di Ilvio Pannullo

In Islanda la popolazione ha di nuovo votato NO al referendum indetto sabato scorso dal governo per il caso Icesave. Gli islandesi, per la seconda volta, hanno espresso la loro più assoluta opposizione all’accordo sul rimborso di 3,9 miliardi di euro chiesto dalla Gran Bretagna e dall’Olanda in seguito al fallimento della Icesave, società controllata dalla Landsbanki. Tutti e sei i distretti elettorali islandesi hanno votato per il “No”, con una percentuale nazionale del 60%, in calo dal 93% del gennaio 2010,dimostrato così di voler respingere, ancora una volta, la proposta del governo, composto da Verdi e Social-Democratici.

Per chi non lo ricordasse, l'economia islandese è stata pesantemente colpita dalla prima onda della grande crisi finanziaria che si è abbattuta sull'isola e sul mondo intero nel 2008. Sono cadute immediatamente le due banche principali islandesi, che sono state subito nazionalizzate.

Icesave, una specie di conto arancio gestito dalla principale banca islandese (Landsbanki per l’appunto), ha sostanzialmente chiuso i battenti, essendo a quel punto incapace di rimborsare i clienti. Così, i risparmi di molti inglesi ed olandesi, i principali clienti di Icesave, sono rimasti congelati per un bel po'. Il governo inglese, per evitare spiacevoli proteste in casa propria, è intervenuto ed ha garantito i fondi dei cittadini inglesi, salvo poi presentare la nota spese all'Islanda.

Ed il nuovo governo islandese si è guardato bene dal prendere una decisione. Ha invece chiamato i cittadini alle urne per ben due volte in 13 mesi per votare a favore o contro un'ipotesi di ristrutturazione (e restituzione) del debito. E per la seconda volta in 13 mesi, il nuovo referendum - che prevedeva una lunga e comoda spalmata della restituzione fino al 2046 - ha visto il consueto verdetto dalle urne: NO.

Anche perché -  è giusto precisarlo -  in fondo Icesave è quasi interamente sostenuta, nei suoi depositi, da cittadini inglesi ed olandesi, non certo da cittadini islandesi. Quindi, se per caso non si paga, non sono certo gli islandesi a trovarsi carta straccia tra le mani. Da qui lo scontro ideologico sulla restituzione di un debito dovuto più alla speculazione straniera che non ad un’intensa opera di finanziamento dell’economia nazionale.

Il voto ha riflesso la diffusa convinzione che i negoziatori del governo non siano stati abbastanza vigorosi nel perorare il caso legale islandese. E’ vero, è stato ottenuto un termine di pagamento più lungo per gli esborsi di Icesave, ma il modo in cui l’Islanda otterrà le sterline e gli euro, malgrado la propria economia sia in caduta libera, è ancora da determinarsi e tutto questo minaccia il crollo del tasso di cambio della corona islandese. Ed una simile ipotesi non è semplicemente considerabile, perché la conseguenza di un eccessivo indebolimento della valuta islandese comporterebbe la svendita del patrimonio nazionale agli speculatori stranieri. Insomma, si rischierebbe un bis in idem.

L’accordo proposto ha effettivamente abbassato il tasso di interesse dal 5,5% al 3,2%, ma ha comportato che gli interessi per il salvataggio decorressero dal 2008. Ha persino incluso la quota d’interessi-extra che convinsero gli investitori stranieri a mettere i propri fondi in Icesave. Gli islandesi consideravano questi interessi-extra come una compensazione per i rischi che furono presi dagli investitori e per questa ragione dovrebbero esser andati persi e quindi non conteggiati. Il che non è del tutto illogico.

Ora, che ogni tentativo di riconciliazione è andato fallito, la cosa probabilmente finirà in tribunale sotto l'ala dell'EFTA, European Free Trade Agreement. E poi sarà tutto da vedere cosa succederà se mai il tribunale condannerà l'Islanda a pagare. Frosti Sigurjónsson, portavoce del "No", ha dichiarato che "il rischio di accettare questo accordo è molto più grande del rischio di affrontare la cosa in tribunale, che in fondo è un nostro diritto". Così, la questione “Icesave” andrà in tribunale. Si tratta dunque di capire come andrà a finire.

Intanto par di capire che Gran Bretagna e Paesi Bassi faranno davvero la parte del leone sui resti del cadavere di Landsbanki, giacché secondo il diritto europeo “il costo di finanziamento di tali schemi deve essere supportato, in via di principio, dagli stessi istituti di credito”. Questo non era, tuttavia, quello che volevano gli islandesi prima del voto; i poveri isolani avevano semplicemente intenzione di salvare la loro nazione da un’obbligazione senza fine, se si fossero iscritte le perdite delle banche all’interno dei paragrafi del bilancio pubblico, senza un piano per determinare il modo in cui l’Islanda avrebbe ottenuto i soldi per pagare. Nulla di più, ma neanche nulla di meno.

Il primo ministro Johanna Sigurdardottir ha affermato che il voto può avviare “un caos economico e politico”, ma anche pagare può portare a queste conseguenze. L’anno appena trascorso ha visto la disastrosa esperienza di Grecia, Irlanda e Portogallo dopo aver portato i debiti dello scriteriato settore bancario all’interno del bilancio pubblico.

È difficile aspettarsi che ogni nazione sovrana imponga un decennio o più di depressione alla propria economia, visto che le leggi internazionali permettono a ogni stato di agire in difesa dei propri interessi vitali. Agire diversamente equivarrebbe a decidere di sottomettersi ai voleri dei banchieri, mandando al macello intere generazioni con i loro diritti civili,sociali e politici, presenti e futuri.

I tentativi dei creditori di persuadere le nazioni a salvare le loro banche con il debito pubblico è stato nei fatti, fino a questo momento, un esercizio di pubbliche relazioni. Gli islandesi hanno visto il successo ottenuto dall’Argentina da quando ha imposto un taglio drastico alle pretese dei propri creditori. Hanno anche visto la distruzione economica dell’Irlanda e della Grecia per aver cercato di pagare oltre le proprie possibilità. Hanno dunque ragionevolmente scelto di optare per una linea di difesa ad oltranza degli interessi nazionali. E dovrebbero essere presi ad esempio per questo.

 La storia recente ci racconta infatti di svariati episodi dai quali si può imparare molto. I creditori dell’Irlanda, ad esempio, non le diedero di certo buoni consigli quando le suggerirono che pagare i fallimenti delle proprie banche non avrebbe sprofondato l’economia in una crisi senza fine.

L’esperienza irlandese è un avvertimento, un esempio per gli altri paesi di cosa accade quando ci si fida delle previsioni ultra-ottimistiche fatte dai banchieri centrali, i veri signori oscuri di queste manovre tutte dirette all’affossamento degli stati sovrani.

Nel caso dell’Islanda, nel novembre del 2008 lo staff del Fondo Monetario Internazionale aveva ipotizzato che la somma di debito pubblico e privato alla fine del 2009 sarebbe arrivata al 160% del PIL, ma evidenziò che un deprezzamento del tasso di cambio del 30% avrebbe spinto il rapporto al 240% del PIL, e ciò sarebbe stato “chiaramente insostenibile”. Ma il più recente bollettino sempre del FMI, datato 14 Gennaio 2011, riporta il rapporto debito pubblico/PIL  per la fine del 2009 al 308% e stima lo stesso rapporto al 333% per la fine del 2010, prima ancora di mettere nel conteggio i debiti di Icesave (!!). Insomma, delle due l’una: o gli analisti finanziari del Fondo Monetario sono degli incompetenti strapagati o, al contrario, sono particolarmente abili nel manipolare i loro numeri e le loro statistiche per rispondere ad esigenze di politica economica. Ai posteri l’ardua sentenza.

Il problema principale dell’obbligazione dell’Islanda con la Gran Bretagna e con i Paesi Bassi, a parte ciò che verrà recuperato da Landsbanki (con l’aiuto dell’Ufficio Anti-Frodi britannico), è che i soldi dovranno essere pagati attraverso il pagamento di quanto ottenuto grazie all’esportazioni. Finora, tuttavia, non ci sono stati accordi tra Gran Bretagna e Paesi Bassi per decidere quali merci e servizi islandesi dovranno essere forniti come forma di pagamento. Insomma le carte sono sul tavolo, ma alcune sono scoperte, altre no.

Si dovrebbe invece auspicare la costituzione di un gruppo di esperti che immagini e definisca la soluzione più solida possibile: nessuna nazione sovrana può infatti adeguarsi all’imposizione di una generazione di austerità finanziaria, di ristrettezze economiche e di emigrazione forzata del lavoro per pagare per i fallimentari esperimenti neo-liberisti che hanno fatto sprofondare così tante economie europee. Si spera che la dignità mostrata dal popolo islandese illumini quanti, oggi, rischiano di trovarsi a breve nelle medesime condizioni.

 

 

 

di Mario Braconi

Nel corso dei tre mesi che si sono rivelati necessari a sigillarlo, il pozzo Deepwater Horizon ha disperso nel Golfo del Messico poco meno di 5 milioni di barili di petrolio: l’incidente, come noto, ha provocato undici morti e un disastro ambientale persino più grave di quello prodotto dalla Exxon Valdez. Come è stato riconosciuto da una specifica commissione presidenziale americana, a provocare la catastrofe non è stato un ghiribizzo crudele della natura, ma gli errori commessi da tutti gli attori in gioco.

Le evidenze fornite in proposito da Fred Bartlit, capo legale della commissione, sono impressionanti: la British Petroleum non ritenne di prendere alcuna contromisura, pur essendo al corrente dei problemi relativi al tipo di cemento che la Halliburton continuava ad usare da tre anni per sigillare; i suoi manager si rifiutarono di dotare la struttura di un dispositivo di sicurezza che sarebbe costato due milioni di dollari e che avrebbe potuto evitare lo scempio.

Scelta demenziale, anche a valutarla solo dal punto di vista economico, visto che un piccolo investimento di due milioni avrebbe forse evitato alla società costi futuri attualmente stimati in 41 miliardi di dollari (tanto valgono infatti gli accantonamenti relativi a bilancio).

Il documento cita in particolare nove scelte del management (sulle quali tutte c’e stato un pieno coinvolgimento della BP) basate su un disinvolto baratto tra il tempo ed il denaro risparmiato dalle singole aziende ed un aumento significativo del rischio di incidenti, ambientali e non. Secondo la commissione voluta da Obama, da un lato l’incidente “non si sarebbe verificato se le tre società interessate (BP, Halliburton e Transocean) fossero state guidate da un principio indefettibile di “sicurezza prima di tutto”; dall’altro non vanno minimizzate le responsabilità dei regolatori, che avrebbero dovuto mostrare “di pretendere i massimi livelli di sicurezza possibili”. Ma i veri problemi, per la commissione, sono stati soprattutto l’incapacità e l’atteggiamento superficiale del management.

Per questa ragione è particolarmente deprimente lo spettacolo degli altri dirigenti della BP (inclusi i due trombati dopo il caso Deepwater Horizon) che ricevono bonus faraonici per il loro “ottimo” lavoro: sotto la lente, in particolare, i cospicui pacchetti azionari che potrebbero essere assegnati a Tony Hayward e ad Andy Inglis, rispettivamente ex Amministratore Delegato ed ex capo della divisione Esplorazione e Produzione, le cui teste sono cadute subito dopo il disastro.

Una liquidazione in titoli della società, di importo pari a 9 e 6 milioni circa di equivalente euro, rispettivamente. Inoltre, l’associazione degli Assicuratori Britannici (ABI), ha stigmatizzato in un apposito rapporto il fatto che tanto il direttore finanziario (Byron Grote) che il direttore del servizio Raffinazione (Iain Conn) abbiano ricevuto bonus pari a circa 115 mila euro ciascuno.

La BP risponde alle critiche con imbarazzanti sofismi, ad esempio sottolineando come ad Hayward ed Inglis non siano stati pagati benefici in contanti, ma in azioni, o spiegando che, nel caso di Grote e Conn, i soldi erano dovuti in quanto i due hanno raggiunto gli risultati obiettivo previsti per l’anno. Ma non convince.

Ed è interessante notare che a protestare questa volta non siano i guastafeste scettici sulle virtù salvifiche del capitalismo altamente finanziarizzato, i soliti no global per intenderci, ma interlocutori ben più compassati e soprattutto adusi a solcare con le loro fiammanti Church le moquette pregiate dei corridoi delle banche d’affari. Ad esempio la PIRC, società di consulenza specializzata in questioni di corporate governance, ha definito “eccessivi” i bonus e le retribuzioni dei due, consigliando agli azionisti di non approvare quella parte del bilancio di esercizio di BP in cui si stabiliscono gli emolumenti degli alti dirigenti.

Di tenore diverso ed argomentate in modo più completo, invece, le istanze di un gruppo di azionisti che rappresenta complessivamente 12 miliardi di dollari (8,5 miliardi di euro) di massa investita e circa un milione di azioni della BP. Questa piccola “coalizione dei volenterosi” è capitanata dalla Christian Brothers Investment Services (CBIS), una realtà imprenditoriale che mette assieme Dio e Mammona, visto che investe per conto di istituzioni cattoliche sparse in tutto il mondo.

Quelli della CBIS non solo sono giustamente indignati del trattamento riservato alle persone coinvolte nel disastro del Golfo del Messico, ma intendono fare domande precise, e scomode, all’assemblea fissata il 14 aprile per approvare il bilancio.

Come dice al Wall Street Journal Julie Tanner, vice direttore del dipartimento responsabilità sociale dei Christian Broters “gli azionisti hanno bisogno di informazioni più dettagliate per capire in che modo la funzione sicurezza e gestione rischi della BP è stata rafforzata e quali controlli il Consiglio di Amministrazione abbia messo in atto per sorvegliare il processo”.

Insomma, l’assemblea della settimana ventura potrebbe rivelarsi più movimentata ed interessante del solito; nel frattempo non occorre essere troppo maliziosi per domandarsi se la massa di denaro con la quale sono stati affogati i due ex boss uscenti della BP non possa provocar loro qualche utile amnesia, caso mai dovessero essere interpellati in futuro dai media.

di Carlo Musilli 

Dopo il terremoto, per gli investitori è diventato quasi irrinunciabile scommettere contro il Giappone. Attualmente per assicurare contro il pericolo di default 10 milioni di dollari del debito pubblico nipponico sono necessari ben 125 mila dollari. Da venerdì ad oggi, l'aumento è stato del 24%. E' facile prevedere che sarà necessario mettere in campo diversi miliardi per finanziare la ricostruzione e questo renderà ancor più costoso il piazzamento dei titoli di stato.

L'economia giapponese da diversi anni vive una condizione di estrema fragilità. La recente catastrofe ha portato improvvisi quanto inaspettati guadagni ai molti investitori che, da tempo, scommettevano sul fatto che il Paese sarebbe stato trascinato a picco dai suoi problemi irrisolti. Negli anni molti profeti hanno vaticinato un'inevitabile crisi legata alla stagnazione economica, al calo demografico e soprattutto alla peggiore situazione fra i paesi industrializzati per quanto riguarda il debito pubblico, che supera il 200% del Pil annuo. Certo, a questi profeti il terremoto ha dato una bella mano.

Per anni, scommettere contro il Giappone non è stata una mossa vincente. Nonostante la questione del debito, i prezzi dei titoli di stato hanno continuato a salire, in parte perché la preoccupazione principale nel Sol Levante era la deflazione, non l'inflazione. Inoltre, la maggior parte del debito era nelle tasche di investitori giapponesi, poco propensi a vendere. Adesso però lo scenario cambia, soprattutto in vista dell'onerosa ricostruzione che attende il Paese.

Ma la speculazione in corso non si realizza solo sul piano del debito pubblico. Anzi, i Cds legati ai titoli di alcune aziende private sono diventati perfino più redditizi. Parliamo dei Credit-default swaps, strumenti derivati che possono essere utilizzati come polizza assicurativa o copertura per chi sottoscrive un'obbligazione. Tra i casi più eclatanti c'è quello della Tokyo Electric Power Corporation, proprietaria degli impianti nucleari danneggiati dal terremoto.

Il Commonwealth Opportunity Capital, un hedge fund da 90 milioni di dollari con sede a Los Angeles, ha realizzato, secondo il Wall Street Journal, profitti per diversi milioni di dollari investendone meno di 200 mila nei titoli della società nipponica. Se fino a venerdì scorso il costo annuale per proteggere 10 milioni di dollari del debito della Tokyo Electric Power Corporation era di 40,700 dollari, questa cifra è schizzata alle stelle dopo il terremoto e i problemi alle centrali, arrivando a toccare quota 240 mila dollari.

Diversi speculatori si sono concentrati su quelle società giapponesi che, gravemente indebitate, non hanno nelle esportazioni la loro attività principale. Il piano è semplice. All'aumentare del debito pubblico, lo yen sarà messo sotto pressione e dovrà necessariamente svalutarsi. Questo aiuterà gli esportatori, i cui prodotti diventeranno più competitivi sui mercati internazionali. Per le altre società, invece, ci saranno solo gravi problemi di accesso ai mercati finanziari.

La borsa di Tokyo ha fatto registrare martedì la terza peggior chiusura di sempre, con l'indice Nikkei in ribasso del 10,55% a causa dell'allarme radiazioni. In una situazione del genere il rischio speculativo più grande è quello delle vendite allo scoperto. In sostanza, si tratta di vendere all'attuale prezzo di mercato titoli di cui ancora non si è proprietari, impegnandosi ad acquistarli realmente da banche o intermediari finanziari entro un certo periodo di tempo, quando si prevede che il loro prezzo sarà calato.

Al momento, in Giappone, non si tratta di una previsione difficile. I titoli che rischiano di essere messi maggiormente sotto pressione sono gli energetici, le commodities e le auto. Il governo di Tokyo ha assicurato che contrasterà con forza ogni tentativo di speculazione e non tollererà vendite allo scoperto. La Banca del Giappone ieri ha iniettato nel sistema bancario la cifra record di 15mila miliardi di yen (pari a 131 miliardi di euro) e contemporaneamente ha raddoppiato da 5 a 10 mila miliardi di yen (87 miliardi di euro) il programma di acquisto di obbligazioni. L'obiettivo è di limitare l'impatto del terremoto sull'economia. Ma gli avvoltoi della speculazione non si spaventano per così poco.

di Emanuela Pessina

BERLINO. I capi di Stato e Governo dei 17 Paesi della zona euro si sono finalmente accordati per il patto di rafforzamento della moneta unica, il cosiddetto “patto per l’euro”: lo ha dichiarato sabato il presidente permanente dell'Unione europea Herman Van Rompuy, al termine del vertice straordinario di Bruxelles organizzato in risposta alla perdurante crisi economica. Si tratta della riforma più significativa della moneta unica europea mai operata finora e, nel suo insieme, non fa altro che rivelare la maggior preoccupazione del Vecchio continente: Eurolandia prova a tutelare la sua identità ponendo le basi per una politica fiscale e economica comune che possa evitare, in futuro, débacle come quelle di Grecia e Irlanda, e con loro, dell’euro.

In primo luogo, Bruxelles ha deciso di aumentare le garanzie economiche da mettere a disposizione dei Paesi europei più deboli, che potranno così continuare a dormire sonni tranquilli nei prossimi anni. Il patto per l’euro prevede un ampliamento della portata del fondo salva-Stati, l’European Financial Stability Facility (EFSF): per gli Stati in crisi verrà messa a disposizione una somma di 440 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto ai 250 attuali. Il fondo permanente anti- crisi European Stability Mechanism (ESM), invece, che entrerà in vigore dal 2013, disporrà di un totale di 500 miliardi di euro. Inoltre, secondo la nuova intesa, i fondi EFSF e ESM potranno intervenire sul mercato primario dei titoli, acquistando i bond dei Paesi dell’euro in difficoltà finanziarie e favorendone l’economia.

Durante il recente vertice sono state nuovamente valutate anche le questioni di Grecia e Irlanda, i due Paesi che hanno già attinto dal fondo salva-Stati in precedenza. Alla luce degli sforzi compiuti dal governo Papandreou per ridurre il debito sovrano, Bruxelles ha accordato alla Grecia delle agevolazioni, quali il taglio del tasso d’interesse sui prestiti (dal 5,8% al 4,8%) e la dilatazione dei tempi di rimborso a quasi otto anni.

All’Irlanda, invece, non è stato concesso nulla, poiché il Governo del Premier Enda Kenny non ha soddisfatto le condizioni necessarie agli sconti richiesti. Altro importante cambiamento, il patto per l’euro introdurrà il debito privato di banche, famiglie e imprese non finanziarie tra i parametri di giudizio della situazione finanziaria dei singoli Paesi: un passo importante soprattutto per la nostra Italia, sollecitato da sempre a gran voce dal ministro delle Finanze Giulio Tremonti.

L’apparente generosità di Bruxelles, tuttavia, ha un prezzo. Il patto per l’euro chiede, in effetti, che i Paesi della zona euro si pongano obiettivi futuri comuni per tutti i punti del tema finanziario, quali salari, bilanci, costo del lavoro e regolamento bancario. Anche l’età pensionabile dovrà essere nuovamente adeguata all’effettiva prospettiva di vita e si dovrà orientare allo sviluppo demografico dei vari Stati: per il momento, l’introduzione di una linea comune in ambito pensioni non é stata comunque presa in considerazione. Plausibile, invece, l’intenzione di procedere verso ulteriori tagli della spesa pubblica e di aumenti fiscali dei singoli Stati per far fronte ai deficit di bilancio dei vari Paesi e raggiungere gli “obiettivi comuni”.

Ed è proprio attraverso gli obiettivi comuni che i 17 Stati dell’Eurozona cercheranno di diminuire la differenza di competitività, una delle cause fondamentali delle crisi attuale di alcuni Paesi tra i quali Grecia e Irlanda. Il patto dovrà "consolidare il pilastro economico dell'Unione monetaria, fare un salto di qualità nel coordinamento delle politiche economiche della zona euro, migliorare la competitività e aumentare il livello di convergenza", si legge nella dichiarazione finale. Perché, in realtà, la moneta è unica già da quasi un decennio ma ogni Stato ha mantenuto nel tempo la propria sovranità individuale circa le politiche finanziarie ed economiche, favorendo il sorgere di un’insana competitività che mette tuttora in pericolo la stabilità dell’euro stesso.

Le conclusioni del vertice sono arrivate dopo otto ore di acceso dibattito, poco prima delle tre antimeridiane di sabato. Un risultato piuttosto sudato, a quanto pare, ma per cui secondo Angela Merkel (CDU) ne è valsa la pena poiché garantisce “l’accordo sui nodi fondamenti dell’intero patto”. Da sottolineare che la Cancelliera tedesca contava tra i sostenitori più accaniti dell’urgenza di tale patto e tra i più pretenziosi e influenti: per ora, la Germania rappresenta la voce più potente a Bruxelles in materia finanziaria proprio alla luce della sua quota versata nei fondi anticrisi, la più alta in assoluto.

Certo, l’idea che tutta l’Europa, anche la parte più debole, debba ricorrere a piani di austerity straordinari per far fronte ai deficit di bilancio non convince del tutto gli economisti. Un estremo risparmio, infatti, potrebbe rendere i mercati in questione ancora meno interessanti per gli investitori che devono acquistare i bond emessi dalle banche centrali, frenando così ulteriormente la crescita del Prodotto interno lordo (Pil). Piuttosto che garantire l’identità finanziaria europea, nella peggiore delle ipotesi, il patto per l’euro potrebbe costituire la sua lenta condanna a morte.

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Immaginate per un momento di essere il capo del governo. È il momento fatidico di scrivere la legge di stabilità per l'anno prossimo e tutti vi tirano per la giacchetta: i banchieri vogliono più soldi per coprire i propri rischi, i sindacati più fondi per la cassa integrazione, l'aviazione una nuova portaerei per stanare i terroristi subacquei, i ricchi meno tasse per tutti. Dove abbattere la scure: tagliare i servizi sociali o le spese militari? Che fare con le tasse?

Diventate anche voi premier per un giorno: i ricercatori del Programma per le Consulazioni Pubbliche dell'Università del Maryland hanno creato un sito internet in cui potete procedere passo dopo passo nella creazione della vostra legge finanziaria e decidere le priorità dell'azione di governo.

Un aspetto strabiliante è che l'economia non è così difficile come la dipingono. Come una brava massaia che cerca di far quadrare i conti, il contribuente curioso deve spulciare uno per uno i capitoli di bilancio e decidere come allocare le risorse, tagliando qualcosa e aumentando qualcos'altro.

Una volta creata l'interfaccia, i ricercatori hanno deciso di usarla per fare un sondaggio. Con risultati strabilianti. Nelle ultime settimane, pare che a Washington si siano accorti del galoppante deficit americano, che ormai si conta in trilioni di dollari.

Particolare curioso, se ne sono accorti solo dopo aver tagliato le tasse ai super-ricchi, aggiungendo altri duecento miliardi di dollari di debito e creando una vera e propria crisi di bilancio entro il 2015. Il dibattito su come ridurre il deficit ora impazza su tutti i network televisivi. 

Secondo il Presidente Obama, bisogna tagliare un po' tutti i capitoli di spesa, eccetto quella militare. I Repubblicani sono più coraggiosi: minacciano di bloccare sine die l'approvazione della finanziaria, mandando gli Stati Uniti in esercizio provvisorio, se il Presidente rifiutasse di passare il piano di tagli draconiani da loro proposto. Ma la filosofia generale è bipartisan: non si possono alzare le tasse, né ridurre le spese milititari, dunque si andrà verso un taglio ai servizi sociali.

In questa totale empasse politica, i ricercatori si sono chiesti: secondo i contribuenti, qual è la migliore strategia per contenere il deficit? A quanto pare, il consenso bipartisan dei politici eletti a Washington, tutti pronti a tagliare i servizi sociali, non ha alcun sostegno tra la popolazione. Il che fa riflettere sulle loro vere motivazioni.

L'americano medio è perfettamente in grado di ridurre il deficit e sa dove e come tagliare. Gli intervistati hanno tagliato drasticamente la difesa, l'intelligence e le guerre in Iraq e Afghanistan, con una media del 18% di riduzione nelle spese militari, risparmiando centocinquanta miliardi di dollari. Contro un aumento proposto da Obama del 4%.

Allo stesso tempo, gli intervistati hanno deciso di aumentare sia le tasse ai più ricchi che le tasse sulle case, ricavando una media di trecento miliardi di dollari di entrate fiscali aggiuntive. Invece dei tagli proposti da entrambi i partiti.

Riguardo alle spese sociali, la differenza è altrettanto pronunciata. Il pubblico vuole in media aumentare del 130% la formazione professionale, mentre il Congresso l'ha tagliata del 50%. Il contribuente aumenterebbe inoltre il budget scolastico del 92%, mentre il Congresso lo vuole devastare, tagliandolo di un quarto.

E se dividiamo gli intervistati in base alla loro appartenenza politica? A quanto pare gli “indipendenti” sono quelli più efficienti nel ridurre il deficit, mentre i repubblicani, alla prova del fuoco, tagliano le spese di poco, nonostante tutti i giorni i politici repubblicani siano i paladini della responsabilità fiscale (con i soldi degli altri). Che cosa succederebbe se una simile indagine demoscopica fosse compiuta in Italia?


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