di Carlo Musilli

Non solo Grecia o Spagna, non solo eurozona. A incidere sull'andamento delle borse è anche quello che succede negli Stati Uniti. Ieri in chiusura di seduta tutti i principali listini europei (tranne Londra) hanno accelerato al ribasso dopo le parole di James Bullard, presidente della Federal Reserve di St. Louis. Con un tempismo eccezionale, il banchiere americano ha pensato bene di mortificare le speranze degli investitori di mezzo mondo.

"Penso che i mercati abbiano l'idea di qualche azione gigantesca in arrivo - ha detto in un'intervista alla Cnbc -, ma non sono sicuro che i dati la richiedano davvero. La probabilità non è così alta".  In altre parole, un nuovo round di "quantitative easing" da parte della Banca centrale americana è meno verosimile di quanto si pensi. L'espressione inglese indica un intervento di politica monetaria che punta a stimolare l'economia iniettando liquidità nel sistema tramite l'acquisto di titoli.

Eppure solo due giorni fa era nata la speranza che la Fed potesse riavviare il programma già il mese prossimo. A gettare il seme era stata la pubblicazione dei verbali dell'ultima riunione della Banca centrale Usa. Nel testo si legge che "numerosi membri ritengono necessarie ulteriori azioni finanziarie" da intraprendere "in tempi stretti" per rafforzare il cammino verso la ripresa.

Ma non basta. Ad alimentare l'illusione dei mercati ci ha pensato il Dipartimento del Lavoro americano, che ieri ha pubblicato dati peggiori delle attese sulle richieste dei sussidi di disoccupazione (cresciute in una settimana di 4.000 unità, contro stime che parlavano di una riduzione di 3.000 unità). Il ragionamento degli analisti sembrava lineare: in queste condizioni, il tasso di disoccupazione rimarrà sopra l'8%, un livello che spingerà la Fed a varare le tanto sospirate misure di stimolo.

Nemmeno per sogno. E Bullard ha spiegato il perché, smontando in poche parole le ragioni degli ottimisti. Quei verbali della speranza, in realtà, "sono un po' sorpassati (fanno riferimento a una riunione che si è tenuta fra il 31 luglio e il primo agosto, ndr), perché da allora abbiamo avuto alcuni dati che sono stati un po' più forti". La lentezza con cui l'economia americana si sta risollevando, quindi, con buona pace dei disoccupati, non basta a giustificare un'azione massiccia da parte dell'Istituto centrale. Se la crescita sarà al 2% per il resto dell'anno, la Fed probabilmente eviterà d'intervenire.

Bullard però non si è accontentato di anticipare le mosse della Banca centrale americana. E ha colto l'occasione per dare anche un giudizio sprezzante sui cugini d'oltreoceano, dicendosi "pessimista sulle capacità dell'Europa di affrontare la crisi del debito", a causa della mancanza di istituzioni sufficientemente robuste. I piani della Banca centrale Europea per sostenere i singoli Paesi, inoltre, rischiano - secondo l'americano - di politicizzare le scelte di politica monetaria.

E visto che al massimo si può sperare che l'Eurozona "se la cavi alla meno peggio", agli Stati Uniti non rimane che cercare di reagire: "La crisi europea colpisce l'economia americana - ha concluso Bullard -. Gli effetti diretti della crisi europea ci sono, sono tangibili, ma sono relativamente minori agli effetti di un crollo finanziario".

Il Presidente della Fed di St. Louis entra così di diritto nella tribù dei banchieri smemorati. Quelli che non ricordano - per senilità o malafede - come la crisi europea dei debiti sovrani sia in realtà una succursale americana. Quasi un prodotto d'esportazione, che viaggiando sull'Atlantico ha cambiato forma a poco a poco, ma che in origine aveva le sembianze dei mutui subprime made in Usa.

Le rampogne liberiste suonano ancor più fuori luogo oggi che gli Stati Uniti sono alle prese con un nuovo allarme recessione di cui davvero non possono accusare che se stessi. Appena due giorni fa, il Congressional budget office (l'ufficio d'analisi del Congresso), ha annunciato che il Pil americano rischia di tornare in rosso dello 0,5% nel 2013 (dopo il +2,1% di quest'anno), facendo risalire la disoccupazione di quasi un punto, al 9%.

Il fosco presagio diventerà realtà se non sarà scongiurato il cosiddetto "fiscal cliff", un "precipizio" scavato da una pericolosa combinazione: gli sgravi fiscali in scadenza nel gennaio 2013 e i contemporanei tagli alla spesa già previsti dalla legge. In una parola: austerity. Da tempo la Fed invoca un accordo fra Democratici e Repubblicani per disinnescare la bomba. Ma a novembre ci sono le elezioni presidenziali e la strada del compromesso, almeno per ora, sembra impraticabile.

 

 

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