di Carlo Musilli

Questa sera alle 21 scatta l'ora X per la Grecia. Dopo settimane di trattative, finalmente il Paese ellenico saprà quale destino deve attendersi: il default incontrollato e il probabile ritorno alla dracma, oppure la sopravvivenza forzata e la sottomissione definitiva al verbo di Bruxelles. Tutto dipende da come andrà il cosiddetto Psi, che si chiude appunto fra poche ore. L'acronimo sta per "Private sector involvement" e si riferisce al piano che prevede il coinvolgimento dei creditori privati nel salvataggio del Paese.

In sostanza, tutte le banche, le assicurazioni, i fondi di investimento e anche i semplici risparmiatori che hanno in mano titoli di Stato greci sono chiamati ad accettare sulle loro obbligazioni un taglio del valore nominale pari al 53,3%. Il che vuol dire perdere circa il 75% dei soldi investiti.

L'operazione si compie attraverso lo scambio (swap) dei titoli in portafoglio con altri bond a scadenza più lunga e rendimento più basso. Se tutto andrà come deve andare, alla fine il debito pubblico greco sarà alleggerito di circa 100 miliardi di euro, tornando perlomeno ad un'ipotesi di sostenibilità in rapporto al Pil. Ma non è tutto. La settimana scorsa i leader dell'eurozona hanno subordinato al successo del piano anche l'esborso del nuovo pacchetto d'aiuti internazionali destinato ad Atene (130 miliardi di euro).

Ora, perché il Psi sia davvero efficace è necessario che l'adesione dei creditori privati sia almeno del 90%. Ieri sera eravamo a quota 58%, dopo il via libera arrivato da ben 32 banche, comprese le italiane Unicredit, Intesa SanPaolo e Banca Generali. Se il computo finale si fermerà sotto il 75% non ci sarà più nulla da fare: la Grecia (e con lei mezza finanza europea) sarà investita dallo tsunami della bancarotta incontrollata. Se invece si rimarrà fra il 75 e il 90%, allora la partita si farà davvero complicata.

In questo caso, infatti, Atene potrebbe attivare quelle che si chiamano "clausole di azione collettiva" (Cac), il che significherebbe imporre forzatamente a tutti i creditori privati di aderire allo swap e rimetterci dei soldi.

Sembra un dettaglio, ma non lo è. Ad oggi lo scambio dei titoli è presentato come "volontario" e da questo aggettivo dipende un particolare decisivo. L'Isda (l'associazione internazionale su swap e derivati) ha stabilito che lo swap su base volontaria non costituisce un "credit event" e quindi non fa scattare i rimborsi sui Cds.

Questa sigla sta per "credit default swaps" e indica dei titoli derivati che funzionano come assicurazioni sulla vita di altre obbligazioni (in questo caso i titoli di Stato greci). Se Atene dovesse obbligare i suoi creditori ad accettare delle perdite, senza possibilità di scelta, l'Isda dovrebbe rivedere la propria decisione: l'insolvenza della Grecia sarebbe priva di ogni maschera e il pagamento dei Cds diventerebbe inevitabile.

A quel punto si scatenerebbe un effetto domino che oggi è impossibile quantificare con precisione. I Cds sono da sempre scambiati su un mercato non regolamentato (in gergo "over the counter"), il che significa che nel tempo si sono create delle interconnessioni finanziarie di cui a posteriori è impossibile ricostruire il quadro completo.

Non si sa nel dettaglio chi dovrebbe pagare chi, né di quali somme si stia parlando. Ma dopo il disastro di Lehman Brothers (che ha avuto ripercussioni globali proprio seguendo questo schema) non è assurdo ipotizzare conseguenze a livello di sistema, con diversi bilanci a rischio collasso.

E' chiaro che tutto questo castello di carte si regge su una grossa ipocrisia. Il presupposto fondamentale per evitare il crollo è che lo swap sia "volontario", ma è assolutamente evidente che si tratta di un trucco. I creditori sanno benissimo che se non accettassero di perdere il 75% del loro investimento probabilmente lo perderebbero per intero. A scanso di equivoci, l'Agenzia per il debito greca ha fatto sapere che il Paese "non contempla la possibilità di mettere a disposizione risorse per i creditori privati che non aderiranno al Psi". Una minaccia bella e buona. Il libero arbitrio degli investitori non c'entra davvero nulla. No swap? No party.

di Emanuele Vandac

La storia recente delle agenzie di rating è costellata di episodi che dimostrano crassa incapacità di far di conto (indimenticabile quello di Standards & Poor's, che giustificò il declassamento del merito di credito degli USA in base a calcoli errati per “soli” 2.000 miliardi di dollari). La loro credibilità ormai dovrebbe essere vicina allo zero, se si considerano i sesquipedali conflitti di interesse in cui operano: non solo, infatti, sono enti di lucro privatistici, ma sono anche controllate dagli speculatori che dovrebbero valutare, mentre le fee sulle stime sono la loro fonte di reddito, cosa che le ha spinte non di rado ad essere di manica troppo larga (Lehman Brothers, Bear Stearns, Fanny Mae e Freddy Mac, Enron e Parmalat).

Questo per non parlare della imperdonabile sciatteria di cui hanno dato prova in qualche caso, come ad esempio quando a novembre, a causa di un errore tecnico, il sito di Standards & Poor's sembrava annunciare il downgrade del debito sovrano francese. Dopo il declassamento della Repubblica italiana, cui venerdì Standards & Poor’s ha abbassato “i voti in pagella” fino a BBB+, è evidente pure che esse sono talmente asservite agli interessi della grande speculazione made in USA da essere diventate una barzelletta. Per parlar chiaro, l’ultima mossa di S&P, che porta il merito di credito dell’Italia pericolosamente vicino al discrimen rerum tra investment grade e “junk” (spazzatura), è una vigliaccata degna di una gang di quartiere come se ne vedono nei film di serie B.

“In un certo senso [il downgrade] è incoerente ed è una valutazione condivisa da parte dei mercati da quello che ho potuto vedere finora", protesta giustamente Maria Cannata, direttrice generale del Tesoro per la gestione del debito pubblico. Non è coerente, certo, se si segue una logica improntata al buon senso e all’onestà intellettuale. Ma è molto coerente con gli interessi delle banche e dei fondi che hanno avviato e mantenuto alta la pressione su una falsa crisi dell’euro che ha il chiaro obiettivo di ridimensionare e normalizzare il sistema culturale e sociale europeo.

Colpevole, secondo gli ispiratori dell'operazione, di un atteggiamento leggermente meno prono all’idolatria mercatista made in USA. Ridurre ogni cosa a merce, scardinare il welfare, creando nel contempo occasioni ghiotte per i capitani coraggiosi solo a parole, campioni nell’arte della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite. Un'orgia sconsiderata a chi arraffa di più, talmente truculenta e cinica da perdere il consenso perfino degli ambienti politici più liberisti, di destra come di sinistra.

Come noto, nel 2012 l’Italia dovrà lanciare emissioni di titoli per ben 440 miliardi di euro. Per il solo rifinanziamento del debito in scadenza, come ricordano le impietose tabelle del Bollettino trimestrale del Ministero del Tesoro, il prossimo febbraio occorrerà sostituire oltre 53 miliardi di debito da rimborsare; il conto di marzo è un po’ più basso (“solo” 45 miliardi), mentre ad aprile si dovranno piazzare altri 36 miliardi. Circa 135 miliardi di euro in tre mesi: solo una volta passato marzo senza gravi traumi si potrà (forse) dire che l'Italia ce l'ha fatta.

La già infelice situazione è aggravata dal fatto che, di questo immenso fabbisogno, oltre il 40% (56 miliardi) è costituito da BTP, ovvero da titoli con scadenze pluriennali (tra i 3 e i 30 anni): non è difficile comprendere che, in un contesto di grave incertezza, i titoli pluriennali di un emittente che per una serie di ragioni (alcune fondate, molte francamente speciose) viene percepito dai mercati come traballante non vanno esattamente a ruba.

La bellezza della finanza è proprio questa: come in un mercato del pesce della periferia dell’impero, gli investitori fanno a gara a disprezzare la merce che però intendono portare a casa. Alla fine della sceneggiata, molto probabilmente i titoli verranno comprati, ma ad un prezzo molto basso. Ora, se un titolo a reddito fisso viene collocato sul mercato ad un prezzo inferiore a 100 (o sotto la pari, come anche si dice), vorrà dire che la cedola (fissa) avrà un valore più alto di quello nominale. Gli speculatori saranno contenti, dato che con questo giochino si saranno messi in portafoglio un titolo redditizio, mentre gli italiani onesti, già tartassati da una pressione fiscale degna di un paese scandinavo e da interventi punitivi casuali, pagheranno il conto per tutti.

Orbene: in quale momento Standards & Poor’s decide di menare il suo colpo sotto la cintura all'Italia (anche se per la verità il declassamento ha riguardato anche altri paesi europei, come Francia, Austria, Spagna e Portogallo)? Giusto qualche giorno prima dell'inizio del trimestre “nero” del rifinanziamento del debito pubblico, saturo di titoli lunghi in scadenza. Non sbaglia, per una volta, l’Osservatore Romano, che si spinge a definire “sospetta” la tempistica di S&P's. Contro l’impudenza di Standards’ and Poor’s tuonano anche rappresentanti eminenti del jet set aduso alla frequentazione delle stanze dei bottoni, da Prodi (“le agenzie di rating hanno interessi precisi e competenze parziali”) a Guido Roberto Vitale, Presidente della Vitale & Associati, società di consulenza specializzata nell’advisory sull’investment banking.

Vitale, intervistato da Fabrizio Massaro del Corriere della Sera, è un fiume in piena: con un'enfasi non comune nel suo ambiente, parla di “terza guerra mondiale”, scatenata da ambienti di destra americani, che vedono come il fumo negli occhi la formazione di un centro di potere europeo in grado di bilanciare l'egemonia USA. Secondo Vitale, questa “guerra” finanziaria lanciata da oltreoceano contro l’Europa è una gran perdita di tempo: più opportuno, dice il finanziere, sarebbe che USA e Europa collaborassero facendo fronte comune contro il rischio rappresentato da  India e Cina, le cui giuste aspirazioni allo sviluppo costituirebbero un rischio per i paesi occidentali.

Lo stato del capitalismo moderno è di tale confusione che capita perfino di sentire un uomo di mercato come Vitale tessere le lodi dello statalismo comunista: “I cinesi, che sono intelligenti e lungimiranti, per prima cosa si sono creati una loro agenzia di rating [la Dagong, fondata nel 1994 Ndr]. […]. Un funzionario che vende rating [infatti] non deve pensare al bonus, come invece avviene con S&P, Moody' s e Fitch”.

Ed in effetti, la creazione di un’agenzia di rating europea di diritto pubblico risolverebbe almeno il problema della terzietà del valutante rispetto al valutato. Oggi infatti, la situazione, come riassunta da Il Sole 24Ore è simile a quella di una scuola dove “gli studenti fossero i proprietari […] e decidessero quali stipendi assegnare agli insegnanti”. Basti pensare che i principali azionisti di Moody’s sono Warren Buffet e il fondo USA Capital World Investors e che quest'ultimo è pure il primo azionista di Standards & Poor’s. Quanto a Fitch, è essa controllata al 60% dalla società di investimento francese Fimalac, mentre il resto delle azioni è in mano al gruppo editoriale Hearst.

Anche se per un problema chiuso, ne sorgerebbero altri nuovi; per esempio, non si sarebbe mai certi che le valutazioni fossero del tutto immuni da considerazioni politiche. Inoltre, non è detto che l'interesse dello Stato sia per forza quello dei popoli: a meno che non si voglia credere che i funzionari del Partito Comunista cinese, che controllano le nomine della Dagong, possano e vogliano tutelare i diritti dei loro sudditi più di quanto non faccia un manipolo di banche d’affari e/o gruppi di investitori americani che in Occidente fanno, loro pure, il buono e il cattivo tempo.

di Emanuele Vandac 

“Unicredit è spacciata: anzi no, sta benissimo”. Con questa battuta si potrebbero riassumere le cronache recenti sull’aumento di capitale della seconda banca italiana per capitalizzazione di borsa. Una via di mezzo tra una spy story, con gli inevitabili anglo-furbetti, e il melodramma dei piccoli risparmiatori che escono per non bruciarsi le mani. La nostra storia comincia con il verdetto della EBA (European Banking Authority), che ad ottobre 2011 sentenzia: 71 banche europee devono aumentare il loro capitale, per un totale di circa 106 miliardi di euro (strano a dirsi, molte banche americane ed inglesi vanno ripetendo da mesi un mantra secondo cui le banche europee sono sottocapitalizzate al punto da non essere in grado di affrontare la crisi).

La somma sarà rivista l’8 dicembre 2011, arrivando a sfiorare i 115 miliardi. Unicredit è tra le banche europee obbligate all’aumento di capitale: così dapprima ne delibera uno da 7,379 miliardi, portandolo successivamente a 7,974 (a causa delle perdite del terzo trimestre del 2011).

Dopo un accorpamento tecnico dei titoli (dieci vecchie azioni contro una nuova azione), dal 9 gennaio il valore delle azioni della banca (ordinarie e di risparmio) è stato decurtato di quello del diritto di opzione. In altre parole, dallo scorso lunedì, al posto delle azioni che detenevano in portafoglio, gli azionisti Unicredit possiedono due titoli: l’azione vera e propria, ed il diritto ad acquistarne altre due di nuova emissione, aventi le stesse caratteristiche di quelle in circolazione, al prezzo di Euro 1,943 (valore stabilito dal CdA il 4 gennaio 2012).

Ogni azionista della banca, dunque, si è trovato con le sue vecchie azioni più il diritto a comprarne il doppio tra il 20 e il 27 gennaio 2012. Il diritto di opzione è negoziabile in Borsa ed il suo valore iniziale è stato fissato in euro 1,359. La struttura dell’aumento di capitale è tale che le nuove azioni vengono offerte ad uno sconto del 43% sul valore “prezzo teorico del azioni dopo lo “stacco” del diritto” (TERP, con acronimo inglese). Non proprio un valore incoraggiante per i potenziali sottoscrittori, specialmente se si considera che, come specifica Monica D’Ascenzo su Il Sole 24 Ore, lo sconto medio applicato in Europa a simili operazioni è del 35% circa. Non a caso, il titolo, subito dopo l’annuncio delle determinazioni del CdA sull’aumento di capitale, crolla. Un naturale allineamento degli operatori di mercato al mood espresso con i numeri dalle figure apicali del management della banca.

I corsi dei titoli Unicredit (azione dopo lo stacco e diritto d’opzione) hanno continuato ad andare in picchiata per tutta la giornata del 9 gennaio; i diritti di opzione, che hanno iniziato la seduta attorno ad euro 1,30, hanno chiuso a circa 40 centesimi, con rimbalzi anche dell’80%. Non che mancassero ragioni per essere pessimisti: l’ancora irrisolto spettro del rischio paese si somma alla freddezza di alcuni importanti azionisti come le Fondazioni, combattuti tra l’enorme impegno dell’operazione di sottoscrizione dell’aumento di capitale ed il rischio concreto di essere “diluite” nel capitale e quindi di non contare più nulla in consiglio…

Ma la vicenda più incredibile è quella che ha per protagonista Blackrock. Il 2 Gennaio il fondo americano comunica a CONSOB la diminuzione della sua partecipazione nella banca italiana da oltre il 4% all’1%: un segnale di sfiducia nel progetto aziendale che ha contribuito non poco al peggioramento dell’umore dei possibili sottoscrittori. Ma non finisce qui, perché ieri CONSOB ha comunicato una notizia ancor più sconcertante: la segnalazione di Blackrock è, per ammissione dello stesso notificante, frutto di un errore tecnico commesso dal suo servizio legale (pare che gli avvocati del fondo non abbiano ben chiara la differenza tra una diminuzione nella quota di partecipazione causata da una diluizione e quella che invece è conseguenza della vendita dei titoli sul mercato…).

Non solo: a quanto sembra la rettifica del fondo americano è arrivata alla CONSOB il 6 Gennaio, giorno festivo in Italia, anche se la Borsa e la CONSOB erano comunque operative. La CONSOB non ha divulgato l’informazione in quanto attendeva il comunicato stampa dell’azionista, il quale peraltro non ha ritenuto di emetterlo prima dell’11 Gennaio. In pratica, come scrive su Il Giornale Marcello Zacché, “per un’intera settimana, la più grande operazione bancaria di aumento di capitale mai fatta in Italia, effettuata in piena bufera finanziaria, si è svolta mentre sul mercato circolavano notizie errate.” Anche se certamente qualcuno conosceva la verità.

Se si riuscisse a provare che le comunicazioni di Blackrock sono frutto di malizia anziché di malafede (cosa quasi impossibile), si tratterebbe di vero e proprio aggiotaggio: e per questo è sacrosanto l’intervento della CONSOB, che infatti sta indagando sulla vicenda. Un certo fastidio per l’accaduto traspare anche da Unicredit se è vero, come sostiene Antonio Vanuzzo sul sito di informazione Linkiesta, che un commento velenoso sia stato sibilato nei corridoi dell’alta direzione della banca: “I soliti furbetti anglosassoni”.

Certo è curioso che, mentre il 9 Gennaio tutti, ma proprio tutti, erano molto pessimisti sull’esito dell’aumento di capitale, il 10, l’11 e il 12 un caldo sole abbia ricominciato a splendere sull’operazione, facendo lievitare i corsi di azione e diritto d’opzione. Curioso che in un editoriale del 9 Gennaio il Financial Times attribuisse la débacle alla lentezza dell’AD Ghizzoni a procedere all’aumento di capitale tanto atteso. Anche se va detto che un altro articolo, pubblicato lo stesso giorno sul quotidiano economico, prendeva spunto da un documento della banca d’affari Nomura a firma di Chintan Joshi e Jon Peace (anch’esso citato da Vanuzzo), secondo cui i possibili movimenti al ribasso sui titoli coinvolti dall’operazione sarebbero stati assai più probabilmente frutto di speculazione che di aggiustamenti effettuati dai piccoli azionisti.

Un dato non del tutto sorprendente, dato che i disallineamenti nei prezzi sono stati velocemente recuperati attraverso un trading frenetico, pare per niente intimidito dal divieto (operativo in Italia dal 12 agosto 2011), di effettuare vendite allo scoperto. Non a caso, come spiega Morya Longo su Il Sole 24 Ore, sembra che ben “il 50% degli scambi sulle azioni UniCredit sia avvenuto in questi giorni fuori dalle mura di Piazza Affari, quindi fuori da mercati regolamentati, al telefono o nei cosiddetti “dark pool”[transazioni di notevole entità effettuate tra operatori istituzionali senza pubblicazione di dettagli ndr]”. Niente di nuovo sotto il sole.

di Mario Braconi

L’esito del vertice dell’8 e del 9 dicembre si può riassumere con la battuta di un diplomatico europeo citato da Reuters: “La Gran Bretagna si arrabbia, la Germania fa il broncio, la Francia esulta”. Sarkozy è apparso soddisfatto di aver aggregato attorno al progetto di riforma dei trattati europei i diciassette Paesi dell’area euro, e di aver conquistato l’appoggio di altri 6 stati dell’Unione Europea. Solamente sei, perché, oltre alla Gran Bretagna, che ha rotto apertamente, Svezia, Ungheria e Croazia hanno messo le mani avanti, sostenendo che il loro eventuale supporto potrà avvenire solo dopo un confronto parlamentare.

La Svezia non intende vincolarsi per il momento a regole disegnate per l’area euro, la Croazia sembra arenata su posizioni di euroscetticismo, mentre l’Ungheria, le cui finanze dipendono in modo sostanziale dal sostegno dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, non intende accettare condizioni che pongano limiti alla sua sovranità nazionale.

Non è escluso che la frattura consumatasi tra Unione Europea e Gran Bretagna sia stata propiziata da quella che un diplomatico di lungo corso definisce la “goffa tecnica negoziale” di Cameron. Obiettivo dichiarato di Cameron è quello di difendere l’industria finanziaria britannica, che con le sue commissioni e interessi, realizza circa il 10% del PIL del Regno Unito. Analizzando i dettagli, si comprende come la rigidità britannica non costituisca solo l’ennesimo esempio del tradizionale isolazionismo.

Cameron non intendeva fare compromessi sul mantenimento a Londra della European Banking Authority (EBA) e sulla libertà di stabilire autonomamente i requisiti patrimoniali delle banche, oggi più stringenti nel Regno Unito rispetto all’obiettivo del 9% previsto per le banche dell’area euro. Ma soprattutto vuole impedire a tutti i costi misure di dubbia utilità ma che comporterebbero un danno certo all’industria finanziaria: il divieto di effettuare transazioni denominate in euro in mercati diversi dall’eurozona (su Londra ne transitano circa la metà) e la cosiddetta Robin Hood tax sulle transazioni finanziarie (il cui gettito, secondo una stima riportata sul Guardian potrebbe aggirarsi attorno ai 60 miliardi di euro l’anno).

Non è scontato però che la mossa di Cameron abbia mietuto unanimi consensi in patria: secondo un operatore della City sentito dal Guardian, ad esempio, il veto di Cameron “non ci ha aiutati, anzi ci ha esposto”. Secondo Sony Kapoor del think-tank Re-define, “il Regno Unito si è isolato e ha perso la possibilità di influenzare il dibattito in modo produttivo, senza alcun tornaconto”; secondo Kapoor, è addirittura surreale sostenere di aver difeso gli interessi della City, quando, in materia di capitalizzazione, liquidità e struttura delle istituzioni finanziarie, il Regno Unito è oggi più avanti dei piani (futuri) dell’Unione Europea.

La sintesi migliore è quella di Vicky Redwood, economista alla Capital Economics, casa indipendente di ricerca macroeconomica: “Non è detto che la vita delle banche in Gran Bretagna sia così facile [in effetti si parla di riforme per separare le banche commerciali dalle banche d’affari, mentre i requisiti patrimoniali, come detto, sono pesanti], ma non essendo soggetti alle ‘loro’ regole possiamo rimanere competitivi: e questo è un bene.” Resta aperto il problema del fatto che oggi l’Unione Europa potrà imporre le sue regole a maggioranza, e farle implementare mediante la Commissione Europea e la Corte Europea di Giustizia, anche senza la Gran Bretagna.

Non sono emerse novità di rilievo sui contenuti del nuovo trattato, che dovrebbe essere siglato al massimo entro marzo del 2012: viene confermata infatti la struttura imposta dal direttorio franco-tedesco, che ribadisce l’obbligo che il deficit dei singoli stati non superi lo 3%, rendendolo ancora più tassativo. In caso di sforamento, scatteranno sanzioni automatiche, anche se è prevista una  scappatoia secondo cui la maggioranza qualificata può deliberare la mancata applicazione delle “punizioni”.

Più interessante la parte che riguarda i meccanismi difensivi: la BCE metterà la sua esperienze e conoscenze al servizio dello European Financial Stability Facility (EFSF), non solamente fungendo da agente nell’emissione della prima tranche di bond che verrà collocata il prossimo 13 dicembre. Viene anticipato a luglio 2012 il varo del ESM (European Stability Mechanism), che però, a causa del “nein” della Cancelliera non sarà una vera e propria banca, a differenza di quanto proposto da Van Rompuy. Si dà inoltre il via al leveraging del EFSF. Con il passaggio allo ESM, i fondi a disposizione del EFSF (attualmente 440 miliardi di euro, nella forma di garanzie prestate dagli stati membri) potranno essere aumentati (questa volta in forma di versamenti di cash) fino al limite massimo formalizzato nel documento di ieri (500 miliardi).

Mettendo insieme i due dati, limite massimo del contributo degli Stati più possibilità di indebitarsi (leveraging), ed ipotizzando un indebitamento pari al capitale, si raggiungerebbe una potenza di fuoco di circa 1.000 miliardi di euro. A questa somma si aggiungono gli ulteriori 200 miliardi (di cui 150 provenienti da Paesi dell’Area Euro) che, secondo il documento di ieri, potrebbero essere forniti nei prossimi dieci giorni dai paesi membri al Fondo Monetario Internazionale mediante accordi bilaterali. Il sistema di votazione del ESM prevede che, “quando è necessaria una decisione urgente relativa al soccorso finanziario in un contesto di pericolo per la continuità dell’area euro, l’unanimità viene rimpiazzata da una supermaggioranza dell’85%. Disposizione, questa, studiata per evitare il potere di ricatto dei paesi più piccoli, e pertanto fieramente osteggiata ad esempio da Finlandia e Slovacchia.

La cosa più importante è capire se quanto pattuito al vertice possa configurarsi come il fiscal compact (patto fiscale) che Draghi ha stabilito come pre-condizione al rafforzamento dell’azione diretta della BCE sui mercati dei titoli di stato. Il Presidente della BCE si è dimostrato cautamente soddisfatto: “L’accordo è la base per un buon patto fiscale e garantirà maggior disciplina da parte degli stati membri: riteniamo che verrà rimpolpato nei prossimi giorni”.

Per il momento, però, gli acquisti di titoli da parte della Banca Centrale saranno limitati a 20 miliardi a settimana: secondo un banchiere centrale che si è confidato con Reuters a condizione di non essere citato: “Vedrete altri acquisti, ma non il grande bazooka che i mercati e i media si attendono”.

E’ vero che la BCE si dimostra restia ad interagire pesantemente sui mercati: tuttavia, come nota Carlo Bastasin su Il Sole 24 Ore, con l’ulteriore taglio ai tassi della BCE può davvero convenire alle banche europee prendere in prestito all’1% per investire in titoli di stato che rendono oltre il 6%, portando casa un bel 5%. E’ questa anche la “dritta” di Sarkozy, che ai giornalisti ha detto che “ogni stato potrà contare sulle sue banche, che avranno liquidità a loro disposizione”.

Sarebbe una buona cosa, se non fosse che va in conflitto con le indicazioni alle banche che vengono fuori dagli stress test: smobilizzare titoli italiani e ricapitalizzarsi. Secondo l’economista Holger Schieding della banca privata tedesca Berenberg, infatti, “comprare titoli italiani è forse l’ultima cosa che le banche faranno con la liquidità in eccesso”.

di Carlo Musilli

Potremo ricordarci di oggi come del giorno in cui ci siamo salvati per un pelo. Oppure ritroveremo la data di venerdì 9 dicembre 2011 nei libri di storia come la data in cui ci rassegnammo al disastro, buttando al vento anche l'ultima occasione. Come se i maya avessero ciccato la loro profezia apocalittica di poco più d'un anno. Che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy non fossero due statisti in grado di salvare da soli l'Eurozona era chiaro da tempo, distratti come sono dalle loro ragioni di politica interna. Ma a Bruxelles, nel vertice Ue e nel successivo summit dell'area euro, dovranno far finta che le président e la cancelliera siano davvero quello che non sono. E firmare un accordo per mettere un freno alla crisi del debito.

Diciamo subito che le premesse sono pessime. In una giostra di rimpalli, tatticismi e dichiarazioni vacue, i leader di Francia e Germania hanno lasciato ampiamente intendere che non è lecito aspettarsi da loro la mossa decisiva. Il risultato è stato che le speranze di un intero continente sono crollate prima ancora che i capi di Stato e di governo si sedessero a tavola, ieri sera, per la loro "cena informale".

Ad aprire le danze ci aveva pensato quel genio di Steffen Seibert, portavoce della Merkel, che mercoledì aveva definito l'incontro "molto impegnativo", confermando la voce fatta trapelare da un oscuro funzionario tedesco secondo cui l'esecutivo di Berlino sarebbe sempre più pessimista riguardo una possibile soluzione dell'impasse. La cancelliera ha provato a correggere il tiro, ma è stata ancora una volta troppo timida. Sarkò invece ci ha messo il carico: "Il rischio d'esplosione dell'Europa non è mai stato così grande". Risultato: mercoledì e giovedì le Borse sono crollate e gli spread sono tornati a impennarsi.

Il tonfo di ieri è tanto più significativo perché arrivato in concomitanza con un altro evento che - in condizioni normali - avrebbe catalizzato l'attenzione di tutti. La Bce di Mario Draghi ha deciso di tagliare nuovamente i tassi d'interesse, portandoli ad un tondo 1%. Questo significa più soldi nel sistema, quindi dovrebbe piacere ai mercati. Invece non è stato così: le perdite sono continuate come nulla fosse. Perché?

La verità è che gli operatori si attendevano anche un'altra conferma da parte di Draghi. Volevano che il banchiere italiano ribadisse l'intenzione dell'Eurotower di proseguire ad libitum con la scorpacciata luculliana di titoli di Stato. Questo sì li avrebbe rassicurati: un surrogato accettabile di fronte alla consapevolezza che la Bce non può (e probabilmente non potrà mai) diventare prestatore di ultima istanza (vale a dire concedere crediti direttamente ai singoli Stati). Ma questo comportamento da parte dei mercati testimonia anche l'assoluta mancanza di fiducia in una soluzione politica. D'altra parte, se non ci credono i politici, è difficile chiedere uno slancio fideistico a chi per mestiere fa girare soldi.

Al momento, la questione più calda sul tavolo è la proposta franco-tedesca di modificare i trattati Ue. Si punta a blindare le discipline di bilancio dei vari Paesi membri, prevedendo delle sanzioni molto severe per chi sgarra. In realtà le ombre su questo progetto sono molte. Innanzitutto pare che sia frutto di una sorta d'imposizione da parte di Merkel a Sarkò, piuttosto che di un ponderato studio, considerando che i criteri di giudizio sui bilanci si annunciano talmente severi che la Francia sarà la prima ad essere colta in fallo.

In secondo luogo non è affatto detto che chiudere le casse europee in una botte di ferro sia la strada migliore per uscire dalla crisi. Forse così facendo si potranno calmare gli speculatori, raffreddando i timori incontrollati per la crisi dei debiti. Ma certamente non basterà a risolvere il vero problema di base: il fatto che ormai siamo in recessione. E in economia un sistema che non cresce non è sostenibile. Da questo punto di vista, anche le tanto sospirate e incerte riforme dell'Efsf e della Bce non potranno mai svolgere il ruolo di deus ex machina, a fronte della completa mancanza di un coordinamento politico unitario dell'Europa.

Ma di questo si parla poco. Affannati a spegnere l'incendio finanziario, non ci accorgiamo delle crepe sul muro che stanno per farci crollare il tetto sulla testa. Forse ci ricorderemo di oggi come del giorno in cui abbiamo creduto di salvarci. 

 


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