Banca ricadono i peccati di quella che oggi è una sua controllata. Le vere responsabilità sono di un istituto assai meno prestigioso, Bear Sterns, sotto accusa per aver venduto a peso d'oro (e in mala fede) titoli derivati che sapeva essere carta straccia. A garantirli erano infatti i malefici subprime.
Lunedì il procuratore generale di New York, Eric Schneiderman, ha chiesto la restituzione di tutte le commissioni e dei guadagni ottenuti dalla vendita di quegli oscuri prodotti finanziari, oltre agli interessi e a una compensazione. JP Morgan non ci sta e ha annunciato di voler "contestare le accuse".
All'orizzonte però si profila un patteggiamento da almeno tre miliardi di dollari. Una cifra significativa, visto che la Banca sta già accumulando autonomamente perdite che potrebbero raggiungere i sette miliardi. A scavare il buco nei conti sono state altre scommesse sui derivati effettuate tra il 2011 e i primi mesi del 2012.
Le operazioni nel mirino della giustizia Usa risalgono invece al 2006-2007 e si stima abbiano causato perdite agli investitori per 22,5 miliardi di dollari. Nel marzo 2008 il governo statunitense ha praticamente costretto JP Morgan ad acquistare Bear Sterns perché non fallisse. Bisognava evitare di ripetere l'errore commesso con Lehman Brothers, che dichiarando bancarotta aveva innescato il crollo globale.
In quel caso, Washington non aveva mosso un dito per ragioni essenzialmente politiche: in piena campagna elettorale l'opinione pubblica non avrebbe gradito l'ennesimo salvataggio bancario a spese dei contribuenti, né si poteva lasciar intendere agli altri istituti che lo Stato fosse sempre e comunque la loro rete di sicurezza. Purtroppo nessuno aveva previsto quello che sarebbe successo: il sistema di interconnessioni che imbriglia come una rete la finanza contemporanea ha scatenato l'effetto domino di cui ancora oggi subiamo le conseguenze.
E tutto questo è iniziato dai subprime, che funzionavano con un meccanismo semplice e allo stesso tempo suicida. In sintesi, quando un americano non riusciva più a pagare il mutuo ne accendeva un altro di importo superiore, perché il valore della sua casa nel frattempo era salito. A quel punto estingueva ciò che restava del mutuo precedente e si intascava la differenza.
Ma appena i prezzi delle case hanno smesso di salire, com'era ovvio, il giochino ha smesso di funzionare: la gente comune non è più stata in grado di ripagare i debiti e ha perso tutto. Nel frattempo le banche - inclusa Bear Sterns - avevano emesso titoli garantiti proprio dai subprime. E lo avevano fatto ingannando gli investitori sulla reale affidabilità di quei mutui. Il tutto con la decisiva complicità delle agenzie di rating (pagate dalle stesse banche), che assegnavano a quei prodotti la tanto sospirata tripla A, il voto massimo.
Quella contro JP Morgan è la prima causa aperta dopo la nascita di una nuova task force tra organismi federali e locali, creata nel gennaio scorso dall'amministrazione di Barack Obama per perseguire vecchie e nuove truffe finanziarie. Secondo il Wall Street Journal, l'obiettivo sarebbe di coordinare una fitta serie di ricorsi legati alla passata crisi.
Schneiderman, che è anche co-presidente della task force, ha assicurato che intende prendere provvedimenti anche nei confronti di altri istituti, così da recuperare "decine di miliardi di dollari". Questa prima operazione, ha aggiunto, "sarà un modello per azioni future contro chi ha emesso questo tipo di titoli truffando gli investitori e sottraendo la casa a milioni di americani. Dobbiamo punire la condotta illecita e ingannevole che ha creato la bolla immobiliare. Dobbiamo dare giustizia agli americani".
Un obiettivo senz'altro lodevole, ma la tempistica è quantomeno sospetta. "Non è molto chiaro perché l’accusa sia stata lanciata solo adesso - si chiede il Financial Times -, molti anni dopo che sono state avviate altre cause minori". Ben 10 mesi dopo la nascita della task force. E soprattutto a poco più di un mese dalle elezioni presidenziali.
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di Carlo Musilli
Si apre oggi un mese decisivo per l'eurozona, chiamata a trovare una cura convincente per due malati terminali. L'Eurogruppo dell'8 ottobre e il Consiglio Ue del 18-19 decideranno il destino di Grecia e Spagna, che affannosamente cercano di portare a termine i loro compiti a casa. Atene sta varando l'ennesimo pacchetto d'austerità per ottenere la prossima tranche di aiuti internazionali, ma sa già che quei prestiti non basteranno.
Madrid invece ha dato il via libera a nuovi tagli di spesa e deve trovare il modo di accedere ai fondi europei senza che Bruxelles imponga provvedimenti ancor più pesanti. Intanto, in entrambi i Paesi vanno in scena le crisi sociali più drammatiche degli ultimi decenni, con scioperi e scontri di piazza all'ordine del giorno.
Ieri gli ispettori della Troika (Ue, Fmi e Bce) sono tornati nella capitale ellenica. Il loro compito è valutare gli interventi da 13,5 miliardi di euro sui quali il governo greco sembra finalmente aver raggiunto un accordo, come annunciato venerdì dal ministro delle Finanze Yannis Stournaras. Secondo fonti della stampa tedesca la Troika considera il programma insufficiente - si parla anche di un nuovo misterioso buco nel bilancio pubblico - ma alla Grecia sarà comunque consentito di incamerare la fetta d'aiuti da 31,5 miliardi congelata a maggio dopo la caduta del governo Papademos.
Atene chiede poi di rinviare dal 2014 al 2016 il termine per applicare le misure d'austerità, il che implicherebbe un costo aggiuntivo fra i 13 e i 15 miliardi. Anche se la proroga verrà concessa (l'opposizione della Germania su questo fronte sembra essersi attenuata) non è affatto detto che sarà sufficiente ad alleviare le sofferenze della popolazione. Il membro tedesco della Bce Joerg Asmussen ritiene anzi che la Grecia avrà bisogno di aiuti internazionali per almeno altri 20 miliardi, mentre l'Fmi invoca una nuova ristrutturazione del debito ellenico, stavolta a spese proprio dell'Eurotower, che detiene 28 miliardi di bond greci in scadenza nel 2016. Da Francoforte però hanno già escluso l'ipotesi.
La situazione spagnola è invece quella che tocca più da vicino l'Italia, al numero uno nella lista dei Paesi esposti al rischio contagio. La settimana scorsa Madrid ha dovuto correggere le sue valutazioni sui conti pubblici: il deficit del 2011, inizialmente previsto all'8,9% del Pil, è stato rivisto al 9,44%, mentre a fine 2012 arriverà al 7,4%, contro il 6,3% promesso all'Ue.
Il ministro del Bilancio, Cristobal Montoro, ha spiegato che l'aumento è legato agli aiuti pubblici concessi alle banche, aggiungendo poi con grande ottimismo che gli istituti restituiranno quel denaro e dunque l'obiettivo di deficit per quest'anno non può considerarsi sforato.
Quanto al debito pubblico, nel 2012 salirà all'85% del Pil, mentre l'anno prossimo arriverà al 90,5%. L'aumento, anche in questo caso maggiore del previsto, è legato principalmente all'impennata degli spread (nel 2013 gli interessi da pagare aumenteranno del 34%) e al piano europeo per il salvataggio delle banche spagnole, quantificato in 60 miliardi.
In questo scenario, mercoledì l'Esecutivo di Mariano Rajoy ha varato tagli di spesa e aumenti d'imposte per 40 miliardi, che si aggiungono alla stangata da 65 miliardi approvata solo cinque mesi fa con la finanziaria 2012.
Il governo continua però a rinviare la richiesta d'attivazione dello scudo antispread targato Bce. Con un differenziale ancora a quota 450, la maggior parte degli analisti ritiene che l'intervento dell'istituto centrale sia ormai una scelta obbligata. Perché allora Madrid temporeggia?
Per ottenere l'assistenza di Francoforte è necessario siglare prima un'intesa con l'Esm, il nuovo fondo salva Stati permanente che sarà inaugurato l'8 ottobre e capitalizzato il 22. I nodi cruciali che spaventano gli spagnoli sono due: lo status di creditore privilegiato del nuovo fondo (che avrebbe diritto ad essere rimborsato per primo, scoraggiando i prestiti degli altri investitori) e la possibilità che nel memorandum vengano imposte misure aggiuntive su pressione di Paesi come Germania, Finlandia e Olanda.
Questo secondo punto è un problema di capitale importanza anche per l'Italia. Se, come previsto, la Spagna chiederà aiuto all'Esm entro breve, è quasi scontato che gli speculatori si sposteranno in massa a scommettere contro il nostro Paese, che a quel punto potrebbe esser costretto a sua volta ad avviare le procedure per ottenere il soccorso internazionale. Ma a quali condizioni?
E' questa la domanda fondamentale a cui nelle prossime settimane bisognerà rispondere. L'Europa potrebbe richiedere nuove strette fiscali che aggraverebbero ulteriormente la recessione, con conseguenze inevitabili su consumi e occupazione. Quello che sta per accadere a Madrid dirà molto anche del nostro futuro.
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di Carlo Musilli
Dopo tre mesi di prigionia, l'ostaggio è finalmente libero. Ieri la Corte costituzionale tedesca ha stabilito che il fiscal compact europeo e il nuovo fondo salva-Stati Esm (European stability mechanism) non sono in contrasto con le leggi della Germania. Possono dunque entrare in vigore. Il via libero non è però senza condizioni: la sentenza degli otto giudici impone che la partecipazione di Berlino all'Esm si limiti ai 190 miliardi di euro già stanziati dal governo di Angela Merkel.
Ogni contributo ulteriore dovrà essere approvato dal Bundestag (la Camera bassa del Parlamento), previa consultazione del Bundesrat (il Consiglio federale). Entrambi gli organi dovranno poi essere costantemente informati sull'attività del Fondo, che inizierà l'8 ottobre con la riunione inaugurale, come annunciato dal presidente dell'Eurogruppo, Jean Claude Juncker.
La Corte di Karlsruhe ha quindi respinto nella sostanza il ricorso presentato a luglio da una sfilza di cittadini, accademici e parlamentari tedeschi (alcuni dei quali militano nello stesso partito della cancelliera). Secondo i detrattori, l'Esm avrebbe affidato ad autorità non elette, come la Bce e la Commissione europea, la gestione di risorse prodotte dai contribuenti tedeschi. Da bravi salomoni, i giudici hanno evitato di mandare all'aria l'intero disegno europeo e allo stesso tempo, con quel paletto finale, hanno placato i timori dei connazionali: il Fondo non potrà costare più di quanto previsto. Il rischio è controllato.
L'Esm è stato concepito al Consiglio europeo di fine giugno e il progetto era di renderlo operativo entro luglio, dopo la ratifica dei parlamenti nazionali. Il ricorso tedesco ha fatto slittare tutto, esponendo i mercati a un vortice di speculazione estiva che per fortuna non si è scatenato.
Ma cosa sarebbe successo se da Karlsruhe fosse arrivato un "nein"? Oltre a sconfessare clamorosamente, e in piena campagna elettorale, una decisione già presa dal governo tedesco, i giudici avrebbero affossato l'intero continente. Con l'addio all'Esm, l'Europa sarebbe stata scippata all'improvviso dello strumento più potente mai allestito contro la speculazione. La fiducia dei mercati sarebbe finita sotto lo zero, così come la credibilità dei capi di Stato e di governo, incapaci per l'ennesima volta di mantenere gli impegni presi.
A scongiurare in parte questo scenario, in realtà, ci aveva già pensato Mario Draghi. La settimana scorsa il Presidente della Bce aveva stretto una morsa intorno al collo dei tedeschi con il nuovo scudo antispread. In sostanza, l'Eurotower si è impegnata ad abbassare i differenziali acquistando "senza limiti ex ante" titoli di Stato sul mercato secondario.
Per beneficiarne, tuttavia, i Paesi in crisi dovranno prima negoziare un piano d'aiuti con il futuro Esm oppure - ed ecco il colpo di genio - con l'Efsf, il fondo già attivo. Una postilla che ha scaricato la pistola in mano ai giudici tedeschi: in caso di bocciatura dell'Esm, Bruxelles avrebbe potuto allungare la vita dell'Efsf, delegando alla Bce e al Fmi le funzioni del fondo mai nato. Draghi è arrivato a questo risultato isolando nel board dell'Eurotower il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che è stato l'unico a votare contro lo scudo. Ora, con la sentenza di Karlsruhe, la vittoria del banchiere italiano è completa.
Il verdetto segna anche un importante successo di Angela Merkel contro i falchi che infestano la sua maggioranza. Dopo aver spalleggiato l'operazione di Draghi, ieri la cancelliera ha accolto positivamente il via libera dei giudici: "Oggi è una buona giornata per l'Europa - ha detto - la Germania lancia un segnale forte e si assume le sue responsabilità". Fino a ieri regina del rigorismo più ottuso, a questo punto frau Merkel rischia di essere ricordata come la statista che ha salvato l'euro. Paradossi della storia.
Nel frattempo, i mercati festeggiano. Non tanto quelli azionari, che avevano già assorbito l'esito di una decisione data per scontata (Milano è stata la migliore con un +1,19%), quanto quelli obbligazionari. Lo spread fra Btp e Bund è sceso fino a 341 punti base, con rendimenti sui bond decennali al 5%. Felice l'intuizione del Tesoro italiano, che ha deciso di mettere in asta proprio ieri Bot a tre mesi e a un anno per complessivi 12 miliardi. Il risultato è stato più che positivo: domanda buona e tassi d'interesse in calo. Ecco perché non c'è da stupirsi che il premier Mario Monti abbia accolto la sentenza tedesca con il massimo dell'entusiasmo concesso ai professori. L'ha definita "una buona notizia". Anzi, "ottima ".
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Alla vigilia della decisione della Corte Costituzionale tedesca sulla legittimità del Meccanisco europeo di stabilità (ESM) e del Fiscal Compact, una risoluzione che potrebbe compromettere le sorti delle misure anticrisi approvate di recente dalla Banca centrale europea (Bce), Angela Merkel esprime le sue preoccupazioni per l’eventuale uscita della Grecia dalla zona euro, sostenendo in maniera implicita Mario Draghi ed esprimendosi, quasi a sorpresa, contro la maggioranza dei tedeschi stessi.
A riportare le preoccupazioni di Angela Merkel è Spiegelonline, il sito che fa capo all’autorevole settimanale tedesco Der Spiegel. L’uscita della Grecia dalla moneta unica potrebbe scatenare un effetto domino simile a quello causato dalla bancarotta di Lehmann Brothers nell’autunno 2008, avvertono gli esperti che stanno vicini alla Cancelliera tedesca, e in questo caso la sola Germania brucerebbe un importo pari a 62 miliardi di euro.
Anche i costi politici di una tal evoluzione della crisi del debito non sono da sottovalutare: nel caso in cui si producesse il suddetto effetto domino, la Germania dovrebbe intervenire a stabilizzare l’economia degli altri Stati problematici e difficilmente potrebbe evitare una misura per la comunione dei debiti.
Se le preoccupazioni espresse da Angela Merkel influenzaranno la decisione della Corte Costituzionale tedesca sulla legittimità del fondo di sostegno finanziario, lo si vedrà nella cui riunione prevista per mercoledì prossimo. Per ora le parole della Cancelliera non hanno che rafforzato l’impressione di un suo sostegno alle riforme anti-spread approvate settimana scorsa dalla Bce, misure in realtà poco simpatiche alla Germania tutta, istituzioni e popolo.
Il presidente Mario Draghi ha infatti annunciato l’intenzione di comprare i titoli di Stato dei Paesi che richiedono l’assistenza finanziaria dell’Europa, mettendo in gioco le sue risorse finanziarie. Agli acquisti non sono stati posti limiti. Certo il prezzo da pagare per gli interventi di supporto sono condizioni molto rigorose e, in assenza di eventuali riforme concordate, la Bce potrebbe decidere di interrompere i suoi acquisti.
Contrariamente a ogni aspettativa, la svolta ha da subito ottenuto il consenso implicito di Angela Merkel, che ha sottolineato - in maniera molto diplomatica - come la Bce agisca in modo indipendente proprio nel quadro del suo mandato. I timori per un’uscita della Grecia dall’euro non fanno altro che rafforzare l’idea di una Cancelliera ormai rassegnata alla sottomissione alle decisioni dell’Unione europea.
Secondo la stampa tedesca, infatti, la reazione positiva della Cancelliera, inaspettata e implicita, potrebbe segnalare la consapevolezza della Merkel di non essere più in grado di opporsi al cerchio di sostenitori di Draghi, indipendentemente da una vera e propria convinzione personale.
Ma Berlino, nonostante la titubanza della Merkel, continua a dire no. Un intervento di acquisti della Bce violerebbe le convenienze dirette della Germania: Berlino teme, in particolare, un aumento generale dell’inflazione, che non porterebbe svantaggi solo all’economia tedesca.
Un sondaggio di Infratest ha mostrato che più della metà dei tedeschi è contraria all’acquisto dei fondi da parte della Bce, mentre poco più del 10% è favorevole. Anche il Presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, rappresentane della Banca federale alla Bce, è contrario. Lo ha annunciato la Bundesbank stessa in una nota ufficiale, precisando che il piano della Bce potrebbe far slittare le riforme nei Paesi a rischio.
E ora i mercati non possono che aspettare impazienti il voto della Corte Costituzionale di mercoledì: un no significherebbe l’impossibilità per il presidente tedesco di firmare i decreti dei provvedimenti ESM e Fiscal Pact e metterebbe in discussione le riforme approvate di recente da Draghi. Alla creatività dei fanta- economisti le conseguenze di una tale risoluzione.