di Sara Seganti

Sono ben 227 milioni gli ettari di terra venduti o affittati nei paesi in via di sviluppo dal 2001, pari a circa il 60% della superficie coperta dalla foresta amazzonica brasiliana. Questo il dato presentato da Oxfam nel rapporto: “La nuova corsa all’oro” sul fenomeno del land grabbing, espressione usata per descrivere la recente tendenza all’accaparramento di terre possibilmente fertili, a basso costo e in grandi quantità. Su più di 1.000 acquisizioni di terreni, corrispondenti alla compravendita di circa 70 milioni di ettari in giro per il mondo, il 50% avviene su territorio africano e gran parte di queste restano per adesso inutilizzate. Ma l’Africa non è l’unico terreno di conquista, né gli attori in scena sono identificabili per nazionalità: questo fenomeno è, a tutti gli effetti, un trend globalizzato.

“Land grabbing” è il anche il titolo del libro-reportage appena uscito, scritto dal giornalista Stefano Liberti, che ha il merito di raccogliere testimonianze e dati in modo organico e di restituire la complessità della questione senza cadere in facili soluzioni. Da un lato, il land grabbing costituisce una forma di neo-colonialismo. Grandi multinazionali, alleate di stati del sud alla ricerca di valuta straniera, si appropriano di grossi appezzamenti di terra senza consultare le popolazioni locali né indennizzarle, spesso cacciando dalle loro terre molte comunità. In genere, queste operazioni servono a produrre materie prime alimentari interamente destinate all’esportazione, aggravando le già precarie condizioni alimentari di molti stati africani.

Queste concessioni centenarie vengono date a privati per niente, a volte completamente gratis o dietro richiesta di un canone annuale di pochi dollari l’ettaro, da stati africani che cercano di stringere accordi commerciali con investitori stranieri per consolidare la loro posizione politica, come Liberti racconta dell’autoritario stato etiope.

Una particolarità rende questa situazione così priva di controlli: gli stati dell’Africa centrale possono disporre della terra che è di proprietà collettiva, dello Stato o del villaggio. Ufficialmente vengono dati in concessioni solo terreni inutilizzati, ma spesso si scopre che non è vero, che queste terre sono l’unica fonte di sostentamento di interi villaggi. I contadini non hanno però nessun titolo di proprietà da far valere e, se ce l’hanno, sono indotti a cederlo in cambio di sterili promesse.

Tutto questo avviene con il sostanziale avallo della comunità internazionale, a partire proprio da quelle istituzioni che avrebbero per missione la riduzione della fame del mondo, come la Fao. Il merito del contributo di Liberti è anche di fare luce su queste contraddizioni, per cui istituzioni come la Banca Mondiale si limitano a redigere linee guida di principio (e mai vincolanti) su come favorire gli investimenti privati nell’agricoltura senza innescare meccanismi di sottosviluppo e di violenze nei confronti delle popolazioni indigene.

Rischi di cui sono pure consapevoli, ma che non sembrano sufficienti a convincere le istituzioni internazionali a prendere una posizione più netta. Questo anche perché, dall’altro lato, non si può semplicemente invocare l’immobilità, coltivando la speranza di fermare le concessioni di terre: il mondo globalizzato ha un problema alimentare e deve comunque pensare a risolverlo.

La questione ha inizio con la crisi finanziaria del 2007-2008, quando i mercati hanno intravisto nelle compravendite di commodities alimentari, e di conseguenza di terra, ottime possibilità di guadagno e la stabilità che era venuta a mancare negli scambi finanziari, provocando un forte aumento dei prezzi degli alimenti di base. Ma questa non è l’unica spiegazione; bisogna tenere conto anche di dati endemici come la maggiore quantità di alimenti necessari a sfamare una popolazione mondiale in continua crescita, della richiesta in aumento di terre (e di mangimi) per l’allevamento e degli incentivi su scala mondiale per la produzione di agro carburanti, a partire da materie prime alimentari come il grano o la canna da zucchero.

Questo quadro poi non è completo senza le questioni politiche che lo attraversano come in un gioco di rimandi. I paesi del Golfo come l’Arabia Saudita stanno investendo in modo massiccio in Africa per garantirsi le sovranità alimentare, come se il continente fosse una dépandance da cui importare tutto quello che si produce. Una scelta nata dopo che nel 2008, con il rialzo dei prezzi alimentari, la paura aveva generato fenomeni protezionistici in molti paesi, che hanno ridotto le loro esportazioni di alimenti di base - come il riso - di cui i paesi del Golfo non sono riusciti ad acquistare il quantitativo necessario.

Simmetricamente, d’altra parte, c’è anche la strategia americano-brasiliana di puntare sui biocarburanti, (anche con forti incentivi pubblici nel caso statunitense) per liberarsi dalla dipendenza dal greggio di quegli stessi paesi del Golfo.

Come in un cerchio che si chiude, Liberti racconta come la terra e l’agricoltura diventino luogo della contrapposizione ideale tra due modelli di sviluppo alternativi: da un lato grandi piantagioni coltivate efficientemente per l’esportazione verso i paesi ricchi, utilizzo degli ogm e meccanizzazione;  dall’altro piccoli appezzamenti, produzione destinata ai mercati interni, valorizzazione delle campagne come argine all’urbanizzazione disperata, trasferimento di conoscenze e tecnologie, coinvolgimento delle comunità locali.

Il fatto che adesso questo sviluppo venga portato dall’estern, omettendo di connettersi alla realtà locale, rappresenta un’ipoteca sullo sviluppo agricolo del sud del mondo di cui bisognerà ricordarsi allo scoppio della prossima crisi alimentare. Quando in un mondo in cui potenzialmente tutti potrebbero avere di che mangiare, saranno ancora in molti a non avere accesso alla mera sussistenza.

 

di Mario Braconi

Anche se non lo dichiarano ufficialmente, i leader europei stanno lavorando ad un piano di salvataggio per l’Unione Europea. In questo momento la politica europea brilla per la sua inesistenza, mentre i capi di governo sembrano più preoccupati di vellicare i propri elettori che di tentare di fare la cosa giusta. Poiché questo è il contesto politico; gli speculatori globali che stanno tentando di far crollare l’euro non mollano. Per questa ragione, dal punto di vista della realpolitik è benefico l’elettrochoc degli USA, che, con il consueto piglio imperialista, stanno in questi giorni dando lezioni di finanza ai capi europei (da che pulpito!), stimolandoli apertamente ad uscire dalla tranche e a prendere finalmente in mano la situazione.

La pressione dagli Stati Uniti è fortissima, e le parole Segretario del Tesoro americano Timothy Geithner pesano come macigni: “Bisogna togliere di mezzo il rischio di fallimenti a cascata, corsa agli sportelli bancari, ed in generale il rischio di catastrofe, altrimenti tutti gli sforzi che si stanno facendo, tanto in Europa che altrove per arginare la crisi”. Nessun europeo si era mai azzardato a ventilare uno scenario di questo tipo, con le file agli sportelli bancari, e non c’è dubbio che quell’intervento non verrà dimenticato. La preoccupazione americana è denunciata anche dalle (pare) frequenti telefonate di Obama alla Cancelliera tedesca Merkel, nel corso delle quali forse ha tentato di farle capire che, per quanto possa essere importante per il suo futuro politico interpretare la pancia dell’operaio Mercedes, il futuro di un intero continente è un tantino più importante.

Benché gli interessati facciano a gara di smentite, secondo il caporedattore Economia della BBC Robert Peston, che riporta voci provenienti dal Fondo Monetario Internazionale, un piano europeo starebbe prendendo forma. Il primo punto dovrebbe essere il rafforzamento patrimoniale del Fondo europeo per il superamento della crisi (European Financial Stability Facility), che vedrebbe quadruplicare la sua dotazione, dagli attuali 440 miliardi di euro agli oltre 2.000.

Si tratterebbe di un bel salto in avanti, considerando che l’Unione Europea ha recentemente richiesto al fondo di passare a 780 miliardi: dato che poco meno della metà della dotazione è garantita da Francia e Germania, è facile immaginare con quale felicità la Merkel e Sarkozy possano aver ricevuto la di raddoppio della dotazione, proveniente dall’Europa; e con quale giubilo considerino la proposta di quadruplicarla, proveniente, nei fatti, dal Governo americano.

Secondo le indiscrezioni raccolte da Peston, Il piano fantasma imporrebbe un pesante sacrificio a tutti gli investitori privati che hanno finanziato entità greche, i quali potrebbero vedersi decurtati della metà i loro asset: e su questo, nulla da obiettare. L’unica ragione per cui si giustifica un governo e uno Stato (o un super-stato) è quella di proteggere i suoi cittadini, non quello di immunizzare gli investitori spericolati dal rischio di impresa.

Il terzo pilastro del progetto di salvataggio dovrebbe infine concentrarsi sul rafforzamento patrimoniale delle banche, su cui aleggia ormai da anni lo spauracchio di una capitalizzazione troppo evanescente, specie in considerazione dei rischi assunti; e qui, si sta pensando certamente alle banche francesi, molto esposte verso la Grecia.

Si dice che ci vorranno almeno sei settimane per capire se il progetto di salvataggio sia agibile politicamente; un periodo di tempo che, nella situazione corrente, corrisponde ad un’era geologica. La speranza è che il senso di responsabilità per una volta abbia la meglio e che i politici europei dimostrino uno scatto d’orgoglio, che potrebbe ridurre i danni per i cittadini che li hanno eletti. Non è probabile che questo accada, e comunque è forte l’amarezza che si prova davanti ad una politica tanto incapace e imbelle da necessitare di essere eterodiretta.

di Emanuele Vandac

Se fosse un film dell’orrore, si potrebbe intitolare: “Tutti insieme, distruttivamente, contro l’Euro”. La regia sarebbe affidata a personaggi molto difficili da identificare, che hanno deciso che per far fare ai fondi che gestiscono un’altra vagonata di quattrini, l’idea più simpatica del momento è far saltare le economie di un intero continente, facendo leva sull’inconsistenza politica e la miopia delle istituzioni (Governi locali, Unione Europea, Banca Centrale Europea).

A dare una mano ai registi arrivano con encomiabile tempismo le agenzie di rating, inspiegabilmente ancora ascoltate dai mercati nonostante le molte pessime figure inanellate, soprattutto ai tempi della crisi del 2008: secondo S&P, per dire, ad una settimana dal suo fallimento ufficiale, quell’esempio di virtù finanziarie che si chiamava Lehman Brothers ancora aveva un rating A, ovvero di investment grade. Se non bastasse, è bene ricordare che sono stati i professorini dei mercati ad assegnare rating a tripla A ad un mucchio di prodotti spazzatura, talmente complicati che probabilmente nemmeno i loro analisti più geniali riuscivano capirli.

In questi giorni è molto trendy dare addosso all’Italia, e Standards & Poor’s non perde occasione di dimostrare quanto sia à la page: così ieri ha comunicato di aver peggiorato il suo “outlook” su 15 banche italiane, sette delle quali (tra cui Unicredit, Intesa Sanpaolo, BNL e Mediobanca) hanno subito anche un contestuale downgrade. Per i cervelloni dell’agenzia di rating, si tratta di un atto quasi dovuto, causato dalla notevole quantità di titoli di stato italiani nell’attivo dei loro bilanci (Unicredit, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi di Siena ne detengono, tutte assieme, poco meno di 130 miliardi di euro): a memoria d’uomo questa sembra proprio la prima volta in cui una banca viene penalizzata per aver fatto qualcosa di utile per il Paese.

L’atteggiamento delle agenzie rating sembra condizionato dagli errori del passato e dal timore di essere nuovamente accusate di aver riposato tra le braccia di Morfeo mentre il mondo andava in fiamme. Eppure, sul piano strettamente tecnico, non è d’immediata comprensione la ragione per la quale S&P abbia deciso ad esempio di penalizzare Mediobanca, che ha uno dei rapporti di capitalizzazione più forti (il suo Tier 1 Ratio, ovvero il rapporto tra patrimonio e attività ponderte per il rischio supera ’11%). Senza contare che il bilancio di Mediobanca al netto di deprezzamenti di asset per circa 240 milioni di euro, ha comunque chiuso in positivo.

O, se è per questo, non abbia tenuto in considerazione il fatto che Intesa Sanpaolo ha portato a termine ad aprile la sua ricapitalizzazione per 5 miliardi di euro; né che i titoli di stato italiani nel suo portafoglio abbiano una duration (vita residua ponderata) sotto i due anni. E che dire del downgrade di BNL, controllata da BNP Paribas, che però mantiene un rating più elevato? E chi l’avrebbe mai creduto che la forte europeizzazione di Unicredit, molto forte in Germania e nell’Est Europeo, tanto elogiata dagli analisti ieri, oggi divenisse una delle cause dichiarate del declassamento?

Insomma, ci sarebbe molto da dire sul come e soprattutto sul perché di questi downgrade, che si inscrivono nel tradizionale senso del gregge che contraddistingue normalmente i “mercati” finanziari. Eppure Mussari, il presidente ABI ha dichiarato candidamente che i declassamenti delle banche italiane non costituiscono un vero problema, dato che le banche in questione “avevano rating elevati” (sic!). Sembra insomma che Mussari non abbia alcuna intenzioni di combattere a spada tratta per difendere le virtù indiscutibili delle banche italiane, ed in particolare la loro relativa robustezza (conquistata, è certo, a prezzo di un immobilismo e di una prudenza che hanno contribuito a surgelare il Paese, sia chiaro).

Egli sembra più interessato a mettere le mani sul patrimonio dello Stato, che vorrebbe dismesso in quattro e quattr’otto per pagare i debiti. Strano che un uomo di finanza come lui non si renda conto che più che di vendita qui si tratterebbe di svendita a forte sconto: oppure dobbiamo pensare che le banche italiane abbiano fiutato il vento favorevole per qualche saldo di fine stagione?

di Ilvio Pannullo

All’ultima riunione del Consiglio dei Ministri europei dell’Economia e delle Finanze, tenutosi a Wroclaw, in Polonia, per la prima volta nella breve storia delle istituzioni comunitarie, erano presenti gli Stati Uniti d’America con il Sottosegretario al Tesoro statunitense Timothy Geithner. Un evento presentato come il segno di una ritrovata unità tra le due sponde dell’Atlantico, ma che in realtà evidenzia le preoccupazioni americane circa lo stato di salute dell’economia europea. Nonostante la presenza dell’ex governatore della Banca Centrale di New York, il vertice - va detto senza indugi - è stato un fallimento, perché non è stata presa nessuna delle importanti decisioni che si attendevano con ansia.

«Basta vedere quanto accaduto nelle prime ore dei lavori per trarre già le prime conseguenze», ha commentato l’economista Giacomo Vaciago. «Il rinvio a ottobre di qualsiasi decisione sulla Grecia segna di fatto il fallimento del vertice e, di conseguenza, segnala l’inutilità delle prediche di Gheitner e del governatore britannico Osborne». Proprio questa decisione rischia infatti di riportare le nubi sui cieli del Vecchio continente, dopo la boccata d’ossigeno respirata dopo la decisione della BCE di fornire liquidità in dollari al sistema bancario europeo.

La preoccupazione dell’Istituto di emissione europeo, proprietario della moneta unica nonché giudice monocratico dell’economia continentale, non potrà infatti che aumentare. La tensione del sistema bancario europeo al momento è più che evidente, alimentata dall’insoluta crisi greca. Tanto evidente che la BCE ha trovato la Federal Reserve molto ben disposta a procedere senza indugio alla manovra coordinata per fornire alle banche del vecchio continente liquidità in dollari. A ciò si aggiunga che il Sottosegretario al Tesoro Timothy Geithner, preoccupato per la situazione che si va delineando in Europa, ha deciso di portare, al vertice dell'Ecofin in Polonia, la sua esperienza nella lotta al contagio finanziario post-Lehman Brothers.

Il suggerimento americano riguarda un uso progressivo del "fondo salva-Stati". Gli americani, in sostanza, ci suggeriscono di modificare le norme che disciplinano l’utilizzo dei fondi dell’Efsf e consentirne l’utilizzo attraverso forme di leveraging, ossia di leva finanziaria, per meglio armare la crociata contro il possibile crollo dell’euro, innescabile dall’ormai prossima e inevitabile dichiarazione di fallimento della Grecia. Il modello, per il European Financial Stability Facility, dovrebbe essere il TALF - Term Asset-Backed Securities Loan Facility - il programma, cioè, gestito dalla Federal Reserve americana e assicurato da 20 miliardi di dollari del Tesoro, che mobilitò prestiti fino a 200 miliardi destinati all'acquisto di derivati del debito, rimettendo in moto un mercato paralizzato dopo il fallimento della Lehman Brothers, all’epoca una delle più grandi banche d’investimento allora operanti sul mercato di Wall Street.

Una versione europea del TALF americano - che si concretizzerebbe nell’utilizzazione a titolo di assicurazione dei fondi dell'EFSF - consentirebbe alla BCE di aumentare gli acquisti di debito sovrano e fornire maggiori finanziamenti ai paesi in difficoltà, ricevendo Bond altamente solvibili in garanzia. Considerati i tempi non sarebbe una decisione sbagliata.

Va da sé, tuttavia, che questo interessamento degli americani per le condizioni dell’eurozona sono il segno evidente dei timori degli Stati Uniti, che si sono accentuati quando la crisi del debito sovrano ha assunto contorni sistemici, coinvolgendo Spagna e Italia. L'intervento coordinato delle Banche Centrali mirava, infatti, a smorzare eventuali sintomi di crisi generati dalla difficoltà per le banche commerciali europee di trovare finanziamenti in dollari, creando una rete di sicurezza in caso di panico sul mercato interbancario.

L’intervento di Washington si è spinto ancora oltre: sono molti infatti gli incoraggiamenti a fare di più per soluzioni politiche che affrontino le sfide alla radice. Da qui la pressione per un neo-TALF targato euro zona che, ha detto Tim Geithner, "non va sottovalutato, perché può aumentare la potenza di fuoco di uno strumento, l’EFSF, che finora non sembra convincere mercato". Le nuove mosse sono infatti nate dall'inaridirsi delle risorse in dollari e dallo spettro di un calo significativo o di un inasprimento improvviso delle condizioni dell'offerta di credito, in grado di accentuare la fase recessiva. Cosa che non deve assolutamente accadere.

Se si blocca lo scambio interbancario tra le due sponde dell’Atlantico, l’Europa potrebbe ritrovarsi nel momento del bisogno senza scialuppe di salvataggio, incapace com’è di darsi delle regole politiche che spalmino i debiti di alcuni sulle spalle di tutti. Dunque di tenersi a galla da sola. La situazione non è da sottovalutare perché la necessità di dollari delle banche del vecchio continente è strutturale, legata a prestiti a clienti americani e all'obbligo di riparare debiti in divisa statunitense. "Non sono ansiosi di essere esposti".

Queste le parole pronunciate dall'economista americano premio Nobel Robert Engle, per descrive le ultime decisioni dei banchieri americani. Quando arrivano, inoltre, i finanziamenti sono erogati con scadenze sempre più brevi, segno evidente della mancanza di fiducia. Non mancano, per fortuna, dei salvagenti: le banche internazionali contano ancora 848,7 miliardi di riserve in dollari depositate presso la Federal Reserve. Ma, con l’aria che tira e con i crescenti ostacoli nel reperire il biglietto verde, gli istituti bancari europei hanno già contattato la giapponese Nomura per rastrellare dollari in Asia.

Le paure si vanno diffondendo anche a causa di un altro fenomeno: la caccia da parte di alcune aziende europee a reperire finanziamenti da istituti bancari fuori dal vecchio continente. È il caso della British Petroleum e di alcune società di trasporti e commodities. Citigroup sta inoltre discutendo una linea di credito da 1 miliardo di dollari per un gruppo energetico che teme paralisi in Europa.

Le banche francesi, tra le più discusse, sono grandi finanziatrici di queste operazioni in dollari. Insomma tira una brutta aria: chi conosce i numeri della crisi sa che il peggio deve ancora arrivare e sta agendo per tutelarsi, sin da ora. Per tutti gli altri i veri problemi arriveranno in blocco, improvvisamente, come accadde con la crisi del 2008 della quale ancora si devono assorbire le conseguenze.

di Ilvio Pannullo

Gli Stati Uniti temono la crisi europea. A confermarlo tanto il coordinamento delle politiche monetarie statunitensi con quelle europee, quanto la presenza americana al vertice del consiglio europeo dei ministri dell’economia e delle finanze. La situazione è seria, per non dire grave. Per fronteggiare infatti la possibilità, ormai non troppo remota, che esploda un’altra crisi finanziaria, (magari innescata da un default della Grecia sul proprio debito sovrano, che spazzerebbe via qualsiasi possibilità di crescita per le economie OCSE) le banche centrali più importanti del mondo hanno deciso di pompare liquidità nei mercati con un'azione concertata, ufficialmente per far fronte alle difficoltà di alcune banche europee a finanziarsi in dollari.

La Banca centrale europea, lo scorso 15 settembre, ha infatti annunciato, d'accordo con la Federal Reserve americana, la Banca d'Inghilterra, Banca Nazionale Svizzera e la Banca del Giappone, tre operazioni di finanziamento in dollari a tre mesi, il 12 ottobre, il 9 novembre e il 7 dicembre, in modo da coprire il fabbisogno di liquidità a cavallo della fine dell'anno, un periodo abitualmente dedicato per le condizioni di mercato.

L’azione concertata delle cinque maggiori banche centrali del mondo ha l'obiettivo di ovviare ai crescenti problemi delle banche europee a finanziarsi in dollari. Problemi che erano emersi all'inizio dell'estate a causa della riluttanza dei fondi del mercato monetario Usa - tradizionali fornitori di liquidità nel breve periodo delle banche - a fare credito agli istituti bancari europei. La notizia non è di poco conto e non è infatti passata inosservata.

I gestori di fondi del mercato monetario investono infatti prevalentemente in obbligazioni a breve termine di emittenti con un ottimo rating. In questa categoria rientrano i paesi industrializzati politicamente ed economicamente stabili, le organizzazioni parastatali quale la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) dell’Unione Europea, gli istituti svizzeri di credito fondiario oppure grandi gruppi o banche che godono di una garanzia statale.

Il rischio di insolvenza degli emittenti di prim'ordine è infatti molto basso e una stretta sulla concessione di credito, operata da questi fondi, generalmente viene interpretata come il segnale che il rischio della solvibilità dei richiedenti è troppo alto o va pericolosamente aumentando, per ragioni strutturali. Per questo motivo la riluttanza a fare credito agli istituti europei si è allargata ora anche alle banche americane, a causa dei timori sull'esposizione del sistema bancario europeo al debito sovrano dei paesi della periferia dell'euro zona.

Nessuno, infatti, pare abbia voglia di esporsi più di quanto non sia necessario fare, vista la scarsa salute di cui gode il settore bancario americano e visto il clima d’instabilità che sta vivendo l’Europa, aggravato dalla mancanza di concretezza da parte dei governanti europei nel risolvere la crisi del debito sovrano. Secondo alcune stime, le banche europee hanno accusato un calo nella raccolta in dollari attorno ai 700 miliardi di dollari nell'ultimo anno.

Un'iniziativa simile, che ha coinvolto anche le banche centrali di alcuni dei grandi paesi emergenti, era stata realizzata nell'immediato dopo-Lehman, quando il mercato interbancario si era pressoché paralizzato, essendo venuta meno la fiducia delle stesse banche nella tenuta generale del sistema. Le tre aste trimestrali, la cui domanda verrà coperta interamente, vanno ad affiancarsi alle operazioni che la Banca centrale europea conduce su base settimanale fin dal maggio dell'anno scorso, ma che ultimamente avevano evidenziato tensioni sempre più acute.

Da un periodo in cui le operazioni settimanali non erano state utilizzate dalle banche, questa settimana due istituti hanno ricevuto 575 milioni di dollari: un segnale di incapacità a finanziarsi direttamente sui mercati, dato che il tasso praticato dalla Banca centrale europea (1,1%) era nettamente più alto di quello previsto dal mercato (0,2% - 0,7%). Si è trattato della seconda occasione in un mese in cui le banche si sono rivolte alla Banca centrale europea dopo un'interruzione di sei mesi.

Le banche francesi, che la scorsa settimana sono state particolarmente nel mirino dei mercati, in seguito al declassamento di Société Générale e Crédit Agricole e alla messa sotto osservazione di Bnp Paribas da parte dell'agenzia Moody's, avevano ammesso la loro difficoltà nell'accesso a fondi quotati in dollari attraverso i normali canali, ma Bnp Paribas e Société Générale avevano sostenuto anche di essersi assicurati finanziamenti da fonti alternative. Inoltre, hanno ridotto i prestiti in dollari e si stanno preparando a vendere attivi per rafforzare il capitale.

L'iniezione di liquidità era stata in qualche modo anticipata dal presidente della BCE Trichet lunedì scorso a Basilea, dopo la riunione dei banchieri centrali, quando aveva dichiarato che le autorità monetarie erano pronte a fornire liquidità alle banche "sulla base delle richieste". Secondo diverse fonti di mercato, tuttavia, anche se la mossa delle banche centrali è positiva e avrà efficacia nel breve periodo, la riluttanza a prestare le banche europee è destinata a continuare finché non sarà risolta la crisi del debito sovrano.

Altri osservatori di mercato sostengono che per allentare in modo significativo le tensioni è richiesta una serie di azioni: anzitutto, una riduzione dei tassi di interesse, da parte della BCE, che rimuova i 50 punti base di rialzo decretati negli ultimi mesi, accoppiata a una riapertura delle operazioni di rifinanziamento a un anno.

L'azione dell'autorità monetaria potrebbe tuttavia rivelarsi insufficiente se non ci saranno progressi sul fronte politico per avviare a soluzione la crisi del debito sovrano, a partire dall'approvazione dei nuovi poteri del fondo salva-stati europeo, l’EFSF, attesa al più tardi entro ottobre. Questo potrebbe tra l'altro sollevare la BCE dal compito - molto discusso anche al suo interno tanto da provocare le dimissioni del presidente della Bundesbank Axel Weber e del membro tedesco del consiglio direttivo Jurgen Stark - di acquistare sul mercato i titoli del debito pubblico dei paesi in difficoltà.

Lo stesso Stark che peraltro in un discorso tenuto recentemente a Vienna ha sostenuto le operazioni di fornitura di liquidità, affermando che la BCE continuerà a farlo "finché necessario". Vista l’aria che tira il rischio è che presto misure di questo tipo non siano più sufficienti a tranquillizzare i mercati, oramai quasi sicuri che la crisi della Grecia avrà pesanti ricadute sull’intera eurozona.

 


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