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di Ilvio Pannullo
Tutto pare abbia avuto inizio in Grecia, un tempo culla della democrazia e patria del pensiero classico, oggi terra di sciacalli, periferia degradata di quel mondo occidentale che ha contribuito a forgiare. Ma a quanto ammonta realmente il debito pubblico della Grecia? Visto che potrebbe far saltare l'intera zona euro vale la pena di analizzare qualche numero: si tratta di 350 miliardi di euro.
È certo una bella somma. La quale però rappresenta soltanto il 3,7% del Pil dell'intera zona euro, esclusa quindi una grande economia come il Regno Unito. Non soltanto: il 43% di tale debito è in mano a creditori greci, che per metà sono banche. Quindi, se la matematica non è un’opinione, poco più di 150 miliardi di euro andrebbero espunti dal conto.
Dal totale vanno ancora tolti 7 miliardi di debiti verso gli Usa, 3 verso la Svizzera, circa 2 nei confronti del Giappone. Il debito greco verso la Ue (banche e Stati compresi) consistente soprattutto in obbligazioni e altri titoli, ammonta dunque a meno di 190 miliardi di euro, di cui circa 35 sono dovuti alla Bce. Ora, dal 2008 ad oggi i Paesi europei, Svizzera esclusa, hanno speso o accantonato oltre 3.000 miliardi di euro per salvare le proprie istituzioni finanziarie. Ed ora davvero tremano perché un'economia tutto sommato periferica è in difficoltà per ripagare, a rate, poco più del 6% di tale somma? È evidente che ci sia qualcosa che non va nell'intera faccenda.
Le cose che non vanno sono principalmente due. La crisi greca è in primo luogo un'anteprima di quel che potrebbe succedere ad altri Paesi, Italia compresa, se i governi europei non la smettono di subire le manovre del sistema finanziario, ivi comprese le agenzie di valutazione, e non provano sul serio a regolarlo, anche per evitare che ci piombi addosso tra breve una crisi peggiore di quella del 2008. Lo scenario comprende com'è ovvio il rinnovo potenziato di manovre speculative che i maggiori gruppi finanziari costruiscono scientemente per estrarne il maggior profitto possibile in forma di interessi e plusvalenze; il che implica, come insegnano i modelli di gestione del rischio, il far correre un rischio elevato non già ai gruppi stessi, bensì ai cittadini oggi greci, domani spagnoli o italiani.
Ma comprende anche una spinta selvaggia alle privatizzazioni, che essendo condotte sotto la sferza della troika Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea, consisteranno al caso in vere e proprie svendite di immensi patrimoni nazionali. L'Italia, dopotutto, ha ottomila chilometri di coste e centinaia di isole da mettere all'asta, più il Colosseo e magari l'intera Venezia; altro che la Grecia.
Una seconda cosa che non va è la Bce. Il suo limite fondamentale, imposto dal trattato istitutivo dell’Unione Europea, sta nell'avere come massimo scopo statutario la stabilità dei prezzi, ossia la difesa dall'inflazione. Ciò spiega in parte la lentezza e la goffaggine con cui si è mossa a fronte della crisi greca. Ma un simile limite equivale a decidere per legge, poniamo, che il pronto soccorso del maggior ospedale cittadino si occupa soltanto di lesioni alla gamba sinistra. Le altre due banche centrali dell'Occidente, la Banca d'Inghilterra e la Fed, hanno tra i loro scopi statutari anche lo sviluppo e la crescita dell'occupazione.
Scopi che perseguono anche creando esplicitamente nuovo denaro: una funzione fondamentale che gli stati europei hanno ceduto alla Bce, ma che questa non sembra voler esercitare come, dove e quando ne avrebbero bisogno. Per questo motivo nella Ue cominciano a moltiplicarsi le voci favorevoli a un ampliamento degli scopi statutari della Bce.
La crisi greca potrebbe essere una buona occasione per passare dalle voci all'azione. Sempre che i governi non temano di disturbare la macchina di cui sono per ora a rimorchio. Diversamente sarà difficile glissare o tacciare di complottiamo quanti sono pronti a giurare che quanto sta accadendo è il tentativo di ridurre a discrezione gli Stati, un tempo sovrani ed ora schiavi del sistema finanziario e monetario. L’illogicità manifesta delle politiche europee non lascia, infatti, spazio a dubbi.
Il programma di salvataggio della Grecia su cui si è trovata la mediazione tra i paesi dell’area euro, ed essenzialmente tra la Germania e gli altri paesi, serve ad esempio solo per guadagnare tempo, ma non consente di andare alla soluzione dei problemi strutturali della Grecia. Le condizioni del prestito, seppur preveda tassi sensibilmente inferiori a quelli insostenibili ai quali la Grecia è in grado attualmente di trovare credito sul mercato, non è compatibile con il basso tasso di crescita al quale la Grecia è condannata nei prossimi anni dalla necessità di tagliare il suo deficit pubblico, dalla sua scarsa competitività internazionale e dalla probabile stagnazione della domanda interna europea. I mercati ne hanno consapevolezza e, quindi, le risorse che eventualmente verranno dedicate a tamponare la crisi rischiano di essere sprecate.
Quel che appare evidente è che l’incertezza dell’azione europea riflette l’inesistenza di una strategia europea di uscita dalla crisi, come del resto non c’è stata una effettiva azione europea di contrasto alla crisi. Sono stati i singoli stati ad intervenire con una certa efficacia di fronte all’emergenza della crisi finanziaria ed a tentare di coordinarsi tra di loro, mostrando ancora una volta l’evanescenza politica delle istituzioni economiche europee. Ma quel che ha parzialmente funzionato nell’emergenza non funziona più nel momento in cui i singoli stati europei si trovano ad affrontare in modo non coordinato il mutamento profondo della geografia economica del mondo con cui devono misurarsi per uscire dalla crisi.
L’idea tedesca di poter imporre forti cure di risanamento finanziario ai paesi europei in deficit negando al tempo stesso sia un aiuto finanziario sia un’espansione della sua domanda interna che consentirebbe di trainare la loro ripresa economica è inconsistente. Essa rappresenta il vero pericolo per la tenuta della moneta unica ed il principale ostacolo per affrontare i nodi istituzionali che rendono evanescente la governance economica dell’Europa. In sintesi, il mercato interno europeo è ancora troppo importante per poter immaginare che la crescita di tutti gli stati europei possa essere trainata solo dalla crescita economica extraeuropea.
Delle due l’una: o si trova un modo per ristrutturare i debiti sovrani (e di possibilità alternative ce sono; a mancare è come sempre una chiara volontà politica in questo senso da parte dei governi europei) o la ristrutturazione forzata dei bilanci continentali farà piombare l’Europa in una profonda recessione. Se, come tutto fa pensare, verrà scelta la seconda ipotesi c’è già chi ha proposto una soluzione: secondo il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, l’unica possibilità sarebbe in questo caso rappresentata dall’uscita della Germania da Eurolandia e dalla conseguente svalutazione della moneta unica. Un fallimento epocale per il nostro continente, che segnerebbe la fine di ogni speranza per quanti sognano un’Europa politicamente unita e federale.
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di Carlo Musilli
Ancora mani nei capelli a Piazza Affari, che ieri ha lasciato sul campo più del 3%. Neanche a dirlo, maglia nera d'Europa. Come Willie il Coyote, gli operatori di Borsa hanno creduto di vedere una luce infondo al tunnel, ma era solo il fanale del treno che stava per travolgerli. Dopo i sospiri di sollievo e le pacche sulle spalle per la rapidità con cui è stata approvata la manovra finanziaria, oggi l'Italia ha dovuto fare i conti con il cinismo dei mercati. E ci siamo accorti che tutti quei miliardi di tagli e nuove imposte, almeno per il momento, non hanno ottenuto lo scopo desiderato.
A trascinare nel baratro il listino di Milano sono stati soprattutto i titoli bancari, che hanno fatto segnare perdite da incubo. E questo la dice lunga anche sul credito di cui godono a livello internazionale i famosi stress test della European Banking Authority, tutti superati (quasi) a pieni voti dagli istituti italiani. Proprio questo è il vero punto dolente. Si pensava che la promozione dei cinque maggiori istituti di credito italiani alle prove sulla solidità di capitalizzazione avrebbe finalmente spento la sete degli speculatori. Ci si aspettava un "rimbalzo", vale a dire una netta ripresa dopo le gravi perdite delle ultime sedute.
Così non è stato. E la ragione è tragicamente semplice. Quelle stesse banche sono stracolme di titoli di Stato italiani e questo non può che spingere a scommettere contro di loro. Non c'è stress test che tenga: l'Unione Europea non ha ancora messo in campo un piano minimamente affidabile per traghettare la Grecia verso la salvezza, dunque l'ipotesi che la crisi del debito si espanda ai Paesi periferici dell'eurozona è più che probabile. E fra questi Paesi, è evidente, i mercati puntano il dito contro di noi. Come in un reality show, siamo stati nominati. Sia perché abbiamo un debito pubblico mostruoso, sia perché appariamo totalmente alla deriva dal punto di vista amministrativo.
Il quadro è confermato dal continuo espandersi dello spread fra i Btp e i Bund decennali. Il differenziale di rendimento fra i titoli di stato italiani e tedeschi è schizzato ancora una volta verso la troposfera, superando i 335 punti base. Tradotto, questo significa che per convincere gli investitori a finanziare il nostro debito dovremo pagare degli interessi sempre più alti. A sua volta questi maggiori esborsi porteranno con sé un ulteriore aumento del debito. Insomma, un cane che si morde la coda. Con buona pace di Tremonti, ancora convinto che basti tirare delle righe più o meno a caso sulle varie voci di bilancio per far quadrare i conti.
Ora sarebbe il caso che il superministro rendesse ragione del suo fallimento, anche se probabilmente nessuno sarà in grado di richiamarlo alle sue responsabilità, né dall'opposizione, né tantomeno dalla maggioranza. La velocità fulminea con cui è stata approvata la manovra aveva degli scopi precisi: rassicurare i mercati, allontanare gli speculatori, contenere la diabolica forbice dello spread. Nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. Sono bastate poche ore per rendersene conto. Perciò tanto valeva prendersi più tempo per scrivere la legge e partorire un testo più assennato. Magari un provvedimento che, aldilà della pura aritmetica contabile, contenesse norme che in grado di farci crescere nel lungo periodo.
In ogni caso, è anche possibile che la realtà sia più semplice di così. Dire che i mercati hanno bocciato la manovra è forse un po' ingenuo. E' difficile pensare che tutti gli investitori internazionali si siano accuratamente spulciati le pagine della nuova legge fra la sera di venerdì e la mattina di lunedì. L'Italia non è stata bocciata perché le misure appena approvate in Parlamento appaiono inadeguate alla comunità finanziaria. Purtroppo la situazione è ben più grave. Continuiamo a ricevere attacchi semplicemente perché non siamo un Paese credibile. Il verdetto dei mercati non è tanto contro la singola legge, ma contro l'intero Governo.
Nessuno ritiene che il nostro Esecutivo abbia la forza per fare le riforme di cui l'Italia avrebbe davvero bisogno. In questo senso, l'ultima manovra rappresenta solo un'ulteriore conferma di cui forse non c'era neanche bisogno. Agli osservatori europei già sembra assurdo che la maggioranza di Berlusconi sia ancora in piedi, figurarsi se possono credere a un piano di rilancio. I nostri cugini del continente sono più attenti di quanto crediamo. Si sono accorti che il braccio destro di Tremonti è indagato per corruzione e che lo stesso superministro è in rotta sia col Pdl che con la Lega. Sanno anche che il ministro per le Politiche agricole è indagato per mafia, che non abbiamo idea di chi nominare alla Giustizia e siamo in forte imbarazzo sul nome da scegliere per il dopo Draghi al vertice di Bankitalia. Purtroppo, non gli sfugge nemmeno che il lunedì è meglio lasciare in pace il premier italiano, perché è impegnato in tribunale.
Da questo punto di vista é davvero significativa l'ultima copertina di Der Spiegel, uno dei periodici più autorevoli d'Europa, vero totem della stampa tedesca. In prima pagina, sotto il titolo "Ciao bella", c'è un'odiosa vignetta. Sul disegnino stilizzato dell'Italia sta in piedi il nostro primo ministro vestito da gondoliere. Sotto di lui ci sono due sirenette tutt'altro che innocenti, piuttosto simili a due personaggi tristemente noti a tutti noi. In mezzo, un po' in secondo piano, il dettaglio più inquietante. Un piatto di spaghetti con sopra una P38, richiamo evidente agli anni di piombo. Quasi a ricordarci che noi la chiamiamo seconda Repubblica, ma in fondo la cesura storica ce la siamo inventata di sana pianta. Governiamo ancora come quando c'era la lira.
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di Ilvio Pannullo
La sentenza che i mercati attendevano da Francoforte è arrivata: la Banca centrale europea ha deciso di alzare di un quarto di punto il tasso di riferimento principale in Eurolandia, portandolo dall'1,25% all'1,50%. Il rialzo dei tassi è «reso necessario dai rischi in aumento per la stabilità dei prezzi» ha dichiarato il presidente della Bce Jean Claude Trichet. Visti dall'Eurotower i tassi erano troppo vicini al minimo storico dell'1% raggiunto nel 2009 e mantenuto per ben due anni.
È sicuramente vero che un costo del denaro così basso ha continuato a favorire le spinte inflattive, ma è altresì vero che ha consentito al sistema bancario di sopravvivere allo shock causato dalla crisi americana del 2008. Nell'area euro l'inflazione ha raggiunto così il 2,7%, un livello ben superiore al 2% che è il limite teorico che si è posta storicamente la Banca centrale europea. La svalutazione della moneta e la corsa dei prezzi sono infatti da considerarsi come elementi pericolosi nell'orizzonte di un'eurozona minacciata da focolai di instabilità finanziaria da est a ovest.
Dall'altra parte anche il rialzo ha i suoi costi, anche se preferibili a un rialzo di tutto il paniere dei beni di consumo. Si tratta dunque di scelte politiche, che determinano le spalle su cui andranno a gravare maggiormente le problematiche che investono il nostro continente. Scelte - è bene ricordarlo sempre - prese unilateralmente dai banchieri e non discutibili in alcuna sede, sia politica che giudiziaria.
L'aumento dei tassi di scambio interbancario viene così scaricato sui consumatori, in maniera differente, con conseguenze dirette sui mutui delle famiglie e sui finanziamenti alle imprese. Misure che pesano in maniera ancora maggiore sui Paesi con una situazione debitoria grave. Non solo gli stati sul bordo del precipizio come Grecia e Portogallo, la cui crescita è vincolata alle imposizioni di Unione europea e Fondo monetario internazionale, ma anche per nazioni finanziariamente in bilico come la Spagna e che stanno vivendo una lunga stagnazione come l'Italia.
I maiali europei sono dunque pronti per il macello. Brucia la Grecia, brucia l’Irlanda, il Portogallo trema, mentre noi e gli spagnoli abbiamo lo stesso umore di quei maturandi che, dopo aver mancato di studiare per l’intero anno scolastico, contano i giorni mancanti al loro esame di Stato: si è fatto poco e presto toccherà rendere ragione dei propri comportamenti davanti ai professori banchieri di Francoforte. L’aria si fa ogni giorno più pesante e molte sono le persone convinte dell’inevitabilità di un collasso dell’intera eurozona. Ma non tutto è perduto: possiamo e dobbiamo reagire a quanto sta accadendo ed esistono i mezzi per far valere le ragioni della giustizia e della pace sociale.
Ma andiamo con ordine. Che è successo? Cosa sta accadendo sui mercati, ora che la crisi finanziaria si dice sia finita? La verità è che nessuna crisi nasce dal nulla e finisce nel nulla. Ci sono sempre delle cause, dei moventi, degli interessi che generano i problemi. Se questi non vengono risolti è inutile sperare in un miglioramento della situazione e, per tornare a noi, nulla di quello che andava fatto è stato fatto.
La crisi greca rappresenta in modo impietoso come il sistema finanziario, di fatto, governi ormai l’Unione Europea mediante le sue propaggini operative: la Commissione europea, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea. I governi eletti dal popolo hanno scelto da tempo di fungere da rimorchio al sistema finanziario. Avrebbero dovuto riformarlo dopo l'esplosione della crisi nell'autunno del 2008, quando, con le parole del ministro tedesco dell'economia di allora, Peer Steinbruck, «abbiamo visto il fondo dell'abisso». È vero che a Bruxelles si discute da due anni di riforme finanziarie, ma dinanzi alla natura e alle dimensioni del problema si tratta del solito secchiello per vuotare il mare.
Non avendo riformato il sistema finanziario, ed avendolo anzi aiutato a diventare più potente di prima, i governi europei si trovano ora esposti alle sue pretese. Giusto com’è avvenuto negli Stati Uniti. Al momento il sistema pretende che siano salvate le banche dalla crisi del debito greco, in vista di altre richieste analoghe che nei prossimi mesi potrebbero riguardare il Portogallo, la Spagna, l'Italia. Fedeli al loro ruolo di organi democraticamente eletti che non vedono alternative se non quella di soggiacere al dettato di organi mai eletti da nessuno - quali sono la Commissione Europea, la Bce e l'Fmi - i governi dell’Unione sono unanimi nell'esigere dalla Grecia di ridurre drasticamente il suo debito pubblico. Ha vissuto al disopra dei suoi mezzi, affermano, e ora deve imboccare un severo percorso di austerità.
Da cosa sia formato ed in cosa consista tale percorso lo sanno tutti, anche perché è lo stesso che quasi tutti i governi europei, compreso quello italiano, stanno proponendo ai loro cittadini: tagliare i salari, le pensioni, la sanità, la scuola; privatizzare tutto, i trasporti, i servizi collettivi, le isole, i porti, le spiagge e, perché no, il Partenone, il Colosseo e la Sagrada Familia.
Bisogna capire che quanto accade oggi in Grecia, accadrà presto in Italia: la Grecia non è il nostro futuro, è il nostro domani mattina. Quanto sta avvenendo altro non è se non un grande esperimento. Se funziona in Grecia il modello sarà esportato ovunque. Non è dunque questione di fraternità o solidarietà, si tratta di noi, della nostra vita, della nostra futura sopravvivenza. La logica di Francoforte è infatti entrata in piena collisione con il patto sociale che ha retto fino ad oggi la possibile creazione politica del nostro continente. Adesso sono i popoli a essere entrati in conflitto con le banche.
Ciò che nella sostanza si afferma e che viene veicolato dall’intero mainstream televisivo, con ossessiva volgarità, ci spinge a credere che i popoli - alcuni popoli - non siano capaci di vivere in questo sistema, dove tutto appare calcolato salvo poi non funzionare nulla. Il popolo portoghese, irlandese, italiano, quello greco, quello spagnolo hanno la grande colpa di aver speso troppo, di non essere stati capaci di gestire le proprie società. Adesso devono quindi pagare e poi si penserà a privatizzare tutto.
Quello a cui stiamo assistendo è dunque un ricatto: la sopravvivenza in cambio della cessione a tempo illimitato della propria sovranità. Siamo quindi ad una svolta, un passaggio che sarà ricordato nei decenni che seguiranno. Se cediamo, cederemo tutti insieme e cederemo tutto quanto abbiamo da cedere.
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di Mario Braconi
Nel bel mezzo delle complicate trattative con le quali i politici si sforzano di far credere al mondo che l’euro non è morto, ecco che arriva l’ennesima pugnalata alle spalle da parte delle agenzie di rating: Moody’s ha declassato il merito di credito del Portogallo di ben quattro livelli, decretandone così il fatidico passaggio da “investment grade” a “junk” (immondizia). Il risultato di questo simpatico regalo è che il Portogallo, pur riuscendo a finanziare circa un miliardo di fabbisogno con emissioni a 3 mesi, ha dovuto pagare un interesse di circa 6 centesimi più elevato rispetto all’ultima operazione di mercato (il 15 giugno).
Una vera bazzecola rispetto alla corsa folle che hanno comprensibilmente registrato i rendimenti sui titoli di stato decennali, schizzati, come riferisce l’agenzia AFP, oltre il 12% (erano sotto il 10,8% la sera prima del downgrade). In questi casi non si sa se faccia più danni la speculazione o il panico: gli avvoltoi che svolazzano attorno al cadavere del Portogallo, infatti, non staccano gli occhi dall’Italia; tanto è vero che il differenziale di rendimento tra titoli di stato decennali tedeschi ed italiani, sull’onda emotiva provocata dall’improvvido rigore di Moody’s, si allarga all’istante di 10 centesimi, toccando, e forse anche superando, i 210 punti base (ovvero 2,1%).
La decisione di Moody’s, entrata nella cristalleria della finanza pubblica europea con la leggiadria di un elefante obeso e irrita policymaker e banchieri, che si danno ad una vera a propria orgia di dichiarazioni a mezzo stampa. Si distingue, per stile e contenuto, l’ineccepibile commento del presidente dell’Unione: “Sono molto infastidito [dalla condotta di Moody’s], ha detto, in particolar modo per la scelta dei tempi e per l’entità del downgrade. I commenti dell’agenzia di rating non aggiungono niente in termini di chiarezza; in compenso contribuiscono a rafforzare gli elementi speculativi in una situazione già difficile”.
Suona patetico e frustrato, invece, il commento del ministro delle finanze tedesco, che vagheggia un futuro in cui il monopolio di Moody’s, Fitch e Standards & Poor’s verrà spezzato da un’ipotetica agenzia di rating europea.
Una nuova entità che, almeno nei sogni Wolfgang Schaeuble, dovrebbe funzionare da strumento di propaganda più che da arbitro imparziale al servizio degli operatori di mercato.
Anziché abbandonarsi ai suoi sogni ad occhi aperti, Schaeuble sarebbe stato molto più incisivo se avesse messo alla berlina le agenzie di rating con alcune semplici domande: dove erano le Trimurti della finanza mondiale quando il Portogallo continuava a sbronzarsi con i tassi reali prossimi allo zero?
Secondo il modello adottato da Credit Suisse, il debito dei privati in Portogallo potrebbe aver raggiunto il 230% del PIL: possibile che simili dati non abbiano fatto suonare qualche campanello d’allarme nelle stanze dove si pretende di voler dare i voti al mondo intero? Sarebbe stato bene ricordare anche che chi oggi dà la sua possente spallata ad un sistema agonizzante, ieri attribuiva il massimo dei voti ai derivati-immondizia che hanno polverizzato Lehman e messo in ginocchio il mondo.
L’analisi che del downgrade portoghese fa Andrew Garthwaite di Credit Suisse sulla celebre colonna “Alphaville” del Financial Times, è allo stesso tempo scanzonata ed agghiacciante. E poi tanto grave questo declassamento? Secondo l’economista no. Innanzitutto, c’è la questione dei creditori della Grecia: le banche francesi e quelle tedesche hanno le esposizioni più pesanti verso quel Paese (rispettivamente 50 e 30 miliardi di euro) e tutto desiderano tranne un bagno di sangue al momento in cui una bella fetta degli asset accumulati nei loro attivi dovessero vaporizzarsi perché la Grecia è di fatto fallita.
Una proposta francese per uscire dall’impasse prevede la possibilità per lo stato greco creditore di rinnovare (“roll-over”) il debito a determinate condizioni (rimborsare senza indugio il 30% del debito, sostituendo il 70% residuo con emissioni trentennali): una forma di “atterraggio morbido”, che consentirebbe alla Grecia di tirare un sospiro di sollievo, riducendo ad un terzo la perdita di conto economico per le banche europee esposte verso quel Paese.
La si può raccontare come si vuole, ma questo è a tutti gli effetti un default, anche se Standards & Poors ha inventato un termine più digeribile, “selective default”, con gran dispetto di Trichet, che questa brutta parola a casa Europa proprio non lo vuol sentir pronunciare.
In ogni caso, l’atteggiamento conciliante di S&P sul default greco finisce per minimizzare l’effetto reale del downgrade del Portogallo da parte di Moody’s: insomma, situazione disperata, ma non seria. Il tutto senza contare che, se vuole salvare il sistema, la Banca Centrale Europea non potrà permettersi di fare la schizzinosa e dovrà continuare a comprare titoli di Stato, siano essi considerati preziosi come diamanti o disgustosi come un sacco di “monnezza”.
L’analisi di Garthwaite è impietosa: l’enorme indebitamento privato portoghese diventerà presto un problema del governo lusitano, il rapporto debito/PIL passerà dal 90% a oltre il 130% nel 2014; la competitività è molto bassa e, secondo Credit Suisse, l’aggiustamento dovrebbe passare attraverso riduzioni dei salari comprese tra il 5 e il 10%, cosa che oltretutto produrrebbe un ulteriore peggioramento delle finanze pubbliche per minor gettito fiscale.
Insomma, i portoghesi, le cui finanze sono sull’orlo della bancarotta, tra qualche anno si troveranno sempre più poveri ed indebitati. A molti, che non hanno goduto degli anni della allegra irresponsabilità, verrà chiesto, cortesemente, di raccogliere i cocci e senza troppe lamentele, bitte. Se questo non è un fallimento politico e morale, oltre che economico, ci si avvicina molto.
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di Sara Seganti
José Graziano da Silva è il nuovo direttore generale della Fao, eletto con 92 voti su 180, dopo 17 anni di ininterrotta presidenza di Jacques Diouf. La Fao elegge al vertice un brasiliano di grande esperienza nel campo della sicurezza alimentare e della lotta alla fame: di formazione agronomo ed economista, Graziano era sostenuto da tutti in paesi in via di sviluppo, in uno scontro di potere con il vecchio continente che, questa volta, ha perso la partita.
Graziano da Silva è la mente che, dal 2001, coordina l’innovativo programma “Fome Zero” (“Zero Fame”) con l’obiettivo di concretizzare la promessa fatta dall’ex Presidente del Brasile, Lula da Silva, nella sua prima campagna elettorale: tre pasti al giorno per ogni brasiliano. “Fome Zero” ha contribuito, in 5 anni, a far uscire dalla povertà estrema circa 24 milioni di brasiliani e a ridurre la malnutrizione del 25%. In seguito a questo successo, Graziano è stato nominato Ministro straordinario per la sicurezza alimentare e la lotta alla fame dall’allora governo Lula.
L’approccio olistico e innovativo del programma conteneva l’apertura alla partecipazione della società civile nella definizione delle politiche da adottare. Graziano ha dato centralità al ruolo delle donne, puntando su microcredito e incentivi per la piccola agricoltura, collegamento dei piccoli agricoltori ai mercati locali, programmi di sostegno, rafforzamento delle reti sociali e educazione alimentare.
Forte di questa esperienza, nel 2006 Graziano fu nominato rappresentante regionale Fao per l’America Latina, i Caraibi e Assistente del Direttore Generale, maturando un’esperienza interna alla Fao che gli ha permesso di individuare la direzione in cui riformare l’istituzione.
Il suo programma per la presidenza, quindi, si può riassumere in 5 pilastri: sradicare la fame e malnutrizione, promuovere la sostenibilità della produzione e del consumo di alimenti, concordare le regole per una maggiore correttezza della gestione del cibo, concludere la riforma della Fao verso la decentralizzazione, e aumentare la collaborazioni con altri enti e la cooperazione sud-sud, a livello economico, ma soprattutto a livello di conoscenze ed expertise.
Questi 5 pilastri segnano un netto cambio di rotta rispetto alle attuali politiche Fao e al recente G20 dei ministri dell’agricoltura, fortemente voluto dalla Francia di Sarkozy per affrontare la volatilità dei prezzi delle materie prime agricole, all’origine dello scivolamento di milioni di persone sotto la soglia di povertà.
Dopo anni di allarmi rimasti inascoltati sui rialzi eccessivi dei prezzi delle materie prime alimentari, solo in minima parte riconducibili all’aumento della domanda di cibo da parte di una popolazione mondiale in continua crescita, Graziano arriva alla presidenza Fao in un momento in cui le maggiori economie del mondo sono tornate a discutere di fame e povertà estrema.
Negli ultimi dieci anni, i prezzi dei generi alimentari di base non hanno fatto che crescere, con un picco nel 2007-2008, e poi ancora quest’anno, contribuendo ad accelerare le rivolte e le proteste contro i governi nord-africani, per citare un esempio tra i molti. Secondo l’ultimo rapporto Fao, il prezzo per un paniere di generi alimentari di base è aumentato dall’anno scorso del 37%, aumenti che si assesteranno su una media del 20% nei prossimi dieci anni. Questo vuol dire che la crescita dei prezzi dei beni alimentari diventerà la norma e, come sempre, a pagarne le peggiori conseguenze saranno i più poveri, coloro che destinano fino al 90% del loro reddito per nutrirsi.
La comunità internazionale è concorde nel dire che le prospettive non più sostenibili, ma le soluzioni adottate non sono, ad ora, che il riflesso di uno scontro tra interessi nazionali. Infatti, questo inedito G20 alimentare ha prodotto un accordo su 5 punti di dubbia efficacia, in cui si fa riferimento a una serie di azioni, non vincolanti, destinate a non incidere sulle cause, molteplici e complesse, della crisi alimentare.
Cosa propongono i ministri dell’agricoltura del G20? E’ stato trovato accordo sulla necessità di favorire la produttività grazie ai trasferimenti di tecnologie nord-sud e di creare una banca dati internazionale, gestita dalla Fao ma senza finanziamenti ad-hoc, per limitare le speculazioni sui generi alimentari agendo sulla trasparenza delle informazioni sulla produzione e sugli stock delle materie prime agricole.
Tutto ciò senza però impegnarsi verso una vera e propria regolamentazione dei mercati finanziari, come avrebbe voluto la Francia e contro cui l’Inghilterra, con la sua tradizionale propensione finanziaria, si è strenuamente battuta. Il testo si limita a sancire dei limiti di volumi che un operatore può scambiare sul mercato, senza incidere sulla generale anarchia della compravendita di derivati finanziari legati alle materie prime.
L’accordo prevede anche un maggiore “coordinamento della politica internazionale” per evitare che si verifichino ancora casi come quello avvenuto in Russia l’anno scorso. Nell’agosto 2010, Mosca prese la decisione unilaterale di adottare una moratoria di sei mesi sulle sue esportazioni di cereali, sostenendo che era necessario per la sicurezza alimentare nazionale, provocando un drammatico aumento del prezzo del grano sul mercato internazionale. Un altro punto riguarda la Banca Mondiale e la facilitazione dell'accesso al credito, attraverso un pacchetto di misure per agevolare i finanziamenti destinati ai paesi più vulnerabili.
Complessivamente, sono misure blande di fronte all’urgenza del problema. Riconoscere la necessità di rendere maggiormente trasparente il mercato finanziario, condividere le informazioni sulle scorte disponibili, agevolare gli aiuti per i paesi in difficoltà senza produrre un quadro di regole vincolanti è il minimo che poteva uscire da una riunione di questo tipo.
Cosa si poteva fare di più? Occorre chiarire innanzitutto che se l’aumento della popolazione, e di conseguenza della domanda alimentare, è sicuramente parte della corsa al rialzo dei prezzi, non ne è la causa principale, dato che è nelle nostre possibilità produrre alimenti a sufficienza per tutti.
Le questioni spinose da affrontare, invece, sembrano essere la speculazione finanziaria, i cambiamenti climatici e i biocarburanti. Dal 2003, gli Stati Uniti hanno deregolamentato il mercato dei generi alimentari generando un forte aumento di capitali investiti. Dal 2003 al 2008, gli investimenti nei fondi legati alle materie prime alimentari sono aumentati da 13 miliardi di dollari a 317 miliardi.
La speculazione alimentare è altamente redditizia, si tratta di un “piccolo mercato” relativamente facile da turbare, in grado di garantire una certa stabilità di profitti al contrario del mercato immobiliare, vista la recente bolla speculativa. Per di più, è un business in grado di generare un potere di scambio concreto: la politica è molto sensibile alle condizioni alimentari delle proprie popolazioni. Ormai si scambiano derivati di materie prime alimentari in misura molto maggiore rispetto alla loro reale quantità esistente sul mercato, mettendo a rischio la stabilità dei prezzi alimentari.
Sugli altri fattori implicati nel rialzo dei prezzi, il surriscaldamento climatico e l’aumento della produzione di biocarburanti, il G20 non ha saputo dire praticamente nulla. Stanno uscendo ora i primi studi che dimostrano le conseguenze negative del riscaldamento globale sull’agricoltura e la comunità internazionale ha di recente discusso alcune misure sui biocarburanti. Queste forme di energie rinnovabili, infatti, godono di forti incentivi che rendono molto conveniente sottrarre la terra alla produzione alimentare, per destinarla alla produzione di energia “verde”. Guarda caso Stati Uniti e Brasile, i maggiori produttori di biocarubranti, non hanno voluto accettare alcuna limitazione a riguardo.
A questo proposito, sembra di buon auspicio la dichiarazione di Graziano, brasiliano, che sostiene che “i biocarburanti sono buoni solo se non competono con la produzione di cibo, altrimenti diventano cattivi”. Così com’è particolarmente significativa l’importanza data nel suo programma alla sostenibilità della pesca e alla salute dei mari, tema non molto dibattuto ancora, ma di vitale importanza per la sicurezza alimentare.
Se il G20 ha, in sostanza, mancato l’obiettivo di affermare che ulteriori giochi speculativi sulle materie prime alimentari non sarebbero stati più tollerati, con l’elezione di Graziano al vertice Fao è lecito sperare che la questione ritorni presto d’attualità.