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di Carlo Musilli
Lo scudo anti-spread è sopravvissuto agli attacchi da Nord. Nel documento finale dell'Eurogruppo che si è chiuso fra lunedì e martedì, i ministri delle finanze dell'Eurozona hanno riconfermato l'impegno generico a proseguire lungo la strada imboccata nel corso dell'ultimo consiglio Ue di fine giugno.
I dettagli tecnici arriveranno solo con il prossimo vertice, in programma a Bruxelles il 20 luglio, ma il premier italiano Mario Monti si ritiene soddisfatto. Il rischio era che tutto fosse rimesso in discussione dopo le critiche al provvedimento arrivate nei giorni scorsi da Finlandia e Olanda. I due Paesi, spalleggiati da Berlino, hanno lanciato un segnale politico, una sorta di avvertimento a non tirare troppo la corda, ma alla fine non hanno avuto la forza di andare oltre.
Lo scudo prevede la Bce possa acquistare sul mercato secondario titoli di Stato per calmierare gli spread. Non con fondi proprio, ma attingendo alle casse dei fondi salva-Stati Efsf e Esm (ammesso che i 500 miliardi a disposizione siano sufficienti). Potranno beneficiarne - su esplicita richiesta e dopo aver siglato un memorandum, ma senza alcuna supervisione della troika - solo i Paesi virtuosi che, pur avendo fatto i compitini a casa in materia di conti pubblici, soffrono ancora di spread troppo alti a causa della speculazione. Una definizione che per ora sembra adattarsi all'Italia meglio che a chiunque altro. Martedì Monti ha però ribadito che il nostro Paese al momento non intende avvalersi del nuovo strumento. Allora perché mai darsi tanta pena per renderlo possibile?
Il Professore è preoccupato da quello che potrebbe succedere ad agosto, mese in cui di solito la speculazione è particolarmente accanita. La speranza era che l'effetto annuncio bastasse da solo a placare la sete di sangue di chi scommette al ribasso sul nostro debito. Purtroppo - ed era prevedibile - al momento il gioco non ha funzionato: il differenziale è sceso solo di una manciata di punti. A pesare sulla nostra credibilità sono due ordini di fattori. Da una parte c'è la politica: anche a voler apprezzare le riforme siglate da Monti, i mercati sono condizionati dallo spauracchio di chi verrà dopo di lui. E il Premier ha alimentato quest'ansia ripetendo che non ha alcuna intenzione di candidarsi alle elezioni politiche del 2013.
Il secondo aspetto è ben più drammatico e tecnico. Ha a che fare con i numeri. Sempre martedì l'Ocse ha diffuso cifre allarmanti sul mercato del lavoro italiano, annunciando che nel prossimo futuro la situazione è addirittura destinata a peggiorare: quest’anno la disoccupazione nel nostro Paese arriverà al 9,4% e nel 2013 salirà al 9,9%. Nelle stesse ore sono arrivate anche notizie scoraggianti sul Pil italiano, che secondo il Fmi dovrebbe contrarsi dell'1,9% nel 2012 e dello 0,3% l'anno prossimo.
Ma non basta. A dirottare gli speculatori contro di noi potrebbe pensarci anche la Spagna, che nel frattempo è diventata una preda meno ambita. Non solo perché le è stato concesso un anno in più per rientrare nei parametri del deficit, ma soprattutto per le decisioni prese a Bruxelles in tema di banche. Il prossimo Eurogruppo stabilirà che il fondo Esm potrà prestare soldi direttamente agli istituti di credito in crisi.
Saltare la mediazione del governo significa evitare di appesantire il debito pubblico, ma è anche necessario che dalle banche arrivino garanzie ulteriori. Per questo la misura non sarà immediatamente operativa, ma verrà subordinata alla centralizzazione della supervisione bancaria nelle mani della Bce. Un processo impossibile da concludere prima dell'anno prossimo.
Purtroppo gli istituti spagnoli, pieni zeppi di titoli tossici legati alla bolla del mercato immobiliare, non possono aspettare così a lungo. L'Eurogruppo ha deciso quindi che entro fine mese l'Efsf invierà una prima tranche di aiuti da 30 miliardi al Frob (il fondo statale spagnolo per la ristrutturazione bancaria) come "riserva in caso di necessità urgenti". Lo scopo è placare la furia dei mercati. Ma proprio questa mossa rischia di far migrare più d'un avvoltoio nei cieli italiani.
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di Mario Braconi
Mario Monti torna da Bruxelles trionfante, e i mercati premiano con rialzi isterici quella che è stata venduta come una vittoria dei “paesi latini” contro la politica made in Germany, miope, egocentrica ed autolesionista. Questi i fatti: il patto a tre tra Monti, Rajoy e Hollande, assicura un doppio risultato: l’ammorbidimento delle condizioni per attivare il cosiddetto “scudo anti-spread” e la semplificazione del meccanismo di supporto diretto alle banche europee in difficoltà. Al di là delle dichiarazioni di rito, meno importante ed incisiva appare la portata dell’approvazione delle misure per la crescita, che si concretizza nella riallocazione di 120 miliardi di euro di risorse già destinate ad altro uso.
Vediamo quali sono le novità relative al meccanismo protettivo contro l’esplosione degli spread, causato dalla speculazione internazionale. Si tratta del tema nodale della crisi, cui a quanto pare la politica europea non riesce a dare una risposta efficace a causa della demenziale fissazione dei tedeschi per l’inflazione, l’unico vero ostacolo alla trasformazione della BCE in prestatore di ultima istanza sul modello della Federal Reserve americana.
Il fondo europeo EFSF, cui presto succederà lo ESM, potrà continuare ad acquistare titoli del debito pubblico dei paesi attaccati dagli speculatori. Monti era arrivato a Bruxelles con idee ben più bellicose, proponendo un meccanismo automatico di difesa. Secondo questa ipotesi, non appena lo spread (ovvero il differenziale tra il rendimento dei titoli di un paese periferico rispetto a quello delle emissioni del governo tedesco) raggiunga una certa soglia (segreta), gli acquisti massivi sui mercati dovrebbero partire senza ulteriori formalità.
Un’idea potenzialmente in grado di creare problemi alla grande speculazione anti-euro: se fosse passata la proposta di Monti, infatti, gli speculatori avrebbero dovuto vedersela con la potenza di fuoco delle istituzioni europee, oltretutto senza capire fino a quanto spingere le vendite (il livello di spread al quale si accende la miccia sarebbe stato infatti segreto).
Ovviamente la Germania si è opposta alla proposta Monti, anche se alla fine, dopo un’estenuante negoziazione, ha dovuto mollare, almeno formalmente. Oggi per accedere alla misure di supporto, un paese in difficoltà deve passare attraverso le forche caudine di una procedura umiliante. Dopo aver chiesto aiuto, esso viene costretto a firmare con il sangue dei suoi cittadini un “memorandum” di impegni gravosissimi, sull’osservanza dei quali viene chiamato a vigilare l’allegro terzetto costituito da BCE, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale (non a caso indicato sui giornali con il nome collettivo di troika, un termine che evoca il comunismo sovietico). Il tutto mentre i bulletti amici del primo della classe (Olanda e Finlandia) non la smettono di alzare la cresta, pretendendo garanzie reali da paesi allo stremo.
Grazie ad un ben congegnato ricatto sul voto al “pacchetto crescita”, Monti porta a casa un alleggerimento almeno formale delle condizioni a cui il paese sotto attacco può attingere alle risorse comuni: per attivare la procedura sembrerebbe che ora basti una semplice dichiarazione dello stato di difficoltà. Diversamente da quanto accaduto per Grecia, Irlanda e Portogallo, non dovrà impegnarsi, sotto ricatto, a realizzare misure draconiane di austerità.
Benché, in patria, la Merkel e i suoi collaboratori continuino con il loro mantra “nessun aiuto senza impegno al rigore”, l’accordo raggiunto lo scorso fine settimana non parrebbe prevedere alcun tipo di controllo formale ulteriore rispetto a quelli già previsti (ad esempio quello della Commissione).
Monti ha fatto tirare agli Italiani un sospiro di sollievo quando si è vantato ufficialmente di aver rimosso il triste spauracchio del rappresentante del Fondo Monetario Internazionale… Insomma, il premier-banchiere italiano porta a casa una vittoria formale sull’ottuso rigorismo germanico, ed allontana lo spettro delle ingerenze del FMI.
La Merkel, del resto, sa benissimo che, per attivare la procedura anti-spread (anche depotenziata come è ora) sarà ancora necessaria una larga maggioranza in seno al Fondo (sia esso EFSF ovvero ESM). Poiché la Germania è il suo più importante garante, avrà sempre potere di veto sull’approvazione delle misure di soccorso.
Resta comunque irrisolto il tema del carburante da mettere nel serbatoio di questa macchina da guerra (EFSF e ESM) nata per fare a pezzi i nemici dell’euro: 440 miliardi, in effetti, sono pochi, anche perché gli interventi su Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna ne hanno bruciati quasi la metà. Finché la visione politica della Merkel non andrà oltre quella dell’operaio medio Mercedes, poi, non sembra che ci sia spazio politico per aumentare la dotazione dei Fondi.
La vera novità del fine settimana, è la possibilità che i sistemi bancari in difficoltà possano attingere direttamente ai Fondi, anziché passare attraverso ai governi. Oggi la banca a rischio fallimento bussa a denari presso il suo governo, che effettua il salvataggio iniettando cassa. Questo comporta un aumento del debito pubblico, i cui titoli verranno acquistati anche dalla banca salvata. Questa si ritroverà nell’attivo una montagna di titoli di stato il cui valore è molto volatile, cosa che potrebbe causare un avvitamento nella crisi di liquidità.
D’ora in poi, le banche europee in crisi potranno attingere direttamente ai Fondi per superare l’impasse. Restano aperti anche in questo caso i due temi delle risorse (vedi sopra) e delle modalità dell’intervento, che anche in questo caso potrebbe essere condizionato all’adozione di misure di rigore da parte del paese nel quale operano le banche da salvare.
In ogni caso appare interessante la possibilità di arrivare in tempi brevi ad una “unione bancaria europea” a supervisione centralizzata, che a Bruxelles hanno detto di voler vedere realizzata addirittura a gennaio dell’anno venturo. Insomma, Monti si è mosso da burocrate consumato a Bruxelles, e ha saputo vendere come diamanti i pezzi di vetro che ha portato a casa. In effetti, i principali nodi restano irrisolti; oltre alla sconsiderata politica della Merkel, che appare impossibile ridimensionare in modo definitivo, resta la grande amarezza per una politica europea centrata sui problemi delle banche anziché sulle esigenze dei cittadini.
Certo, auspichiamo che si possa davvero costruire in tempi brevi un’Europa in cui tutte le banche sono soggette ad un controllo unitario: si spera che così almeno non dovremo pagare con le nostre tasse gli errori dei loro capi. Tuttavia difficilmente questa riforma potrà controbilanciare il totale fallimento politico dell’Europa, simboleggiato, oltre che dal disastro greco, dai dati sulla disoccupazione nell’area, che segnano un record negativo: sono infatti oltre l’11% i cittadini Area Euro senza lavoro (quasi un quarto della popolazione attiva in Spagna e oltre il 20% in Grecia).
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di Carlo Musilli
Anche quando le Borse volano e gli spread crollano, la guardia non va abbassata. La tensione che da giorni regna fra le cancellerie di mezza Europa dimostra che i mercati non sono uno strumento affidabile per giudicare ciò che avviene in politica. Venerdì, dopo la conclusione dell'Eurogruppo, i listini azionari hanno fatto segnare un rialzo da record. Cosa ancora più insolita, il segno positivo ha resistito anche lunedì (generalmente dopo aver acquistato in massa gli operatori vendono per realizzare i guadagni). Come mai?
Verrebbe da pensare che i leader europei abbiano definitivamente imboccato la strada migliore possibile per risollevare il destino dell'Eurozona, ma ovviamente non è così semplice. Il primo boom è legato a un effetto sorpresa: nessuno si aspettava che la cancelliera Angela Merkel si piegasse alle richieste di Italia e Spagna (e infatti, in realtà, non è stato così). Il secondo rialzo (molto più timido) è motivato invece dalla speranza che questa settimana la Bce abbassi nuovamente il tasso di riferimento, stavolta dall'1% allo 0,75% (che sarebbe il nuovo minimo storico). Nel frattempo però dall'economia reale sono arrivati segnali tutt'altro che rassicuranti. Sempre lunedì l'indice che misura la salute della manifattura nell'eurozona ha fatto registrare i dati più bassi degli ultimi tre anni, ancora in piena zona recessiva.
A ben vedere, quindi, non ci sono molte ragioni per tirare il fiato e lasciarsi andare all'ottimismo. Le stesse misure decise nel corso dell'ultima riunione a Bruxelles sono ancora prive di molti dettagli e perché acquistino concretezza bisognerà aspettare l'Eurogruppo del 9 luglio.
Le mosse programmate per stabilizzare la finanza della zona euro sono tre. La prima - lo "scudo anti-spread" - ha fatto gridare al trionfo politico di Mario Monti, ma non è la più rilevante. In sostanza, al fondo europeo Esm (che sarà operativo a breve) sarà consentito di acquistare i bond dei Paesi che, pur essendo virtuosi in materia di conti pubblici, abbiano dei differenziali eccessivi a causa della speculazione.
Questo intervento permetterà di stabilizzare i rendimenti sui titoli di Stato. Per beneficiarne bisognerà fare richiesta e siglare un memorandum (un particolare in contrasto con le richieste di Monti, che mirava all'attivazione automatica oltre una determinata soglia di spread). Il tutto però senza gli opprimenti tecnici della troika (Ue, Bce e Fmi) a supervisionare.
Il via libera da parte della Germania è arrivato dopo che il Premier italiano - immediatamente seguito da quello spagnolo e sostenuto da Parigi - ha minacciato di non lasciar passare il pacchetto da 130 miliardi per la crescita senza l'ok allo scudo. Nella sostanza però questa misura non è una novità: era tutto già previsto nello statuto dell'Esm. Berlino in realtà non ha fatto alcuna concessione, ma i modi bruschi di Palazzo Chigi non devono comunque esser piaciuti alla cancelliera. Il sospetto è nato lunedì, quando Finlandia e Olanda (tradizionali alleati di Berlino) hanno detto di esser contrarie all'applicazione dello scudo.
Più che un veto, quello dei due Paesi che insieme alla Germania costituiscono "l'asse del nord" è sembrato un segnale politico, un invito a non forzare la mano. A livello di procedure, né Helsinki né Amsterdam hanno la forza di bloccare in via definitiva il provvedimento, come hanno spiegato i vertici della Commissione europea.
Le altre due misure stabilite dall'Eurogruppo rappresentano invece le vere novità. Innanzitutto, il compito di supervisionare le banche della zona euro passerà dalle autorità nazionali alla Bce. Una volta conclusa questa parziale cessione di sovranità, all'Esm sarà permesso di prestare soldi direttamente agli istituti di credito, senza passare per i governi. Non è un dettaglio: in questo modo gli aiuti europei non verranno calcolati nei debiti pubblici e il Fondo, prima di aprire il forziere, potrà imporre le proprie condizioni puntando il dito sul bersaglio giusto: le banche, non i contribuenti. Ora bisogna solo sforzarsi di crederci.
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di Emanuele Vandac
L’aveva capito già Paolo di Tarso (o forse il più tardo omonimo), il quale, nella celebre epistola scritta a Timoteo due millenni orsono, scriveva che “l’avidità è radice di tutti i mali”. E pensare che ai suoi tempi non esistevano ancora le banche d’affari... La finanza internazionale è mostro insaziabile: assume rischi folli causando crisi ed instabilità in tutto il globo, salvo poi chiedere ai governi di pagare il conto ogni volta che le cose vanno male.
I banchieri hanno a cuore, dicono, non tanto le proprie poltrone e i propri astronomici stipendi, quanto il benessere dell’intera collettività: il loro fallimento, strepitano, produrrebbe danni gravissimi alle economie nazionali e quindi anche alla società.
Ciò accade perché i loro giocattoli criminali, sotto gli occhi distratti dei “regolatori”, sono cresciuti come una massa tumorale, fino al punto da rendere impensabile anche la sola ipotesi di consentire il loro fallimento. Al pari di alcolizzati impenitenti, ogni volta che le banche vengono scoperte in flagrante, spergiurano che “questa è l’ultima volta, e che non succederà più”. I loro manager raccontano agli azionisti e ai media che, ora, hanno stabilito limiti ragionevoli ai propri bonus; eppure ogni anno si auto-attribuiscono compensi solo marginalmente inferiori a quelli percepiti prima delle crisi (crisi che hanno contribuito ad evocare con i loro comportamenti sconsiderati).
Da questo punto di vista, è emblematica la figura di Bob Diamond (un nome, un destino), capo supremo del colosso bancario britannico Barclays. In un documento presentato ad una audience ristretta lo scorso 23 maggio, Diamond ha infatti sostenuto che il concetto di “cittadinanza responsabile” è uno dei quattro attorno ai quali intende applicarsi nel corrente anno contabile: “Non si tratta di un’iniziativa estemporanea”, ha spiegato Diamond. “Vorremmo piuttosto che voi [i cittadini] tra qualche anno possiate esprimere un giudizio sulla nostra condotta, valutando le nostre capacità professionali, i nostri rapporti con gli azionisti e la nostra reputazione. Ma soprattutto se saremo riusciti a divenire un’impresa migliore e dei cittadini più virtuosi”. Parole condivisibili: peccato non siano sincere.
Che l’immagine delle banche britanniche necessiti una mano di trucco è evidente: a causare il quasi raddoppio del debito pubblico britannico nel quinquennio 2007 - 2011 sono state infatti le ciclopiche operazioni di salvataggio pubblico con cui il governo è dovuto intervenire per salvare Royal Bank of Scotland, Northern Rock e Lloyd’s Bank.
Se parliamo di stipendi, poi, si fa davvero fatica a credere a Diamond nella sua veste di moralizzatore: sembra infatti che in sei anni di lavoro egli abbia ricevuto dalla sua banca qualcosa come 130 milioni di euro - il suo bonus di quest’anno (21 milioni di euro), per dire, ha fatto fare un salto sulla sedia a più di un azionista. Per valutare quanto Barclays possa definirsi un cittadino modello, basti qui ricordare il ruolo primario assunto dalla banca nella predisposizione di uno schema destinato all’elusione fiscale, che ha sottratto alle casse di vari stati oltre seicento milioni di euro…
A ridicolizzare i tentativi di darsi un’immagine un po’ meno ammaccata giunge in questi giorni un’ulteriore notizia negativa. Mercoledì 28 giugno i media annunciavano che le autorità di vigilanza bancaria americane e britanniche hanno comminato a Barclays due maxi multe (rispettivamente di circa 74 e di 283 milioni di euro) per aver contributo a manipolare la formazione del tasso di interesse LIBOR dal 2005 al 2009. Un caso che dimostra con tutta evidenza le situazioni paradossali in cui si finisce per incappare quando l’intero sistema finanziario deve rendere conto solo …a sé stesso.
Il LIBOR (London Interbank Offer Rate) è un indice del livello dei tassi nelle varie divise che, come spiega l’acronimo, viene fissato ogni giorno a Londra sulla base di una media dei tassi di finanziamento proposti da un panel di banche rappresentativo del mercato. In sostanza, ogni giorno le banche usano, anche per fare i prezzi alla loro clientela, un parametro fissato con le quotazioni che … esse stesse fanno alle altre banche.
Il LIBOR (simile all’EURIBOR, che però riguarda il solo euro, e viene calcolato dalla European Banking Federation) rappresenta il livello ufficiale dei tassi finanziamenti e viene impiegato per valorizzare le rate dei finanziamenti a tasso variabile; esso è inoltre un parametro fondamentale per attualizzare e capitalizzare flussi futuri di denaro: è dunque il pane quotidiano di ogni banca commerciale e d’affari.
E’ chiaro come le banche che partecipano al panel si trovino in conflitto di interesse: da un lato sono infatti i fornitori del dato sugli interessi (in quanto soggetti che quotano il denaro sul mercato interbancario); dall’altro sono i suoi utilizzatori (in quanto se ne servono per chiudere operazione, valorizzare milioni di contratti derivati e, in generale, le attività e passività nei loro libri contabili).
Ecco John, un trader con un bel portafoglio il cui valore può cambiare ogni giorno di milioni di euro al variare di pochi centesimi del LIBOR. Nella stessa banca lavora anche Trevor, che invece per lavoro fa prezzi sul mercato interbancario. Che cosa impedisce a John di fare uno squillo a Trevor e di chiedergli se per favore può immettere a sistema un’offerta non proprio realistica, ma molto più vicina al livello che serve a John per far bella figura con i suoi capi?
Niente, tanto è vero che una dinamica di questo tipo sembra si sia verificata con una certa regolarità per oltre quattro anni alla Barclays (e non solo lì). A quanto risulta alle autorità di vigilanza, gli operatori dell’interbancario si adoperavano per spingere i tassi di mercato nella direzione desiderata dai loro colleghi dell’investment banking, in modo da dare loro un aiutino …
Quando a fine 2008 la crisi di credito avrebbe dovuto spingere i tassi in alto, il LIBOR rimase misteriosamente a livelli accettabili. Quest’insolita circostanza ha fatto accendere i riflettori delle autorità, al di qua e al di là dell’Oceano. A quanto riportano Associated Press e The Independent, sulla base delle istruzioni impartite da una anonima figura apicale dell’organizzazione, pare che quasi quotidianamente Barclays inserisse scientemente a sistema tassi chiaramente troppo bassi.
In questo modo, oltre a controllare il valore “di mercato” delle posizioni in essere, Barclays truccava la sua posizione di liquidità. Se avesse fatto conoscere al mercato i veri tassi a cui era pronta a prendere denaro in prestito sull’interbancario (molto alti evidentemente), gli altri operatori avrebbero capito che era a corto di liquidi; una cosa che il top management voleva evitare ad ogni costo.
Di fronte a questo disastro, Diamond si è limitato a tuonare contro il presunto manipolo di “serpi in seno”, che, come da copione, avrebbero agito di loro iniziativa (ovviamente, le alte sfere non erano informate). Diamond ha però fatto vago riferimento alla cultura iperaggressiva della banca, la quale potrebbe aver indotto nelle persone l’errata convinzione che la spudorata menzogna fosse il comportamento che i loro capi si attendevano da loro in quel momento.
Anche seguendo questo perverso ragionamento, chi, se non i grandi capi, sarebbe responsabile di una cultura aziendale mefitica come quella che ha causato simili obbrobri finanziari? Mentre Cameron si distingue per cautela (“lasciamo prima che il management risponda a questi gravi interrogativi”, ha detto alla stampa), il liberaldemocratico Matthew Oakshott sulla vicenda ha un punto di vista molto più colorito: “Se Bob Diamond avesse un briciolo di senso della pudore, si dimetterebbe; e se il consiglio d’amministrazione di Barclays avesse spina dorsale, lo licenzierebbe in tronco”.
In effetti Diamond, a prescindere dalla sua responsabilità oggettiva in quanto capo della banca, si trova in una posizione particolarmente scomoda: infatti, è stato a capo della divisione banca d’affari di Barclays proprio nel periodo in cui si sarebbero verificate le irregolarità denunciate dalle autorità inglesi ed americane.
Per il momento, Diamond si è limitato a tagliare a sé e al triumvirato dei suoi top manager il bonus di quest’anno, quale misura di riconoscimento di responsabilità, “in quanto leader”. C’è comunque la possibilità che i guai per Barclays non finiscano qui, se è vero che alle multe potrebbero presto aggiungersi richieste di risarcimento miliardarie da parte dei tanti che la condotta scorretta di Barclays ha danneggiato.
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di Carlo Musilli
Prima hanno negato l'esistenza del problema. Poi hanno assicurato di poterlo risolvere da soli. Alla fine si sono arresi e hanno invocato aiuto. Come da copione, la Spagna ha annunciato che chiederà fondi internazionali per rianimare il proprio settore bancario, soffocato da miliardi di titoli tossici legati alla bolla immobiliare del 2008. Il governo di Madrid cede così alle pressioni dell'Europa, terrorizzata dal rischio contagio.
L'attenzione si sposta ora sul nostro Paese: quanto costerà all'Italia il salvataggio della Spagna? E dopo quest'ennesimo esborso, in caso di necessità, nella zona euro rimarranno abbastanza soldi per sostenere anche Roma? Domande a cui per ora non esiste una risposta certa e che nei prossimi giorni metteranno in allarme i mercati.
Intanto, secondo il Fondo monetario internazionale, per salvare gli istituti di credito iberici servono "almeno 40 miliardi di euro". Ma la stima è al ribasso. I consulenti nominati dall'esecutivo spagnolo devono ancora finire di calcolare le dimensioni reali della voragine che si è spalancata nel settore creditizio (il responso è atteso entro il 21 giugno).
L'Eurogruppo però si è già detto disponibile a mettere sul piatto "fino a 100 miliardi di euro". Un annuncio arrivato a meno di 48 ore dall'ultimo colpo di falce sul rating: solo giovedì scorso, Fitch ha tagliato addirittura di tre livelli il giudizio sul debito sovrano spagnolo, portandolo da "A" a "BBB". Appena tre gradini sopra i cosiddetti "junk bonds", la spazzatura.
Si completa a questo punto il simpatico acronimo "PIGS" (maiali) partorito dai britannici: dopo Portogallo, Irlanda e Grecia, la Spagna sta per diventare il quarto paese europeo a ricevere aiuti internazionali. Le differenze con i tre precedenti però ci sono, e pesano molto. Innanzitutto, non si prevede di imporre a Madrid ulteriori strette sul piano d'austerità già avviato. L'unica condizione posta dall'Europa è una riforma del sistema bancario, visto che fin qui la contaminazione delle disgraziate "cajas" con la politica ha prodotto solo un circolo vizioso di corruzione e malgoverno.
In secondo luogo, un vantaggio importante per la Spagna rispetto agli altri Paesi dissestati (Grecia in primis) è il ruolo tutto sommato marginale che sarà affidato al Fmi. L'istituzione di Washington non è chiamata a sborsare un solo centesimo in favore di Madrid, ma solo a monitorare dall'esterno l'attuazione delle riforme. Un creditore in meno da cui dipendere, e non è poco.
L'aspetto decisivo è però un altro ancora. A differenza degli aiuti stanziati fin qui, quello che dovrebbe salvare la Spagna si presenta con un'innovazione fondamentale: è rivolto solo alle banche, non anche allo Stato. Ed è proprio questo l'alibi con cui si evita d'imporre al Paese nuove misure a garanzia dei conti.
Il trucco è semplice e rappresenta un grande successo diplomatico per il primo ministro Mariano Rajoy. In sostanza, i fondi europei non saranno girati direttamente al governo di Madrid, ma al Forb, il Fondo pubblico per la ristrutturazione ordinata del settore bancario nato nel 2009. Di qui i finanziamenti saranno canalizzati negli istituti di credito. Sembra un dettaglio, ma non lo è: tramite questa mediazione, i soldi formalmente non saranno gestiti dall'esecutivo,che quindi eviterà di cedere una buona fetta della propria sovranità a Bruxelles (almeno in via ufficiale).
Ma da dove arriveranno questi 100 miliardi? Messo da parte l'Fmi, l'intera copertura dell'operazione sarà affidata ai fondi salva-Stati europei: l'Efsf (temporaneo, ma già attivo) e l'Esm (permanente, ma operativo solo dal mese prossimo). Insieme i due strumenti hanno a disposizione circa 500 miliardi di euro.
Ci sono però dei problemi da superare. L'Esm è legalmente un "creditore privilegiato", quindi in teoria ha diritto ad essere rimborsato prima degli altri creditori. Una consapevolezza che potrebbe rendere la Spagna ancor meno attraente agli occhi degli investitori privati.
Quanto all'Efsf, la situazione è ancora più complicata. A dispetto del nome, non si tratta di un fondo tradizionale, perché non ha a disposizione risorse proprie. Funziona così: gli stati membri forniscono delle garanzie che consentono all'Efsf di emettere obbligazioni. I fondi per gli aiuti arrivano proprio dalla vendita sul mercato di questi bond. La Spagna fino a oggi era uno dei Paesi che garantiva i prestiti, ma adesso che diventa destinatario dei finanziamenti non può più svolgere questa funzione. Le garanzie venute meno devono essere quindi ridistribuite fra gli altri membri, appesantendo i singoli debiti pubblici.
La quota di garanzie che fa riferimento all'Italia sale dal 19,2 al 24,7%, cioè 39 miliardi di euro in più. Soldi che speriamo di non dover spendere mai, ma che saranno comunque contabilizzati da Eurostat nel nostro debito. Con tanti saluti alle preoccupazioni ragionieristiche che ci hanno assillato negli ultimi mesi. Eppure il premier Mario Monti non ha dubbi e assicura "pieno sostegno" all'operazione. Nella speranza che basti questo a salvare la Spagna.