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di Carlo Musilli
Anche quando le Borse volano e gli spread crollano, la guardia non va abbassata. La tensione che da giorni regna fra le cancellerie di mezza Europa dimostra che i mercati non sono uno strumento affidabile per giudicare ciò che avviene in politica. Venerdì, dopo la conclusione dell'Eurogruppo, i listini azionari hanno fatto segnare un rialzo da record. Cosa ancora più insolita, il segno positivo ha resistito anche lunedì (generalmente dopo aver acquistato in massa gli operatori vendono per realizzare i guadagni). Come mai?
Verrebbe da pensare che i leader europei abbiano definitivamente imboccato la strada migliore possibile per risollevare il destino dell'Eurozona, ma ovviamente non è così semplice. Il primo boom è legato a un effetto sorpresa: nessuno si aspettava che la cancelliera Angela Merkel si piegasse alle richieste di Italia e Spagna (e infatti, in realtà, non è stato così). Il secondo rialzo (molto più timido) è motivato invece dalla speranza che questa settimana la Bce abbassi nuovamente il tasso di riferimento, stavolta dall'1% allo 0,75% (che sarebbe il nuovo minimo storico). Nel frattempo però dall'economia reale sono arrivati segnali tutt'altro che rassicuranti. Sempre lunedì l'indice che misura la salute della manifattura nell'eurozona ha fatto registrare i dati più bassi degli ultimi tre anni, ancora in piena zona recessiva.
A ben vedere, quindi, non ci sono molte ragioni per tirare il fiato e lasciarsi andare all'ottimismo. Le stesse misure decise nel corso dell'ultima riunione a Bruxelles sono ancora prive di molti dettagli e perché acquistino concretezza bisognerà aspettare l'Eurogruppo del 9 luglio.
Le mosse programmate per stabilizzare la finanza della zona euro sono tre. La prima - lo "scudo anti-spread" - ha fatto gridare al trionfo politico di Mario Monti, ma non è la più rilevante. In sostanza, al fondo europeo Esm (che sarà operativo a breve) sarà consentito di acquistare i bond dei Paesi che, pur essendo virtuosi in materia di conti pubblici, abbiano dei differenziali eccessivi a causa della speculazione.
Questo intervento permetterà di stabilizzare i rendimenti sui titoli di Stato. Per beneficiarne bisognerà fare richiesta e siglare un memorandum (un particolare in contrasto con le richieste di Monti, che mirava all'attivazione automatica oltre una determinata soglia di spread). Il tutto però senza gli opprimenti tecnici della troika (Ue, Bce e Fmi) a supervisionare.
Il via libera da parte della Germania è arrivato dopo che il Premier italiano - immediatamente seguito da quello spagnolo e sostenuto da Parigi - ha minacciato di non lasciar passare il pacchetto da 130 miliardi per la crescita senza l'ok allo scudo. Nella sostanza però questa misura non è una novità: era tutto già previsto nello statuto dell'Esm. Berlino in realtà non ha fatto alcuna concessione, ma i modi bruschi di Palazzo Chigi non devono comunque esser piaciuti alla cancelliera. Il sospetto è nato lunedì, quando Finlandia e Olanda (tradizionali alleati di Berlino) hanno detto di esser contrarie all'applicazione dello scudo.
Più che un veto, quello dei due Paesi che insieme alla Germania costituiscono "l'asse del nord" è sembrato un segnale politico, un invito a non forzare la mano. A livello di procedure, né Helsinki né Amsterdam hanno la forza di bloccare in via definitiva il provvedimento, come hanno spiegato i vertici della Commissione europea.
Le altre due misure stabilite dall'Eurogruppo rappresentano invece le vere novità. Innanzitutto, il compito di supervisionare le banche della zona euro passerà dalle autorità nazionali alla Bce. Una volta conclusa questa parziale cessione di sovranità, all'Esm sarà permesso di prestare soldi direttamente agli istituti di credito, senza passare per i governi. Non è un dettaglio: in questo modo gli aiuti europei non verranno calcolati nei debiti pubblici e il Fondo, prima di aprire il forziere, potrà imporre le proprie condizioni puntando il dito sul bersaglio giusto: le banche, non i contribuenti. Ora bisogna solo sforzarsi di crederci.
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di Emanuele Vandac
L’aveva capito già Paolo di Tarso (o forse il più tardo omonimo), il quale, nella celebre epistola scritta a Timoteo due millenni orsono, scriveva che “l’avidità è radice di tutti i mali”. E pensare che ai suoi tempi non esistevano ancora le banche d’affari... La finanza internazionale è mostro insaziabile: assume rischi folli causando crisi ed instabilità in tutto il globo, salvo poi chiedere ai governi di pagare il conto ogni volta che le cose vanno male.
I banchieri hanno a cuore, dicono, non tanto le proprie poltrone e i propri astronomici stipendi, quanto il benessere dell’intera collettività: il loro fallimento, strepitano, produrrebbe danni gravissimi alle economie nazionali e quindi anche alla società.
Ciò accade perché i loro giocattoli criminali, sotto gli occhi distratti dei “regolatori”, sono cresciuti come una massa tumorale, fino al punto da rendere impensabile anche la sola ipotesi di consentire il loro fallimento. Al pari di alcolizzati impenitenti, ogni volta che le banche vengono scoperte in flagrante, spergiurano che “questa è l’ultima volta, e che non succederà più”. I loro manager raccontano agli azionisti e ai media che, ora, hanno stabilito limiti ragionevoli ai propri bonus; eppure ogni anno si auto-attribuiscono compensi solo marginalmente inferiori a quelli percepiti prima delle crisi (crisi che hanno contribuito ad evocare con i loro comportamenti sconsiderati).
Da questo punto di vista, è emblematica la figura di Bob Diamond (un nome, un destino), capo supremo del colosso bancario britannico Barclays. In un documento presentato ad una audience ristretta lo scorso 23 maggio, Diamond ha infatti sostenuto che il concetto di “cittadinanza responsabile” è uno dei quattro attorno ai quali intende applicarsi nel corrente anno contabile: “Non si tratta di un’iniziativa estemporanea”, ha spiegato Diamond. “Vorremmo piuttosto che voi [i cittadini] tra qualche anno possiate esprimere un giudizio sulla nostra condotta, valutando le nostre capacità professionali, i nostri rapporti con gli azionisti e la nostra reputazione. Ma soprattutto se saremo riusciti a divenire un’impresa migliore e dei cittadini più virtuosi”. Parole condivisibili: peccato non siano sincere.
Che l’immagine delle banche britanniche necessiti una mano di trucco è evidente: a causare il quasi raddoppio del debito pubblico britannico nel quinquennio 2007 - 2011 sono state infatti le ciclopiche operazioni di salvataggio pubblico con cui il governo è dovuto intervenire per salvare Royal Bank of Scotland, Northern Rock e Lloyd’s Bank.
Se parliamo di stipendi, poi, si fa davvero fatica a credere a Diamond nella sua veste di moralizzatore: sembra infatti che in sei anni di lavoro egli abbia ricevuto dalla sua banca qualcosa come 130 milioni di euro - il suo bonus di quest’anno (21 milioni di euro), per dire, ha fatto fare un salto sulla sedia a più di un azionista. Per valutare quanto Barclays possa definirsi un cittadino modello, basti qui ricordare il ruolo primario assunto dalla banca nella predisposizione di uno schema destinato all’elusione fiscale, che ha sottratto alle casse di vari stati oltre seicento milioni di euro…
A ridicolizzare i tentativi di darsi un’immagine un po’ meno ammaccata giunge in questi giorni un’ulteriore notizia negativa. Mercoledì 28 giugno i media annunciavano che le autorità di vigilanza bancaria americane e britanniche hanno comminato a Barclays due maxi multe (rispettivamente di circa 74 e di 283 milioni di euro) per aver contributo a manipolare la formazione del tasso di interesse LIBOR dal 2005 al 2009. Un caso che dimostra con tutta evidenza le situazioni paradossali in cui si finisce per incappare quando l’intero sistema finanziario deve rendere conto solo …a sé stesso.
Il LIBOR (London Interbank Offer Rate) è un indice del livello dei tassi nelle varie divise che, come spiega l’acronimo, viene fissato ogni giorno a Londra sulla base di una media dei tassi di finanziamento proposti da un panel di banche rappresentativo del mercato. In sostanza, ogni giorno le banche usano, anche per fare i prezzi alla loro clientela, un parametro fissato con le quotazioni che … esse stesse fanno alle altre banche.
Il LIBOR (simile all’EURIBOR, che però riguarda il solo euro, e viene calcolato dalla European Banking Federation) rappresenta il livello ufficiale dei tassi finanziamenti e viene impiegato per valorizzare le rate dei finanziamenti a tasso variabile; esso è inoltre un parametro fondamentale per attualizzare e capitalizzare flussi futuri di denaro: è dunque il pane quotidiano di ogni banca commerciale e d’affari.
E’ chiaro come le banche che partecipano al panel si trovino in conflitto di interesse: da un lato sono infatti i fornitori del dato sugli interessi (in quanto soggetti che quotano il denaro sul mercato interbancario); dall’altro sono i suoi utilizzatori (in quanto se ne servono per chiudere operazione, valorizzare milioni di contratti derivati e, in generale, le attività e passività nei loro libri contabili).
Ecco John, un trader con un bel portafoglio il cui valore può cambiare ogni giorno di milioni di euro al variare di pochi centesimi del LIBOR. Nella stessa banca lavora anche Trevor, che invece per lavoro fa prezzi sul mercato interbancario. Che cosa impedisce a John di fare uno squillo a Trevor e di chiedergli se per favore può immettere a sistema un’offerta non proprio realistica, ma molto più vicina al livello che serve a John per far bella figura con i suoi capi?
Niente, tanto è vero che una dinamica di questo tipo sembra si sia verificata con una certa regolarità per oltre quattro anni alla Barclays (e non solo lì). A quanto risulta alle autorità di vigilanza, gli operatori dell’interbancario si adoperavano per spingere i tassi di mercato nella direzione desiderata dai loro colleghi dell’investment banking, in modo da dare loro un aiutino …
Quando a fine 2008 la crisi di credito avrebbe dovuto spingere i tassi in alto, il LIBOR rimase misteriosamente a livelli accettabili. Quest’insolita circostanza ha fatto accendere i riflettori delle autorità, al di qua e al di là dell’Oceano. A quanto riportano Associated Press e The Independent, sulla base delle istruzioni impartite da una anonima figura apicale dell’organizzazione, pare che quasi quotidianamente Barclays inserisse scientemente a sistema tassi chiaramente troppo bassi.
In questo modo, oltre a controllare il valore “di mercato” delle posizioni in essere, Barclays truccava la sua posizione di liquidità. Se avesse fatto conoscere al mercato i veri tassi a cui era pronta a prendere denaro in prestito sull’interbancario (molto alti evidentemente), gli altri operatori avrebbero capito che era a corto di liquidi; una cosa che il top management voleva evitare ad ogni costo.
Di fronte a questo disastro, Diamond si è limitato a tuonare contro il presunto manipolo di “serpi in seno”, che, come da copione, avrebbero agito di loro iniziativa (ovviamente, le alte sfere non erano informate). Diamond ha però fatto vago riferimento alla cultura iperaggressiva della banca, la quale potrebbe aver indotto nelle persone l’errata convinzione che la spudorata menzogna fosse il comportamento che i loro capi si attendevano da loro in quel momento.
Anche seguendo questo perverso ragionamento, chi, se non i grandi capi, sarebbe responsabile di una cultura aziendale mefitica come quella che ha causato simili obbrobri finanziari? Mentre Cameron si distingue per cautela (“lasciamo prima che il management risponda a questi gravi interrogativi”, ha detto alla stampa), il liberaldemocratico Matthew Oakshott sulla vicenda ha un punto di vista molto più colorito: “Se Bob Diamond avesse un briciolo di senso della pudore, si dimetterebbe; e se il consiglio d’amministrazione di Barclays avesse spina dorsale, lo licenzierebbe in tronco”.
In effetti Diamond, a prescindere dalla sua responsabilità oggettiva in quanto capo della banca, si trova in una posizione particolarmente scomoda: infatti, è stato a capo della divisione banca d’affari di Barclays proprio nel periodo in cui si sarebbero verificate le irregolarità denunciate dalle autorità inglesi ed americane.
Per il momento, Diamond si è limitato a tagliare a sé e al triumvirato dei suoi top manager il bonus di quest’anno, quale misura di riconoscimento di responsabilità, “in quanto leader”. C’è comunque la possibilità che i guai per Barclays non finiscano qui, se è vero che alle multe potrebbero presto aggiungersi richieste di risarcimento miliardarie da parte dei tanti che la condotta scorretta di Barclays ha danneggiato.
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di Carlo Musilli
Prima hanno negato l'esistenza del problema. Poi hanno assicurato di poterlo risolvere da soli. Alla fine si sono arresi e hanno invocato aiuto. Come da copione, la Spagna ha annunciato che chiederà fondi internazionali per rianimare il proprio settore bancario, soffocato da miliardi di titoli tossici legati alla bolla immobiliare del 2008. Il governo di Madrid cede così alle pressioni dell'Europa, terrorizzata dal rischio contagio.
L'attenzione si sposta ora sul nostro Paese: quanto costerà all'Italia il salvataggio della Spagna? E dopo quest'ennesimo esborso, in caso di necessità, nella zona euro rimarranno abbastanza soldi per sostenere anche Roma? Domande a cui per ora non esiste una risposta certa e che nei prossimi giorni metteranno in allarme i mercati.
Intanto, secondo il Fondo monetario internazionale, per salvare gli istituti di credito iberici servono "almeno 40 miliardi di euro". Ma la stima è al ribasso. I consulenti nominati dall'esecutivo spagnolo devono ancora finire di calcolare le dimensioni reali della voragine che si è spalancata nel settore creditizio (il responso è atteso entro il 21 giugno).
L'Eurogruppo però si è già detto disponibile a mettere sul piatto "fino a 100 miliardi di euro". Un annuncio arrivato a meno di 48 ore dall'ultimo colpo di falce sul rating: solo giovedì scorso, Fitch ha tagliato addirittura di tre livelli il giudizio sul debito sovrano spagnolo, portandolo da "A" a "BBB". Appena tre gradini sopra i cosiddetti "junk bonds", la spazzatura.
Si completa a questo punto il simpatico acronimo "PIGS" (maiali) partorito dai britannici: dopo Portogallo, Irlanda e Grecia, la Spagna sta per diventare il quarto paese europeo a ricevere aiuti internazionali. Le differenze con i tre precedenti però ci sono, e pesano molto. Innanzitutto, non si prevede di imporre a Madrid ulteriori strette sul piano d'austerità già avviato. L'unica condizione posta dall'Europa è una riforma del sistema bancario, visto che fin qui la contaminazione delle disgraziate "cajas" con la politica ha prodotto solo un circolo vizioso di corruzione e malgoverno.
In secondo luogo, un vantaggio importante per la Spagna rispetto agli altri Paesi dissestati (Grecia in primis) è il ruolo tutto sommato marginale che sarà affidato al Fmi. L'istituzione di Washington non è chiamata a sborsare un solo centesimo in favore di Madrid, ma solo a monitorare dall'esterno l'attuazione delle riforme. Un creditore in meno da cui dipendere, e non è poco.
L'aspetto decisivo è però un altro ancora. A differenza degli aiuti stanziati fin qui, quello che dovrebbe salvare la Spagna si presenta con un'innovazione fondamentale: è rivolto solo alle banche, non anche allo Stato. Ed è proprio questo l'alibi con cui si evita d'imporre al Paese nuove misure a garanzia dei conti.
Il trucco è semplice e rappresenta un grande successo diplomatico per il primo ministro Mariano Rajoy. In sostanza, i fondi europei non saranno girati direttamente al governo di Madrid, ma al Forb, il Fondo pubblico per la ristrutturazione ordinata del settore bancario nato nel 2009. Di qui i finanziamenti saranno canalizzati negli istituti di credito. Sembra un dettaglio, ma non lo è: tramite questa mediazione, i soldi formalmente non saranno gestiti dall'esecutivo,che quindi eviterà di cedere una buona fetta della propria sovranità a Bruxelles (almeno in via ufficiale).
Ma da dove arriveranno questi 100 miliardi? Messo da parte l'Fmi, l'intera copertura dell'operazione sarà affidata ai fondi salva-Stati europei: l'Efsf (temporaneo, ma già attivo) e l'Esm (permanente, ma operativo solo dal mese prossimo). Insieme i due strumenti hanno a disposizione circa 500 miliardi di euro.
Ci sono però dei problemi da superare. L'Esm è legalmente un "creditore privilegiato", quindi in teoria ha diritto ad essere rimborsato prima degli altri creditori. Una consapevolezza che potrebbe rendere la Spagna ancor meno attraente agli occhi degli investitori privati.
Quanto all'Efsf, la situazione è ancora più complicata. A dispetto del nome, non si tratta di un fondo tradizionale, perché non ha a disposizione risorse proprie. Funziona così: gli stati membri forniscono delle garanzie che consentono all'Efsf di emettere obbligazioni. I fondi per gli aiuti arrivano proprio dalla vendita sul mercato di questi bond. La Spagna fino a oggi era uno dei Paesi che garantiva i prestiti, ma adesso che diventa destinatario dei finanziamenti non può più svolgere questa funzione. Le garanzie venute meno devono essere quindi ridistribuite fra gli altri membri, appesantendo i singoli debiti pubblici.
La quota di garanzie che fa riferimento all'Italia sale dal 19,2 al 24,7%, cioè 39 miliardi di euro in più. Soldi che speriamo di non dover spendere mai, ma che saranno comunque contabilizzati da Eurostat nel nostro debito. Con tanti saluti alle preoccupazioni ragionieristiche che ci hanno assillato negli ultimi mesi. Eppure il premier Mario Monti non ha dubbi e assicura "pieno sostegno" all'operazione. Nella speranza che basti questo a salvare la Spagna.
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di Fabrizio Casari
Sondaggi che si alternano, paure diffuse, corse agli sportelli bancari. Il conto alla rovescia per le elezioni greche agita i sonni dei greci e delle banche di tutta Europa. Uscendo dalle tecnicalità linguistiche degli economisti e degli apprendisti stregoni allocati presso i partiti, la lettura dello scenario europeo appare indicare davvero il classico ballo sul ponte del Titanic. Parafrasando: se Atene piange, Roma non ride.
E’ vero che l’Italia gode di fattori di cui Atene è priva (i suoi cittadini hanno una ricchezza pari a 8 volte l’intero debito; la reputazione internazionale è maggiore; il PIL è decisamente superiore e la quota maggioritaria del suo debito è posseduta da italiani) ma è anche vero che il debito intero della Grecia è quello di due o tre regioni italiane. In questo senso c’è poco davvero da stare allegri e, preso atto che la cura Monti non offre particolari risultati, è forse arrivato il momento di vedere la Luna oltre che il dito.
E se il dito indica Grecia, Italia o Spagna, la Luna indica l’Europa. E’ ormai evidente che oltre la strada del rigorismo tedesco (ma non solo), che ha nel rientro nei parametri previsti dal Trattato di Maastricht il mantra unico, ci sono altre soluzioni, altre proposte di politiche economiche che vengono avanzate da altri economisti.
La cancelliera Merkel continua ad opporsi con tutte le sue forze (che non sono poche) e i suoi amici (che invece pochi sono) all’idea di una inversione di tendenza nelle politiche economiche continentali. Bisogna capirla: i tedeschi stanno realizzando affari colossali grazie alla crisi economica. Questa, ad oggi, ha portato la Germania al livello massimo di potenza e l’Europa a quello d’impotenza. Il nodo è essenzialmente politico, per non dire culturale: la Germania intende dare una lezione di vita ai Paesi che considera troppo deboli per condividere il suo "spazio vitale". Paese "serio", la Germania, ma è bene diffidare da chi si (auto)definisce serio: di solito ha un secondo fine. Grazie alla condanna inflitta ai greci dalla dittatura rigorista di Frau Merkel, la Germania oggi è in grado di emettere titoli di stato a costo zero. Un numero sempre maggiore di avvoltoi è pronto a finanziare il dominatore d'Europa anche senza ricevere un euro di interessi sulla somma prestata.
Bene ha funzionato quindi il mantra disfattista che accomuna il rigorismo stolido del governo tedesco e l'istinto predatorio della speculazione internazionale: ora gli investitori sono pronti a mettere da parte il guadagno di oggi in vista di un profitto enorme di domani. In una eventuale fase di post-break-up dell'euro, il neo-marco diventerebbe ovviamente divisa ultra-pregiata, in grado di apprezzarsi nei confronti della divisa in cui è denominato il bilancio dell'investitore. Il solito film: pioggia di denaro sulla speculazione, pioggia di sangue sui popoli. Era questo il sogno europeo?
Sembra verificarsi quanto non scritto (ma fortemente pensato) dai padri dell’Europa, che vedevano la formazione dell’unità continentale in primo luogo come necessità storica per fermare l’espansionismo tedesco, che già con l’impero di Prussia prima e con il nazismo poi indicò chiaramente all’Europa il ruolo che la Germania ritiene le spetti nel continente. L’Unione europea, infatti, nacque soprattutto dall’esigenza di contenere l’espansionismo tedesco, prima di divenire una teoria politica affinatasi teoricamente con il manifesto di Ventotene.
Ma il resto dell’Europa non può rimanere a guardare, ostaggio del volere germanico che punta su un'Europa a due velocità. Sulle modalità con le quali affrontare la crisi c’è anche un’altra strada: trasformare la BCE in una Banca centrale sul modello della FED, che possa finanziare direttamente le economie nazionali ed assumere il ruolo di garanti del debito dei paesi in difficoltà.
Si può ragionevolmente obiettare che questa strada vedrebbe i virtuosi farsi carico dei debiti dei viziosi, ma se si vogliono proporre politiche continentali uniche non è possibile adottarle solo per quanto riguarda il pareggio di bilancio. Le garanzie continentali sul debito implicherebbero poi una parziale cessione di sovranità da parte dei Paesi interessati: le stesse politiche economico-fiscali e la vigilanza sui conti avrebbero una regia centralizzata. Ma non è già così nei fatti?
Molti economisti internazionali (tra cui almeno 5 Premi Nobel) non ritengono importanti le preoccupazioni europee sulla crescita dell’inflazione, problema minore in una fase recessiva come quella che abbraccia tutta l’eurozona. Più in generale, all’Europa serve recuperare terreno nella crescita, cioè nella produzione di beni e servizi di qualità con i quali sfidare il mercato globale. E per farlo, soprattutto per i paesi che più vedono avanzare la recessione economica, serve da subito una sterzata decisa in senso keynesiano, con il rilancio degli investimenti pubblici per creare occupazione e rilanciare la domanda interna, unica strada per alzare la quota di PIL.
Se in Italia si vuole ridurre l’indebitamento in rapporto al Pil, la strada non è ridurre le spese e aumentare le entrate, perché ridurre il welfare ed aumentare le tasse genera depressione economica e conflitto sociale, entrambi ingredienti poco graditi ai mercati oltre che ai popoli. Peraltro, anche riducendo le spese, parallelamente alla diminuzione del PIL non cambierebbe il differenziale negativo, producendo così solo maggiore disperazione sociale a fronte di identico indebitamento. Solo il gigantesco conflitto d’interessi di cui Monti è portatore può occultare questa realtà.
La strada dev’essere diversa: investire e creare lavoro, perché una maggiore occupazione rilancia la domanda interna e i consumi e questo permette di aumentare il PIL. Solo rimettere l’Italia in sicurezza dal punto di vista del riassetto idrogeologico avrebbe bisogno di decine di miliardi di euro come investimento iniziale e fornirebbe decine di migliaia di posti di lavoro. Potrebbero vedere la parola fine le inutili, dannose grandi opere e le missioni militari all’estero se proprio non si sapesse dove attingere fondi, ammesso che la banca europea d’investimento non fosse stata creata allo scopo.
Creare lavoro è la sfida decisiva, considerando che una disoccupazione al 12% della forza lavoro è la minaccia più pericolosa per la stabilità del sistema paese. Nuovi prodotti e nuovi servizi, nuova occupazione e nuovi mercati, riduzione della pressione fiscale sulle imprese che assumono e investono ed opere pubbliche sono le gambe del tavolo dove si poggia l’aumento del PIL.
E aumentare il PIL è un modo diretto ed efficace di ridurre il differenziale con il debito, soprattutto se quest’ultimo viene contestualmente ridotto tramite manovre di razionalizzazione e ristrutturazione dello stesso. A sostegno di ciò si dovrebbe agire anche sul fronte delle entrate: un incremento della tassazione sui movimenti speculativi in Borsa dovrebbe essere la prima mossa in vista di un riequilibrio della tassazione tra redditi da capitale e da lavoro, oggi scandalosamente a vantaggio dei primi.
Insieme a ciò, la ristrutturazione del debito è fondamentale: molto ci sarebbe da discutere sulla natura del debito e la sua esigibilità, ma non è questa la sede. Però spostare velocemente le lancette della fase di parità dal dicembre 2013 di almeno due o tre anni oltre non è una bestemmia, ma pura saggezza. Secondo fonti autorevoli, se si dovesse rientrare da qui al prossimo anno, ci sarebbero da reperire 190 miliardi di euro.
Ma se per una manovra di 25 hanno dovuto proporre lo smantellamento dei diritti nel mercato del lavoro, finte liberalizzazioni, umiliazione del welfare e veri regali alle banche, cosa dovranno proporre per trovare gli altri 175 rimanenti nello spazio di un anno? In effetti, anche proseguendo su questa strada, nel 2013 non arriveremmo comunque all'effettivo pareggio di bilancio, visto che il deficit rimarrebbe comunque almeno allo 0,5% e diverrebbe zero solo nel 2014 (così dice il governo almeno, ma è una stima poco credibile).
Ora è evidente che la crescita economica priva dei capitali indispensabili e la rinegoziazione del debito priva delle garanzie necessarie resterebbero buone intenzioni. E chi se non la BCE - cioè l’Europa tutta - dovrebbe assolvere il compito? Per la cancelliera Merkel sentir parlare di eurobond (che sono comunque una piccola soluzione e solo a breve termine) è già motivo d’itterizia, figuriamoci proporre a Berlino una modifica degli scopi della BCE. Che pure, però, sarebbe il primo utile passo per uscire dalla crisi.
La speculazione, infatti, aggredisce l’Italia, la Grecia e la Spagna non perché la loro esposizione debitoria sia drammatica, ma perché diversamente da altri paesi, che pure denunciano un indebitamento molto maggiore (Stati Uniti e Giappone, solo per fare un esempio), i paesi europei non dispongono di una Banca Centrale a protezione, che venga cioè in soccorso acquistando quote del debito tramite, ad esempio, l’acquisto dei titoli di stato, ma non solo.
La BCE, diversamente dalla FED statunitense, non batte moneta e non fornisce liquidità ai paesi e alle banche, fregandosene allegramente (loro) del rischio oggettivo di un punto o due in più d’inflazione. Gli Stati Uniti e il Giappone non sono vincolati dai parametri di Maastricht e non hanno il limite del 3% della quota di differenziale negativo tra Pil e indebitamento.
Intendiamoci: Maastricht è una costruzione insostenibile, basata su parametri che non sono riscontrabili in nessuna delle grandi teorie economiche; eppure, nonostante l’ossessione per l’inflazione, lo stesso trattato permette deroghe in fasi di crisi acute.
Alcune proposte di “finanza creativa”, come quelle di Monti sullo scorporo di una parte del debito sono in parte esercizio di ingegneria contabile, mentre la vera inversione di tendenza sarebbe quella di modificare lo statuto della BCE, rendendola a tutti gli effetti una Banca Centrale, consentendogli auspicabilmente in prospettiva di battere moneta ma almeno, sin da subito, assegnandogli comunque il potere di erogatore di prestiti in ultima istanza.
Perché prestare alle banche e non agli stati è un giochino che serve soprattutto a garantire alle banche un ulteriore profitto: non è un caso che i fondi che la BCE ha negato alla Grecia sono stati destinati alle banche europee. La differenza è che alle banche è stato richiesto l’uno per cento d’interesse, mentre le stesse, che hanno poi prestato alla Grecia, lo hanno fatto in cambio del 18% d’interesse. Un diciassette per cento di differenza che va tutto nelle casse degli istituti di credito. La domanda è: quale operazione finanziaria rende così tanto senza nessun esborso? E può la Grecia pagare ulteriori interessi per una partita di giro utile solo agli azionisti delle banche? Si può dire grazie per il colpo di grazia?
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di Carlo Musilli
L'Eurozona dà i numeri, Berlino resta immobile e finché può incassa i dividendi della paura. Negli ultimi giorni una serie di dati allarmanti ha fatto luce sulla situazione economica nell'are valutaria: disoccupazione record all'11%, produzione manifatturiera in calo da 10 mesi consecutivi, fiducia delle imprese a picco. Recessione assicurata. Purtroppo a Bruxelles l'economia reale non va molto di moda e i capi di Stato e di governo continuano a litigare su temi finanziari.
Si ripete che l'obiettivo è lavorare su due binari: sicurezza dei conti pubblici e crescita. Peccato che fino ad ora non sia stato nemmeno ipotizzato un provvedimento decisivo per far ripartire il Pil. Quanto ai bilanci, l'unica strada percorsa è quella di punire chi sta peggio con misure d'austerità che aggraveranno la recessione.
L'ostacolo più evidente verso una politica meno autolesionista è naturalmente il veto della Germania. Un'opposizione facilmente comprensibile, considerando che da mesi la prima economia del continente fa affari d'oro sulle disgrazie altrui. Con la crisi ormai generalizzata e la volatilità che domina, gli investitori puntano sui titoli di Stato tedeschi, i Bund, come veri beni-rifugio. Il risultato è che Berlino ormai si rifinanzia sui mercati con tassi d'interesse sempre più vicini allo zero (venerdì i rendimenti sui titoli biennali sono scivolati addirittura in territorio negativo).
Tutto questo contribuisce a far impennare gli spread e sottrae risorse ai paesi in difficoltà, dirottandole verso i più sicuri porti tedeschi. Ma il vantaggio per la Germania non è solo sul fronte dei conti pubblici: il dominio del Bund fa sì che anche le banche private e le aziende tedesche siano in grado di raccogliere denaro pagando tassi d'interesse pressoché ridicoli. Inoltre quegli stessi istituti di credito - pur non avendone bisogno - hanno potuto attingere all'oceano di liquidità arrivato dalla Bce, che nei mesi scorsi ha inondato il mercato bancario con prestiti triennali al tasso bassissimo dell'1%. Erano finanziamenti pensati per le banche dei paesi strangolati dalla crisi, ma pazienza. Tutti mangiano quando il buffet è gratis.
Il punto è che non si potrà andar avanti così ancora a lungo. Un avvertimento importante è arrivato da Martin Schultz, ex libraio tedesco, oggi presidente dell'Europarlamento: "Berlino deve riflettere - ha detto -. Di questo passo, con questi differenziali nei tassi, non ci sarà più un mercato per i prodotti della Germania, perché gli altri non avranno i soldi per comprarli". Sembra un'ovvietà, ma a quanto pare non lo è per chi governa al Bundestag.
La cancelliera Angela Merkel, il guru del rigore, professa la stabilità dei bilanci come una religione, ma allo stesso tempo boccia qualsiasi provvedimento a livello europeo che potrebbe aiutare a perseguire l'obiettivo. Dopo il no agli eurobond (su cui però ancora si discute), frau Merkel ha rispedito al mittente anche altre due proposte importanti: la mutualizzazione del debito sovrano e la creazione di un'unione bancaria europea.
La prima consiste nel finanziare la parte dei debiti pubblici che eccede il 60% del Pil attraverso un fondo garantito collettivamente dagli stati dell'Eurozona. La seconda, lanciata direttamente da Bruxelles e sostenuta con forza dal presidente della Bce, Mario Draghi, prevede la centralizzazione della vigilanza sul settore bancario, la garanzia unica sui depositi e la possibilità per gli istituti di accedere direttamente ai prestiti dell'Esm, il nuovo fondo salva-Stati europeo.
Ognuna di queste idee sottintende che i rischi - e quindi le garanzie da fornire - scavalchino i confini dei singoli paesi e si allarghino all'intera Eurozona. Chi è più ricco ha più da perdere. Per questo la cancelliera continua a dire "nein".
A livello politico, la Merkel al momento è isolata fra i big mondiali, ma la sua posizione potrebbe tornare a rafforzarsi. Venerdì gli irlandesi hanno detto sì al Fiscal compact (il referendum si è chiuso con il 60% di voti favorevoli), accettando di proseguire sulla strada dell'austerity pur di incassare le prossime rate di aiuti internazionali.
Ma dopo la vittoria tutto sommato marginale incassata a Dublino, la Germania attende con ansia le elezioni legislative in Francia. In caso di sconfitta dei socialisti, il neo presidente François Hollande dovrebbe allearsi con il Front de Gauche (a meno di un'improponibile coabitazione con l'Ump gaullista), il che limiterebbe molto i suoi margini d'azione a Bruxelles. E la cancelliera si ritroverebbe di colpo senza un solo nemico credibile.