di Fabrizio Casari

Sondaggi che si alternano, paure diffuse, corse agli sportelli bancari. Il conto alla rovescia per le elezioni greche agita i sonni dei greci e delle banche di tutta Europa. Uscendo dalle tecnicalità linguistiche degli economisti e degli apprendisti stregoni allocati presso i partiti, la lettura dello scenario europeo appare indicare davvero il classico ballo sul ponte del Titanic. Parafrasando:  se Atene piange, Roma non ride.

E’ vero che l’Italia gode di fattori di cui Atene è priva (i suoi cittadini hanno una ricchezza pari a 8 volte l’intero debito; la reputazione internazionale è maggiore; il PIL è decisamente superiore e la quota maggioritaria del suo debito è posseduta da italiani) ma è anche vero che il debito intero della Grecia è quello di due o tre regioni italiane. In questo senso c’è poco davvero da stare allegri e, preso atto che la cura Monti non offre particolari risultati, è forse arrivato il momento di vedere la Luna oltre che il dito.

E se il dito indica Grecia, Italia o Spagna, la Luna indica l’Europa. E’ ormai evidente  che oltre la strada del rigorismo tedesco (ma non solo), che ha nel rientro nei parametri previsti dal Trattato di Maastricht il mantra unico, ci sono altre soluzioni, altre proposte di politiche economiche che vengono avanzate da altri economisti.

La cancelliera Merkel continua ad opporsi con tutte le sue forze (che non sono poche) e i suoi amici (che invece pochi sono) all’idea di una inversione di tendenza nelle politiche economiche continentali. Bisogna capirla: i tedeschi stanno realizzando affari colossali grazie alla crisi economica. Questa, ad oggi, ha portato la Germania al livello massimo di potenza e l’Europa a quello d’impotenza. Il nodo è essenzialmente politico, per non dire culturale: la Germania intende dare una lezione di vita ai Paesi che considera troppo deboli per condividere il suo "spazio vitale". Paese "serio", la Germania, ma è bene diffidare da chi si (auto)definisce serio: di solito ha un secondo fine. Grazie alla condanna inflitta ai greci dalla dittatura rigorista di Frau Merkel, la Germania oggi è in grado di emettere titoli di stato a costo zero. Un numero sempre maggiore di avvoltoi è pronto a finanziare il dominatore d'Europa anche senza ricevere un euro di interessi sulla somma prestata.

Bene ha funzionato quindi il mantra disfattista che accomuna il rigorismo stolido del governo tedesco e l'istinto predatorio della speculazione internazionale: ora gli investitori sono pronti a mettere da parte il guadagno di oggi in vista di un profitto enorme di domani. In una eventuale fase di post-break-up dell'euro, il neo-marco diventerebbe ovviamente divisa ultra-pregiata, in grado di apprezzarsi nei confronti della divisa in cui è denominato il bilancio dell'investitore. Il solito film: pioggia di denaro sulla speculazione, pioggia di sangue sui popoli. Era questo il sogno europeo?

Sembra verificarsi quanto non scritto (ma fortemente pensato) dai padri dell’Europa, che vedevano la formazione dell’unità continentale in primo luogo come necessità storica per fermare l’espansionismo tedesco, che già con l’impero di Prussia prima e con il nazismo poi indicò chiaramente all’Europa il ruolo che la Germania ritiene le spetti nel continente. L’Unione europea, infatti, nacque soprattutto dall’esigenza di contenere l’espansionismo tedesco, prima di divenire una teoria politica affinatasi teoricamente con il manifesto di Ventotene.

Ma il resto dell’Europa non può rimanere a guardare, ostaggio del volere germanico che punta su un'Europa a due velocità. Sulle modalità con le quali affrontare la crisi c’è anche un’altra strada: trasformare la BCE in una Banca centrale sul modello della FED, che possa finanziare direttamente le economie nazionali ed assumere il ruolo di garanti del debito dei paesi in difficoltà.

Si può ragionevolmente obiettare che questa strada vedrebbe i virtuosi farsi carico dei debiti dei viziosi, ma se si vogliono proporre politiche continentali uniche non è possibile adottarle solo per quanto riguarda il pareggio di bilancio. Le garanzie continentali sul debito implicherebbero poi una parziale cessione di sovranità da parte dei Paesi interessati: le stesse politiche economico-fiscali e la vigilanza sui conti avrebbero una regia centralizzata. Ma non è già così nei fatti?

Molti economisti internazionali (tra cui almeno 5 Premi Nobel) non ritengono importanti le preoccupazioni europee sulla crescita dell’inflazione, problema minore in una fase recessiva come quella che abbraccia tutta l’eurozona. Più in generale, all’Europa serve recuperare terreno nella crescita, cioè nella produzione di beni e servizi di qualità con i quali sfidare il mercato globale. E per farlo, soprattutto per i paesi che più vedono avanzare la recessione economica, serve da subito una sterzata decisa in senso keynesiano, con il rilancio degli investimenti pubblici per creare occupazione e rilanciare la domanda interna, unica strada per alzare la quota di PIL.

Se in Italia si vuole ridurre l’indebitamento in rapporto al Pil, la strada non è ridurre le spese e aumentare le entrate, perché ridurre il welfare ed aumentare le tasse genera depressione economica e conflitto sociale, entrambi ingredienti poco graditi ai mercati oltre che ai popoli. Peraltro, anche riducendo le spese, parallelamente alla diminuzione del PIL non cambierebbe il differenziale negativo, producendo così solo maggiore disperazione sociale a fronte di identico indebitamento. Solo il gigantesco conflitto d’interessi di cui Monti è portatore può occultare questa realtà.

La strada dev’essere diversa: investire e creare lavoro, perché una maggiore occupazione rilancia la domanda interna e i consumi e questo permette di aumentare il PIL. Solo rimettere l’Italia in sicurezza dal punto di vista del riassetto idrogeologico avrebbe bisogno di decine di miliardi di euro come investimento iniziale e fornirebbe decine di migliaia di posti di lavoro. Potrebbero vedere la parola fine le inutili, dannose grandi opere e le missioni militari all’estero se proprio non si sapesse dove attingere fondi, ammesso che la banca europea d’investimento non fosse stata creata allo scopo.

Creare lavoro è la sfida decisiva, considerando che una disoccupazione al 12% della forza lavoro è la minaccia più pericolosa per la stabilità del sistema paese. Nuovi prodotti e nuovi servizi, nuova occupazione e nuovi mercati, riduzione della pressione fiscale sulle imprese che assumono e investono ed opere pubbliche sono le gambe del tavolo dove si poggia l’aumento del PIL.

E aumentare il PIL è un modo diretto ed efficace di ridurre il differenziale con il debito, soprattutto se quest’ultimo viene contestualmente ridotto tramite manovre di razionalizzazione e ristrutturazione dello stesso. A sostegno di ciò si dovrebbe agire anche sul fronte delle entrate: un incremento della tassazione sui movimenti speculativi in Borsa dovrebbe essere la prima mossa in vista di un riequilibrio della tassazione tra redditi da capitale e da lavoro, oggi scandalosamente a vantaggio dei primi.

Insieme a ciò, la ristrutturazione del debito è fondamentale: molto ci sarebbe da discutere sulla natura del debito e la sua esigibilità, ma non è questa la sede. Però spostare velocemente le lancette della fase di parità dal dicembre 2013 di almeno due o tre anni oltre non è una bestemmia, ma pura saggezza. Secondo fonti autorevoli, se si dovesse rientrare da qui al prossimo anno, ci sarebbero da reperire 190 miliardi di euro.

Ma se per una manovra di 25 hanno dovuto proporre lo smantellamento dei diritti nel mercato del lavoro, finte liberalizzazioni, umiliazione del welfare e veri regali alle banche, cosa dovranno proporre per trovare gli altri 175 rimanenti nello spazio di un anno? In effetti, anche proseguendo su questa strada, nel 2013 non arriveremmo comunque all'effettivo pareggio di bilancio, visto che il deficit rimarrebbe comunque almeno allo 0,5% e diverrebbe zero solo nel 2014 (così dice il governo almeno, ma è una stima poco credibile).

Ora è evidente che la crescita economica priva dei capitali indispensabili e la rinegoziazione del debito priva delle garanzie necessarie resterebbero buone intenzioni. E chi se non la BCE - cioè l’Europa tutta - dovrebbe assolvere il compito? Per la cancelliera Merkel sentir parlare di eurobond (che sono comunque una piccola soluzione e solo a breve termine) è già motivo d’itterizia, figuriamoci proporre a Berlino una modifica degli scopi della BCE. Che pure, però, sarebbe il primo utile passo per uscire dalla crisi.

La speculazione, infatti, aggredisce l’Italia, la Grecia e la Spagna non perché la loro esposizione debitoria sia drammatica, ma perché diversamente da altri paesi, che pure denunciano un indebitamento molto maggiore (Stati Uniti e Giappone, solo per fare un esempio), i paesi europei non dispongono di una Banca Centrale a protezione, che venga cioè in soccorso acquistando quote del debito tramite, ad esempio, l’acquisto dei titoli di stato, ma non solo.

La BCE, diversamente dalla FED statunitense, non batte moneta e non fornisce liquidità ai paesi e alle banche, fregandosene allegramente (loro) del rischio oggettivo di un punto o due in più d’inflazione. Gli Stati Uniti e il Giappone non sono vincolati dai parametri di Maastricht e non hanno il limite del 3% della quota di differenziale negativo tra Pil e indebitamento.

Intendiamoci: Maastricht è una costruzione insostenibile, basata su parametri che non sono riscontrabili in nessuna delle grandi teorie economiche; eppure, nonostante l’ossessione per l’inflazione, lo stesso trattato permette deroghe in fasi di crisi acute.

Alcune proposte di “finanza creativa”, come quelle di Monti sullo scorporo di una parte del debito sono in parte esercizio di ingegneria contabile, mentre la vera inversione di tendenza sarebbe quella di modificare lo statuto della BCE, rendendola a tutti gli effetti una Banca Centrale, consentendogli auspicabilmente in prospettiva di battere moneta ma almeno, sin da subito, assegnandogli comunque il potere di erogatore di prestiti in ultima istanza.

Perché prestare alle banche e non agli stati è un giochino che serve soprattutto a garantire alle banche un ulteriore profitto: non è un caso che i fondi che la BCE ha negato alla Grecia sono stati destinati alle banche europee. La differenza è che alle banche è stato richiesto l’uno per cento d’interesse, mentre le stesse, che hanno poi prestato alla Grecia, lo hanno fatto in cambio del 18% d’interesse. Un diciassette per cento di differenza che va tutto nelle casse degli istituti di credito. La domanda è: quale operazione finanziaria rende così tanto senza nessun esborso? E può la Grecia pagare ulteriori interessi per una partita di giro utile solo agli azionisti delle banche? Si può dire grazie per il colpo di grazia?

 

di Carlo Musilli

L'Eurozona dà i numeri, Berlino resta immobile e finché può incassa i dividendi della paura. Negli ultimi giorni una serie di dati allarmanti ha fatto luce sulla situazione economica nell'are valutaria: disoccupazione record all'11%, produzione manifatturiera in calo da 10 mesi consecutivi, fiducia delle imprese a picco. Recessione assicurata. Purtroppo a Bruxelles l'economia reale non va molto di moda e i capi di Stato e di governo continuano a litigare su temi finanziari.

Si ripete che l'obiettivo è lavorare su due binari: sicurezza dei conti pubblici e crescita. Peccato che fino ad ora non sia stato nemmeno ipotizzato un provvedimento decisivo per far ripartire il Pil. Quanto ai bilanci, l'unica strada percorsa è quella di punire chi sta peggio con misure d'austerità che aggraveranno la recessione.

L'ostacolo più evidente verso una politica meno autolesionista è naturalmente il veto della Germania. Un'opposizione facilmente comprensibile, considerando che da mesi la prima economia del continente fa affari d'oro sulle disgrazie altrui. Con la crisi ormai generalizzata e la volatilità che domina, gli investitori puntano sui titoli di Stato tedeschi, i Bund, come veri beni-rifugio. Il risultato è che Berlino ormai si rifinanzia sui mercati con tassi d'interesse sempre più vicini allo zero (venerdì i rendimenti sui titoli biennali sono scivolati addirittura in territorio negativo).

Tutto questo contribuisce a far impennare gli spread e sottrae risorse ai paesi in difficoltà, dirottandole verso i più sicuri porti tedeschi. Ma il vantaggio per la Germania non è solo sul fronte dei conti pubblici: il dominio del Bund fa sì che anche le banche private e le aziende tedesche siano in grado di raccogliere denaro pagando tassi d'interesse pressoché ridicoli. Inoltre quegli stessi istituti di credito - pur non avendone bisogno - hanno potuto attingere all'oceano di liquidità arrivato dalla Bce, che nei mesi scorsi ha inondato il mercato bancario con prestiti triennali al tasso bassissimo dell'1%. Erano finanziamenti pensati per le banche dei paesi strangolati dalla crisi, ma pazienza. Tutti mangiano quando il buffet è gratis.

Il punto è che non si potrà andar avanti così ancora a lungo. Un avvertimento importante è arrivato da Martin Schultz, ex libraio tedesco, oggi presidente dell'Europarlamento: "Berlino deve riflettere - ha detto -. Di questo passo, con questi differenziali nei tassi, non ci sarà più un mercato per i prodotti della Germania, perché gli altri non avranno i soldi per comprarli". Sembra un'ovvietà, ma a quanto pare non lo è per chi governa al Bundestag.

La cancelliera Angela Merkel, il guru del rigore, professa la stabilità dei bilanci come una religione, ma allo stesso tempo boccia qualsiasi provvedimento a livello europeo che potrebbe aiutare a perseguire l'obiettivo. Dopo il no agli eurobond (su cui però ancora si discute), frau Merkel ha rispedito al mittente anche altre due proposte importanti: la mutualizzazione del debito sovrano e la creazione di un'unione bancaria europea.

La prima consiste nel  finanziare la parte dei debiti pubblici che eccede il 60% del Pil attraverso un fondo garantito collettivamente dagli stati dell'Eurozona. La seconda, lanciata direttamente da Bruxelles e sostenuta con forza dal presidente della Bce, Mario Draghi, prevede la centralizzazione della vigilanza sul settore bancario, la garanzia unica sui depositi e la possibilità per gli istituti di accedere direttamente ai prestiti dell'Esm, il nuovo fondo salva-Stati europeo.

Ognuna di queste idee sottintende che i rischi - e quindi le garanzie da fornire - scavalchino i confini dei singoli paesi e si allarghino all'intera Eurozona. Chi è più ricco ha più da perdere. Per questo la cancelliera continua a dire "nein".

A livello politico, la Merkel al momento è isolata fra i big mondiali, ma la sua posizione potrebbe tornare a rafforzarsi. Venerdì gli irlandesi hanno detto sì al Fiscal compact (il referendum si è chiuso con il 60% di voti favorevoli), accettando di proseguire sulla strada dell'austerity pur di incassare le prossime rate di aiuti internazionali.

Ma dopo la vittoria tutto sommato marginale incassata a Dublino, la Germania attende con ansia le elezioni legislative in Francia. In caso di sconfitta dei socialisti, il neo presidente François Hollande dovrebbe allearsi con il Front de Gauche (a meno di un'improponibile coabitazione con l'Ump gaullista), il che limiterebbe molto i suoi margini d'azione a Bruxelles. E la cancelliera si ritroverebbe di colpo senza un solo nemico credibile.

di Mario Braconi

Come scrive Krugman sul New York Times, l’aborto dell’Euro è il risultato del tentativo di costruire una unione monetaria in assenza del benché minimo barlume di Europa politica. Il grande capitale d’oltreoceano, libero come un virus, ha trovato il più improbabile degli alleati nel governo del Paese “leader” dell’area euro, il quale, deposte le salutari inibizioni che lo hanno tenuto a bada per qualche decennio, ha finalmente dato libero sfogo alle sue mai sopite tendenze egemoniche.

Razzismo allo stato puro: come altro definire la “missione” della cancelliera di “mettere in riga” le cicale greche, in modo tale che anche gli altri “parassiti” della periferia europea imparino la lezione? Le parole piene di disprezzo di Jürgen Fitschen, una delle figure apicali della Deutsche Bank, danno un’idea di quello che si dice nei salotti del potere tedeschi: “la Grecia? Uno stato fallito, uno stato corrotto”.

Esatto, ma corrotto dalle banche, bisognerebbe aggiungere! E che dire delle esternazioni del vice primo ministro belga, Didier Reynders, il quale non si sa se per stupidità o ignoranza, ha parlato apertamente di una possibile uscita dall’euro della Grecia, sostenendo che la mancanza di preparazione a questo evento, dato a questo punto per altamente probabile, costituirebbe per le banche centrali e per le società private, “un grave errore professionale”.

Nessuna speranza, dunque? Forse non è detta l’ultima parola. Scrive Kruger che l’euro potrebbe ancora essere salvato, sempre che i leader tedeschi e la BCE la piantino di fare i moralizzatori ed affrontino una buona volta la dura realtà. L’economista americano fa un semplice esempio: tanto la Spagna che la Florida sono nei guai causa della bolla immobiliare. Quando però la bolla è scoppiata, il governo federale americano ha continuato a pagare pensioni e prestazioni sanitarie, mentre la Spagna non può contare su un simile sostegno da parte dell’Europa. Da noi i deficit fiscali li finanziano i cittadini.

In effetti la moda di questi giorni è far pagare ai popoli gli errori causati dalla finanza globale e dall’insussistenza politica: alle banche i profitti, ai cittadini le misure di austerità. In effetti sono sorprendenti i risultati di un recente sondaggio, secondo cui vi sono ancora ben 3 cittadini europei su 10 a credere nella validità del progetto Europa. Come scrive Krugman, non c’è alcuna possibilità che la Grecia affronti l’inferno in terra che gli hanno preparato la BCE e il Fondo Monetario Internazionale: tagli devastanti allo stato sociale minimo, disoccupazione oltre il 20% (50% quella giovanile). Il risultato di questa “politica” sono rabbia e frustrazione, eccellente humus per l’estremismo politico.

Il tutto mentre i greci lentamente ma inesorabilmente trasferiscono all’estero quegli stessi euro (a rischio estinzione) che la BCE continua a pompare nei forzieri delle banche greche. Quando la Banca Centrale smetterà di iniettare la liquidità, la Grecia dovrà affrontare il forzato abbandono della divisa unica e il ritorno alla Dracma. Cosa che, ricorda Krugman, condurrà ad una immediata corsa agli sportelli in Italia e Spagna.

Si è detto sopra della insipienza e della pochezza dei “leader” europei. Tuttavia poche testimonianze rendono conto dei gravi deficit professionali ed umani della classe politico-imprenditoriale autonominatasi salvatrice dell’euro quanto le parole in libertà pronunciate da Christine Lagarde in un’intervista resa lo scorso venerdì a Decca Aitkenhead del Guardian. Alla giornalista che le domanda come si senta al pensiero che le sue politiche sono proprio quelle che impediranno ai greci di curarsi o di assumere una baby sitter, l’ex ministro delle finanze francese risponde di preoccuparsi più della sorte dei bimbi del Niger, costretti ad accontentarsi di due ore di lezione al giorno, spesso da fruirsi in piedi, dal momento che laggiù si può contare di una sedia ogni tre alunni. “Anzi, sa che le dico? Ogni volta che penso alla Grecia, penso a tutta quella gente che cerca in ogni modo di evadere le tasse.” Quando Aitkenhead la incalza ("E che dire di chi, in quel paese, deve sopravvivere senza un lavoro e senza servizi pubblici?”), Lagarde declina stolidamente il suo mantra liberista: “Nei loro confronti provo gli stessi sentimenti [sordo risentimento e senso di rivalsa, si direbbe ndr]. Penso anche che dovrebbero aiutarsi da soli e collettivamente.” Come? “Pagando le tasse”.

E’ davvero commovente che una persona tanto in alto nella catena alimentare dimostri attenzione alla tragedia dei bambini africani, sempre che essa sia sincera. Restano da chiarire le ragioni di tanto accanimento contro i bimbi, i vecchi e le mamme greche, apparentemente motivato dalla loro cittadinanza. Ammesso, e non concesso, che siano registrati nello stato di famiglia di conclamati evasori fiscali, per quale ragione dovrebbero essere chiamati a pagare per le colpe dei loro parenti?

Sono parole che fanno il paio con le idiozie demagogiche di Bersani, quando si esercita sulla legittimità del soccorso ad un evasore fiscale colpito da infarto. Tornando alla Lagarde, viene il sospetto che alla signora siano più simpatici i ragazzini del Niger perché, a differenza della Grecia, il Niger non emette bond sull’euromercato. Il furto di futuro che viene perpetrato quotidianamente ai loro danni non ha conseguenze sui mercati finanziari. Per un burocrate ipocrita, la loro tragedia è un comodo “altrove” per ripulirsi l’anima ad uso e consumo dei media.

I deliri della Lagarde sono già abbastanza indigesti, e tali da mettere seriamente in dubbio le sue capacità analitiche e politiche (sorvoliamo  su quelle umane). Se non fosse per il fatto che il direttore generale del FMI percepisce uno stipendio annuo di poco meno di 470.000 dollari l’anno, cui si devono aggiungere un’indennità fissa di circa 84.000 dollari ed una infinità di altri benefit (affitto, rimborso spese del coniuge e dei figli, scuola, assicurazioni sanitarie, immunità per viaggi e trasporti di merci): non c’è dunque da meravigliarsi se Christine consideri i sacrifici degli altri inevitabili. Specie considerando che ogni dollaro che guadagna le arriva rigorosamente esentasse: il FMI è infatti un’organizzazione internazionale.

Secondo il Guardian la penosa uscita della Lagarde potrebbe essere la conseguenza della frustrazione della signora, reduce da una serie di incontri della cosiddetta troika in Grecia, dai quali sarebbe emerso che il prelievo fiscale di quel paese in bancarotta sarebbe stato meno soddisfacente rispetto alle previsioni. Ah, questi Greci che non vogliono pagare le tasse… Considerando che una parte dei loro soldi, dopo un lungo giro, finisce sul conto corrente di gente come la Lagarde, tutto sommato non ci sentiamo di biasimarli più di tanto.

di Michele Paris

L’ennesimo vertice dei paesi dell’eurozona si è concluso nella mattinata di giovedì senza alcun accordo di rilievo su possibili misure concrete per fronteggiare il rapido deteriorarsi della crisi del debito nel continente. A prevalere sono state le profonde divisioni sulla politica economica europea che vedono, da un lato, i governi che chiedono provvedimenti di stimolo alla crescita e dall’altro, a cominciare dal cancelliere tedesco Angela Merkel, quelli che non intendono fare alcuna marcia indietro dall’implementazione di rigide misure di austerity.

La proposta che sembra raccogliere sempre più sostenitori all’interno dell’Unione è l’emissione di eurobond, cioè titoli di debito europei garantiti congiuntamente da tutti e 17 i paesi che utilizzano la moneta unica. Come promesso in campagna elettorale, il neo presidente francese François Hollande si è fatto portavoce di questa iniziativa che mercoledì è stata però nuovamente respinta fermamente dalla Merkel.

Quest’ultima teme che con questo strumento la Germania finirebbe per garantire il debito dei paesi meno affidabili, causando un’impennata dei redimenti dei propri titoli e spingendo i loro governi ad abbandonare l’impegno di mettere in atto le “riforme” economiche richieste da Berlino e da Bruxelles. La Germania non è peraltro l’unico governo a respingere l’ipotesi degli eurobond. Nettamente contrari sono anche gli altri paesi UE considerati fiscalmente più solidi, come Olanda, Finlandia e Austria.

Berlino ha al contrario mostrato qualche apertura su altre misure più modeste per cercare di contrastare la crisi e rimettere in moto la crescita economica. Tra di esse ci sono lo stanziamento di maggiori fondi per la Banca Europea degli Investimenti, il dirottamento dei fondi strutturali europei già esistenti su programmi di crescita e l’emissione di “bond a progetto”, destinati cioè a finanziare solo specifiche iniziative.

Un’azione più aggressiva della Banca Centrale Europea, invece, è stata chiesta soprattutto dal primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy, il quale nell’esprimere preoccupazione per lo stato delle banche del suo paese, ha auspicato una nuova infusione di denaro agli istituti in difficoltà. Proposte più concrete, secondo i vertici dell’Unione, dovrebbero comunque essere presentate in un prossimo summit a fine giugno.

Un accordo tra i partecipanti al vertice di Bruxelles è stato raggiunto sulla permanenza della Grecia nella moneta unica, a patto tuttavia che il prossimo governo che nascerà ad Atene continui a mettere in atto le devastanti misure di austerity concordate con la troika (UE, BCE, FMI) in cambio del piano di salvataggio, cioè esattamente l’opposto di quanto espresso dagli elettori di questo paese lo scorso 6 maggio.

Questa posizione è stata espressa in modo chiaro da Angela Merkel nel corso di un breve faccia a faccia nella capitale belga con il premier greco ad interim, Panagiotis Pikrammenos, al quale la cancelliera ha detto che la Germania farà il possibile per aiutare il suo paese ma Atene dovrà rispettare gli accordi con i suoi creditori. Anche lo stesso Hollande, nonostante la retorica anti-austerity, ha ribadito che la Grecia “deve rispettare gli impegni presi”.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, in ogni caso, di fronte al moltiplicarsi delle voci sulla possibile uscita della Grecia dall’euro, i governi europei si stanno preparando per questa eventualità e per le conseguenze imprevedibili che essa avrebbe non solo su paesi come Spagna e Italia, ma anche sulla tenuta dell’intera unione monetaria.

A dimostrazione dell’aria che si respira nelle capitali europee, la Reuters ha rivelato che lunedì i ministri delle Finanze dell’eurozona, nel corso di una “conference call”, si sono accordati per predisporre piani di emergenza in caso di un abbandono della moneta unica da parte della Grecia. I timori sono legati alle nuove elezioni in programma il prossimo 17 giugno, il cui esito potrebbe segnare il destino di Atene.

I più recenti sondaggi indicano un testa a testa tra Nuova Democrazia (ND), partito di centro-destra favorevole all’accordo con la troika, e la Coalizione della Sinistra Radicale (SYRIZA) di Alexis Tsipras che intende invece rinegoziare i termini del prestito da oltre 100 miliardi di euro concordato quest’anno. In caso di un successo elettorale di quest’ultimo partito o con un nuovo stallo nelle trattative per la formazione dell’Esecutivo, le probabilità di vedere la Grecia tornare alla dracma aumenterebbero vertiginosamente.

A rendere ancora più allarmante il futuro dell’Unione è stata poi l’altro giorno la pubblicazione di un rapporto OCSE che ha prospettato un ulteriore aggravamento della crisi economica in Europa. Senza provvedimenti incisivi per invertire la tendenza, ha avvertito l’OCSE, la crisi europea rischia di gettare in recessione l’economia dell’intero pianeta.

Le cupe prospettive della Grecia e la sostanziale paralisi dei governi europei di fronte alla crisi ha affossato i mercati di tutto il mondo nella giornata di mercoledì. L’euro, inoltre, è sceso ai livelli più bassi dal luglio 2010 nei confronti del dollaro. Gli investitori si sono precipitati sui titoli dei paesi europei che ancora godono della tripla A. I bond tedeschi trentennali sono così scesi al rendimento più basso mai registrato, mentre il record è stato sfiorato per quelli decennali. In netto ribasso sono stati anche i titoli olandesi e finlandesi.

Nonostante le differenze emerse ancora una volta a Bruxelles, tutti i governi dell’eurozona, e non solo, condividono la volontà di far pagare gli effetti della crisi in atto alla maggioranza della popolazione europea. Le cosiddette misure di “stimolo” alla crescita avanzate da alcuni paesi consistono infatti principalmente nell’erogazione alle banche di ancora più denaro virtualmente a costo zero e nell’adozione di “riforme” del mercato del lavoro che renderebbero ancora più precaria la situazione di decine di milioni di persone. Il tutto, ovviamente, senza scostarsi se non in maniera superficiale dalle politiche di rigore che già hanno aggravato la crisi economica e sociale un po’ ovunque in questi ultimi anni.

di Carlo Musilli

Mark Zuckerberg si è sposato sabato scorso e nella lista di nozze aveva espresso un solo desiderio: il boom di Facebook a Wall Street. Purtroppo per lui gli operatori di Borsa non sono gente dal cuore tenero e, invece del regalo, hanno deciso di fargli un bello scherzetto. Così la quotazione del mastodontico social network si è trasformata in uno dei flop più clamorosi della storia. Nelle prime tre sedute, il titolo è crollato del 19%, bruciando quasi un quinto del suo oceanico valore di partenza, superiore ai 100 miliardi di dollari.

Il costo di ogni singola azione è sceso sotto i 31 dollari, dai 38 iniziali. Fra le maxi-Ipo americane che hanno raccolto più di un miliardo (e quella di Facebook è stata la terza più grande della storia dopo Visa e General Motors), si tratta del peggior esordio negli ultimi cinque anni. Com'è possibile? La creatura di Zuckerberg non era una macchina da soldi?

Il tonfo di martedì (-8,9%) è quello che si spiega più facilmente e getta una luce sinistra sull'intera vicenda. Mary Schapiro, presidente della Securities and Exchange Commission (la Consob americana), ha annunciato che "saranno esaminati" i problemi legati all'Ipo del social network.

Venerdì, giorno del debutto sui listini, il Nasdaq ha fatto davvero una brutta (e insolita) figura: per una serie di guai tecnici, gli scambi sono iniziati con mezz'ora di ritardo e - quando finalmente sono partiti - l'indice ha avuto difficoltà nel comunicare l'esecuzione degli ordini ai trader. Uno degli investitori ha deciso di fare causa al Nasdaq, sostenendo di aver subito gravi perdite a causa del malfunzionamento.

Ma le stranezze non sono finite. Secondo il Financial Times, le autorità di sorveglianza dei mercati finanziari del Massachusetts hanno emesso un'ingiunzione nei confronti di Morgan Stanley, accusata di aver giocato sporco con gli investitori di Facebook. Alla vigilia dell'Ipo, gli analisti dell'istituto (per bocca dell' "esperto di internet" Scott Devitt) hanno tagliato le previsioni sugli utili 2012 dell'azienda.

A pesare sul giudizio è stato soprattutto il fatturato della pubblicità legata agli accessi tramite smartphone, un traffico in costante crescita rispetto a quello via computer, ma innegabilmente meno redditizio. Fin qui non ci sarebbe nulla di sospetto: si tratta di valutazioni sensate. Le autorità però intendono verificare se la Banca abbia comunicato la revisione dei target a tutti i clienti - come avrebbe dovuto fare - o solo ad alcuni.

“Dopo che Facebook ha presentato il 9 maggio un aggiornamento alla Sec, in cui forniva un'ulteriore guidance rispetto ai suoi trend di business - si difende la Banca in un comunicato - una copia del documento emendato è stata inviata a tutti gli investitori istituzionali e privati di Morgan Stanley e la modifica è stata ampiamente pubblicizzata dalla stampa in quei giorni”. Gli azionisti però non sono d'accordo e hanno avviato un'azione legale non solo contro la Banca, ma anche contro l'azienda stessa e l'amministratore delegato Zuckerberg.

Per fare chiarezza occorre però tener presente un dettaglio decisivo. Chi è stato il maggior sottoscrittore dell'Ipo e il responsabile del collocamento in Borsa di Facebook? Ma guarda un po', sempre Morgan Stanley. Bisogna capire allora perché mai una delle banche più prestigiose al mondo abbia tagliato le gambe alla stessa azienda in cui sta investendo un mucchio di soldi. Sembra addirittura che non sia stata l'unica: rumors di mercato dicono che anche Goldman Sachs e JP Morgan abbiano sottoscritto l'Ipo comportandosi allo stesso modo. Certo, gli analisti (in linea teorica) dovrebbero fare il loro dovere senza tener conto degli interessi della banca per cui lavorano. Ma nell'aria rimane odore di speculazione. Anche perché la lista dei misteri non è finita.

In tutta questa storia, la prima bizzarria in assoluto è il prezzo a cui sono state vendute in origine le azioni: quei famosi 38 dollari, che implicano una valutazione complessiva della società oltre il muro dei cento miliardi. La cifra è stata gonfiata in extremis, ancora una volta con l'aiuto di Morgan Stanley. A quel punto la Banca già sapeva che avrebbe dovuto rivedere i target della società, ma - a pochi giorni dalla quotazione - si è comunque battuta per aumentare i titoli in vendita da 337,4 a 421 milioni, ritoccando anche generosamente il loro valore rispetto al range di 28-35 dollari calcolato a inizio maggio. Un'esagerazione, e gli investitori se ne sono accorti subito. Facebook non vale tutti quei soldi. 

 


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