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di Ilvio Pannullo
I leader europei hanno raggiunto ieri un'intesa sulle modifiche "limitate" da apportare al trattato di Lisbona che consentono la creazione di un fondo salva-Stati permanente. Gli Stati membri dell’Unione hanno cioè deciso di impegnarsi ulteriormente a livello economico per contrastare gli attacchi speculativi e le fibrillazioni dei mercati. Mossa ragionevole, resa necessaria dai recenti avvenimenti che hanno interessato la Grecia e l’Irlanda.
Guardando i listini della Borsa, le oscillazioni dei suoi indici, la volatilità dei mercati, una persona ragionevole e mentalmente sana si dovrebbe però porre delle domande. Cosa misura la Borsa e come fa a mettere in ginocchio intere comunità? E, soprattutto, quanto è attendibile in queste valutazioni?
Accade così di accendere l’interesse sui meccanismi che ne regolano il funzionamento. Il risultato? Il caos. Uno starnuto, una pernacchia, ed ecco la tensione salire. I mercati vanno in fibrillazione, l’incertezza si diffonde come un virus altamente contagioso e infine la paura incombe. Il terrore di perdere quote di profitto, di perdere tutto. E s’inizia a vendere senza avere un reale motivo che lo giustifichi.
Si vende perché si è convinti che gli altri attori presenti sulla scena venderanno per monetizzare i loro investimenti. E’ una catena, un contagio esponenziale: quando si avverte è già troppo tardi. La paura: miliardi di euro bruciati, numeri elettronici che perdono cifre, intere economie messe in ginocchio da uno starnuto.
Il giorno dopo chi sa fa e tutto torna alla normalità. Incredibilmente, senza nessuna apparente motivazione logica: dopo un giorno di follia, un giorno di ordinaria follia. Chi ha monetizzato torna a comprare, raccogliendo a due soldi i cocci di quanti sono rovinosamente crollati. Si chiudono ottimi affari, si realizzano plusvalenze, si torna a vincere insomma. Evviva, tornano i corsi rialzisti, la paura è finita, le banche sono sane e appetibili per gli investitori. Finito un sogno non ci si sveglia, ne inizia un altro.
I dati sono veri ma c’è poco da festeggiare, almeno non per tutti. La chiusura di molte posizioni short ha infatti permesso afflusso di liquidità sui mercati e la volatilità cala ai minimi. Il tutto pompa l’entusiasmo a basso prezzo che fa salire gli indici: non è ripresa, è euforica disperazione nel tentativo di fare qualche soldo. E accade ogni singolo giorno.
Le banche ristrutturano per evitare di doversi dare mani e piedi ai governi - e quindi dover rendere conto delle loro operazioni, cosa per loro impensabile - e il costo sono migliaia e migliaia di licenziamenti già annunciati: ovvero, migliaia di famiglie che rischiano l’insolvenza sulle rate del mutuo o dei finanziamenti, il ritiro della carta di credito, l’apertura di una procedura d’infrazione presso le varie centrali rischi, che dopo novanta giorni intercettano il cliente e lo piazzano senza tanti complimenti nell’elenco dei cattivi pagatori: una lista da cui uscire è improbo e molto doloroso. Emozionarsi per la Borsa o vedere in essa un segnale di ripresa é folle: le piazze valori oggi sono soltanto circhi della speculazione a breve, mentre l’economia reale, invece, affonda. Giorno dopo giorno.
Sembra di essere dentro un reality. Ti raccontano, t’incalzano, ti convincono che ciò che vedi sia reale, ma è tutta finzione, con indici e quotazioni delle grandi aziende che rispondono solamente in minima parte alle reali capacità manageriali della dirigenza piuttosto che allo stato patrimoniale delle stesse società. L’umore dei mercati è tutto: se domina l’incertezza è la paura di perdere tutto a determinare il valore delle aziende. Tutto si regge sulla fiducia.
La fiducia degli investitori nella tenuta del sistema, nella ragionevolezza del sistema, nell’inevitabilità del sistema. Una fiducia che si spezza di colpo quando si vedono le immagini dei dipendenti di una delle più grandi banche d’investimento del mondo con i pacchi in mano, per strada, senza un lavoro: come dei comuni mortali. La fiducia prima vacilla, poi si sgretola pezzo per pezzo come in un domino dove le pedine sono menzogne che, una volta cadute, rivelano l’immagine della realtà: non c’è nulla in cui avere ragionevolmente fiducia. Ed ecco che, tempo qualche mese, come d’incanto, le banche d'investimento spariscono dalla scena.
Erano cinque i gioielli della globalizzazione americana. Il loro volume d'affari faceva impallidire i bilanci nazionali d’interi stati, e non dei più piccoli. Adesso possiamo dire, senza tema di smentite, che erano cinque truffe planetarie. Lehman Brothers e Bear Sterns sono fallite tout court; Merrill Lynch è stata assorbita da una banca commerciale (tutt'altro che immacolata), la Bank of America; Goldman Sachs e Morgan Stanley sono state trasformate in banche ordinarie sotto la garanzia dei soldi stampati dalla Federal Reserve.
In tutto questo il Mercato, quello con la M maiuscola, non c'entra niente. Se lo avessero usato non saremmo in questo pasticcio, se avesse avuto il tempo di agire con le sue regole inflessibili i ciclopici conglomerati finanziari di cui sopra sarebbero falliti e, oggi, non sentiremmo più parlare di loro. Poi ci si sveglia: era solo un bellissimo sogno. Un’altra illusione, l’ennesima, la più gaia e felice: la nostra illusione.
Se però da una parte è vero che le Borse - tutte legate tra loro da complesse relazioni debitorie - vendono solo aria ed illusioni, dall’altra è anche vero che non mancano i soggetti che di realismo se ne intendono. Culture che hanno fatto della capacità di capire come agire efficacemente nel mondo una scienza. Volendo infatti volare un po’ più alto, ci sono ragioni geopolitiche e geostrategiche che fanno pensare a un cambiamento epocale e quindi alla ridiscussione del ruolo degli Usa oltre che alla loro reale possibilità di combattere la crisi attraverso piani inattuabili, dispendiosi e autolesionisti come quello di Tim Geithner, attuale sottosegretario all’economia dell’amministrazione Obama.
La Cina, infatti, sta scaricando il dollaro. Compra rame e altre commodities (materie prime) metalliche in quantità spaventose: lo sta facendo e lo continuerà a fare. Lo State Reserve Bureau sta muovendosi in tal senso per riuscire a districarsi prima possibile dalla propria dipendenza dal biglietto verde: parliamo di 2 trilioni di dollari di riserve che finiranno nell’acquisto di metalli invece che nell’immenso mercato del debito Usa, per anni mantenuto in vita proprio dagli acquisti cinesi dettati dagli enormi disavanzi. Dalla carta straccia alle materie prime.
Una politica dal duplice effetto: dieci volte più di impatto sia sui prezzi delle commodities che sul fronte monetario Usa e in grado di garantire materiale per almeno 50 anni di infrastrutture in Cina. Ma c’è anche un’altra ragione: il futuro dell’auto sta nel settore ibrido che necessita di rame. E la Cina vuole costruire la nuova utilitaria ecologica, la versione new age dell’auto ideale per il consumatore medio cinese. Un po’ quello che rappresentò la prima Fiat 500 durante il boom economico in Italia, negli anni ’60, ma con un accento sulla sostenibilità ambientale e sui consumi del veicolo. Insomma, strategie commerciali di strangolamento e monopolio.
Ma Pechino sta comprando anche alluminio, zinco, nickel e materiali rari come il titanio, l’indio (utilizzato nelle pellicole ad alta tecnologia), il rodio (fondamentale per i convertitori catalitici) e il praseodimio, necessario per la lavorazione del vetro. La nuova “rivoluzione industriale” parte dalla Cina e quando un colosso prende una decisione, difficilmente gli altri possono ignorarla. Tanto più che i numeri sono spaventosi: 329mila tonnellate di rame nel febbraio 2009, 375mila nel mese successivo, in un crescendo costante. Numeri che hanno fatto salire il prezzo del 49 per cento quando gli analisti pronosticavano un crollo del 20 per cento.
Qualcuno comincia a pensare che Pechino stia pensando a una sorta di “Bancor”, una moneta globale ancorata a un paniere di commodities che sostituisca - come si pensava negli anni Quaranta per superare il Golden Standard - lo strapotere del dollaro e prevenisca gli eccessi basati sul credito che ci hanno portato alla situazione attuale. La Cina teme, non senza qualche ragione, che gli Usa stiano studiando una sorta di default “coperto” del proprio debito stampando moneta e, ovviamente, si preoccupa dell’enorme esposizione in dollari dei propri assets basati sul debito statunitense.
Quindi, entrare a gamba tesa nel mercato dei metalli invece che in quello Usa, permette a Pechino di mantenere basso lo yuan senza incorrere nelle ire di Washington riguardo a possibili manipolazioni valutarie e garantisce riserve di materiali facilmente stoccabili a differenza del petrolio. Inoltre permette nel medio-lungo termine un investimento fruttuoso, visto che le riserve di quei materiali non sono infinite e quindi il loro valore è destinato a salire. E’ un esempio tra i tanti che contraddistingue la saggezza della classe dirigente cinese. Forse, per capire come sta evolvendo questa crisi e quale mondo ci lascerà in dote, è meglio smetterla per un po’ di guardare la Borsa e cominciare a tenere sott’occhio le commodities.
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di Ilvio Pannullo
Quasi non ha fatto in tempo a entrare in vigore, il primo dicembre scorso, il regolamento Ue sulle agenzie di rating, che già pochi giorni fa, il 15 dicembre, il Parlamento europeo ne ha approvato a larghissima maggioranza (611 voti a favore, 15 contrari e 26 astensioni) una serie di modifiche in senso restrittivo, che entreranno in vigore nel luglio prossimo. C’è voglia di regole in Europa, regole che dovranno essere interpretate e applicate severamente.
Proprio questa volontà politica sembra assicurare che nel continente l'assalto regolamentare a un settore dominato dall'oligopolio delle Big Three americane - Standard & Poor's, Fitch e Moody's, che sono in grado di far muovere i mercati più o meno a loro piacimento - promette di non fermarsi qui. In cantiere c'è già l'idea di presentare nuove proposte in primavera sempre con l'obiettivo di sottoporre queste agenzie a una sorveglianza sempre più attenta e a una trasparenza cristallina. Come? Non solo fissando precisi paletti quando si cimentano nella valutazione di debiti sovrani e credit default swaps (Cds), ma anche aprendone l'attività alla libera concorrenza.
Ma cosa sono queste agenzie e qual é il loro lavoro? Perché sono tanto importanti? Prima di tutto va detto che il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari che le imprese in base alla loro coefficiente di rischio. Nella sostanza esprimono un voto o, più precisamente, una scheda di valutazione, come la pagella che il corpo docenti compila in tutte le sue parti - quelle esclusivamente riferite al rendimento scolastico e quelle inerenti al comportamento tenuto in classe dall’alunno - per assicurare ai genitori una precisa valutazione generale del comportamento tenuto dai figli a scuola.
Non è forse fondamentale per i genitori conoscere l’andamento e il comportamento scolastico dei figli? Non è forse fondamentale che il corpo docenti chiamato a quest’alto compito sia il migliore possibile? Non è forse fondamentale che, nella valutazione, il corpo docenti sia e appaia assolutamente imparziale ed equanime? E infine: non è forse fondamentale assicurarsi che i criteri in base ai quali emergono i voti e le valutazioni sui singoli soggetti siano chiari, puntuali e condivisi? Sì, tutto questo è fondamentale. Di più: rappresenta la fondazione di quell’edificio all’interno del quale riposano i nostri valori comuni.
Uscendo dalla metafora va puntualizzato come le borse valori rappresentino oggi i luoghi deputati al libero scambio di valori mobiliari, la quintessenza del libero mercato, della concorrenza, del liberismo. I mercati mondiali rappresentano la plastica rappresentazione degli umori del mondo, dei rapporti di forza, il peso e la credibilità di tutti gli enti economici pubblici e privati. Conoscerne le regole significa conoscere il modus operandi che determina la direzione del mondo, motivo per cui gli addetti al settore sono soliti affermare che ciò che accade sui mercati anticipa ciò che accadrà nel mondo reale di 6/9 mesi. E raramente sbagliano.
In un regime di libero mercato - si sa - la perfetta informazione del consumatore è uno dei postulati, ossia una delle regole iniziali, cui tutti i soggetti del mercato debbono obbedire. Almeno in teoria. Nessuno, infatti, è perfettamente informato, nessuno dispone del tempo e delle capacità per ottenere, gestire e valutare simultaneamente tutte le informazioni riguardanti tutti i valori mobiliari liberamente scambiabili sui mercati di tutto il mondo. È per questo che esistono le agenzie di rating, soggetti specializzati nel raccogliere tutte le informazioni necessarie per valutare ogni titolo e offrire all’investitore una scorciatoia, un modo più diretto ed intuitivo per prendere la giusta decisione.
Il rating viene espresso attraverso un voto in lettere, in base al quale il mercato stabilisce un premio (ossia rendimenti più alti) per il rischio da richiedere all'azienda per accettare quel determinato investimento. Scendendo nel rating aumenta il premio per il rischio richiesto; quindi l'emittente deve pagare uno spread maggiore rispetto al tasso risk-free, deve assicurare cioè un profitto aggiuntivo rispetto a quanto garantito da quei titoli giudicati “sicuri”.
Si capisce dunque l’importanza e la centralità di queste agenzie di rating. Ma chi sono effettivamente questi maestri, questi professori dei mercati? Come riescono concretamente ad esprimere un voto, a giudicare tutti i titoli e le imprese sui mercati che quotidianamente si affollano per elemosinare quella liquidità, necessaria oggi più dell’aria?
I rating - abbiamo detto - sono periodicamente pubblicati da agenzie specializzate, principalmente Standard & Poor's, Moody’s e Fitch Ratings. Tutte società per azioni a loro volta quotate in borsa. Soggetti privati cui è demandato un ruolo che, teoricamente, dovrebbe spettare ad una pubblica autorità. Ma non esistendo un’autorità comune a tutti i mercati azionari, ecco che accade l’impensabile: ad assicurare una corretta informazione tra tutti gli attori del grande gioco della finanza, precondizione necessaria per il funzionamento di qualsiasi mercato, sono alcuni soggetti direttamente coinvolti nel gioco stesso. L’arbitro, insomma, è un giocatore. Potrebbe sembrare un paradosso, ma accade ogni giorno.
Qualcuno ha mai sentito, letto o appreso, a qualsiasi titolo, che una di queste benemerite istituzioni di rating aveva lanciato l’allarme su quanto stava per accadere in America prima della crisi dei mutui subprime? Qualcuno forse si ricorda anche una sola di queste torri d’avorio far presente che il signor Bernard Madoff stava truffando tutto e tutti e che la sua era una graziosa catena di Sant'Antonio da 60 miliardi di dollari? La risposta è ovviamente il silenzio. Salvo poi scoprire ora che il plurimiliardario Warren Buffet, di fronte al quale tutta la stampa economica si profonde in inchini a tutt'oggi, è proprietario del 20% delle azioni di Moody's. Adesso fa il broncio perché, dice, neanche lui fu avvertito.
Naturalmente gli inchini continuano, forse perché gli sono rimasti abbastanza miliardi di dollari da poter mettere in riga anche l'Amministrazione di Washington; ma sarebbe interessante chiedergli come mai - da genio della finanza qual è - ha taciuto mentre tutte le grandi banche d'investimento americane si scioglievano come neve al sole. Forse era lui che doveva avvertire la “sua” Moody's, visto che stava partecipando più o meno segretamente, ad alcuni tentativi di salvataggio proprio delle banche che le agenzie di rating continuavano a dare per solide. Questo per comprendere come concretamente, nei mercati mondiali, lì in cima alla piramide sociale, regni una promiscuità che non assicura certo una visione “neutra” o”terza” nella lettura dell’opportunità e affidabilità degli investimenti.
E adesso che fare, in attesa della “ripresina” che, come Godot, tutti attendono ma che non verrà? Per rispondere sarebbe utile dare un'occhiata alla “quarta crisi”, quella di cui nessuno parla, ma che è componente essenziale, concausa, compartecipe, complice del silenzio assordante che ha coperto l'arrivo della crisi finanziaria, di quella energetica, di quella climatica, per restare alle maggiori. È la crisi dell'informazione, del collasso morale e intellettuale del giornalismo economico. Quelli che dovevano raccontarci, spiegarci ciò che stava maturando e non l'hanno fatto. Perché il silenzio assoluto?
La risposta è semplice: perché erano parte della truffa e, dunque, non potevano raccontarla. Esattamente come accade per le società di rating: la natura del problema è la medesima - l’informazione – e a cambiare è solo il pubblico. Per le società di rating sono gli investitori professionali, una ricchissima minoranza della popolazione mondiale; per i giornalisti economici é il grande pubblico. Non ci fossero stati i media, le televisioni in particolare, a costruire il grande spettacolo di questa società illusoria in cui credevamo di vivere, non fosse stata in funzione 24 ore su 24 la colossale fabbrica dei sogni e delle menzogne che é divenuto il mainstream globale, tutto ciò di cui stiamo parlando non sarebbe stato possibile.
Segni di resipiscenza? Non molti. Si prenda ad esempio la rivista Time. Quella che, nel febbraio 1999 dedicò la sua copertina al “Comitato che ha salvato il mondo”. Chi faceva parte del comitato? Alan Greenspan, Larry Summers e Bob Rubin. Gli ultimi due dei tre, peraltro, sono come le agenzie di rating, sempre sulla breccia. Adesso il direttore di Time, Richard Stengel, promette di guidare i suoi lettori nella navigazione in un mondo che cambia. «Quale sarà la nostra missione? Spiegarti cosa sta cambiando e perché, e cosa tu puoi fare in proposito». Capito l'antifona? Adesso t’invitano a partecipare alla raccolta dei detriti. Ma come si può farlo? «Con grandi reportages - dice Stengel - grandi capacità di scrittura, grande fotografia, grande video on line».
Tutto qui? E se era così semplice, fino a ieri che cosa hanno fatto? Non solo la rivista Time, ma tutti insieme, appassionatamente, i media? Un altro esempio paradigmatico è quell'oracolo del “Mercato” (sempre con la M maiuscola) dell'Economist, che in tutti questi anni bastonava severamente le dita a chiunque osasse parlare dell'intervento dello Stato nell'economia, il thatcheriano d'acciaio inossidabile che spiegava le meraviglie della globalizzazione finanziaria. Ma, per restare in casa nostra, si pensi al Sole 24 ore, alle pagine economiche del Corriere della Sera e di La Repubblica. Come mai non hanno avvertito? Forse perché attraverso il sistema della partecipazioni al capitale sociale delle società editrici i soggetti che dovrebbero essere controllati diventano soci dei soggetti che dovrebbero controllare?
Forse perché attraverso le inserzioni pubblicitarie i grandi gruppi finanziari e produttivi del paese riescono ad ottenere un’informazione specializzata nel portare acqua al mulino del padrone? Forse per la mancanza di spirito critico e di’indipendenza degli stessi giornalisti, sempre alla ricerca di una padrone da servire? Poi si riprendono in mano i giornali e leggendo i titoli si ha come l’impressione che per i grandi della Terra il futuro è la fotocopia del passato. «Come si affitta un intero paese»; «Africa, il nuovo business»; «Come far diventare verde il consumo». E così continuando. Una specie di vademecum al suicidio.
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di Giuliano Luongo
Ci avviciniamo alla fine dell’anno, periodo nel quale si presentano una serie di minacce più o meno inquietanti. Non essendoci lo spazio per perdere tempo commentando le tragedie legate ai regali alla suocera e ai cinepanettoni, è opportuno - tanto per influire negativamente sulla cronicità della nostra gastrite - dedicarsi alla compilazione di alcune riflessioni su due grandi punti interrogativi legati alle tasche degli italiani ed a quelle delle nostre tragicomiche istituzioni governative.
Per essere più precisi, il riferimento va alle conseguenze della tagliuzzante legge di stabilità - non è più di moda chiamarla legge finanziaria, sarà che si vuole fingere meglio di seguire i dettami del Patto di Stabilità UE - e, in parallelo, all’intrigante situazione del rapporto tra quantità di denaro nelle casse statali/obblighi di ripaga mento obbligazioni statali. Riflessione obbligatoria: il Ministro dagli occhiali alla Harry Potter e dalla voce di uno che ha indossato per troppo tempo jeans orribilmente stretti, ha fatto bene i calcoli oppure sta azzardando un po’ troppo con manovre che richiamano la cara vecchia “finanza creativa”?
Partiamo da un assunto: a cosa serve l’emissione di obbligazioni di stato (Bot, Cct eccetera)? Formalmente a rimpinguare in momenti più o meno critici le casse dello Stato, per fare fronte a spese pubbliche “correnti” o per soddisfare particolari condizioni di sopravvivenza dettate dalla organizzazione regionale o internazionale di turno. La tipica obbligazione consiste semplicemente nel prendere denaro a prestito, per poi restituirlo con l’aggiunta di una percentuale. Ecco, la chiave del problema: restituzione.
Un’operazione di rifinanziamento del debito di un paese che si basi sul piazzamento sul mercato di titoli di Stato deve tenere in conto ciò che accadrà l’anno successivo (oppure ovviamente alla fine del periodo considerato), onde evitare di scalfire ulteriormente la situazione economica del paese che si crede di risanare. Entriamo ora nel merito del caso del nostro paese: attualmente il totale delle restituzioni dello scorso “giro” di obbligazioni ammonta, centesimo più, centesimo meno, a 160 (centosessanta) miliardi di euro.
Un simile buco nero, naturalmente, ha bisogno di essere messo in regola quanto prima e, visto lo stato di salute dei conti pubblici nostrani, non sembrerebbe cosa da poco; ma per quanto possa sembrare assurdo, l’exit strategy da questo potenziale naufragio era già ben chiara nelle menti statali dall’inizio dell’anno: l’uovo di Colombo, ossia ripagare i propri debiti sottoscrivendone di altri. Facile, no?
I primi otto mesi dell’anno, in effetti, hanno mostrato un trend alquanto soddisfacente nel collocamento dei titoli di Stato, dove circa il 65% ne è stato piazzato fino alla metà di agosto: nonostante le “turbolenze” politiche più recenti (compreso il delirio del 14, con tanto di compravendite di parlamentari) le aste hanno continuato a tenersi, imperterrite. I risultati, in particolare nelle ultime tornate di vendita, sono stati addirittura più “rosei” di quanto si potesse pensare, con l’offerta che è stata “doppiata” dalla domanda a fronte di un rendimento che ha superato il 2% annuo.
Complice la fragilità di altri paesi europei e i vantaggi in termini di rendimento rispetto ai Bund tedeschi, i nostri titoli sono riusciti a mantenersi competitivi ed hanno trovato sbocco in maniera relativamente facile. Complice anche la serie di tagli della finanziaria (scrivere ogni volta legge di stabilità è una tortura), le agenzie di rating sembra che abbiano inteso una sorta di trend alla ricerca della stabilità del nostro governo, e pertanto si sono astenuti da tagli più o meno selvaggi nel giudicare la qualità dei nostri titoli.
Ecco appunto, la finanziaria: per tenere calmi gli espertoni del rating, e più in generale per contenere la spesa, si sceglie sempre di colpire - alternativamente o simultaneamente - istruzione e ammortizzatori sociali (Irlanda docet). Nel nostro caso, la stangata è arrivata sulle teste degli universitari, e non parliamo degli studenti: i tagli all’università pubblica continueranno fino al 2013, partendo con un -8% abbondante nel 2011 (percentuale rispetto al 2010) per poi infierire con altri due tagli del 2,65% e dello 0,80% a cadenza annuale. Potremmo infierire parlando poi della riforma del sistema universitario, ma non vogliamo esagerare.
E non va bene nemmeno agli enti locali, che perdono 6,3 miliardi di euro. Si noti che nella top5 dei tagli più ingenti c’è anche l’Abruzzo, che come tutte le aree terremotate se la passa alla stragrande. Ricordiamo anche i tagli del 66% alle risorse per le politiche sociali, accanto a quelli del 75% per le risorse destinate al 5x1000: in compenso, però, rimangono un bel po’ di soldi da parte per le missioni militari all’estero, per le 26 auto di scorta di Silvio e per il drenaggio infinito di pecunia da parte di ogni fortunello la cui campagna elettorale abbia avuto successo. Un capolavoro.
Visto che, in effetti, era fondamentalmente risaputo il tipo di disastro al quale si andava incontro, traiamo una conclusione meno diretta (rispetto alle semplici contumelie): per gli operatori, gli analisti, gli spettatori da Bruxelles, l’atto del tagliare le gambe alle fasce deboli di un paese e ai giovani (tramite l’omicidio premeditato di università pubblica e ricerca) viene inteso come un segnale di consolidamento dell’economia e di ricerca di stabilità. Bene. Si può dire che gran parte del malcontento generato da queste decisioni (assieme al circo parlamentare del 14) abbia contribuito a scatenare lievi rivolte urbane: ergo, dove diamine è la stabilità? Stabilità economica e sociale vanno di pari passo ed un paese in cui anche una minima fetta di popolazione ricorre alla forza bruta per protestare non solo non cresce, ma non va da nessuna parte.
Potremmo comunque dire che, a fronte di queste decisioni quantomeno opinabili, al Ministero abbiano almeno saputo gestire il caso dei miliardi in obbligazioni da restituire. Ecco, la parolaccia di prima: restituzione. I cari bond di cui sopra andranno ripagati l’anno venturo. Sapendo che la domanda è molto alta e che il loro valore è in aumento, fra 365 maledetti giorni il buco sarà più grande. A fronte di una lotta all’evasione fallimentare (+6,7% solo nel Q1 2010, leaders Lombardia e Veneto), di una spesa pubblica che non va tagliata dove si deve e che rimane alta nonostante la distruzione di alcuni settori chiave, e di un circuito del reddito che perde colpi grazie a cervelli in fuga ed imprenditori in fuga ancora più veloce, sembra che l’anno venturo si debba solo sperare di collocare altri bond, fino ad esaurimento scorte.
O esaurimento fessi. Ricorda tanto la filosofia di Charles Ponzi, nella quale si manda avanti una finanziaria senza investire nulla, ma pagando i creditori con i soldi dei nuovi obbligati. Ci ha provato anche Bernie “Evil” Madoff. E l’ha sperimentato sul campo l’Argentina. Non è finita bene.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Che la Cancelliera tedesca Angela Merkel (CDU) non sia più una convinta europeista, ormai è fuor di dubbio. Eppure, all’alba del vertice Ue che si terrà a Bruxelles in questi giorni, sembra lanciare messaggi alquanto rassicuranti: il meccanismo di salvataggio europeo che dovrà sostituire l'attuale fondo salva-stati alla scadenza del 2013 sarà approvato, ha sottolineato la Merkel; e, nonostante i timori di contagio della crisi del debito in Europa, nessun Paese europeo sarà lasciato solo. Un atteggiamento, quello della Merkel, che esprime tutta la difficoltà di un Paese, la Germania, combattuto tra il bisogno di Europa e le esigenze esclusive di un’economia sempre più sicura di sé.
Il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker stesso, l’attuale Presidente dell’Eurogruppo, ha accusato recentemente la Cancelliera tedesca di “comportamento antieuropeo” e “pensiero sempliciotto”. Berlino aveva sostenuto la necessità di un maggiore rigore nella questione economica: sì agli aiuti per Stati europei al verde, ma con condizioni ben precise e più severe e, soprattutto, senza Eurobond. La sua rigidezza ha provocato l’indignazione della maggior parte d’Europa: le critiche interne, tuttavia, andavano a toccare punti diversi.
L’autorevole settimanale di sinistra Der Spiegel, ad esempio, ha focalizzato l’attenzione sui limiti interni della corsa solitaria della Merkel. Che la Germania non voglia pagare per tutti in Europa è comprensibile, ma ciò non le dà il diritto di comportarsi come il “castigamatti” di turno. Secondo Der Spiegel, tra l’altro, il progetto della Merkel è già fallito, perché ciò che verrà discusso a Bruxelles, qualsiasi sia il risultato finale, sarà ben lontano dalle proposte originarie di Berlino.
In particolare, Der Spiegel ha attribuito l’insuccesso dellla Cancelliera a due fattori: da una parte c’è l’evidente disaccordo tra la Merkel e il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble (CDU), che mandano segnali diversi a Bruxelles; dall’altra la troppa fiducia del Governo tedesco nell’appoggio della Francia. Perché la Francia, secondo Der Spiegel, fa il proprio interesse, senza troppa considerazione per il partner tedesco, mentre la Germania vi cerca un sostegno fondamentale contro gli degli altri Stati europei.
In effetti, Angela Merkel ha trovato il sostegno del Presidente francese Nicolas Sarkozy e i due capi di Stato si presenteranno al Consiglio europeo con un’intesa abbastanza solida. In un vertice franco-tedesco, conclusosi la settimana scorsa a Friburgo, nel sud della Germania, i due capi di Stato di sono accordati per la creazione di un meccanismo europeo di stabilità (European Stability Mechanism) senza Eurobond e alla luce di una maggiore coerenza nella politica economica dei Paesi. Berlino e Parigi sono intransigenti: gli Eurobond contribuirebbero solo a deresponsabilizzare i paesi di Eurolandia, mentre l’obiettivo finale deve essere esattamente il contrario.
Ancora critiche, seppur di diversa natura, arrivano ad Angela Merkel dall’autorevole quotidiano conservator-liberale Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ). Il FAZ si chiede sarcasticamente se la Cancelliera riuscirà, almeno per questo Congresso, a mantenersi salda nei suoi principi. Secondo il giornale, infatti, la Cancelliera ha sostenuto finora un maggior rigore per il patto di stabilità soltanto a Berlino e non ha portato avanti le sue idee in sede europea.
L’esempio più recente? A ottobre, quando la Merkel predicava in patria la necessità di far partecipare i privati ai debiti degli Stati insolventi. Dal vertice europeo, la Cancelliera è tornata con un’estensione del pacchetto di aiuti a tempo indeterminato, un pacchetto prima limitato a tre anni. Per il FAZ, quindi, una Cancelliera poco ferma.
Sottolineando la sfiducia generale del popolo tedesco nell’euro, il FAZ non si è lasciato sfuggire l’occasione per silurare anche gli Eurobond. Una eventuale emissione di Eurobond costerebbe ai cittadini tedeschi 17 miliardi di euro in più ogni anno. La stima del quotidiano conservatore tedesco si basa sulle previsioni di aumento dei tassi d’interesse per il finanziamento del debito, che attualmente raggiungono il 3.31% per la zona euro e l’'1.73% per i titoli tedeschi. Secondo i documenti del FAZ, anche la Cancelliera tedesca Angela Merkel condividerebbe queste informazioni.
Ma il Governo tedesco ha già provveduto a prendere le distanze da tali esasperazioni: al portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, il compito di smentire le indiscrezioni di stampa del FAZ. "La Cancelliera Angela Merkel non va a Bruxelles con i dati nella valigia", ha affermato Seibert. La Germania è contraria alla proposta di utilizzare gli Eurobond emessi da un'eventuale agenzia del debito europea per far fronte alla crisi dell'economia, rilanciata la scorsa settimana dal presidente dell'Eurogruppo, Jean Claude Juncker, e dal ministro dell'Economia e delle Finanze italiano, Giulio Tremonti, perché eliminerebbe le variazioni dei tassi di interesse, ma ciò non significa che il Governo abbia già tirato le sue conclusioni.
Tra l’altro, le ultime previsioni della Deutsche Bundesbank, la Banca federale tedesca, hanno mostrato una Germania economicamente più forte di quanto ci si aspettasse prima della crisi. Nel suo bollettino di dicembre, la Bundesbank ha pronosticato per l’anno in corso una crescita del Prodotto interno lordo (Pil) pari al 3.6%, un risultato trainato in particolare dalle esportazioni e dall’aumento dei consumi. Le previsioni per il 2011 salgono di un ulteriore 2%. Almeno la crescita tedesca, quindi, non rappresenta un dilemma.
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di Ilvio Pannullo
È difficile pensare di architettare la più grande truffa del secolo e sperare di farla franca. A maggior ragione pensare che, una volta scoperta la truffa, si riuscirà a non pagarne per intero il conto. Difficile ma non impossibile per Bernard Madoff e per quanti fanno della frode uno stile di vita. Chissà in quanti si ricorderanno della maxi-truffa da 50/70 miliardi di dollari (l’entità precisa dei mancamenti è quasi impossibile da calcolare vista la recente volatilità dei mercati), messa a segno dal finanziere Berny Madoff, fino allora considerato il guru della finanza newyorkese, che gli costò una condanna a 150 anni di carcere.
Dopo la condanna e il recente suicidio del figlio, Mark Madoff, che sabato scorso si è tolto la vita impiccandosi nella propria casa a Manhattan, la truffa del secolo non ha, infatti, rinunciato all’ennesimo colpo di coda.
Considerata la più grande truffa finanziaria della storia, rischia ora di costare caro anche al gruppo bancario italiano Unicredit. Il 10 dicembre Irving Picard, il liquidatore della società di Madoff, ha presentato istanza presso il tribunale fallimentare di New York per recuperare 19,6 miliardi di dollari (14,8 miliardi di euro) dal «Sistema Medici», una complessa associazione guidata dalla banchiera austriaca Sonja Kohn, nota per aver fondato la viennese Banca Medici, e che include almeno sei membri della sua famiglia. Cosa c’entra l’Unicredit in tutto questo? Il colosso bancario di piazza Cordusio, attraverso Bank Austria, possiede il 25% di Banca Medici oltre ad una serie di trust sparsi a New York, in Austria e in Italia.
Nei documenti presentati al tribunale, Picard accusa la Kohn di aver svolto un ruolo centrale nella più grande truffa della storia di Wall Street. «In Sonja Kohn - scrive il liquidatore Picard - Madoff ha trovato un’anima gemella criminale, la cui avidità e disonesta fantasia erano pari alle sue». La “Medici Enterprise”, secondo i documenti, rappresentava uno dei ”mattoni portanti” dello schema Ponzi (il meccanismo di pagare interessi ai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori, inventato da un italo-americano nel secolo scorso) messo in piedi da Madoff, senza il quale l’intero castello della truffa non sarebbe stato in piedi.
Un’associazione di fatto, gestita dalla Kohn che con l’aiuto di Bank Austria aveva messo in piedi Bank Medici «come un meccanismo per cercare investitori per lo schema Ponzi». Secondo la ricostruzione, oltre nove miliardi del capitale sparito nella truffa di Madoff sono direttamente attribuibili alla «Medici Enterprise». Per il principale istituto finanziario italiano tira dunque una brutta aria.
Il ruolo di Bank Austria, e dunque di Unicredit, secondo i legali dello studio Baker Hosteler di New York, è infatti stato centrale nel tessere la tela della truffa del secolo. Bank Medici, formalmente un’entità autonoma partecipata al 25%, «è di fatto una branch di Bank Austria, che opera sotto il nome di Medici mentre conti e portafoglio sono detenuti e gestiti da Bank Austria». Inoltre, «il personale di Bank Medici è fornito da Bank Austria». Banca Medici sarebbe dunque uno specchio, una mera propaggine priva di qualsiasi autonomia patrimoniale e gestionale, il che ovviamente complica ulteriormente la possibilità di immaginare una solida difesa per l’Unicredit.
Bank Austria avrebbe dunque fornito un «imprimatur di legittimità» all’operato della Kohn per cercare e «pompare» denaro dentro i fondi legati al sistema di Madoff. Un’attività che avrebbe procurato alla Kohn e alle banche coinvolte «centinaia di milioni di dollari» in commissioni, retrocessioni di denaro, profitti fittizi e altro. «I nostri legali - fanno sapere da Unicredit - stanno riesaminando la questione che verrà gestita attraverso le ordinarie procedure legali. È nostra intenzione portare avanti la nostra difesa in modo determinato». A testimoniare la natura fraudolenta del rapporto, da ultimo, la Kohn avrebbe anche cercato di occultare prove e utili del suo «lavoro» per Madoff nei giorni successivi al crac. Tentativo che per fortuna degli investitori è fallito.
Ora lungi dal voler speculare sulle disgrazie di un uomo distrutto dalla propria avidità, quello che interessa qui sottolineare è la natura intrinsecamente fraudolenta di un sistema, quello monetario e finanziario globale, che favorisce il ripetersi di questi comportamenti antigiuridici, antieconomici e soprattutto antisociali. Berny Madoff e la sua criminale anima gemella Kohn altro non sono, infatti, se non pedine di un sistema di cui hanno compreso profondamente le leggi fondamentali. E non sono i soli ad aver acquisito questa consapevolezza.
Il texano Rod Cameron Stringer millantava che la sua strategia d'investimento garantisse un guadagno del 61% l'anno. Gli investitori, ben felici, gli diedero 45 milioni di dollari. Joseph Forte dalla Pennsylvania ha invece raccolto 50 milioni, assicurando ogni anno performance tra il 18% e il 37%. La Biltmore Financial giurava che i suoi fondi non avrebbero mai perso: «Mai sotto lo 0%» era lo slogan. Peccato che fossero tutte frottole. Truffe. Quelle che gli americani chiamano schema Ponzi. Il texano Stringer ha investito solo il 20% dei soldi che gli investitori avevano puntato su di lui: il resto l'ha usato - scrivono gli sceriffi del mercato Usa - per mantenere il suo stile di vita «mondano».
La Sec, la polizia federale per la finanza, tra il 2008 e il 2009 ha scoperto quasi 30 frodi di questo tipo per un danno superiore ai 60 miliardi di dollari. Madoff ha realizzato quella più eclatante. Robert Allen Stanford la più recente. Ma esistono decine di casi simili. Dopo anni di mercati euforici in cui c'erano guadagni per tutti - truffatori e truffati inclusi - la crisi delle Borse sembra avere per corollario un'impennata delle frodi. E con la fiducia dei risparmiatori al minimo storico, la lotta ai crimini dei colletti bianchi è destinata a diventare per il Presidente Obama una sfida prioritaria quanto la crisi del credito.
Già, la fiducia degli investitori: il grande totem cui sacrificare misure tampone, leggi inutili e discorsi ammalianti. Il tutto per nascondere la polvere sotto il tappeto e tornare ad avere l’illusione della pulizia. Fino a un anno fa, infatti, sembrava che le truffe fossero sempre più limitate. Secondo i dati del Dipartimento di Giustizia Usa, le frodi finanziarie sono diminuite del 48% dal 2000 al 2007, le truffe assicurative sono calate del 75% e quelle legate a titoli del 17%.
I dati della Syracuse University, riportati recentemente dal New York Times, sono simili: tra il 2000 e il 2007 i crimini dei "colletti bianchi" si sono dimezzati. Si pensi poi che la Sec tra il 2000 e il 2004 ha scoperto solo 51 frodi relative a hedge fund, con danni stimati ad appena 1,1 miliardi. La riduzione, però, era un'illusione data dal boom della Borsa. Il 2008 e il 2009 hanno infatti invertito la rotta.
Ben inteso: le truffe capitano ovunque. In Francia c'è stato il caso Kerviel e persino in Svezia i giornali locali parlano di "boom" di frodi finanziarie. Ma è difficile quantificarle. Solo negli Usa ci sono tanti dati aggregati: per questo "effetto ottico" sembra che oltreoceano ci sia un numero maggiore di truffe rispetto all'Europa. Eppure, pur in mancanza di dati comparabili, probabilmente è così: secondo gli esperti, gli Stati Uniti sono effettivamente un terreno più fertile per certi tipi di frodi. Il motivo è banale: oltreoceano vige una minore vigilanza sugli hedge fund rispetto all'Europa.
Se nel Vecchio continente le società di gestione sono tutte sottoposte alla vigilanza delle Autorità di ogni Paese (anche se poi materialmente gli hedge fund vengono domiciliati nei vari paradisi fiscali), negli Stati Uniti non è così. Oltreoceano - spiega un esperto - gli hedge fund sono obbligati a comunicare alla Sec le loro posizioni in acquisto di titoli, ma non esiste un controllo strutturato su questi fondi.
Qualche anno fa la Sec emanò un regolamento che le permetteva di ispezionare ovunque nel mondo qualunque hedge fund che coinvolgesse investitori americani, ma uno di questi fondi fece causa in Tribunale. E vinse. Così il regolamento, e la vigilanza,si spensero insieme. Ecco dunque che motti come “la legge è uguale per tutti” ovvero “la giustizia è amministrata nel nome del popolo” perdono qualsiasi valore cogente. La legge non è uguale per tutti: è semplicemente lo strumento attraverso il quale si struttura una società e in ogni società ci sono valori, interessi, classi sociali più importanti di altri. Nel sistema in cui noi oggi viviamo sono questi personaggi a sedere sul ponte di comando.
Un sistema formato da singoli investitori spietati, avidi ed egoisti, resi ancora più pericolosi dal convincimento di operare per il bene della collettività. Si tratta di persone sinceramente convinte, dopo anni passati tra le migliori e più blasonate facoltà di economia e finanza del mondo, che fare il proprio esclusivo interesse, massimizzare i propri profitti, porti alla lunga benefici per tutti coloro che partecipano al comune mercato globale. Dopo l’internazionalizzazione delle borse valori, dopo l’abbattimento delle barriere doganali, dopo l’istituzione del WTO i benefici coleranno dall’alto della piramide giù fino a toccare anche la base popolare, le masse dell’intero pianeta.
Ora, se da una parte si potrebbe discutere molto sulla superiorità ontologica che l’attuale società contemporanea tributa ai valori dell’individualismo, della competizione, dell’accumulazione delle ricchezze rispetto ad una dimensione più sociale e partecipativa tanto della politica quanto dell’economia, dall’altra, ciò che non può essere taciuto è come anche un sistema fondato sulla capacità d’iniziativa del singolo, mosso unicamente dalla prospettiva del profitto, non può che collassare su se stesso se non adeguatamente regolato.
I valori non esprimono, infatti, un dovere giuridico, ma rappresentano entità dinamiche che esigono una concretizzazione. Possiedono un’intrinseca connotazione teleologica e tendono inevitabilmente alla propria realizzazione. Sono, per riprendere un’efficace immagine del giurista tedesco Carl Schmitt, entità tiranniche, ciascuna delle quali esige di affermarsi anche a dispetto delle altre entità del medesimo tipo. Se dunque viene a mancare un organismo terzo (che deve necessariamente avere una qualche legittimazione popolare), un’istituzione, cioè, chiamata a regolare e disciplinare il concreto esercizio dei diritti individuali all’interno di una cornice equilibrata e ponderata di opposti valori (ad esempio libertà e uguaglianza, ovvero iniziativa economica privata e ruolo sociale dell’impresa) la qualità della democrazia di un popolo non potrà che scadere.