di Liliana Adamo

Fra accademici blasonati che fanno tanto diplomacy British style e figure aziendali di spicco (il delegato della Nestlè, Peter Brabeck-Letmathe), l’incontro di Re/source 2012 si è concluso la settimana scorsa in quel di Oxford; presenti, tra l’altro, un premio Nobel di sicuro impatto, l’economista Amartya Sen e, per ovviare al social equality, gli habitué dei “circoli minoritari”: il presidente del Ruanda, Paul Kagame, David Nabarro, rappresentante delle Nazioni Unite per la sicurezza alimentare e la nutrizione, Camilla Toulmin per l’Istituto Internazionale Ambiente e Sviluppo. Una “due giorni” di colloqui pubblici, al pari di una “Open University”, giusto per subodorare problematiche grandi come una casa.

E se, dipanandosi nel dibattito, lo scenario diventa veramente cupo, le soluzioni sembrano essere a portata di mano finché c’è ancora il tempo, fungendo da briefing per quei politici sufficientemente consapevoli che il problema esiste e come tale va affrontato.

Sintomatico che proprio la Toulmin, abbia più volte ripetuto di come finanzieri e uomini d’affari presenti al corso oxfordiano, sarebbero tornati a casa con una visione più chiara in merito al loro ruolo e alle responsabilità cui, di solito, non amano incorrere, adducendo alla scusante del libero mercato per il saccheggio sistematico di ambiente e sostenibilità.

La battaglia globale per la parcellazione delle risorse naturali è già iniziata e la conferenza annuale del Re/source sembra averne preso atto: dal cibo all’acqua, dalle risorse energetiche fino all’accaparramento dei metalli preziosi, s’intensifica in proporzione, la guerra intestina fra stati e continenti, nella difesa dei propri modelli e consumi o meramente nella lotta alla sopravvivenza.

Nell’ultimo decennio, il caso del land grabbing, la sottrazione dei terreni, è esploso in tutta la sua gravità. Dal Senegal all’Uganda, dal sud Sudan, all’Indonesia, all’Honduras e Guatemala, multinazionali e investitori senza scrupoli hanno saccheggiato 227 milioni d’ettari, svenduti, locati o concessi in uso, già dal 2001.

Un fenomeno che è destinato ad aumentare, causa, la crescente domanda di cibo, cambiamenti del clima, scarsità d’acqua, incremento nella produzione di biocarburanti che sottrae migliaia d’ettari alla produzione alimentare. Il land grabbing pone in pericolo intere comunità (le più povere); almeno 23.000 persone o forse più, hanno perso case e mezzi di sostentamento, senza che sia concesso loro un parere, un risarcimento, mezzi per un ricorso.

E trovandoci in ambito anglosassone, coincidenza vuole che un esempio clamoroso di land grabbing sia dovuto alla New Forest Company (Nfc), società britannica che produce legname. Ordinanze giudiziarie corredate da testimonianze d’espropri, non hanno sortito alcun effetto; a oggi, la Nfc continua a negare ogni addebito.

Un relatore d’eccellenza, Sir David King, noto ambientalista e capo consigliere scientifico del governo britannico, rileva come l’anomalia inizi a dispensare le sue prime logiche di mercato; in primis, la scalata dei prezzi per prodotti alimentari ed energetici, a seguire, la pressione sulle disponibilità idriche, il furto dei terreni agricoli per l’estrazione di minerali e la produzione di biofossili. “Non si sta facendo abbastanza da evitare questa catastrofe”.

Nondimeno, quella di David King, non sembra un’esortazione alle virtù, perché, sia chiaro, che la legge del contrappasso può abbattersi come una scure su quei paesi che non adotteranno un cambiamento in tempi brevi. Le risorse, se sprecate, hanno oneri elevatissimi in termini propriamente economici, minando la qualità della vita con quel che ne consegue sul piano sociale.

Vandana Shiva, nel suo libro, Le guerre dell’acqua, scrive quanto la sottrazione forzata di risorse alla popolazione sia una forma di terrorismo, terrorismo d'impresa…e a riproporre il concetto di un liberismo cieco e indifferente che corre verso il precipizio trascinandosi dietro tutto il resto, è stato un altro indiano, Amartya Sen, l’ispiratore della “finanza etica”, chi ha osato immaginare una concreta alternativa all'impoverimento delle risorse a beneficio di pochi e a danno di molti.

Amartya Sen, con sincera convinzione, preclude che il libero mercato possa avanzare soluzioni al problema e auspica un intervento dei governi, senz’alcuna distinzione tra paesi poveri e ricchi, per assicurare l’accesso alle basi della vita affinché interessi d’impresa o dei mercati finanziari, non spadroneggino sui bisogni fondamentali dell’umanità.

 

di Carlo Musilli

La Spagna, da sola, non ha più le risorse per sopravvivere, ma dovrà comunque garantire i prestiti che l'Europa sta per inviare alle sue banche, gonfie di titoli tossici legati alla bolla immobiliare. Non è chiaro come riuscirà a farlo, né quale credibilità possano avere queste garanzie. L'unica certezza è che Madrid non avrà scelta, in ossequio all'intransigenza tedesca.

Intanto il governo di Mariano Rajoy, che fin qui non ha fatto nulla se non obbedire alle imposizioni altrui, continuerà a tormentare i cittadini con un'austerità che puzza di macelleria. E' questo il messaggio che emerge da una giornata di allarmi incrociati per il Paese iberico.

Ad aprire le danze è stato Cristobal Montoro, ministro del Bilancio spagnolo, che ieri ha acceso la sirena: "Non abbiamo un soldo in cassa per pagare i servizi pubblici - ha annunciato candidamente in Parlamento - e se la Bce non avesse comprato i titoli di Stato, il Paese sarebbe già fallito".

L’Esecutivo spagnolo ha seguito "le raccomandazioni dell'Ue, che sono in realtà degli obblighi - ha aggiunto Montoro - e se intendiamo essere Europa e costruire l’Europa dobbiamo accantonare parzialmente le nostre convinzioni. Bisogna rinunciare a quello che non può essere finanziato". Il ministro ha tentato così di giustificare le misure varate pochi giorni fa, fra cui spiccano il taglio alle tredicesime agli Statali, la riduzione dei sussidi di disoccupazione e l'aumento dell'Iva.

Poi sono arrivati i mercati, che hanno messo il punto esclamativo alle parole di Montoro mandando a rotoli l'ultima asta di titoli di Stato spagnoli. Ieri il Tesoro di Madrid ha collocato Bonos a varia scadenza per quasi tre miliardi. Risultato pessimo: i rendimenti sono schizzati alle stelle e la domanda si è indebolita rispetto agli ultimi collocamenti. I tassi d'interesse sui bond decennali già in circolazione sono saliti oltre la linea rossa del 7%, portando lo spread al nuovo record storico di 583 punti base (per intenderci, il picco toccato dall'Italia alla fine dell'era Berlusconi era stato di 575). Il debito "ci sta schiacciando e condizionando - ha detto ancora Montoro e stiamo attraversando  una seconda recessione economica, un prolungamento di quella del 2009. Dobbiamo uscirne per come siamo, cioè in Europa, e con l’euro".

In ogni città del Paese sono scese in piazza le vittime dell’inconsistenza politica del governo. Più di ottocentomila persone hanno attraversato le strade chiedendo uno stop immediato alle manovre del governo che stremano la Spagna oltre ogni limite per proseguire inginocchiati di fronte alla speculazione finanziaria e ai diktat europei.

E proprio da Bruxelles gli spagnoli attendono la medicina per restare in vita. Oggi a metà giornata è previsto un Eurogruppo straordinario in teleconferenza, al termine del quale i ministri economici di Eurolandia dovrebbero dare il via libera ufficiale al piano di aiuti per Madrid. In tutto si parla di fondi che potrebbero raggiungere i 100 miliardi di euro, ma nel corso dell'ultimo vertice europeo si era deciso di varare già entro fine luglio un primo prestito da 30 miliardi per aiutare il sistema bancario. Un tampone sulla ferita più profonda.

Se l'accordo dovesse saltare, la bancarotta del Paese non sarebbe più un'ipotesi di scuola. E un crack si rivelerebbe molto più disastroso per la finanza europea degli eventuali fallimenti di Grecia, Irlanda e Portogallo (gli altri paesi che ricevono aiuti). Lo sanno benissimo anche in Germania, al punto che ieri perfino il rigoroso Wolfgang Schaeuble, ministro tedesco delle Finanze, ha spronato i suoi parlamentari a dare il via libera al piano: "Anche la semplice apparenza di una minaccia alla solvibilità dello stato spagnolo - ha detto - può portare a un aumento del pericolo di contagio nell'Eurozona, così come potrebbe farlo la debolezza di alcune banche spagnole".

Poi però il Bundestag si è rilassato ascoltando la solita precisazione del ministro: "E' la Spagna che chiede aiuto, è la Spagna che riceve i fondi e sarà la Spagna ad esserne garante". Come a dire che Berlino, dopo aver imposto la mattanza sociale, non intende accollarsi alcun rischio.

In realtà, a fine giugno i leader europei si sono accordati sulla possibilità che il futuro fondo salva Stati permanente (l'Esm) possa ricapitalizzare direttamente le banche, senza passare per la mediazione dei governi nazionali. La nuova procedura toglierebbe dalle spalle dei singoli Paesi l'obbligo di garantire per i propri istituti ed eviterebbe di appesantire i debiti pubblici. Il meccanismo, tuttavia, non potrà entrare in vigore finché la vigilanza bancaria europea non sarà accentrata nelle mani della Bce. E ci vorrà un po', visto che ancora non ci sono nemmeno delle proposte di riforma. Nel frattempo, gli spagnoli devono cercare di resistere.

di Carlo Musilli

Lo scandalo Libor si stende come un macchia d'olio sul tavolo della finanza mondiale. Le indagini sulla manipolazione dei tassi d'interesse interbancari hanno già costretto alle dimissioni i vertici di Barclays, il maggiore istituto inglese. Il caso è arrivato poi anche in Germania, dove la Bafin, l'autorità di controllo sulla Borsa tedesca, ha aperto un'indagine speciale sul gigante Deutsche Bank. Pesanti ombre gravano anche su altri big assoluti come Rbs, Société Générale, Citigroup e Jp-Morgan. Ma non basta. Sul tavolo degli imputati c'è addirittura il forziere di di Sua Maestà: la prestigiosa e austera Bank of England.

Lunedì la Commissione parlamentare del Tesoro britannico ha interrogato Paul Tucker, vicegovernatore dell'istituto centrale, sospettato di aver indotto Barclays ad abbassare il Libor sotto la pressione dell'ex governo laburista. Come da copione, Tucker ha negato tutto: "Assolutamente no. Non mi è passato neanche per l'anticamera del cervello che le mie parole potessero essere fraintese". Da parte sua, la Banca d'affari aveva già ammesso le proprie responsabilità e, dopo aver fatto saltare le poltrone del ceo Bob Diamond e del presidente Paul Agius, aveva ricevuto una multa da 290 milioni di sterline.

Fino a poco tempo fa, Tucker era in prima fila per succedere a Mervyn King sul trono della Banca d'Inghilterra. Oggi invece la sua posizione è decisamente critica. La settimana scorsa Barclays ha diffuso un memorandum scritto da Diamond nel 2008 dopo una telefonata proprio con il vicegovernatore, che lascia intuire una qualche esortazione a limare i tassi. Nel testo si fa perfino riferimento alle preoccupazioni di "persone molto in alto" a Whitehall. Interrogato a sua volta in Parlamento, Diamond ha scagionato Tucker con una frase che ha dell'inquietante: "Stava semplicemente facendo il suo lavoro".

Lo scandalo si è però esteso a tal punto che a Bruxelles non potevano far finta di niente. Michel Barnier, commissario europeo agli Affari finanziari, ha annunciato da Aix-en-Provence di voler proporre una stretta sulle regole del mercato bancario. Il progetto sarebbe di allargare il campo d'applicazione delle regole sugli abusi di mercato in modo da impedire la manipolazione degli indici finanziari. "Chiunque avesse intenzione di manipolare i mercati - ha detto Barnier -, deve sapere che dovrà affrontare delle sanzioni, comprese possibilmente quelle di carattere penale". E un'inchiesta penale è già stata aperta dal Serious Fraud Office (Sfo), l'ufficio inglese che si occupa di crimini finanziari.

Ma che cos'è il Libor? L'oscuro acronimo sta per "London Interbank Offered Rate". Si tratta del principale tasso d'interesse a cui le banche si prestano denaro fra loro e viene preso a riferimento per fissare i tassi di moltissimi contratti. Poiché la finanza contemporanea vive di derivati (strumenti teoricamente legati ad attività economiche "sottostanti", rispetto alle quali possono tuttavia avere un valore decine di volte superiore), il Libor arriva ad influenzare asset pari a circa 10 volte il Pil del pianeta Terra.

Più questo riferimento è basso, più soldi hanno le banche per aumentare la leva finanziaria (indebitandosi) e giocare con i derivati. Quando va bene, questo meccanismo consente di guadagnare cifre astronomiche. Quando va male e scoppia un'eventuale bolla speculativa, è la tragedia. Per intenderci, erano derivati anche i titoli sui mutui subprime da cui la finanza anglosassone ha partorito la crisi, mettendo in ginocchio mezzo mondo.

Il Libor non è fisso: varia ogni giorno. A calcolarlo quotidianamente è la "British Bankers' Association" (Bba), la quale opera sulla base delle informazioni che riceve dalle principali banche inglesi. E indovina un po' chi era il presidente della Bba? Proprio lui, il buon Paul Agius, l'ormai ex numero uno di Barlclays. Un banchiere che insieme ad altri banchieri decide il tasso del mercato interbancario. Non serve essere dei trozkisti per vedere in questa prassi un abnorme conflitto d'interessi.

E' evidente che se il Libor viene tenuto artificialmente basso, le banche portano a casa guadagni illeciti. E non solo loro, visto che i soldi incassati dagli amministratori di quegli stessi istituti sono strettamente legati agli utili d'azienda. Tanto per fare un esempio, quest'anno Diamond - come premio per la sua sapienza - avrebbe dovuto intascare un super-bonus da 20 milioni di sterline (25 milioni di euro). Per fortuna ha avuto il buon gusto di rinunciare al bottino, ma non lascerà comunque la Banca a mani vuote: riceverà come "buonuscita" lo stipendio di un anno più altri benefit, per un totale di circa due milioni di sterline. E questo è il trattamento che la finanza di oggi riserva a chi dovrebbe essere allontanato con disonore. Non proprio un deterrente.



di Carlo Musilli

Lo scudo anti-spread è sopravvissuto agli attacchi da Nord. Nel documento finale dell'Eurogruppo che si è chiuso fra lunedì e martedì, i ministri delle finanze dell'Eurozona hanno riconfermato l'impegno generico a proseguire lungo la strada imboccata nel corso dell'ultimo consiglio Ue di fine giugno.

I dettagli tecnici arriveranno solo con il prossimo vertice, in programma a Bruxelles il 20 luglio, ma il premier italiano Mario Monti si ritiene soddisfatto. Il rischio era che tutto fosse rimesso in discussione dopo le critiche al provvedimento arrivate nei giorni scorsi da Finlandia e Olanda. I due Paesi, spalleggiati da Berlino, hanno lanciato un segnale politico, una sorta di avvertimento a non tirare troppo la corda, ma alla fine non hanno avuto la forza di andare oltre.

Lo scudo prevede la Bce possa acquistare sul mercato secondario titoli di Stato per calmierare gli spread. Non con fondi proprio, ma attingendo alle casse dei fondi salva-Stati Efsf e Esm (ammesso che i 500 miliardi a disposizione siano sufficienti). Potranno beneficiarne - su esplicita richiesta e dopo aver siglato un memorandum, ma senza alcuna supervisione della troika - solo i Paesi virtuosi che, pur avendo fatto i compitini a casa in materia di conti pubblici, soffrono ancora di spread troppo alti a causa della speculazione. Una definizione che per ora sembra adattarsi all'Italia meglio che a chiunque altro. Martedì Monti ha però ribadito che il nostro Paese al momento non intende avvalersi del nuovo strumento. Allora perché mai darsi tanta pena per renderlo possibile?

Il Professore è preoccupato da quello che potrebbe succedere ad agosto, mese in cui di solito la speculazione è particolarmente accanita. La speranza era che l'effetto annuncio bastasse da solo a placare la sete di sangue di chi scommette al ribasso sul nostro debito. Purtroppo - ed era prevedibile - al momento il gioco non ha funzionato: il differenziale è sceso solo di una manciata di punti. A pesare sulla nostra credibilità sono due ordini di fattori. Da una parte c'è la politica: anche a voler apprezzare le riforme siglate da Monti, i mercati sono condizionati dallo spauracchio di chi verrà dopo di lui. E il Premier ha alimentato quest'ansia ripetendo che non ha alcuna intenzione di candidarsi alle elezioni politiche del 2013.

Il secondo aspetto è ben più drammatico e tecnico. Ha a che fare con i numeri. Sempre martedì l'Ocse ha diffuso cifre allarmanti sul mercato del lavoro italiano, annunciando che nel prossimo futuro la situazione è addirittura destinata a peggiorare: quest’anno la disoccupazione nel nostro Paese arriverà al 9,4% e nel 2013 salirà al 9,9%. Nelle stesse ore sono arrivate anche notizie scoraggianti sul Pil italiano, che secondo il Fmi dovrebbe contrarsi dell'1,9% nel 2012 e dello 0,3% l'anno prossimo.

Ma non basta. A dirottare gli speculatori contro di noi potrebbe pensarci anche la Spagna, che nel frattempo è diventata una preda meno ambita. Non solo perché le è stato concesso un anno in più per rientrare nei parametri del deficit, ma soprattutto per le decisioni prese a Bruxelles in tema di banche. Il prossimo Eurogruppo stabilirà che il fondo Esm potrà prestare soldi direttamente agli istituti di credito in crisi.

Saltare la mediazione del governo significa evitare di appesantire il debito pubblico, ma è anche necessario che dalle banche arrivino garanzie ulteriori. Per questo la misura non sarà immediatamente operativa, ma verrà subordinata alla centralizzazione della supervisione bancaria nelle mani della Bce. Un processo impossibile da concludere prima dell'anno prossimo.

Purtroppo gli istituti spagnoli, pieni zeppi di titoli tossici legati alla bolla del mercato immobiliare, non possono aspettare così a lungo. L'Eurogruppo ha deciso quindi che entro fine mese l'Efsf invierà una prima tranche di aiuti da 30 miliardi al Frob  (il fondo statale spagnolo per la ristrutturazione bancaria) come "riserva in caso di necessità urgenti". Lo scopo è placare la furia dei mercati. Ma proprio questa mossa rischia di far migrare più d'un avvoltoio nei cieli italiani.  

 

 

di Mario Braconi

Mario Monti torna da Bruxelles trionfante, e i mercati premiano con rialzi isterici quella che è stata venduta come una vittoria dei “paesi latini” contro la politica made in Germany, miope, egocentrica ed autolesionista. Questi i fatti: il patto a tre tra Monti, Rajoy e Hollande, assicura un doppio risultato: l’ammorbidimento delle condizioni per attivare il cosiddetto “scudo anti-spread” e la semplificazione del meccanismo di supporto diretto alle banche europee in difficoltà. Al di là delle dichiarazioni di rito, meno importante ed incisiva appare la portata dell’approvazione delle misure per la crescita, che si concretizza nella riallocazione di 120 miliardi di euro di risorse già destinate ad altro uso.

Vediamo quali sono le novità relative al meccanismo protettivo contro l’esplosione degli spread, causato dalla speculazione internazionale. Si tratta del tema nodale della crisi, cui a quanto pare la politica europea non riesce a dare una risposta efficace a causa della demenziale fissazione dei tedeschi per l’inflazione, l’unico vero ostacolo alla trasformazione della BCE in prestatore di ultima istanza sul modello della Federal Reserve americana.

Il fondo europeo EFSF, cui presto succederà lo ESM, potrà continuare ad acquistare titoli del debito pubblico dei paesi attaccati dagli speculatori. Monti era arrivato a Bruxelles con idee ben più bellicose, proponendo un meccanismo automatico di difesa. Secondo questa ipotesi, non appena lo spread (ovvero il differenziale tra il rendimento dei titoli di un paese periferico rispetto a quello delle emissioni del governo tedesco) raggiunga una certa soglia (segreta), gli acquisti massivi sui mercati dovrebbero partire senza ulteriori formalità.

Un’idea potenzialmente in grado di creare problemi alla grande speculazione anti-euro: se fosse passata la proposta di Monti, infatti, gli speculatori avrebbero dovuto vedersela con la potenza di fuoco delle istituzioni europee, oltretutto senza capire fino a quanto spingere le vendite (il livello di spread al quale si accende la miccia sarebbe stato infatti segreto).

Ovviamente la Germania si è opposta alla proposta Monti, anche se alla fine, dopo un’estenuante negoziazione, ha dovuto mollare, almeno formalmente. Oggi per accedere alla misure di supporto, un paese in difficoltà deve passare attraverso le forche caudine di una procedura umiliante. Dopo aver chiesto aiuto, esso viene costretto a firmare con il sangue dei suoi cittadini un “memorandum” di impegni gravosissimi, sull’osservanza dei quali viene chiamato a vigilare l’allegro terzetto costituito da BCE, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale (non a caso indicato sui giornali con il nome collettivo di troika, un termine che evoca il comunismo sovietico). Il tutto mentre i bulletti amici del primo della classe (Olanda e Finlandia) non la smettono di alzare la cresta, pretendendo garanzie reali da paesi allo stremo.

Grazie ad un ben congegnato ricatto sul voto al “pacchetto crescita”, Monti porta a casa un alleggerimento almeno formale delle condizioni a cui il paese sotto attacco può attingere alle risorse comuni: per attivare la procedura sembrerebbe che ora basti una semplice dichiarazione dello stato di difficoltà. Diversamente da quanto accaduto per Grecia, Irlanda e Portogallo, non dovrà impegnarsi, sotto ricatto, a realizzare misure draconiane di austerità.

Benché, in patria, la Merkel e i suoi collaboratori continuino con il loro mantra “nessun aiuto senza impegno al rigore”, l’accordo raggiunto lo scorso fine settimana non parrebbe prevedere alcun tipo di controllo formale ulteriore rispetto a quelli già previsti (ad esempio quello della Commissione).

Monti ha fatto tirare agli Italiani un sospiro di sollievo quando si è vantato ufficialmente di aver rimosso il triste spauracchio del rappresentante del Fondo Monetario Internazionale… Insomma, il premier-banchiere italiano porta a casa una vittoria formale sull’ottuso rigorismo germanico, ed allontana lo spettro delle ingerenze del FMI.

La Merkel, del resto, sa benissimo che, per attivare la procedura anti-spread (anche depotenziata come è ora) sarà ancora necessaria una larga maggioranza in seno al Fondo (sia esso EFSF ovvero ESM). Poiché la Germania è il suo più importante garante, avrà sempre potere di veto sull’approvazione delle misure di soccorso.

Resta comunque irrisolto il tema del carburante da mettere nel serbatoio di questa macchina da guerra (EFSF e ESM) nata per fare a pezzi i nemici dell’euro: 440 miliardi, in effetti, sono pochi, anche perché gli interventi su Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna ne hanno bruciati quasi la metà. Finché la visione politica della Merkel non andrà oltre quella dell’operaio medio Mercedes, poi, non sembra che ci sia spazio politico per aumentare la dotazione dei Fondi.

La vera novità del fine settimana, è la possibilità che i sistemi bancari in difficoltà possano attingere direttamente ai Fondi, anziché passare attraverso ai governi. Oggi la banca a rischio fallimento bussa a denari presso il suo governo, che effettua il salvataggio iniettando cassa. Questo comporta un aumento del debito pubblico, i cui titoli verranno acquistati anche dalla banca salvata. Questa si ritroverà nell’attivo una montagna di titoli di stato il cui valore è molto volatile, cosa che potrebbe causare un avvitamento nella crisi di liquidità.

D’ora in poi, le banche europee in crisi potranno attingere direttamente ai Fondi per superare l’impasse. Restano aperti anche in questo caso i due temi delle risorse (vedi sopra) e delle modalità dell’intervento, che anche in questo caso potrebbe essere condizionato all’adozione di misure di rigore da parte del paese nel quale operano le banche da salvare.

In ogni caso appare interessante la possibilità di arrivare in tempi brevi ad una “unione bancaria europea” a supervisione centralizzata, che a Bruxelles hanno detto di voler vedere realizzata addirittura a gennaio dell’anno venturo. Insomma, Monti si è mosso da burocrate consumato a Bruxelles, e ha saputo vendere come diamanti i pezzi di vetro che ha portato a casa. In effetti, i principali nodi restano irrisolti; oltre alla sconsiderata politica della Merkel, che appare impossibile ridimensionare in modo definitivo, resta la grande amarezza per una politica europea centrata sui problemi delle banche anziché sulle esigenze dei cittadini.

Certo, auspichiamo che si possa davvero costruire in tempi brevi un’Europa in cui tutte le banche sono soggette ad un controllo unitario: si spera che così almeno non dovremo pagare con le nostre tasse gli errori dei loro capi. Tuttavia difficilmente questa riforma potrà controbilanciare il totale fallimento politico dell’Europa, simboleggiato, oltre che dal disastro greco, dai dati sulla disoccupazione nell’area, che segnano un record negativo: sono infatti oltre l’11% i cittadini Area Euro senza lavoro (quasi un quarto della popolazione attiva in Spagna e oltre il 20% in Grecia).

 


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