di Carlo Musilli 

Dopo il terremoto, per gli investitori è diventato quasi irrinunciabile scommettere contro il Giappone. Attualmente per assicurare contro il pericolo di default 10 milioni di dollari del debito pubblico nipponico sono necessari ben 125 mila dollari. Da venerdì ad oggi, l'aumento è stato del 24%. E' facile prevedere che sarà necessario mettere in campo diversi miliardi per finanziare la ricostruzione e questo renderà ancor più costoso il piazzamento dei titoli di stato.

L'economia giapponese da diversi anni vive una condizione di estrema fragilità. La recente catastrofe ha portato improvvisi quanto inaspettati guadagni ai molti investitori che, da tempo, scommettevano sul fatto che il Paese sarebbe stato trascinato a picco dai suoi problemi irrisolti. Negli anni molti profeti hanno vaticinato un'inevitabile crisi legata alla stagnazione economica, al calo demografico e soprattutto alla peggiore situazione fra i paesi industrializzati per quanto riguarda il debito pubblico, che supera il 200% del Pil annuo. Certo, a questi profeti il terremoto ha dato una bella mano.

Per anni, scommettere contro il Giappone non è stata una mossa vincente. Nonostante la questione del debito, i prezzi dei titoli di stato hanno continuato a salire, in parte perché la preoccupazione principale nel Sol Levante era la deflazione, non l'inflazione. Inoltre, la maggior parte del debito era nelle tasche di investitori giapponesi, poco propensi a vendere. Adesso però lo scenario cambia, soprattutto in vista dell'onerosa ricostruzione che attende il Paese.

Ma la speculazione in corso non si realizza solo sul piano del debito pubblico. Anzi, i Cds legati ai titoli di alcune aziende private sono diventati perfino più redditizi. Parliamo dei Credit-default swaps, strumenti derivati che possono essere utilizzati come polizza assicurativa o copertura per chi sottoscrive un'obbligazione. Tra i casi più eclatanti c'è quello della Tokyo Electric Power Corporation, proprietaria degli impianti nucleari danneggiati dal terremoto.

Il Commonwealth Opportunity Capital, un hedge fund da 90 milioni di dollari con sede a Los Angeles, ha realizzato, secondo il Wall Street Journal, profitti per diversi milioni di dollari investendone meno di 200 mila nei titoli della società nipponica. Se fino a venerdì scorso il costo annuale per proteggere 10 milioni di dollari del debito della Tokyo Electric Power Corporation era di 40,700 dollari, questa cifra è schizzata alle stelle dopo il terremoto e i problemi alle centrali, arrivando a toccare quota 240 mila dollari.

Diversi speculatori si sono concentrati su quelle società giapponesi che, gravemente indebitate, non hanno nelle esportazioni la loro attività principale. Il piano è semplice. All'aumentare del debito pubblico, lo yen sarà messo sotto pressione e dovrà necessariamente svalutarsi. Questo aiuterà gli esportatori, i cui prodotti diventeranno più competitivi sui mercati internazionali. Per le altre società, invece, ci saranno solo gravi problemi di accesso ai mercati finanziari.

La borsa di Tokyo ha fatto registrare martedì la terza peggior chiusura di sempre, con l'indice Nikkei in ribasso del 10,55% a causa dell'allarme radiazioni. In una situazione del genere il rischio speculativo più grande è quello delle vendite allo scoperto. In sostanza, si tratta di vendere all'attuale prezzo di mercato titoli di cui ancora non si è proprietari, impegnandosi ad acquistarli realmente da banche o intermediari finanziari entro un certo periodo di tempo, quando si prevede che il loro prezzo sarà calato.

Al momento, in Giappone, non si tratta di una previsione difficile. I titoli che rischiano di essere messi maggiormente sotto pressione sono gli energetici, le commodities e le auto. Il governo di Tokyo ha assicurato che contrasterà con forza ogni tentativo di speculazione e non tollererà vendite allo scoperto. La Banca del Giappone ieri ha iniettato nel sistema bancario la cifra record di 15mila miliardi di yen (pari a 131 miliardi di euro) e contemporaneamente ha raddoppiato da 5 a 10 mila miliardi di yen (87 miliardi di euro) il programma di acquisto di obbligazioni. L'obiettivo è di limitare l'impatto del terremoto sull'economia. Ma gli avvoltoi della speculazione non si spaventano per così poco.

di Emanuela Pessina

BERLINO. I capi di Stato e Governo dei 17 Paesi della zona euro si sono finalmente accordati per il patto di rafforzamento della moneta unica, il cosiddetto “patto per l’euro”: lo ha dichiarato sabato il presidente permanente dell'Unione europea Herman Van Rompuy, al termine del vertice straordinario di Bruxelles organizzato in risposta alla perdurante crisi economica. Si tratta della riforma più significativa della moneta unica europea mai operata finora e, nel suo insieme, non fa altro che rivelare la maggior preoccupazione del Vecchio continente: Eurolandia prova a tutelare la sua identità ponendo le basi per una politica fiscale e economica comune che possa evitare, in futuro, débacle come quelle di Grecia e Irlanda, e con loro, dell’euro.

In primo luogo, Bruxelles ha deciso di aumentare le garanzie economiche da mettere a disposizione dei Paesi europei più deboli, che potranno così continuare a dormire sonni tranquilli nei prossimi anni. Il patto per l’euro prevede un ampliamento della portata del fondo salva-Stati, l’European Financial Stability Facility (EFSF): per gli Stati in crisi verrà messa a disposizione una somma di 440 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto ai 250 attuali. Il fondo permanente anti- crisi European Stability Mechanism (ESM), invece, che entrerà in vigore dal 2013, disporrà di un totale di 500 miliardi di euro. Inoltre, secondo la nuova intesa, i fondi EFSF e ESM potranno intervenire sul mercato primario dei titoli, acquistando i bond dei Paesi dell’euro in difficoltà finanziarie e favorendone l’economia.

Durante il recente vertice sono state nuovamente valutate anche le questioni di Grecia e Irlanda, i due Paesi che hanno già attinto dal fondo salva-Stati in precedenza. Alla luce degli sforzi compiuti dal governo Papandreou per ridurre il debito sovrano, Bruxelles ha accordato alla Grecia delle agevolazioni, quali il taglio del tasso d’interesse sui prestiti (dal 5,8% al 4,8%) e la dilatazione dei tempi di rimborso a quasi otto anni.

All’Irlanda, invece, non è stato concesso nulla, poiché il Governo del Premier Enda Kenny non ha soddisfatto le condizioni necessarie agli sconti richiesti. Altro importante cambiamento, il patto per l’euro introdurrà il debito privato di banche, famiglie e imprese non finanziarie tra i parametri di giudizio della situazione finanziaria dei singoli Paesi: un passo importante soprattutto per la nostra Italia, sollecitato da sempre a gran voce dal ministro delle Finanze Giulio Tremonti.

L’apparente generosità di Bruxelles, tuttavia, ha un prezzo. Il patto per l’euro chiede, in effetti, che i Paesi della zona euro si pongano obiettivi futuri comuni per tutti i punti del tema finanziario, quali salari, bilanci, costo del lavoro e regolamento bancario. Anche l’età pensionabile dovrà essere nuovamente adeguata all’effettiva prospettiva di vita e si dovrà orientare allo sviluppo demografico dei vari Stati: per il momento, l’introduzione di una linea comune in ambito pensioni non é stata comunque presa in considerazione. Plausibile, invece, l’intenzione di procedere verso ulteriori tagli della spesa pubblica e di aumenti fiscali dei singoli Stati per far fronte ai deficit di bilancio dei vari Paesi e raggiungere gli “obiettivi comuni”.

Ed è proprio attraverso gli obiettivi comuni che i 17 Stati dell’Eurozona cercheranno di diminuire la differenza di competitività, una delle cause fondamentali delle crisi attuale di alcuni Paesi tra i quali Grecia e Irlanda. Il patto dovrà "consolidare il pilastro economico dell'Unione monetaria, fare un salto di qualità nel coordinamento delle politiche economiche della zona euro, migliorare la competitività e aumentare il livello di convergenza", si legge nella dichiarazione finale. Perché, in realtà, la moneta è unica già da quasi un decennio ma ogni Stato ha mantenuto nel tempo la propria sovranità individuale circa le politiche finanziarie ed economiche, favorendo il sorgere di un’insana competitività che mette tuttora in pericolo la stabilità dell’euro stesso.

Le conclusioni del vertice sono arrivate dopo otto ore di acceso dibattito, poco prima delle tre antimeridiane di sabato. Un risultato piuttosto sudato, a quanto pare, ma per cui secondo Angela Merkel (CDU) ne è valsa la pena poiché garantisce “l’accordo sui nodi fondamenti dell’intero patto”. Da sottolineare che la Cancelliera tedesca contava tra i sostenitori più accaniti dell’urgenza di tale patto e tra i più pretenziosi e influenti: per ora, la Germania rappresenta la voce più potente a Bruxelles in materia finanziaria proprio alla luce della sua quota versata nei fondi anticrisi, la più alta in assoluto.

Certo, l’idea che tutta l’Europa, anche la parte più debole, debba ricorrere a piani di austerity straordinari per far fronte ai deficit di bilancio non convince del tutto gli economisti. Un estremo risparmio, infatti, potrebbe rendere i mercati in questione ancora meno interessanti per gli investitori che devono acquistare i bond emessi dalle banche centrali, frenando così ulteriormente la crescita del Prodotto interno lordo (Pil). Piuttosto che garantire l’identità finanziaria europea, nella peggiore delle ipotesi, il patto per l’euro potrebbe costituire la sua lenta condanna a morte.

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Immaginate per un momento di essere il capo del governo. È il momento fatidico di scrivere la legge di stabilità per l'anno prossimo e tutti vi tirano per la giacchetta: i banchieri vogliono più soldi per coprire i propri rischi, i sindacati più fondi per la cassa integrazione, l'aviazione una nuova portaerei per stanare i terroristi subacquei, i ricchi meno tasse per tutti. Dove abbattere la scure: tagliare i servizi sociali o le spese militari? Che fare con le tasse?

Diventate anche voi premier per un giorno: i ricercatori del Programma per le Consulazioni Pubbliche dell'Università del Maryland hanno creato un sito internet in cui potete procedere passo dopo passo nella creazione della vostra legge finanziaria e decidere le priorità dell'azione di governo.

Un aspetto strabiliante è che l'economia non è così difficile come la dipingono. Come una brava massaia che cerca di far quadrare i conti, il contribuente curioso deve spulciare uno per uno i capitoli di bilancio e decidere come allocare le risorse, tagliando qualcosa e aumentando qualcos'altro.

Una volta creata l'interfaccia, i ricercatori hanno deciso di usarla per fare un sondaggio. Con risultati strabilianti. Nelle ultime settimane, pare che a Washington si siano accorti del galoppante deficit americano, che ormai si conta in trilioni di dollari.

Particolare curioso, se ne sono accorti solo dopo aver tagliato le tasse ai super-ricchi, aggiungendo altri duecento miliardi di dollari di debito e creando una vera e propria crisi di bilancio entro il 2015. Il dibattito su come ridurre il deficit ora impazza su tutti i network televisivi. 

Secondo il Presidente Obama, bisogna tagliare un po' tutti i capitoli di spesa, eccetto quella militare. I Repubblicani sono più coraggiosi: minacciano di bloccare sine die l'approvazione della finanziaria, mandando gli Stati Uniti in esercizio provvisorio, se il Presidente rifiutasse di passare il piano di tagli draconiani da loro proposto. Ma la filosofia generale è bipartisan: non si possono alzare le tasse, né ridurre le spese milititari, dunque si andrà verso un taglio ai servizi sociali.

In questa totale empasse politica, i ricercatori si sono chiesti: secondo i contribuenti, qual è la migliore strategia per contenere il deficit? A quanto pare, il consenso bipartisan dei politici eletti a Washington, tutti pronti a tagliare i servizi sociali, non ha alcun sostegno tra la popolazione. Il che fa riflettere sulle loro vere motivazioni.

L'americano medio è perfettamente in grado di ridurre il deficit e sa dove e come tagliare. Gli intervistati hanno tagliato drasticamente la difesa, l'intelligence e le guerre in Iraq e Afghanistan, con una media del 18% di riduzione nelle spese militari, risparmiando centocinquanta miliardi di dollari. Contro un aumento proposto da Obama del 4%.

Allo stesso tempo, gli intervistati hanno deciso di aumentare sia le tasse ai più ricchi che le tasse sulle case, ricavando una media di trecento miliardi di dollari di entrate fiscali aggiuntive. Invece dei tagli proposti da entrambi i partiti.

Riguardo alle spese sociali, la differenza è altrettanto pronunciata. Il pubblico vuole in media aumentare del 130% la formazione professionale, mentre il Congresso l'ha tagliata del 50%. Il contribuente aumenterebbe inoltre il budget scolastico del 92%, mentre il Congresso lo vuole devastare, tagliandolo di un quarto.

E se dividiamo gli intervistati in base alla loro appartenenza politica? A quanto pare gli “indipendenti” sono quelli più efficienti nel ridurre il deficit, mentre i repubblicani, alla prova del fuoco, tagliano le spese di poco, nonostante tutti i giorni i politici repubblicani siano i paladini della responsabilità fiscale (con i soldi degli altri). Che cosa succederebbe se una simile indagine demoscopica fosse compiuta in Italia?

di Giuliano Luongo

Come il cittadino medio italiano da tempo, l’elemento di appeal tragicomico nazionale ed internazionale del nostro governo non è identificabile solo nella figura dell’inossidabile Premier, ma anche nel brillante Ministro dalla voce bianca, Giulio Tremonti. Sorvoliamo sulle opinioni riguardanti le competenze strettamente tecniche di questo personaggio per concentrarci su di una serie di eventi recenti: il suo ruolo nell’affannosa ricerca per un successore al seggio della presidenza della Banca Centrale Europea, ancora per poco fortemente riscaldato dal b-side di Jean-Claude Trichet.

Ebbene, nonostante da tempo siano più che note le frizioni tra il Ministro ed il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, di recente la scelta sul candidato da supportare alla nomina alla BCE è ricaduta proprio sul buon Draghi. Sono state ventilate numerose perplessità sulle ragioni questo “cambio di umore” così apparentemente repentino, perplessità divenute certezze - o quasi - dopo le ultime rivelazioni a firma dell’ormai onnipresente Wikileaks. Non rimane dunque che cercare di riportare i fatti per un almeno vago ordine cronologico onde riuscire a trovare il bandolo della matassa di questa vicenda.

E’ indubbio il fatto che gran parte dei politici vicini all’area berlusconiana abbiano problemi gravi di coabitazione con qualsivoglia altra carica pubblica e/o amministrativa: mantenendoci circoscritti alle vicende del buon Giulietto, ci basti ricordare di sfuggita (onde evitare l’autolesionismo) la convivenza assolutamente non pacifica tra Tremonti e l’allora Governatore Fazio, con i loro siparietti all’insegna del patetico al Fondo Monetario Internazionale. Seppur con i debiti e dovuti cambiamenti di situazione generale, la pace nel “territorio comune” economico condiviso dal Ministero dell’Economia e dalla banca centrale nostrana non è stata ottenuta nemmeno con il cambiamento al vertice di quest’ultima.

La convivenza Tremonti-Draghi non è mai stata né tranquilla né piacevole: le posizioni dei due economisti, seppur di stampo marcatamente liberale, hanno sempre avuto grosse differenze di interpretazione della politica economica e delle funzioni degli enti economici internazionali. Il crescente ruolo di Draghi nel G20 e la sua buona reputazione internazionale - non si dimentichino i complimenti ricevuti da Trichet in persona qualche anno fa - ne hanno fatto un “coinquilino” ingombrante per Tremonti nell’ambito del policy making italiota.

Spesso lo stesso governo che dava il lavoro a Tremonti ha dovuto riportare all’ordine il fiero Ministro, reo di aver attaccato in più occasioni il rivale della banca centrale riguardo questioni più o meno tecniche. Molti analisti, già a metà 2008, si interrogavano sul modo in cui un paese che volesse crescere - o almeno avere una situazione economica non ridicola - potesse permettersi di avere una tale situazione di conflitto: conflitto nel quale, si badi, la parte “offendente” era sempre quella del Ministro, opposto ad un Governatore dotato di un aplomb più che britannico. Alcuni ventilarono addirittura l’ipotesi di una sorta di timore da parte di Tremonti del “perdere la poltrona” in favore di Draghi.

Ed invece, nonostante queste basi alquanto discutibili, circa dieci giorni fa c’è stata la dichiarazione bomba: il Ministro Tremonti esprime pubblicamente il suo appoggio alla corsa di Mario Draghi alla poltrona di dirigente della Banca Centrale Europea. Stupore generale…per circa un quarto d’ora. Già senza conoscere particolari altarini nascosti nelle carte segrete della diplomazia ancor più segreta, salta all’occhio un particolare: far andare Draghi in Europa non significa solo dare prestigio all’Italia nel continente eccetera eccetera, ma significa soprattutto non avere Draghi medesimo tra i piedi nel giro di poltrone dell’Italia economica che conta, lasciando libero un posticino per un qualche nuovo personaggio vicino alle amicizie del professore pavese.

Volendo esser maligni fino e in fondo, si può notare questo schema: Giuseppe Vegas, divenuto di recente il numero uno della Consob, è un uomo vicino a Tremonti - anche di poltrona - in quanto Vice Ministro dell’Economia; la nomina di Giuseppe Mussari al vertice dell’ABI nasconde la manina del professore dai tondi occhiali; a voler essere proprio puntigliosi, anche un grande nome del gruppo S. Paolo, come Corrado Passera si dice che abbia buoni rapporti con Tremonti.

Non è dunque difficile accorgersi di come l’attuale Ministro dell’Economia oggettivamente…“amministri” l’economia del paese, con una fitta rete di contatti ormai con i vertici di operatori pubblici e privati. L’unica sedia ancora “nemica” - o quantomeno “avversaria” - è proprio quella di Draghi, e pertanto farlo decollare per Francoforte non sarebbe una cattiva idea, facendo cogliere i tipici due piccioni con l’arcinota fava: Tremonti fa bella figura come Ministro europeista e attento all’immagine dell’Italia (mentre il Premier si divide tra galere e proroghe), e in più si spiana la strada all’occupazione del ruolo istituzionale economico più importante accanto a quello dello stesso Ministro dell’Economia.

E a dirla tutta, anche gli stessi rapporti Tremonti - Berlusconi entrano in gioco di prepotenza in questo schema, grazie ormai anche alle sempre provvidenziali rivelazioni di Wikileaks. Di base, sappiamo che in più di un’occasione il Ministro si è mostrato molto vicino alle posizioni della Lega, che ha ricambiato la cortesia elogiando più volte Tremonti per le posizioni prese: questa situazione ha portato molti a pensare che, in un ipotetico prossimo governo a “trazione leghista”, Tremonti possa essere il sostituto di sua maestà Silvio I.

E qui, come anticipato prima, arriva la scoperta di Wikileaks: dai cablo americani risulta che, visto il giro di “amicizie” scomode di Berlusconi (si pensi alle discutibili liaisons con tutti i dittatori africani e post-sovietici, più che alle bagasce), un potenziale nuovo leader italiano sarebbe più gradito a Washington. E questo nuovo leader potrebbe essere Tremonti o…Draghi. Dunque, meglio mandare il calmo Mario alla BCE, così in Padania si sta più tranquilli.

Riassumendo, come prevedibile, siamo di fronte all’ennesimo tentativo di colonizzazione delle cariche da parte di un centrodestra pigliatutto e accaparratore, che si caratterizza in base alla sua sotto-fazione più estremista e populista. Dalla “casta” al governo degliriformatori, è solo questione di tempo: l’ex Bel Paese è sempre più sulla via di diventare una “provincia” dell’inesistente Padania, e l’attuale gioco delle sedie con il Ministero dell’Economia come fulcro è solo l’ennesimo passo avanti verso la mortificazione della politica nazionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Giuliano Luongo

Se c’è una cosa che il Presidente Barak Obama sa fare bene, oltre a vincere riconoscimenti internazionali sulla fiducia, è prendere decisioni controverse in ambito di politica interna. Dopo il faticoso processo di riforma della sanità, avversato da numerose fazioni vincolate a Big Pharma, viene colpito un altro pilastro dell’american way of life: il mutuo trentennale. Non si tratta tecnicamente di un attacco diretto, ma di una possibile conseguenza della nuova politica statale di gestione dei mutui nel mercato immobiliare.

L’amministrazione Obama intende alzare il costo dei prestiti e la quota delle caparre come azione fondamentale per la “ristrutturazione” del mercato immobiliare. Si crede che in questo modo, rendendo di fatto meno semplice l’accesso al credito, si possano limitare gli eccessi raggiunti dal mercato del mattone da arredare agli inizi della ancora “vigente” crisi economica internazionale.

Una delle mosse chiave comprese in tale manovra riguarda i due giganti federali dei mutui, Freddie Mac (nomignolo dato alla Federal Home Loan Mortgage Corporation) e Fannie Mae (Federal National Mortgage Association), che andrebbero di fatto lasciati alla propria sorte, verso un possibile decesso, come di certo dovrebbe accadere a delle compagnie non produttive in un sistema liberale. In un discorso tenuto il passato venerdì al Brookings Institute, il Ministro del Tesoro, Timothy F. Geithner, ha sostenuto la tesi che ritiene eccessivo il supporto governativo americano al mercato immobiliare e che spinge all’eliminazione dei due istituti federali sopra citati.

Quest’ultima non sarà di certo un’operazione semplice: lo stesso Geithner ha fatto notare come l’amministrazione avrà bisogno di circa sette anni per portarla a compimento, dovendo dunque di fatto delegare ai prossimi inquilini della Casa Bianca le tappe conclusive di questa smobilitazione. Attualmente, il governo si propone di rendere più costosi i mutui offerti “dallo Stato”, in modo da far diventare più competitivi quelli generosamente elargiti dalle compagnie private. In parole povere: il costo del denaro per chi vuole accasarsi verrà generalmente livellato verso l’alto. Si punta inoltre a ridimensionare la Federal Housing Administration, agenzia governativa attiva nell’assicurazione di prestiti offerti da banche e lenders privati per l’acquisto di beni immobili. L’idea è quella di ridurre il valore massimo copribile dei prestiti ed alzare al 5% il valore delle caparre.

I principali rischi di questa manovra, che in teoria dovrebbe soddisfare le spinte all’indipendenza da uno “Stato invasivo, ficcanaso e comunista”, ricadono proprio sui cari e beneamati consumatori. Per rendere il mercato del credito immobiliare più sicuro, vi si taglia l’accesso: non si cerca però di migliorare genericamente il tipo di “clientela”, potenziando ad esempio i controlli sui borrowers, ma si agisce in maniera molto più drastica, rendendo tutto il mercato del credito immobiliare più costoso.

E’, di fatto, una decisione in linea con il liberale - o meglio, liberista - spirito americano, che vuole che ognuno ottenga quello che si può permettere a suon di soldoni: come è stata presa male la riforma sanitaria, al grido di “non pago per la salute di un altro”, si dovrebbe prendere bene anche questa imparziale decisione.

Ci si compra la casa solo nel caso in cui si sia in possesso dei soldi per comprarla. Peccato però che la benpensante opinione pubblica americana non la pensi tutta così: gli stessi che non vogliono pagare per il vicino di casa, fanno il diavolo a quattro se non hanno la possibilità di pensare ai fatti propri. Gran parte delle associazioni dei consumatori, assieme a gruppi di agenti immobiliari (guarda un po’) e piccole banche sono uniti nel chiedere la sopravvivenza di Freddie e Fannie: per il portavoce della Consumer Federation of America Barry Zingas, abbandonare dopo 70 anni l’impegno al supporto al credito immobiliare significherebbe privare i consumatori americani della possibilità di indebitarsi in maniera accettabile. Inoltre, il rallentamento del mercato del credito nuocerebbe anche ai prestatori di ogni dimensione, privandoli di un flusso di capitale stabile.

Fedeli ai loro ideali, i Repubblicani tutti plaudono a tale decisione governativa. La fazione avversa ad Obama è sempre stata contraria al crescente ruolo dei due lenders statali, e li accusa di aver contribuito largamente alla crisi, se non di averla causata in primo luogo (cosa per altro non del tutto falsa). Ecco, magari si dovrebbe fare anche riferimento alla cretineria dei debitori, ma questo non è un articolo di psichiatria. Tornando in argomento, basti ricordare comunque che la fazione degli epici Bush e McCain ritiene che la manovra in questione debba seguire pochi e rapidi passi, in contrasto a quanto proposto dagli stessi democratici, che vogliono comunque una serie di tagli lenti e graduali.

Inutile dire che la stessa “sinistra” americana abbia criticato ampiamente la proposta obamiana: numerosi membri del Congresso militanti nel partito democratico, hanno espresso le proprie perplessità - sino al dissenso totale in alcuni casi - su di un tema che di fatto penalizzerà gran parte dei cittadini statunitensi ansiosi di accasarsi. Il fatto che il dirigente della JP Morgan Chase, William M. Daley, sia stato nominato “chief of staff” da Obama in persona, accanto all’accordo bipartisan sul blocco delle tasse per i più ricchi, hanno contribuito a fomentare il disprezzo dei liberal più assennati nei confronti del mediatico presidente.

Nonostante la manovra sia ancora in divenire, non resta che fare alcune considerazioni del caso. In primo luogo, vediamo che il Presidente si è deciso a ridimensionare per poi sopprimere due enti che mal si inseriscono in un sistema liberista come quello statunitense: in punto di teoria, la decisione è corretta. Si lima un aspetto che rendeva spurio un sistema che pretende di essere al 100% private-led.

Gioiranno i membri del tea party, contenti anche i repubblicani e gran parte dei cittadini “non affiliati”. Il piccolo problema è che questo aspetto “anomalo” rendeva gestibile il mercato del credito anche per i meno abbienti, categoria sempre più affollata in tempi di crisi come questo. Bisognerà comprendere in questa rimozione graduale con quale intensità saranno colpiti i consumatori, e sapendo che la seconda metà di tale compito ricadrà nella prossima legislatura, la qualità dei risultati sarà tutta da vedere, con i personaggi che si aggirano negli altri lidi.

In secondo luogo, sarà interessante vedere l’effetto generale che tale operazione avrà sul consenso verso Obama: i suoi sono già incavolati, gli avversari per ora ringraziano, ma di certo non cambieranno alleanza per così poco. In ogni caso, la discussione congressuale mostrerà meglio gli umori di pubblico e rappresentanti a Washington. Al momento, nei panni di un cittadino americano “senza fissa dimora”, si starebbe sicuri solo avendo un parente stretto anziano proprietario di casa con problemi di salute. Il parente, non la casa.

 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy