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di Emanuele Vandac
Se fosse un film dell’orrore, si potrebbe intitolare: “Tutti insieme, distruttivamente, contro l’Euro”. La regia sarebbe affidata a personaggi molto difficili da identificare, che hanno deciso che per far fare ai fondi che gestiscono un’altra vagonata di quattrini, l’idea più simpatica del momento è far saltare le economie di un intero continente, facendo leva sull’inconsistenza politica e la miopia delle istituzioni (Governi locali, Unione Europea, Banca Centrale Europea).
A dare una mano ai registi arrivano con encomiabile tempismo le agenzie di rating, inspiegabilmente ancora ascoltate dai mercati nonostante le molte pessime figure inanellate, soprattutto ai tempi della crisi del 2008: secondo S&P, per dire, ad una settimana dal suo fallimento ufficiale, quell’esempio di virtù finanziarie che si chiamava Lehman Brothers ancora aveva un rating A, ovvero di investment grade. Se non bastasse, è bene ricordare che sono stati i professorini dei mercati ad assegnare rating a tripla A ad un mucchio di prodotti spazzatura, talmente complicati che probabilmente nemmeno i loro analisti più geniali riuscivano capirli.
In questi giorni è molto trendy dare addosso all’Italia, e Standards & Poor’s non perde occasione di dimostrare quanto sia à la page: così ieri ha comunicato di aver peggiorato il suo “outlook” su 15 banche italiane, sette delle quali (tra cui Unicredit, Intesa Sanpaolo, BNL e Mediobanca) hanno subito anche un contestuale downgrade. Per i cervelloni dell’agenzia di rating, si tratta di un atto quasi dovuto, causato dalla notevole quantità di titoli di stato italiani nell’attivo dei loro bilanci (Unicredit, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi di Siena ne detengono, tutte assieme, poco meno di 130 miliardi di euro): a memoria d’uomo questa sembra proprio la prima volta in cui una banca viene penalizzata per aver fatto qualcosa di utile per il Paese.
L’atteggiamento delle agenzie rating sembra condizionato dagli errori del passato e dal timore di essere nuovamente accusate di aver riposato tra le braccia di Morfeo mentre il mondo andava in fiamme. Eppure, sul piano strettamente tecnico, non è d’immediata comprensione la ragione per la quale S&P abbia deciso ad esempio di penalizzare Mediobanca, che ha uno dei rapporti di capitalizzazione più forti (il suo Tier 1 Ratio, ovvero il rapporto tra patrimonio e attività ponderte per il rischio supera ’11%). Senza contare che il bilancio di Mediobanca al netto di deprezzamenti di asset per circa 240 milioni di euro, ha comunque chiuso in positivo.
O, se è per questo, non abbia tenuto in considerazione il fatto che Intesa Sanpaolo ha portato a termine ad aprile la sua ricapitalizzazione per 5 miliardi di euro; né che i titoli di stato italiani nel suo portafoglio abbiano una duration (vita residua ponderata) sotto i due anni. E che dire del downgrade di BNL, controllata da BNP Paribas, che però mantiene un rating più elevato? E chi l’avrebbe mai creduto che la forte europeizzazione di Unicredit, molto forte in Germania e nell’Est Europeo, tanto elogiata dagli analisti ieri, oggi divenisse una delle cause dichiarate del declassamento?
Insomma, ci sarebbe molto da dire sul come e soprattutto sul perché di questi downgrade, che si inscrivono nel tradizionale senso del gregge che contraddistingue normalmente i “mercati” finanziari. Eppure Mussari, il presidente ABI ha dichiarato candidamente che i declassamenti delle banche italiane non costituiscono un vero problema, dato che le banche in questione “avevano rating elevati” (sic!). Sembra insomma che Mussari non abbia alcuna intenzioni di combattere a spada tratta per difendere le virtù indiscutibili delle banche italiane, ed in particolare la loro relativa robustezza (conquistata, è certo, a prezzo di un immobilismo e di una prudenza che hanno contribuito a surgelare il Paese, sia chiaro).
Egli sembra più interessato a mettere le mani sul patrimonio dello Stato, che vorrebbe dismesso in quattro e quattr’otto per pagare i debiti. Strano che un uomo di finanza come lui non si renda conto che più che di vendita qui si tratterebbe di svendita a forte sconto: oppure dobbiamo pensare che le banche italiane abbiano fiutato il vento favorevole per qualche saldo di fine stagione?
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di Ilvio Pannullo
All’ultima riunione del Consiglio dei Ministri europei dell’Economia e delle Finanze, tenutosi a Wroclaw, in Polonia, per la prima volta nella breve storia delle istituzioni comunitarie, erano presenti gli Stati Uniti d’America con il Sottosegretario al Tesoro statunitense Timothy Geithner. Un evento presentato come il segno di una ritrovata unità tra le due sponde dell’Atlantico, ma che in realtà evidenzia le preoccupazioni americane circa lo stato di salute dell’economia europea. Nonostante la presenza dell’ex governatore della Banca Centrale di New York, il vertice - va detto senza indugi - è stato un fallimento, perché non è stata presa nessuna delle importanti decisioni che si attendevano con ansia.
«Basta vedere quanto accaduto nelle prime ore dei lavori per trarre già le prime conseguenze», ha commentato l’economista Giacomo Vaciago. «Il rinvio a ottobre di qualsiasi decisione sulla Grecia segna di fatto il fallimento del vertice e, di conseguenza, segnala l’inutilità delle prediche di Gheitner e del governatore britannico Osborne». Proprio questa decisione rischia infatti di riportare le nubi sui cieli del Vecchio continente, dopo la boccata d’ossigeno respirata dopo la decisione della BCE di fornire liquidità in dollari al sistema bancario europeo.
La preoccupazione dell’Istituto di emissione europeo, proprietario della moneta unica nonché giudice monocratico dell’economia continentale, non potrà infatti che aumentare. La tensione del sistema bancario europeo al momento è più che evidente, alimentata dall’insoluta crisi greca. Tanto evidente che la BCE ha trovato la Federal Reserve molto ben disposta a procedere senza indugio alla manovra coordinata per fornire alle banche del vecchio continente liquidità in dollari. A ciò si aggiunga che il Sottosegretario al Tesoro Timothy Geithner, preoccupato per la situazione che si va delineando in Europa, ha deciso di portare, al vertice dell'Ecofin in Polonia, la sua esperienza nella lotta al contagio finanziario post-Lehman Brothers.
Il suggerimento americano riguarda un uso progressivo del "fondo salva-Stati". Gli americani, in sostanza, ci suggeriscono di modificare le norme che disciplinano l’utilizzo dei fondi dell’Efsf e consentirne l’utilizzo attraverso forme di leveraging, ossia di leva finanziaria, per meglio armare la crociata contro il possibile crollo dell’euro, innescabile dall’ormai prossima e inevitabile dichiarazione di fallimento della Grecia. Il modello, per il European Financial Stability Facility, dovrebbe essere il TALF - Term Asset-Backed Securities Loan Facility - il programma, cioè, gestito dalla Federal Reserve americana e assicurato da 20 miliardi di dollari del Tesoro, che mobilitò prestiti fino a 200 miliardi destinati all'acquisto di derivati del debito, rimettendo in moto un mercato paralizzato dopo il fallimento della Lehman Brothers, all’epoca una delle più grandi banche d’investimento allora operanti sul mercato di Wall Street.
Una versione europea del TALF americano - che si concretizzerebbe nell’utilizzazione a titolo di assicurazione dei fondi dell'EFSF - consentirebbe alla BCE di aumentare gli acquisti di debito sovrano e fornire maggiori finanziamenti ai paesi in difficoltà, ricevendo Bond altamente solvibili in garanzia. Considerati i tempi non sarebbe una decisione sbagliata.
Va da sé, tuttavia, che questo interessamento degli americani per le condizioni dell’eurozona sono il segno evidente dei timori degli Stati Uniti, che si sono accentuati quando la crisi del debito sovrano ha assunto contorni sistemici, coinvolgendo Spagna e Italia. L'intervento coordinato delle Banche Centrali mirava, infatti, a smorzare eventuali sintomi di crisi generati dalla difficoltà per le banche commerciali europee di trovare finanziamenti in dollari, creando una rete di sicurezza in caso di panico sul mercato interbancario.
L’intervento di Washington si è spinto ancora oltre: sono molti infatti gli incoraggiamenti a fare di più per soluzioni politiche che affrontino le sfide alla radice. Da qui la pressione per un neo-TALF targato euro zona che, ha detto Tim Geithner, "non va sottovalutato, perché può aumentare la potenza di fuoco di uno strumento, l’EFSF, che finora non sembra convincere mercato". Le nuove mosse sono infatti nate dall'inaridirsi delle risorse in dollari e dallo spettro di un calo significativo o di un inasprimento improvviso delle condizioni dell'offerta di credito, in grado di accentuare la fase recessiva. Cosa che non deve assolutamente accadere.
Se si blocca lo scambio interbancario tra le due sponde dell’Atlantico, l’Europa potrebbe ritrovarsi nel momento del bisogno senza scialuppe di salvataggio, incapace com’è di darsi delle regole politiche che spalmino i debiti di alcuni sulle spalle di tutti. Dunque di tenersi a galla da sola. La situazione non è da sottovalutare perché la necessità di dollari delle banche del vecchio continente è strutturale, legata a prestiti a clienti americani e all'obbligo di riparare debiti in divisa statunitense. "Non sono ansiosi di essere esposti".
Queste le parole pronunciate dall'economista americano premio Nobel Robert Engle, per descrive le ultime decisioni dei banchieri americani. Quando arrivano, inoltre, i finanziamenti sono erogati con scadenze sempre più brevi, segno evidente della mancanza di fiducia. Non mancano, per fortuna, dei salvagenti: le banche internazionali contano ancora 848,7 miliardi di riserve in dollari depositate presso la Federal Reserve. Ma, con l’aria che tira e con i crescenti ostacoli nel reperire il biglietto verde, gli istituti bancari europei hanno già contattato la giapponese Nomura per rastrellare dollari in Asia.
Le paure si vanno diffondendo anche a causa di un altro fenomeno: la caccia da parte di alcune aziende europee a reperire finanziamenti da istituti bancari fuori dal vecchio continente. È il caso della British Petroleum e di alcune società di trasporti e commodities. Citigroup sta inoltre discutendo una linea di credito da 1 miliardo di dollari per un gruppo energetico che teme paralisi in Europa.
Le banche francesi, tra le più discusse, sono grandi finanziatrici di queste operazioni in dollari. Insomma tira una brutta aria: chi conosce i numeri della crisi sa che il peggio deve ancora arrivare e sta agendo per tutelarsi, sin da ora. Per tutti gli altri i veri problemi arriveranno in blocco, improvvisamente, come accadde con la crisi del 2008 della quale ancora si devono assorbire le conseguenze.
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di Ilvio Pannullo
Gli Stati Uniti temono la crisi europea. A confermarlo tanto il coordinamento delle politiche monetarie statunitensi con quelle europee, quanto la presenza americana al vertice del consiglio europeo dei ministri dell’economia e delle finanze. La situazione è seria, per non dire grave. Per fronteggiare infatti la possibilità, ormai non troppo remota, che esploda un’altra crisi finanziaria, (magari innescata da un default della Grecia sul proprio debito sovrano, che spazzerebbe via qualsiasi possibilità di crescita per le economie OCSE) le banche centrali più importanti del mondo hanno deciso di pompare liquidità nei mercati con un'azione concertata, ufficialmente per far fronte alle difficoltà di alcune banche europee a finanziarsi in dollari.
La Banca centrale europea, lo scorso 15 settembre, ha infatti annunciato, d'accordo con la Federal Reserve americana, la Banca d'Inghilterra, Banca Nazionale Svizzera e la Banca del Giappone, tre operazioni di finanziamento in dollari a tre mesi, il 12 ottobre, il 9 novembre e il 7 dicembre, in modo da coprire il fabbisogno di liquidità a cavallo della fine dell'anno, un periodo abitualmente dedicato per le condizioni di mercato.
L’azione concertata delle cinque maggiori banche centrali del mondo ha l'obiettivo di ovviare ai crescenti problemi delle banche europee a finanziarsi in dollari. Problemi che erano emersi all'inizio dell'estate a causa della riluttanza dei fondi del mercato monetario Usa - tradizionali fornitori di liquidità nel breve periodo delle banche - a fare credito agli istituti bancari europei. La notizia non è di poco conto e non è infatti passata inosservata.
I gestori di fondi del mercato monetario investono infatti prevalentemente in obbligazioni a breve termine di emittenti con un ottimo rating. In questa categoria rientrano i paesi industrializzati politicamente ed economicamente stabili, le organizzazioni parastatali quale la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) dell’Unione Europea, gli istituti svizzeri di credito fondiario oppure grandi gruppi o banche che godono di una garanzia statale.
Il rischio di insolvenza degli emittenti di prim'ordine è infatti molto basso e una stretta sulla concessione di credito, operata da questi fondi, generalmente viene interpretata come il segnale che il rischio della solvibilità dei richiedenti è troppo alto o va pericolosamente aumentando, per ragioni strutturali. Per questo motivo la riluttanza a fare credito agli istituti europei si è allargata ora anche alle banche americane, a causa dei timori sull'esposizione del sistema bancario europeo al debito sovrano dei paesi della periferia dell'euro zona.
Nessuno, infatti, pare abbia voglia di esporsi più di quanto non sia necessario fare, vista la scarsa salute di cui gode il settore bancario americano e visto il clima d’instabilità che sta vivendo l’Europa, aggravato dalla mancanza di concretezza da parte dei governanti europei nel risolvere la crisi del debito sovrano. Secondo alcune stime, le banche europee hanno accusato un calo nella raccolta in dollari attorno ai 700 miliardi di dollari nell'ultimo anno.
Un'iniziativa simile, che ha coinvolto anche le banche centrali di alcuni dei grandi paesi emergenti, era stata realizzata nell'immediato dopo-Lehman, quando il mercato interbancario si era pressoché paralizzato, essendo venuta meno la fiducia delle stesse banche nella tenuta generale del sistema. Le tre aste trimestrali, la cui domanda verrà coperta interamente, vanno ad affiancarsi alle operazioni che la Banca centrale europea conduce su base settimanale fin dal maggio dell'anno scorso, ma che ultimamente avevano evidenziato tensioni sempre più acute.
Da un periodo in cui le operazioni settimanali non erano state utilizzate dalle banche, questa settimana due istituti hanno ricevuto 575 milioni di dollari: un segnale di incapacità a finanziarsi direttamente sui mercati, dato che il tasso praticato dalla Banca centrale europea (1,1%) era nettamente più alto di quello previsto dal mercato (0,2% - 0,7%). Si è trattato della seconda occasione in un mese in cui le banche si sono rivolte alla Banca centrale europea dopo un'interruzione di sei mesi.
Le banche francesi, che la scorsa settimana sono state particolarmente nel mirino dei mercati, in seguito al declassamento di Société Générale e Crédit Agricole e alla messa sotto osservazione di Bnp Paribas da parte dell'agenzia Moody's, avevano ammesso la loro difficoltà nell'accesso a fondi quotati in dollari attraverso i normali canali, ma Bnp Paribas e Société Générale avevano sostenuto anche di essersi assicurati finanziamenti da fonti alternative. Inoltre, hanno ridotto i prestiti in dollari e si stanno preparando a vendere attivi per rafforzare il capitale.
L'iniezione di liquidità era stata in qualche modo anticipata dal presidente della BCE Trichet lunedì scorso a Basilea, dopo la riunione dei banchieri centrali, quando aveva dichiarato che le autorità monetarie erano pronte a fornire liquidità alle banche "sulla base delle richieste". Secondo diverse fonti di mercato, tuttavia, anche se la mossa delle banche centrali è positiva e avrà efficacia nel breve periodo, la riluttanza a prestare le banche europee è destinata a continuare finché non sarà risolta la crisi del debito sovrano.
Altri osservatori di mercato sostengono che per allentare in modo significativo le tensioni è richiesta una serie di azioni: anzitutto, una riduzione dei tassi di interesse, da parte della BCE, che rimuova i 50 punti base di rialzo decretati negli ultimi mesi, accoppiata a una riapertura delle operazioni di rifinanziamento a un anno.
L'azione dell'autorità monetaria potrebbe tuttavia rivelarsi insufficiente se non ci saranno progressi sul fronte politico per avviare a soluzione la crisi del debito sovrano, a partire dall'approvazione dei nuovi poteri del fondo salva-stati europeo, l’EFSF, attesa al più tardi entro ottobre. Questo potrebbe tra l'altro sollevare la BCE dal compito - molto discusso anche al suo interno tanto da provocare le dimissioni del presidente della Bundesbank Axel Weber e del membro tedesco del consiglio direttivo Jurgen Stark - di acquistare sul mercato i titoli del debito pubblico dei paesi in difficoltà.
Lo stesso Stark che peraltro in un discorso tenuto recentemente a Vienna ha sostenuto le operazioni di fornitura di liquidità, affermando che la BCE continuerà a farlo "finché necessario". Vista l’aria che tira il rischio è che presto misure di questo tipo non siano più sufficienti a tranquillizzare i mercati, oramai quasi sicuri che la crisi della Grecia avrà pesanti ricadute sull’intera eurozona.
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di Mario Braconi
Standards & Poors taglia il rating del debito sovrano italiano: una mossa che suscita qualche curiosità, in quanto segue un iter non coerente con il protocollo ordinario. Infatti, se da un lato S&P’s già a maggio aveva messo il debito italiano in outlook negativo, non aveva sottoposto l’Italia a review, ovvero a quel processo di analisi a valle del quale di solito si può verificare un declassamento. Una mossa che tradisce una fretta alquanto sospetta e mette sotto pressione il concorrente Moody’s, che solo venerdì aveva annunciato ai mercati di voler prolungare la sua review per possibile downgrade, iniziata a giugno, fino a metà di ottobre.
Infatti, dopo il downgrade da A+ ad A, tra le valutazioni delle due agenzie di rating si registrano ben tre “tacche” (notch) di differenza: Moody’s continua ad valutare il rischio di credito del debito sovrano italiano molto più favorevolmente di quanto faccia S&P. Non è escluso, a questo punto, che l’esito della review di Moody’s comporti un taglio di due anziché di un notch. Per inciso, la discrepanza di valutazioni tra S&P e Moody’s la dice lunga su quanto scientifici ed incontrovertibili i verdetti dei soloni che dettano legge ai mercati finanziari.
S&P spiega che la decisione di declassare il debito sovrano italiano è il frutto dei bassi voti dello studente Italia nelle materie “politica” e“debito”; la debolezza della coalizione di governo, infatti, costituisce un limite alla capacità del paese di dare risposte soddisfacenti in un contesto interno ed internazionale molto preoccupante. E fin qui, non serviva un’agenzia di rating: bastava chiudere a qualsiasi nonnetto al bar dello sport.
Ma i problemi non finiscono qui: il problema chiave dell’Italia è l’assenza di crescita economica. Un problema pre-esistente alla crisi e nel quale il paese si dibatte da molto, troppo tempo, anche a causa del pervicace rifiuto della sua classe politica (ma aggiungeremmo anche dei suoi stessi cittadini) a modernizzarsi compiutamente. Ma aggravato, sostiene S&P, dalla debolezza della domanda esterna, e dall’aumento dei costi finanziari per il settore pubblico come per quello privato.
Insomma, gli obiettivi del governo sul piano fiscale (che come noto ha scommesso sulle misure più inique e inefficaci come l’aumento generalizzato dell’IVA e la minima tassazione di un pugno di ricconi onesti) appaiono davvero difficili, per non dire impossibili da raggiungere. Cosa che, per inciso, forse sapeva anche il nonnetto di cui sopra già qualche settimana fa.
In sostanza, la bocciatura di S&P va letta come l’ennesima bocciatura sonora alla classe politica italiana, valutata per quello che è: corrotta, incompetente, reazionaria. Il che, in un contesto anche solo vagamente più dignitoso, spingerebbe i diretti interessati a prenderne atto con l’atto concreto di sparire per sempre dalla vista di un popolo che in massima parte li disprezza e li odia con validissime ragioni.
Tuttavia, non sfugga la sostanziale follia di un sistema che, nel diagnosticare la malattia, fa in modo che essa si aggravi fino ad ammazzare il paziente. Che l’Italia fosse debole politicamente, e che fosse strutturalmente incapace di mantenere le poche promesse pelose che riesce a fare, si sa da sempre. Ma certificarlo nel momento in cui è sull’orlo del collasso non farà che spingere ancora più in alto i costi finanziari per il settore pubblico, cosa che ovviamente ha degli effetti negativi sul debito futuro, e quindi sulla tenuta di una manovra che è già fallimentare di suo. E’ insomma sospetto il timing della mossa di S&P, che obiettivamente dà una mano alla nutrita pattuglia di speculatori che hanno deciso di distruggere l’euro.
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di Emanuele Vandac
Si poteva immaginare un modo migliore del caso Kweku Adoboli per festeggiare il terzo anniversario del fallimento di Lehman Brothers? Si è scoperto il 15 settembre che la ex star del trading floor della UBS di Londra ha abusato dei soliti giochini speculativi a base di derivati, provocando al suo datore di lavoro una perdita di circa 1,5 milardi di euro. Una cifra enorme per i comuni mortali, ma non sufficiente a mettere (ancora) in ginocchio il colosso bancario elvetico.
In assenza di proposta di dimissioni dagli alti vertici, a preoccuparsi del proprio immediato futuro sono in questo momento solo i colleghi di Adoboli, che certamente per quest’anno non potranno contare sul bonus. Sempre che di anni futuri da UBS ce ne siano per tutti loro: a seguito dell’ennesimo scandalo, la direzione della banca ha annunciato di voler ridimensionare ulteriormente le sue attività di investment banking rispetto a quanto già annunciato ai mercati lo scorso agosto, quando si era parlato 3.500 esuberi.
Non sorprende la versione ufficiale, secondo cui Adoboli è una scheggia impazzita e le perdite sono la conseguenza di “operazioni di trading non autorizzate”. Il nodo è, come sempre, la reportistica: i trader disinibiti, almeno quelli più in gamba, riescono sempre a fare in modo che i documenti ufficiali prodotti giornalmente per tenere sotto controllo le posizioni aperte non facciano scattare alcun allarme. Infatti, due delle accuse a Adoboli si riferiscono a dichiarazioni false rese tra ottobre 2008 e dicembre 2009, e tra gennaio 2010 e settembre 2011, rispettivamente. La terza accusa è di truffa, per fatti avvenuti da gennaio 2010 a settembre 2011, un lungo periodo in cui il giovanotto di origine ghanese, ora senior trader, pasticciava con le “global synthetic equities” (un derivato che replica l’andamento del mercato azionario).
Spiega una nota della stessa UBS che “le perdite sono state causate dal trading speculativo su future su indici azionari quali S&P 500, DAX, Eurostoxx, effettuato nel corso degli ultimi tre mesi.” Salta subito all’occhio la discrepanza tra la versione di UBS e i capi di accusa: la banca sembra voler accreditare l’ipotesi che l’impiegato furbetto abbia imbrogliato solo per tre mesi, mentre le accuse ufficiali parlano di irregolarità che si protraevano da quasi tre anni.
Com’è possibile che nessuno (superiori gerarchici, internal audit, revisori, comitati rischi...) si sia reso conto di ciò che stava accadendo? “L’effettiva entità dell’esposizione al rischio era distorta - spiega UBS - dal momento che, nei nostri sistemi, le posizioni erano compensate da altre fittizie con scadenza futura su Exchange Traded Funds (fondi comuni trattati su mercati regolamentati che replicano l’andamento degli indici azionari). Si ritiene che questa ultime siano state immesse a sistema dal trader sotto inchiesta”.
Dunque, a quanto è dato sapere per bocca degli stessi rappresentanti della banca, Adoboli avrebbe adottato lo stesso pattern di comportamento di Jérôme Kerviel, il trader trentunenne di Société Générale che nel 2007 aveva accumulato posizioni non autorizzate di trading fino a raggiungere un’incredibile somma nominale di poco inferiore ai 50 miliardi, superiore alla capitalizzazione della banca al tempo dell’incidente.
Secondo la ricostruzione della banca francese, Kerviel, anche lui aficionado degli ETF come Adoboli, riusciva a non attirare l’attenzione sulle operazioni non autorizzate immettendo a sistema altri deal fasulli di segno opposto, salvo poi cancellarli entro tre giorni al massimo dal momento in cui erano stati registrati (i cicli di controllo impiegavano infatti qualche giorno a controllare le operazioni). Se qualcuno per caso avesse notato i movimenti anomali, Kerviel avrebbe replicato che si trattava di errori materiali.
Insomma, a distanza di oltre tre anni e mezzo dal caso Société Générale, un’altra banca dimostra palesemente di non aver imparato la lezione. Il caso Adoboli è particolarmente grave, dato che la storia recente di UBS è costellata di episodi imbarazzanti: prima il salvataggio da parte della Confederazione Elvetica, che ad ottobre 2008 ha dovuto versare oltre 9 miliardi di euro alla banca sotto forma di un prestito obbligazionario convertibile in azioni, che di fatto l’ha trasformata in suo azionista. Poi l’accusa di frode fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate degli Stati Uniti, secondo cui il ramo investment banking di UBS avrebbe complottato assieme ad un certo numero dei suoi 52.000 clienti americani per evadere il fisco statunitense. Il 18 febbraio 2009 UBS ha raggiunto un accordo con le autorità fiscali americane che comporta la chiusura dell’incidente dietro un pagamento di “soli” 780 milioni di dollari americani di multa (620 milioni di euro).
Insomma, il contribuente elvetico deve ormai averne abbastanza di questo ingombrante gioiello di famiglia, che continua a mettergli le mani in tasca per far fronte agli errori e alle leggerezze dei suoi manager. Né per la verità giovano alla già opaca immagine della banca i pettegolezzi riferiti dalla Reuters, che vorrebbero i dipendenti del ramo private banking (tra cui ci sono i responsabili del pasticcio con il fisco americano) molto critici con i colleghi dell’investment banking, a loro dire “fuori controllo”; o il netto rifiuto del CEO della banca Oswald Gruebel di dimettersi dalla sua carica.
Benché tale richiesta appaia legittima e motivata, anche in considerazione del fatto che il risk management è responsabilità dei vertici aziendali, egli ha etichettato ogni pressione esterna in tal senso come “motivata politicamente”, respingendola. E in effetti quest’ultimo scandalo porterà acqua al mulino di tutti quei politici elvetici, populisti o liberal, che chiedono a gran voce l’introduzione di nuove norme che separino le attività commerciali della banche da quelle di investment banking. Un dibattito che rischia solo di spostare il problema in un’altra sede: fintanto che le banche d’investimento saranno completamente libere di speculare, così da mettere in pericolo la tenuta di interi sistemi economico-finanziari, il dibattito sulla proprietà di queste bombe ad orologeria rischia di essere puro esercizio retorico.