di Mario Braconi

Come scrive Krugman sul New York Times, l’aborto dell’Euro è il risultato del tentativo di costruire una unione monetaria in assenza del benché minimo barlume di Europa politica. Il grande capitale d’oltreoceano, libero come un virus, ha trovato il più improbabile degli alleati nel governo del Paese “leader” dell’area euro, il quale, deposte le salutari inibizioni che lo hanno tenuto a bada per qualche decennio, ha finalmente dato libero sfogo alle sue mai sopite tendenze egemoniche.

Razzismo allo stato puro: come altro definire la “missione” della cancelliera di “mettere in riga” le cicale greche, in modo tale che anche gli altri “parassiti” della periferia europea imparino la lezione? Le parole piene di disprezzo di Jürgen Fitschen, una delle figure apicali della Deutsche Bank, danno un’idea di quello che si dice nei salotti del potere tedeschi: “la Grecia? Uno stato fallito, uno stato corrotto”.

Esatto, ma corrotto dalle banche, bisognerebbe aggiungere! E che dire delle esternazioni del vice primo ministro belga, Didier Reynders, il quale non si sa se per stupidità o ignoranza, ha parlato apertamente di una possibile uscita dall’euro della Grecia, sostenendo che la mancanza di preparazione a questo evento, dato a questo punto per altamente probabile, costituirebbe per le banche centrali e per le società private, “un grave errore professionale”.

Nessuna speranza, dunque? Forse non è detta l’ultima parola. Scrive Kruger che l’euro potrebbe ancora essere salvato, sempre che i leader tedeschi e la BCE la piantino di fare i moralizzatori ed affrontino una buona volta la dura realtà. L’economista americano fa un semplice esempio: tanto la Spagna che la Florida sono nei guai causa della bolla immobiliare. Quando però la bolla è scoppiata, il governo federale americano ha continuato a pagare pensioni e prestazioni sanitarie, mentre la Spagna non può contare su un simile sostegno da parte dell’Europa. Da noi i deficit fiscali li finanziano i cittadini.

In effetti la moda di questi giorni è far pagare ai popoli gli errori causati dalla finanza globale e dall’insussistenza politica: alle banche i profitti, ai cittadini le misure di austerità. In effetti sono sorprendenti i risultati di un recente sondaggio, secondo cui vi sono ancora ben 3 cittadini europei su 10 a credere nella validità del progetto Europa. Come scrive Krugman, non c’è alcuna possibilità che la Grecia affronti l’inferno in terra che gli hanno preparato la BCE e il Fondo Monetario Internazionale: tagli devastanti allo stato sociale minimo, disoccupazione oltre il 20% (50% quella giovanile). Il risultato di questa “politica” sono rabbia e frustrazione, eccellente humus per l’estremismo politico.

Il tutto mentre i greci lentamente ma inesorabilmente trasferiscono all’estero quegli stessi euro (a rischio estinzione) che la BCE continua a pompare nei forzieri delle banche greche. Quando la Banca Centrale smetterà di iniettare la liquidità, la Grecia dovrà affrontare il forzato abbandono della divisa unica e il ritorno alla Dracma. Cosa che, ricorda Krugman, condurrà ad una immediata corsa agli sportelli in Italia e Spagna.

Si è detto sopra della insipienza e della pochezza dei “leader” europei. Tuttavia poche testimonianze rendono conto dei gravi deficit professionali ed umani della classe politico-imprenditoriale autonominatasi salvatrice dell’euro quanto le parole in libertà pronunciate da Christine Lagarde in un’intervista resa lo scorso venerdì a Decca Aitkenhead del Guardian. Alla giornalista che le domanda come si senta al pensiero che le sue politiche sono proprio quelle che impediranno ai greci di curarsi o di assumere una baby sitter, l’ex ministro delle finanze francese risponde di preoccuparsi più della sorte dei bimbi del Niger, costretti ad accontentarsi di due ore di lezione al giorno, spesso da fruirsi in piedi, dal momento che laggiù si può contare di una sedia ogni tre alunni. “Anzi, sa che le dico? Ogni volta che penso alla Grecia, penso a tutta quella gente che cerca in ogni modo di evadere le tasse.” Quando Aitkenhead la incalza ("E che dire di chi, in quel paese, deve sopravvivere senza un lavoro e senza servizi pubblici?”), Lagarde declina stolidamente il suo mantra liberista: “Nei loro confronti provo gli stessi sentimenti [sordo risentimento e senso di rivalsa, si direbbe ndr]. Penso anche che dovrebbero aiutarsi da soli e collettivamente.” Come? “Pagando le tasse”.

E’ davvero commovente che una persona tanto in alto nella catena alimentare dimostri attenzione alla tragedia dei bambini africani, sempre che essa sia sincera. Restano da chiarire le ragioni di tanto accanimento contro i bimbi, i vecchi e le mamme greche, apparentemente motivato dalla loro cittadinanza. Ammesso, e non concesso, che siano registrati nello stato di famiglia di conclamati evasori fiscali, per quale ragione dovrebbero essere chiamati a pagare per le colpe dei loro parenti?

Sono parole che fanno il paio con le idiozie demagogiche di Bersani, quando si esercita sulla legittimità del soccorso ad un evasore fiscale colpito da infarto. Tornando alla Lagarde, viene il sospetto che alla signora siano più simpatici i ragazzini del Niger perché, a differenza della Grecia, il Niger non emette bond sull’euromercato. Il furto di futuro che viene perpetrato quotidianamente ai loro danni non ha conseguenze sui mercati finanziari. Per un burocrate ipocrita, la loro tragedia è un comodo “altrove” per ripulirsi l’anima ad uso e consumo dei media.

I deliri della Lagarde sono già abbastanza indigesti, e tali da mettere seriamente in dubbio le sue capacità analitiche e politiche (sorvoliamo  su quelle umane). Se non fosse per il fatto che il direttore generale del FMI percepisce uno stipendio annuo di poco meno di 470.000 dollari l’anno, cui si devono aggiungere un’indennità fissa di circa 84.000 dollari ed una infinità di altri benefit (affitto, rimborso spese del coniuge e dei figli, scuola, assicurazioni sanitarie, immunità per viaggi e trasporti di merci): non c’è dunque da meravigliarsi se Christine consideri i sacrifici degli altri inevitabili. Specie considerando che ogni dollaro che guadagna le arriva rigorosamente esentasse: il FMI è infatti un’organizzazione internazionale.

Secondo il Guardian la penosa uscita della Lagarde potrebbe essere la conseguenza della frustrazione della signora, reduce da una serie di incontri della cosiddetta troika in Grecia, dai quali sarebbe emerso che il prelievo fiscale di quel paese in bancarotta sarebbe stato meno soddisfacente rispetto alle previsioni. Ah, questi Greci che non vogliono pagare le tasse… Considerando che una parte dei loro soldi, dopo un lungo giro, finisce sul conto corrente di gente come la Lagarde, tutto sommato non ci sentiamo di biasimarli più di tanto.

di Michele Paris

L’ennesimo vertice dei paesi dell’eurozona si è concluso nella mattinata di giovedì senza alcun accordo di rilievo su possibili misure concrete per fronteggiare il rapido deteriorarsi della crisi del debito nel continente. A prevalere sono state le profonde divisioni sulla politica economica europea che vedono, da un lato, i governi che chiedono provvedimenti di stimolo alla crescita e dall’altro, a cominciare dal cancelliere tedesco Angela Merkel, quelli che non intendono fare alcuna marcia indietro dall’implementazione di rigide misure di austerity.

La proposta che sembra raccogliere sempre più sostenitori all’interno dell’Unione è l’emissione di eurobond, cioè titoli di debito europei garantiti congiuntamente da tutti e 17 i paesi che utilizzano la moneta unica. Come promesso in campagna elettorale, il neo presidente francese François Hollande si è fatto portavoce di questa iniziativa che mercoledì è stata però nuovamente respinta fermamente dalla Merkel.

Quest’ultima teme che con questo strumento la Germania finirebbe per garantire il debito dei paesi meno affidabili, causando un’impennata dei redimenti dei propri titoli e spingendo i loro governi ad abbandonare l’impegno di mettere in atto le “riforme” economiche richieste da Berlino e da Bruxelles. La Germania non è peraltro l’unico governo a respingere l’ipotesi degli eurobond. Nettamente contrari sono anche gli altri paesi UE considerati fiscalmente più solidi, come Olanda, Finlandia e Austria.

Berlino ha al contrario mostrato qualche apertura su altre misure più modeste per cercare di contrastare la crisi e rimettere in moto la crescita economica. Tra di esse ci sono lo stanziamento di maggiori fondi per la Banca Europea degli Investimenti, il dirottamento dei fondi strutturali europei già esistenti su programmi di crescita e l’emissione di “bond a progetto”, destinati cioè a finanziare solo specifiche iniziative.

Un’azione più aggressiva della Banca Centrale Europea, invece, è stata chiesta soprattutto dal primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy, il quale nell’esprimere preoccupazione per lo stato delle banche del suo paese, ha auspicato una nuova infusione di denaro agli istituti in difficoltà. Proposte più concrete, secondo i vertici dell’Unione, dovrebbero comunque essere presentate in un prossimo summit a fine giugno.

Un accordo tra i partecipanti al vertice di Bruxelles è stato raggiunto sulla permanenza della Grecia nella moneta unica, a patto tuttavia che il prossimo governo che nascerà ad Atene continui a mettere in atto le devastanti misure di austerity concordate con la troika (UE, BCE, FMI) in cambio del piano di salvataggio, cioè esattamente l’opposto di quanto espresso dagli elettori di questo paese lo scorso 6 maggio.

Questa posizione è stata espressa in modo chiaro da Angela Merkel nel corso di un breve faccia a faccia nella capitale belga con il premier greco ad interim, Panagiotis Pikrammenos, al quale la cancelliera ha detto che la Germania farà il possibile per aiutare il suo paese ma Atene dovrà rispettare gli accordi con i suoi creditori. Anche lo stesso Hollande, nonostante la retorica anti-austerity, ha ribadito che la Grecia “deve rispettare gli impegni presi”.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, in ogni caso, di fronte al moltiplicarsi delle voci sulla possibile uscita della Grecia dall’euro, i governi europei si stanno preparando per questa eventualità e per le conseguenze imprevedibili che essa avrebbe non solo su paesi come Spagna e Italia, ma anche sulla tenuta dell’intera unione monetaria.

A dimostrazione dell’aria che si respira nelle capitali europee, la Reuters ha rivelato che lunedì i ministri delle Finanze dell’eurozona, nel corso di una “conference call”, si sono accordati per predisporre piani di emergenza in caso di un abbandono della moneta unica da parte della Grecia. I timori sono legati alle nuove elezioni in programma il prossimo 17 giugno, il cui esito potrebbe segnare il destino di Atene.

I più recenti sondaggi indicano un testa a testa tra Nuova Democrazia (ND), partito di centro-destra favorevole all’accordo con la troika, e la Coalizione della Sinistra Radicale (SYRIZA) di Alexis Tsipras che intende invece rinegoziare i termini del prestito da oltre 100 miliardi di euro concordato quest’anno. In caso di un successo elettorale di quest’ultimo partito o con un nuovo stallo nelle trattative per la formazione dell’Esecutivo, le probabilità di vedere la Grecia tornare alla dracma aumenterebbero vertiginosamente.

A rendere ancora più allarmante il futuro dell’Unione è stata poi l’altro giorno la pubblicazione di un rapporto OCSE che ha prospettato un ulteriore aggravamento della crisi economica in Europa. Senza provvedimenti incisivi per invertire la tendenza, ha avvertito l’OCSE, la crisi europea rischia di gettare in recessione l’economia dell’intero pianeta.

Le cupe prospettive della Grecia e la sostanziale paralisi dei governi europei di fronte alla crisi ha affossato i mercati di tutto il mondo nella giornata di mercoledì. L’euro, inoltre, è sceso ai livelli più bassi dal luglio 2010 nei confronti del dollaro. Gli investitori si sono precipitati sui titoli dei paesi europei che ancora godono della tripla A. I bond tedeschi trentennali sono così scesi al rendimento più basso mai registrato, mentre il record è stato sfiorato per quelli decennali. In netto ribasso sono stati anche i titoli olandesi e finlandesi.

Nonostante le differenze emerse ancora una volta a Bruxelles, tutti i governi dell’eurozona, e non solo, condividono la volontà di far pagare gli effetti della crisi in atto alla maggioranza della popolazione europea. Le cosiddette misure di “stimolo” alla crescita avanzate da alcuni paesi consistono infatti principalmente nell’erogazione alle banche di ancora più denaro virtualmente a costo zero e nell’adozione di “riforme” del mercato del lavoro che renderebbero ancora più precaria la situazione di decine di milioni di persone. Il tutto, ovviamente, senza scostarsi se non in maniera superficiale dalle politiche di rigore che già hanno aggravato la crisi economica e sociale un po’ ovunque in questi ultimi anni.

di Carlo Musilli

Mark Zuckerberg si è sposato sabato scorso e nella lista di nozze aveva espresso un solo desiderio: il boom di Facebook a Wall Street. Purtroppo per lui gli operatori di Borsa non sono gente dal cuore tenero e, invece del regalo, hanno deciso di fargli un bello scherzetto. Così la quotazione del mastodontico social network si è trasformata in uno dei flop più clamorosi della storia. Nelle prime tre sedute, il titolo è crollato del 19%, bruciando quasi un quinto del suo oceanico valore di partenza, superiore ai 100 miliardi di dollari.

Il costo di ogni singola azione è sceso sotto i 31 dollari, dai 38 iniziali. Fra le maxi-Ipo americane che hanno raccolto più di un miliardo (e quella di Facebook è stata la terza più grande della storia dopo Visa e General Motors), si tratta del peggior esordio negli ultimi cinque anni. Com'è possibile? La creatura di Zuckerberg non era una macchina da soldi?

Il tonfo di martedì (-8,9%) è quello che si spiega più facilmente e getta una luce sinistra sull'intera vicenda. Mary Schapiro, presidente della Securities and Exchange Commission (la Consob americana), ha annunciato che "saranno esaminati" i problemi legati all'Ipo del social network.

Venerdì, giorno del debutto sui listini, il Nasdaq ha fatto davvero una brutta (e insolita) figura: per una serie di guai tecnici, gli scambi sono iniziati con mezz'ora di ritardo e - quando finalmente sono partiti - l'indice ha avuto difficoltà nel comunicare l'esecuzione degli ordini ai trader. Uno degli investitori ha deciso di fare causa al Nasdaq, sostenendo di aver subito gravi perdite a causa del malfunzionamento.

Ma le stranezze non sono finite. Secondo il Financial Times, le autorità di sorveglianza dei mercati finanziari del Massachusetts hanno emesso un'ingiunzione nei confronti di Morgan Stanley, accusata di aver giocato sporco con gli investitori di Facebook. Alla vigilia dell'Ipo, gli analisti dell'istituto (per bocca dell' "esperto di internet" Scott Devitt) hanno tagliato le previsioni sugli utili 2012 dell'azienda.

A pesare sul giudizio è stato soprattutto il fatturato della pubblicità legata agli accessi tramite smartphone, un traffico in costante crescita rispetto a quello via computer, ma innegabilmente meno redditizio. Fin qui non ci sarebbe nulla di sospetto: si tratta di valutazioni sensate. Le autorità però intendono verificare se la Banca abbia comunicato la revisione dei target a tutti i clienti - come avrebbe dovuto fare - o solo ad alcuni.

“Dopo che Facebook ha presentato il 9 maggio un aggiornamento alla Sec, in cui forniva un'ulteriore guidance rispetto ai suoi trend di business - si difende la Banca in un comunicato - una copia del documento emendato è stata inviata a tutti gli investitori istituzionali e privati di Morgan Stanley e la modifica è stata ampiamente pubblicizzata dalla stampa in quei giorni”. Gli azionisti però non sono d'accordo e hanno avviato un'azione legale non solo contro la Banca, ma anche contro l'azienda stessa e l'amministratore delegato Zuckerberg.

Per fare chiarezza occorre però tener presente un dettaglio decisivo. Chi è stato il maggior sottoscrittore dell'Ipo e il responsabile del collocamento in Borsa di Facebook? Ma guarda un po', sempre Morgan Stanley. Bisogna capire allora perché mai una delle banche più prestigiose al mondo abbia tagliato le gambe alla stessa azienda in cui sta investendo un mucchio di soldi. Sembra addirittura che non sia stata l'unica: rumors di mercato dicono che anche Goldman Sachs e JP Morgan abbiano sottoscritto l'Ipo comportandosi allo stesso modo. Certo, gli analisti (in linea teorica) dovrebbero fare il loro dovere senza tener conto degli interessi della banca per cui lavorano. Ma nell'aria rimane odore di speculazione. Anche perché la lista dei misteri non è finita.

In tutta questa storia, la prima bizzarria in assoluto è il prezzo a cui sono state vendute in origine le azioni: quei famosi 38 dollari, che implicano una valutazione complessiva della società oltre il muro dei cento miliardi. La cifra è stata gonfiata in extremis, ancora una volta con l'aiuto di Morgan Stanley. A quel punto la Banca già sapeva che avrebbe dovuto rivedere i target della società, ma - a pochi giorni dalla quotazione - si è comunque battuta per aumentare i titoli in vendita da 337,4 a 421 milioni, ritoccando anche generosamente il loro valore rispetto al range di 28-35 dollari calcolato a inizio maggio. Un'esagerazione, e gli investitori se ne sono accorti subito. Facebook non vale tutti quei soldi. 

 

di Emanuele Vandac 

Da qualche anno la reputazione delle banche d’affari è giustificatamente al minimo storico. In effetti, la crisi globale scatenatasi nel 2008 è la conseguenza di una colossale operazione di speculazione partita dal mercato immobiliare, che ha distrutto la credibilità delle istituzioni finanziarie, provocando fallimenti bancari e una crisi globale. I primi sono stati tamponati con il denaro dei contribuenti, mentre la seconda è ben lungi dall’essere risolta.

La stessa crisi dell’euro, esplosa nel 2010, non è altro che la conseguenza della speculazione contro la divisa comune, determinata degli stessi saggi ideatori dei prodotti finanziari che hanno scatenato il terremoto del 2008: veri e propri criminali che, non contenti di aver provocato due crisi sistemiche in quattro anni, sono sopravvissuti grazie alle tasse dei cittadini.

Nello specifico, poche istituzioni finanziarie incarnano l’odiosa ed asociale visione del mondo tipica delle banche d’affari anglosassoni quanto Goldman Sachs. Pensiamo al caso dei mutui subprime, ovvero fidi concessi a cittadini americani con una storia creditizia non molto solida per consentire loro l’acquisto delle prima casa (anche se non è mancato chi, grazie alla droga finanziaria, ha voluto strafare, comprandone più d’una).

Ad un certo punto, complice la bolla speculativa che gonfiava in modo ridicolo le quotazioni degli immobili dati in ipoteca, questi prestiti venivano concessi sostanzialmente a chiunque ne facesse richiesta, indipendentemente dalla sue reali possibilità di rimborsare il prestito. Nella soddisfazione generale: i banchieri commerciali si fregavano le mani perché, con la scusa che il cliente era un “cattivo pagatore” potevano caricare tassi molto alti; i clienti d’altra parte vedevano improvvisamente divenire concreta la prospettiva di avere una casa di proprietà (benché non siano mancati i furbi che hanno annusato la possibilità di fare soldi facili).

Ad essere particolarmente contenti erano i capi delle banche d’affari americane che compravano dalle banche commerciali questi mutui senza futuro, li facevano a pezzi per poi assemblarli in prodotti strutturati complicatissimi. L’insipienza delle agenzie di rating e il conflitto di interesse di cui erano vittime (essendo valutatori e fornitori paganti degli emittenti) ha fatto in modo che prestiti senza alcuna possibilità di essere ripagati siano stati valutati come assolutamente sicuri oltre che caratterizzati da rendimenti interessanti.

Il giocattolo ha funzionato bene finché il mercato immobiliare ha continuato a salire in modo irrazionale; quando la bolla è scoppiata, i mutuatari, che fino al giorno prima potevano sfruttare le quotazioni dell’immobile dato in garanzia per venderlo e chiudere il mutuo che non riuscivano più a pagare, ovvero per aumentare il prestito (ovvero, pagando il debito con nuovo debito) si sono trovati incastrati nel meccanismo: senza soldi per la rata, restava solo la strada della vendita della casa, che nel frattempo però valeva il 30-40% di meno di quando era stata data in garanzia.

E questo anche se, negli anni delle cicale, i mutui venivano concessi per cifre fino al 99% del valore - drogato - dell’immobile: ad esempio, se il debito era 100.000 dollari, la casa a quel punto si poteva vendere a 60.000: dove prendere i 40.000 che mancavano all’appello? Meglio abbandonare il mutuo e farsi prendere la casa dalla banca, che la metteva in vendita, alimentando la spirale negativa sulle quotazioni immobiliari.

Così milioni di famiglie svantaggiate e/o imprudenti si sono ritrovate sul lastrico. Non è andata meglio, mutatis mutandis, a chi ha comprato i prodotti derivati strutturati su quei mutui rapidamente incagliatisi, dato che, nel giro di qualche mese si sono trovati in portafoglio dei titoli senza valore. Goldman Sachs non solo ha fatto i soldi con i prodotti derivati sui subprime sfruttando come pochi il mantra “originate and distribute” (originare e distribuire); ma ha anche speculato assumendo posizioni ribassiste (di vendita) su indici che replicavano l’andamento dei titoli asset-backed (che loro avevano creato): più il prezzo di questi scendeva, e più erano i dollari che affluivano nei forzieri della banca di Wall Street.

Come se non bastasse, quando nel 2008 la crisi ha cominciato a picchiare duro, e perfino gli inossidabili banchieri hanno cominciato a vedersela brutta, Goldman Sachs, il tempio del capitalismo senza inibizioni, ha utilizzato senza parsimonia i fondi messi a disposizione dall’amministrazione USA: secondo i dati ufficiali SEC le due sedi americana ed inglese di Goldman Sachs sono rimaste esposte verso la Federal Reserve per una media giornaliera di poco meno di circa 7 miliardi di dollari nel solo periodo marzo - novembre 2008.

Goldman Sachs, inoltre, è coinvolta anche nella grandiosa truffa operata dal governo greco nel 2002: grazie ad uno swap (conversione reversibile del debito da una divisa all’altra) stipulato ad un tasso di cambio di fantasia, ma “comodo”, i pagliacci di Goldman Sachs hanno fatto sparire magicamente un miliardo di dollari di debito sovrano greco, aumentando le possibilità per il governo di contrarne di nuovo. Pura apparenza, naturalmente, dato che il debito sarebbe ritornato ai suoi livelli nel giro di pochi giorni o mesi: perfino nella finanza creativa, alla fine “nulla si crea e nulla si distrugge”, com’è facile constatare: basta vedere che brutta fine ha fatto il popolo greco.

Per concludere: gli uomini della Goldman Sachs infettano le istituzioni (corrotte) a tutti i livelli, comprese banche centrali, governi, solo per citarne un paio. Non è un caso se l’attuale premier greco è un ex GS, così come sono (ex?) Goldman Mario Monti e Mario Draghi. Mentre Henry Paulson, segretario di Stato del secondo governo Bush, dava il benservito al Lehman Brothers, si adoperava alacremente per evitare il fallimento di AIG, un gruppo assicurativo che, anche se fosse fallito com’era suo destino, avrebbe polverizzato Goldman Sachs, cui doveva una montagna di miliardi.

Sarà una coincidenza, ma Mr. Paulson, prima di assumere l’incarico al governo, è stato amministratore delegato della Goldman Sachs. Mentre il capo del gabinetto di Timothy Geithner (il successore di Paulson) è l’ex capo della lobby di Goldman Sachs, il cui amministratore delegato pare frequenti con insolita frequenza la Casa Bianca. Insomma, se Goldman Sachs è molto odiata, ci sono molte e validissime ragioni: non occorre essere anarchici per riconoscere che essa rappresenta in modo paradigmatico il parossismo di un capitalismo finanziarizzato che ha elevato la truffa a sistema di vita, e nel quale ogni valore civile, sociale, politico e umano viene messo in secondo piano, quando non apertamente calpestato, per ossequiare un'unica (com)pulsione: il profitto, meglio se ingiustificato.

Goldman fa montagne di denaro grazie al suo istinto a giocare sporco, immersa come è in conflitti di interessi talmente macroscopici che non è ben chiaro come una società democratica possa tollerarli: Goldman indossa di volta in volta il “cappello” del trader e poi quello dello strutturatore, quello del venditore e quello del compratore, quello del regolamentatore e quello del soggetto a regolamentazione.

La novità della settimana è l’op-ed pubblicato mercoledì scorso sul New York Times da Greg Smith, un suo dirigente di stanza a Londra, che ha scelto un modo a dir poco inedito per rendere più pepata la sua lettera di dimissioni. In sostanza, si tratta di una lettera aperta con cui Smith spiega le ragioni che lo hanno spinto alla decisione di lasciare la società (si noti, per inciso come il New York Times la pubblichi come op-ed, ovvero come editoriale che esprime un’opinione diversa da quella coerente con la linea del giornale, cosa che equivale ad una presa di distanza dal polemico e linguacciuto Smith).

Scrive Greg: “La banca ha modificato il mio concetto di leadership. Una volta leadership voleva dire avere idee, dare il buon esempio e fare la cosa giusta. […] Oggi, se fai fare alla banca abbastanza denaro (e non sei proprio un serial killer) farai carriera. […] Nell’ultimo anno ho sentito cinque diversi direttori riferirsi ai propri clienti con il termine ‘marionetta’, talora perfino nelle e-mail interne. […] Mettiamoci idealmente in un giorno qualsiasi tra dieci anni: non occorre essere dei geni per capire che il ragazzo di bottega che siede in silenzio all’angolo della stanza mentre sente parlare tutto il tempo di “marionette”, “cavare gli occhi” e “fare soldi” non sarà divenuto proprio un cittadino modello.” Deve essere quello che è successo a Smith prima che vedesse improvvisamente la luce dopo un decennio abbondante di occhi ed orecchie ben rivestiti (per non parlare della lingua paralizzata).

La Goldman Sachs ovviamente dà del bugiardo al suo ex dipendente, mentre la stampa amica (ad esempio il Wall Street Journal) spiega lo sfogo di Smith con un pagamento di bonus non soddisfacente o con una mancata promozione. Non contenti di queste patetiche giustificazioni da opporre alle semplici, perfino banali osservazioni di Smith, qualcuno di Goldman Sachs fa sapere alla Fox Business Network che Smith parla in questo modo perché sostanzialmente è una mezza calzetta: “Non ha mai guadagnato mai più di 750.000 dollari l’anno”.

Boomerang: fino a dove si può spingere l’arroganza di chi è convinto di possedere il mondo nelle sue mani. Visto che si parla di soldi, una piccola soddisfazione se la può prendere anche il cosiddetto movimento “99%” che continua a voler “occupare Wall Street”: un impiegato che ha solo detto che il re è nudo ha prodotto un calo nelle quotazioni di Goldman Sachs di oltre 2 miliardi di dollari in un giorno. In fin dei conti, fare i soldi sulla pelle della povera gente che resta senza casa e senza lavoro pare sia perfettamente accettabile: quello che proprio non va, però, è fregare i clienti. E’ per questo che la gioia di vedere per una volta la verità spiattellata sulle pagine di un giornale lascia presto il passo all’amarezza.

di Carlo Musilli

La Grecia è già fallita. In modo ordinato, ma è "tecnicamente" fallita. Gli ultimi avvenimenti - la super ristrutturazione del debito e l'arrivo dei nuovi aiuti internazionali da 130 miliardi di euro - hanno due conseguenze fondamentali, nessuna delle due dal valore salvifico. Primo: la bancarotta incontrollata di Atene - l'incubo peggiore - viene rinviata di un paio d'anni. Secondo: il peso del prossimo salvataggio viene scaricato per intero sulle spalle dei contribuenti europei.

Insomma, parlare di un vero "salvataggio" è improprio e l'ottimismo circolato sulle bocche dei leader europei nell'ultima settimana è falso. Eppure qualche segnale d'incertezza è trapelato anche nelle alte sfere. Wolfgang Schaeuble, potentissimo ministro tedesco delle Finanze, in un'intervista pubblicata domenica su La Repubblica ha ammesso che "nessuno può escludere la necessità di un nuovo pacchetto di salvataggio per la Grecia". Lui ha ancora dei dubbi, i mercati no. E proprio nelle ore in cui prendeva corpo l'eroico salvataggio di Atene, le Borse europee, invece di festeggiare, viaggiavano timide sopra e sotto la parità.

Secondo stime pubblicate dal Sole 24 Ore, i fondi che nei prossimi mesi affluiranno nelle casse d'Atene basteranno al Tesoro ellenico per far fronte ai suoi impegni finanziari da qui al 2014. Compresa una ricapitalizzazione delle banche da 50 miliardi. Dopo di che il Paese dovrà tornare a finanziarsi sul mercato.

Ora, è verosimile ipotizzare che in così poco tempo i conti della Grecia si stabilizzino e la sua economia si riprenda tanto da attirare nuovi investitori? No. Sanno tutti benissimo che il debito greco sarà sostenibile soltanto finché ci sarà Bruxelles a evitarne l'implosione. Allora perché affannarsi tanto per evitare l'inevitabile? L'Europa prende tempo, nella speranza che quando arriverà lo tsunami il sistema finanziario continentale sia abbastanza forte da reggere l'impatto.

La prossima volta che si presenterà il problema di salvare la Grecia, tuttavia, la partita sarà ben più difficile. Non ci saranno più banche da spremere e la ristrutturazione sarà completamente a carico dei singoli Stati. Quindi dei contribuenti.

A mettere fuori causa gli istituti di credito è stato lo swap sui titoli di Stato ellenici che si è chiuso la settimana scorsa e che - solo per il momento - dà un'ampia boccata d'ossigeno ad Atene. A ben vedere, però, nemmeno questa operazione si è risolta in un vero successo, come pure si è voluto far credere. In sostanza, i creditori privati della Grecia sono stati chiamati a scambiare "volontariamente" i propri bond ellenici con altri titoli a scadenza più lunga e rendimenti più bassi, con una perdita pari al 75% dell'investimento.

Le adesioni sono state dell’85,2%, una quota sufficiente a scongiurare il fallimento incontrollato e immediato, ma non abbastanza per evitare quello "tecnico". Il Tesoro di Atene è stato costretto ad attivare le cosiddette Cac (clausole di azione collettiva), il che significa imporre forzatamente lo swap (che solo così è salito al 95,7%) a chiunque abbia in mano bond regolati da legislazione greca. Come a dire: o fate come diciamo noi, oppure non siamo in grado di restituirvi un centesimo. Con tanti saluti alla presunta "volontarietà".

Questa mossa ha fatto scattare i pagamenti su oltre tre miliardi di Cds, titoli speculativi che funzionano come assicurazioni sulla vita dei bond, con rimborsi in caso d'insolvenza. Non solo. Lo swap ha fatto scatenare anche le agenzie di rating Fitch e Moody's: per entrambe si è trattato di "default tecnico".

Fin qui il quadro non è affatto rassicurante, ma abbiamo parlato solo di finanza. La situazione peggiora molto se andiamo a guardare quello che accade nell'economia reale, sempre più drammaticamente scollata dai numeri su cui si ragiona a Bruxelles. Solo nell'ultimo trimestre del 2011, il Pil della Grecia è crollato del 7,5%. Peggio del previsto. Intanto chi ha ancora dei capitali si affretta a portarli fuori dal Paese, mentre i giovani scappano per sfuggire al massacro sociale che arriverà dopo le ultime manovre d'austerity.

Chi mai potrà pensare d'investire in un Paese ridotto in simili condizioni? Il debito greco tornerà sostenibile solo quando l'economia ricomincerà a crescere. Una prospettiva per ora irrealizzabile, a meno di una colossale svalutazione. Della Dracma, naturalmente. 

 


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