di Emanuele Vandac

Il Vaticano entra nel dibattito sulla crisi finanziaria globale e lo fa con un suo articolato rapporto, presentato ieri mattina in sala stampa vaticana dal cardinale Peter Turkson e dal monsignor Mario Toso, presidente e segretario del Pontificio consiglio per la giustizia e la pace (titolo: “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di una autorità pubblica a competenza universale”).

Il sistema finanziario è malato, questa la premessa da cui si articola il ragionamento della Santa Sede: dopo la parentesi caratterizzata dagli accordi di Bretton Woods (1944 - 1971), in cui la politica impose al mercato alcuni principi cardine (ruolo centrale del dollaro americano, convertibilità in oro, ancoraggio del tasso di cambio delle principali divise mondiali), sembra proprio che gli animal spirits del libero mercato stiano facendo una gran fatica a mantenere stabilmente in equilibrio i mercati globali.

Secondo il Vaticano, il nuovo ordine sorto dopo la fine di Bretton Woods (1971) è dominato dall’abuso di posizioni dominanti travestite da libero mercato; non solo, la furia speculativa e la sostanziale assenza di regole ha spacciato la “stabilità del sistema monetario globale”, vista come un “bene pubblico universale”. E’ interessante notare come la Chiesa cattolica riconosca all’equilibrio sui mercati finanziari un ruolo non troppo dissimile a quello di altri beni materiali e non, quali il cibo e l’acqua, la libertà e la giustizia.

Si tratta di un riconoscimento importante ed apprezzabile, specie se si considera come la speculazione globale sia in grado di influire (negativamente) sul destino di milioni di cittadini greci, italiani, spagnoli o portoghesi, in gran parte incolpevoli degli eccessi e degli errori dei loro governanti. E come la speculazione sui mercati delle commodities, operando in modo non troppo dissimile da una catastrofe naturale, abbia reso più costoso il cibo, consegnando milioni di uomini donne e bambini alla malnutrizione quando non alla morte per inedia. E’ evidente che la stabilità di un sistema economico fortemente sbilanciato sul versante della finanza non possa essere affidato completamente al libero mercato.

In questo senso, il documento presentato ieri costituisce l’elaborazione di concetti già espressi dal Papa nella sua Enciclica Caritas in Veritas. In quella missiva, inviata il 29 giugno del 2009, Ratzinger chiariva che la Chiesa non ha mai considerato l’agire economico in sé e per sé “antisociale”. E tuttavia metteva in guardia dal rischio che il mercato possa essere orientato in senso negativo per la società, “non perché questa sia la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso.” Non è dunque lo strumento ad essere sottoposto a scrutinio, quanto l’“uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale”.

Qui, ovviamente il discorso si fa più attinente allo specifico del magistero della Chiesa e, dunque, meno politicamente fruibile. Eppure, già in Caritas in Veritas, il Papa sosteneva che “l'attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica.”Si tratta dunque di ridare alla politica il suo ruolo di guida sul mercato, in modo da consentire la correzione delle storture provocate da interpretazioni estremistiche del liberismo, quali finanziarizzazione patologica e deficit di democrazia e di rappresentatività all’interno dei “club” dove si prendono decisioni che toccano milioni di persone.

La Chiesa sembra avere le idee chiare su chi dovrebbe farsi carico di questo fardello: una nuova autorità mondiale, figlia di un “accordo libero e condiviso” tra i vari stati, idealmente collocata nell’ambito delle Nazioni Unite. Ad una diagnosi condivisibile si associa dunque una ricetta non troppo convincente: è infatti evidente come venga eluso il tema, centrale, della leadership all’interno del futuro super-organismo di controllo della finanza.

In effetti, anche quello nato nel 1944 a Bretton Woods era un sistema che rispondeva alle esigenze delle nazioni militarmente ed economicamente più forti, e che infatti si è dissolto precisamente quando la nazione militarmente ed economicamente più forte ha deciso che esso non era più sostenibile per suoi motivi interni (i quali per inciso, avevano a che fare con una guerra troppo dispendiosa e non proprio di successo).

In ogni caso è vero che in un mondo fortemente interconnesso, il coordinamento tra gli stati costituisce fattore chiave di successo e la sua mancanza un disastro, come sta dimostrando in questi giorni il teatrino di Francia e Germania in seno all’Eurozona. Tuttavia, prima ancora di speculare su superorganismi sovranazionali, sarebbe più urgente che i singoli stati disciplinassero correttamente i mercati finanziari, impedendone gli eccessi. In questo senso, non sono forse tanto efficaci le tassazioni delle transazioni finanziarie, su cui pure anche il documento vaticano si esercita, quanto piuttosto una misura semplice, che equipari gli strumenti derivati ai farmaci: finché non si comprenda pienamente il loro senso e la loro utilità (nel caso di specie, anche sociale) dovrebbero semplicemente essere vietati dalla legge.

E non da un solo Paese, ma da tutti, per evitare distorsioni. In ogni caso, è quantomeno ironico che uno stato come il Vaticano, che oggi parteggia per un aumentato ruolo delle istituzioni, possieda una banca come lo IOR, che ha impiegato ben 53 anni costellati di episodi non edificanti prima di accettare di essere soggetta alla vigilanza della Banca d’Italia.

 

 

di Emanuele Vandac

Non si trova ancora un accordo tra Francia e Germania sulle decisioni da prendere nel super-summit che si terrà a Bruxelles il prossimo fine settimana. O per lo meno questa è l’impressione che si sono fatti i mercati. L’agenda ufficiale prevede un primo incontro venerdì tra i 17 ministri delle finanze dell’Eurozona, ed una seconda tornata di incontri che includono anche  i rimanenti dieci. Domenica, invece, sono previsti meeting dei leader europei, e 27 e poi a 17.

Nella serata di giovedì, a mercati europei chiusi, un comunicato congiunto dei rappresentanti di Francia e Germania ha spiegato che sarà necessario un secondo incontro, da tenersi al più tardi il mercoledì successivo, per dare piena implementazione alle decisioni prese durante il week end. Una decisione senza precedenti, che tra l’altro sembra sia stata presa dal duumvirato franco-tedesco senza nemmeno consultare i rappresentanti degli altri Paesi.

La gravità del disaccordo tra Francia e Germania è segnalata anche dall’improvviso viaggio di Sarkozy a Francoforte, dove si è recato lo scorso mercoledì dopo aver visitato la moglie in travaglio. Non sembra però che questo incontro programmato abbia appianato le controversie dei due. Uno dei temi più controversi è il ruolo dell’EFSF (European Financial Stability Facility). Sembra ormai chiaro che la dotazione attuale, recentemente portata a 440 miliardi di euro, non sarà sufficiente a farne quel “super-bazooka” contro la speculazione che vorrebbero Oltralpe. Come rendere il fondo patrimonialmente più robusto è tutta un’altra cosa. Sarkozy, spera che EFSF gli tolga le castagne dal fuoco, ovvero sostenga le banche francesi che potrebbero andare incontro a serie difficoltà nel caso passasse la linea dell’haircut (taglio di capelli, ovvero svalutazione) del 50 - 60% sui titoli greci.

Poiché però “nulla si crea e nulla si distrugge” (e se qualcuno dice che in finanza è possibile anche il contrario é meglio non dargli retta) lo ESFS potrebbe affrontare la possibile futura grana francese solo in due modi: con nuove garanzie prestate dagli euro-stati oppure trasformandosi in una super-banca pubblica. Poiché Sarkozy sembra pronto perfino a mandare a fondo il continente pur di non rischiare la tripla A del suo debito sovrano (tema elettoralmente pesante, pare), la strada delle garanzie della République non è praticabile. Da qui nasce la sua idea di trasformazione di ESFS in una vera e propria banca pubblica, che chiederebbe soldi in prestito alla Banca Centrale Europea. E qui naturalmente Sarkò non può che scontrarsi con il tonante “nein” della Cancelliera. Non solo, anche il presidente della BCE, il connazionale Trichet, è contrario: tutto da vedere quale sarà l’atteggiamento di Draghi.

A complicare le cose, c’è la Grecia, con il suo bisogno spasmodico di cash: se entro novembre non verrà sbloccata la seconda tranche di 8 miliardi di aiuti messi a punto da EU e da Fondo Monetario Internazionale, il paese ellenico sarà ormai anche ufficialmente in default. La pressione della Grecia da un lato e le visioni inconciliabili dei due leader europei dall’altro irritano comprensibilmente il Fondo Monetario Internazionale che, a quanto riporta stamani il quotidiano britannico The Independent, ha fatto sapere che la sua approvazione alla seconda tranche arriverà solo al termine del meeting europeo (quello “vero”, non quello inizialmente programmato per questo fine settimana, evidentemente ormai privo di qualsiasi autorevolezza). Il Fondo, infatti, attende risposte dagli europei sul tema delle stime di riduzione del debito greco fatte dai politici europei, bollate come “troppo ottimistiche”dall’organizzazione internazionale.

Ci sono varie “ricette” sul tavolo per uscire dalla crisi, anche se un vero progresso è impossibile a causa dei veti incrociati dei singoli attori: il deprezzamento dei titoli greci incontra il favore della Grecia, che vedrebbe così tagliati i suoi debiti. Ma è fortemente avversato dalle banche e dalla BCE, che, assieme, detengono circa 65 miliardi di euro di obbligazioni “made in Greece”. Tutti i leader, in generale, sono d’accordo sul tema della (necessaria) ricapitalizzazione delle banche europee. Il vero tema è: come? Ricorrendo al mercato o con l’aiuto pubblico (e nel secondo caso, pubblico vuol dire stato sovrano o EFSF?).

I banchieri europei (ovvero i diretti interessati) vedono il ricorso al mercato come il fumo negli occhi. E hanno gioco facile: infatti, qui si parla di mantenere un certo “ratio” (rapporto, frazione) tra attivo e passivo, il quale, per definizione, può essere conseguito anche con livelli diversi di numeratore (attivo) e denominatore (patrimonio).

Se le banche non vogliono rafforzare il patrimonio battendo cassa sui mercati, possono sempre ridurre il loro attivo, senza toccare il patrimonio. Tradotto: possono cominciare a non prestare più denaro alle aziende e ai privati, lavorando nella direzione della crisi e dandole nuove munizioni. Fa sorridere pensare che tutti questi problemi, che si trasformano in un gigantesco e pericolosissimo esercizio a chi tira la coperta da una parte o dall’altra, si risolverebbero semplicemente procedendo convintamente al salvataggio della Grecia. Ma sembra che i leader siano troppo preoccupati di ossequiare dogmi per evitare il disastro.

di Mario Braconi 

Non bastavano i contrasti tra i premier dei due Paesi più importanti dell’Unione Monetaria sul modo in cui l’Europa debba affrontare la crisi indotta dalla speculazione anti-euro; né l’incertezza e la preoccupazione generate dalla crisi di Dexia, una banca con un’esposizione al rischio credito pari al 170% del PIL greco. A quanto pare, alla finanza pubblica europea e alla sua deprimente politica non poteva mancare il tocco surrealista, assicurato in questo caso dal governo di coalizione slovacco, che alla fine ha mantenuto la sua folle minaccia di non approvare il pacchetto di intervento finalizzato a rafforzare la European Financial Stability Facility (EFSF).

Già, perché mentre il Continente è in fiamme, il governo di un paese con una popolazione di cinque milioni di abitanti, che ha adottato l’euro il primo gennaio del 2009 e attualmente contribuisce al Fondo di stabilità finanziaria con una quota inferiore all’1% si sta comportando da bambino viziato. E ciò a dispetto del fatto che, secondo un sondaggio citato da Reuters, poco meno della metà degli slovacchi si sia detta favorevole al piano anti-crisi e il 36% contraria.

L’assurda situazione di stallo è causata dalle norme europee, secondo cui le modifiche al Fondo, per essere valide, devono essere ratificate da 17 degli Stati che adottano l’euro: i governi di sedici Paesi hanno approvato le disposizioni di ratifica, e ora manca solo Slovacchia. Una regola certamente ispirata dalla più pura delle aspirazioni democratiche, ma che, applicata senza riguardo al peso demografico ed economico di ogni singolo Paese, è solo un pericolosissimo impaccio.

Va dato atto alla premier Iveta Radicova di essersi molto spesa tanto sul fronte esterno che internamente per tentare di rassicurare i partner europei da un lato e per convincere il suo governo ad approvare il pacchetto dall’altro. Il voto di fiducia, però, è servito solo a far cadere il suo governo. Infatti, su 124 deputati presenti in aula, solo 55 si sono espressi a favore della ratifica (per l’approvazione sarebbero stati necessari 76 voti), mentre nove sono stati i deputati che hanno votato contro.

Molti gli assenti e i “non registrati per il voto”, tra cui diversi appartenti a SaS (Libertà e Solidarietà), il partito liberal/libertarian euroscettico fondato nel 2009 e presieduto dall’economista ed imprenditore Richard Sulik. Fino a ieri, il SaS è stato uno dei quattro partiti della coalizione di governo di centro destra presieduto dalla Radicova (gli altri sono L’unione cristiana e democratica slovacca, il Movimento Democratico Cristiano ed il partito etnico ungherese).

Sulik non ha fatto mai mistero della sua contrarietà al provvedimento, che considera un’iniqua redistribuzione di denaro pubblico al settore privato. Dimostrando una miopia e una ristrettezza di visioni non comune e un’aperta indifferenza alla gravità della crisi che sta attraversando l’Unione monetaria, Sulik ha dichiarato candidamente: “La Slovacchia non ha la responsabilità di salvare il mondo (...). Lasciamo che le Borse crollino, e le azioni scendano di prezzo. Vorrà dire che saranno meno care e che la gente vorrà comprarle. Si chiama libero mercato, domanda e offerta”.

Biascicando il suo mantra libertarian ai media europei, Sulik avrà anche avuto il suo quarto d’ora di notorietà, ma ora è isolato grazie al buon senso degli altri membri del Parlamento slovacco. Il ministro delle finanze, Ivan Miklos, ha infatti dichiarato che “in un modo o nell’altro” il provvedimento verrà approvato. Si lavorerà nella direzione suggerita dalla premier alla conferenza stampa organizzata subito dopo il voto, nel corso della quale pare che abbia a stento trattenuto le lacrime: i tre partiti residui della coalizione cercheranno un accordo con Smer, il partito di centro sinistra dell’opposizione, al fine di arrivare all’approvazione entro la fine della settimana. A quanto risulta a Reuters, esisterebbe già un patto che prevede un rimpasto o le dimissioni del governo in carica (per l’ordinaria amministrazione) come contropartita del voto favorevole del partito di centro sinistra capeggiato dall’ex primo ministro Robert Fico.

Una volta incassato in un modo o nell’altro l’ok della Slovacchia, l’Europa dovrà affrontare problemi meno grotteschi, ma altrettanto preoccupanti: prima tra tutti, la questione dell’insufficienza delle misure tanto faticosamente ratificate.

di Mario Braconi

Al manifestarsi delle crisi sistemiche, peraltro sempre più frequenti, è naturale domandarsi quanto le classi dirigenti globali comprendano i meccanismi dell’economia per poterli manovrare in modo efficiente a beneficio del massimo numero possibile di soggetti. A giudicare da come i politici europei stanno affrontando la grave crisi dell’Area Euro, si direbbe che la loro incompetenza sia notevole e che le aspettative (negative) degli operatori finanziari su una classe politica incompetente non facciano che aggravare la situazione.

In questo contesto appare appropriata la scelta dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze, che ha dato al mondo un importante segnale, conferendo il Nobel per l’economia a due economisti americani Thomas Sargent e Christopher Sims per il loro lavoro sull’importanza delle aspettative nel comportamento economico e sul ruolo che esse hanno nel decision making.

Come spiega su Bloomberg Edward Glaser, economista di Harvard, Sargent è stato tra i fondatori della corrente di pensiero cosiddetta delle “aspettative razionali”: l’Accademia Reale Svedese ha citato in particolare due suoi scritti del 1971 e del 1973, con i quali l’economista smontava alcuni dei “dogmi” fino ad allora accettati, ovvero la correlazione diretta tra incrementi salariali ed aspettative inflattive, e la “tenuta” della curva di Philips nel lungo periodo (ovvero la relazione inversa tra disoccupazione ed inflazione).

Glaser spiega inoltre che, sebbene a Stoccolma ci sia soffermati sulle capacità teoriche di Sargent, non sono stati trascurati i suoi contributi alla politica economica: in un paper del 1975 Sargent (assieme al collega Neil Wallace) concluse che “nella versione del modello basata sulle aspettative razionali, un’offerta monetaria deterministica vale quanto qualsiasi altra, se si osserva la distribuzione di probabilità del reddito reale”. Tradotto: finché la crescita monetaria è facilmente prevedibile dagli operatori economici, l’economia non prenderà una direzione certa, indipendentemente dalla quantità di moneta in circolazione.

Secondo Glaser, la conclusione più interessante degli studi di Sargent sull’iperinflazione sperimentata negli anni Venti in alcuni paesi europei (Germania, Austria, Polonia ed Ungheria) è che le aspettative sull’inflazione futura non sono determinate meccanicamente dal suo livello corrente; i fenomeni iperinflattivi analizzati, infatti, si sono spenti in modo relativamente brusco, suggerendo che sia stato il proprio il salto quantico nelle aspettative degli operatori a troncare il circolo vizioso. Secondo Sargent, il successo della riforma tedesca del 1923 non è riconducibile esclusivamente alla creazione di una nuova moneta, il rentemark, convertibile in oro.

E’ vero che, come sostiene Michael K. Salemi dell’Università della North Carolina, la convertibilità viene normalmente interpretata dagli operatori come netto segnale di controllo della crescita della massa monetaria. Ma secondo Sargent l’intervento monetario non è sufficiente se non coadiuvato da interventi di politica fiscale (più tasse e meno spesa).

Insomma, secondo Sargent la riforma tedesca ebbe successo perché “diede vita ad una banca centrale indipendente che si rifiutò di finanziare incondizionatamente il deficit pubblico, ma anche perché impose disposizioni di rigore fiscale”. Considerazioni simili valgono anche per gli altri tre Paesi. In sostanza, come sintentizza il “libertarian atipico” Tyler Cowen, sul suo blog “Marginal Revolution”, secondo Sargent “una buona politica monetaria ha bisogno di una buona politica fiscale”.

Se Sargent è il teorico, Sims è l’uomo dei numeri. Uno dei suoi contributi più importanti al pensiero economico è il suo lavoro “Macroeconomia e realtà”, con cui critica i metodi quantitativi normalmente utilizzati dagli economisti, proponendo nuove tecniche, come la “vector autoregression”, un metodo statistico relativamente semplice che si è rivelato piuttosto efficace per prevedere gli effetti di politiche economiche e finanziarie. Del resto, come ha detto scherzosamente Sargent alla Reuters, “cerchiamo di fare esperimenti prima di far saltare in aria il mondo intero [con politiche economiche errate]”.

Per inciso, un suggerimento che sarebbe bello anche i banchieri prendessero sul serio. Sims, inoltre, ha effettuato studi sulla casualità di Granger (dall’economista inglese Granger che espresse l’idea per la prima volta nel 1969). Nota Cowen come le tecniche empiriche messe a punto da Sims portarono alla conclusione che spesso era la crescita economica a produrre moneta anziché il contrario; sembra una banalità, ma negli anni Ottanta questo assunto sembrò una specie di rivelazione!

Benché alcuni commentatori americani tendano a vedere nel riconoscimento a Sargent e Sims la vittoria definitiva sull’economia keynesiana, il messaggio dell’Accademia Svedese al mondo potrebbe essere tutt’altro: non è possibile creare un’unione monetaria di successo in assenza di un’unione fiscale. Precisamente il problema che impedisce al Vecchio Continente di risolvere in modo veloce la crisi che lo sta attanagliando.

di Emanuele Vandac

Prima dell’incontro con i colleghi francese e lussemburghese, il Primo Ministro belga Yves Leterme ha ostentato sicurezza, dichiarando ieri alla televisione belga che era a portata di mano una soluzione politica capace di scongiurare il fallimento di Dexia senza penalizzare troppo il merito di credito del Paese, già appesantito di un debito pubblico pari al PIL. A stare al comunicato stampa rilasciato domenica dalla segreteria di Leterme, effettivamente i governi dei tre Paesi avrebbero trovato un accordo su un piano finalizzato a neutralizzare la prima mina innescata dalla “crisi greca”.

Eppure la conferenza stampa congiunta di ieri con cui Sarkozy e la Merkel hanno tentato di dimostrare unità di vedute, non è molto rassicurante: al di là delle trite litanie sulla determinazione comune “a fare tutto il necessario per assicurare la ricapitalizzazione delle banche europee”, non vi sono indicazioni univoche su come l’Europa intenda affrontare il mostro bicipite dell’ondata speculativa anti-euro e della insufficiente capitalizzazione (e/o liquidità) di alcune banche europee.

La conferenza stampa dei due leader non poteva che trasmettere un deleterio senso d’indeterminatezza, vista l’inconciliabilità delle visioni dei due. Secondo Sarkozy, infatti, le banche in difficoltà dovrebbero poter accedere immediatamente al Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria; la Merkel invece continua a considerare quello strumento come l’ultima carta da giocare, una volta che siano eventualmente falliti il ricorso ai mercati finanziari e quello al governo del Paese della banca in difficoltà.

E’ comprensibile la preoccupazione di Sarkozy, dal momento che, se il governo francese dovesse essere chiamato a effettuare anche altri salvataggi bancari, il suo merito di credito a tripla A potrebbe essere declassato. Il Belgio, con un rapporto debito / PIL del 97%, è in una situazione molto più preoccupante. Non tanto per l’esborso di 4 miliardi (circa l’1% del suo debito) con cui il governo comprerà gli sportelli Dexia in Belgio, quanto piuttosto a causa delle garanzie che sarà chiamato a prestare.

Il piano di salvataggio prevede infatti che, mentre tutti gli asset di qualità di Dexia verranno rapidamente ceduti (certamente la controllata turca Denibank, l’italiana CrediOp, quando e se si troverà un compratore), tutte le attività problematiche saranno conferite in una bad bank, una bara carica di circa 95 miliardi di euro di titoli fortemente svalutati (quelli greci valgono la metà del valore facciale), di cui circa 12 emessi da Spagna, Italia e Portogallo. Secondo un calcolo di Reuters, i governi francese e belga potrebbero essere chiamati a garantire attività per un totale di 200 miliardi di euro: il Belgio dovrà farsi carico del 60% e la Francia di quasi tutta la parte rimanente.

Non c’è da meravigliarsi dunque se i costi di approvvigionamento fondi sui mercati per il Belgio siano saliti. Contrastanti le reazioni delle agenzie di rating: mentre Moody’s già venerdì ha minacciato il declassamento del merito di credito del Paese, a quanto riferisce Reuters, Standards & Poors’, ha stranamente confermato i rating di Francia e Belgio anche dopo l’annuncio del salvataggio Dexia.

Il ministro delle finanze francese Francois Baroin, dal canto suo, tenta maldestramente di gettare acqua sul fuoco, dichiarando alle agenzie internazionali che il salvataggio di Dexia è “un caso particolare, non generale”; secondo Baroin, le uniche banche che hanno bisogno di rafforzare la propria struttura patrimoniale sono quelle che non hanno superato lo stress-test (un’analisi condotta dall’Autorità Bancaria Europea, o EBA, assieme ad altre istituzioni nazionali ed europee, su 90 istituti europei in 21 Paesi, finalizzata a “stimare la capacità del sistema bancario europeo a resistere a shock estremi e a valutare la solvibilità specifica delle singole istituzioni finanziarie”).

Sono solo otto le banche bocciate dallo stress test (cinque spagnole, due greche ed una austriaca), e certamente non vi sono né Société Générale né Credit Agricole (le banche più chiacchierate in questi giorni), secondo il Ministro tutto è sotto controllo. Se però egli nutre davvero una fiducia incondizionata in questo tipo di misurazione, dovrebbe spiegare, restando serio, per quale ragione lo scorso 15 luglio Dexia ha passato a pieni voti il suo stress test: a seguito della simulazione di catastrofe, la banca franco-belga aveva mantenuto infatti un coefficiente di patrimonializzazione tier-one molto elevato, pari al 10,4%.

E’ dunque evidente che lo stress test, che per sua stessa natura non considera l’ipotesi di default di uno stato dell’Eurozona, né esprime alcuna valutazione sul rischio di liquidità (quello che ha spacciato Dexia), è tutto fuorché il discrimen rerum per comprendere se una banca sopravviverà nello scenario più terrificante possibile, o se invece fallirà dando del filo da torcere a uno o più Paesi europei. La comprensibile preoccupazione dei governanti, in conclusione, non dovrebbe costituire un alibi per dare a cittadini e mercati informazioni errate. E per inciso, verrebbe naturale domandarsi quale sia lo scopo di una misurazione che non serve assolutamente a niente.

Infine stupisce, e non poco, il silenzio delle istituzioni sulla qualità del management di Dexia. Se una banca, già salvata a forza di miliardi di soldi pubblici nel 2008 si trova di nuovo sull’orlo del fallimento, è evidente qualcosa che non va nel modo in cui è gestita: come minimo, infatti, si può dire che esiste una correlazione non efficiente tra la durata del suo passivo (troppo a breve) e quella del suo attivo (troppo a lungo). A livello più generale, sembra proprio che l’Europa stia sparando tutte le sue cartucce per salvare le sue banche, mentre sarebbe molto più saggio salvare velocemente la Grecia.


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