di Ilvio Pannullo

I leader europei hanno raggiunto ieri un'intesa sulle modifiche "limitate" da apportare al trattato di Lisbona che consentono la creazione di un fondo salva-Stati permanente. Gli Stati membri dell’Unione hanno cioè deciso di impegnarsi ulteriormente a livello economico per contrastare gli attacchi speculativi e le fibrillazioni dei mercati. Mossa ragionevole, resa necessaria dai recenti avvenimenti che hanno interessato la Grecia e l’Irlanda.

Guardando i listini della Borsa, le oscillazioni dei suoi indici, la volatilità dei mercati, una persona ragionevole e mentalmente sana si dovrebbe però porre delle domande. Cosa misura la Borsa e come fa a mettere in ginocchio intere comunità? E, soprattutto, quanto è attendibile in queste valutazioni?

Accade così di accendere l’interesse sui meccanismi che ne regolano il funzionamento. Il risultato? Il caos. Uno starnuto, una pernacchia, ed ecco la tensione salire. I mercati vanno in fibrillazione, l’incertezza si diffonde come un virus altamente contagioso e infine la paura incombe. Il terrore di perdere quote di profitto, di perdere tutto. E s’inizia a vendere senza avere un reale motivo che lo giustifichi.

Si vende perché si è convinti che gli altri attori presenti sulla scena venderanno per monetizzare i loro investimenti. E’ una catena, un contagio esponenziale: quando si avverte è già troppo tardi. La paura: miliardi di euro bruciati, numeri elettronici che perdono cifre, intere economie messe in ginocchio da uno starnuto.

Il giorno dopo chi sa fa e tutto torna alla normalità. Incredibilmente, senza nessuna apparente motivazione logica: dopo un giorno di follia, un giorno di ordinaria follia. Chi ha monetizzato torna a comprare, raccogliendo a due soldi i cocci di quanti sono rovinosamente crollati. Si chiudono ottimi affari, si realizzano plusvalenze, si torna a vincere insomma. Evviva, tornano i corsi rialzisti, la paura è finita, le banche sono sane e appetibili per gli investitori. Finito un sogno non ci si sveglia, ne inizia un altro.

I dati sono veri ma c’è poco da festeggiare, almeno non per tutti. La chiusura di molte posizioni short ha infatti permesso afflusso di liquidità sui mercati e la volatilità cala ai minimi. Il tutto pompa l’entusiasmo a basso prezzo che fa salire gli indici: non è ripresa, è euforica disperazione nel tentativo di fare qualche soldo. E accade ogni singolo giorno.

Le banche ristrutturano per evitare di doversi dare mani e piedi ai governi - e quindi dover rendere conto delle loro operazioni, cosa per loro impensabile - e il costo sono migliaia e migliaia di licenziamenti già annunciati: ovvero, migliaia di famiglie che rischiano l’insolvenza sulle rate del mutuo o dei finanziamenti, il ritiro della carta di credito, l’apertura di una procedura d’infrazione presso le varie centrali rischi, che dopo novanta giorni intercettano il cliente e lo piazzano senza tanti complimenti nell’elenco dei cattivi pagatori: una lista da cui uscire è improbo e molto doloroso. Emozionarsi per la Borsa o vedere in essa un segnale di ripresa é folle: le piazze valori oggi sono soltanto circhi della speculazione a breve, mentre l’economia reale, invece, affonda. Giorno dopo giorno.

Sembra di essere dentro un reality. Ti raccontano, t’incalzano, ti convincono che ciò che vedi sia reale, ma è tutta finzione, con indici e quotazioni delle grandi aziende che rispondono solamente in minima parte alle reali capacità manageriali della dirigenza piuttosto che allo stato patrimoniale delle stesse società. L’umore dei mercati è tutto: se domina l’incertezza è la paura di perdere tutto a determinare il valore delle aziende. Tutto si regge sulla fiducia.

La fiducia degli investitori nella tenuta del sistema, nella ragionevolezza del sistema, nell’inevitabilità del sistema. Una fiducia che si spezza di colpo quando si vedono le immagini dei dipendenti di una delle più grandi banche d’investimento del mondo con i pacchi in mano, per strada, senza un lavoro: come dei comuni mortali. La fiducia prima vacilla, poi si sgretola pezzo per pezzo come in un domino dove le pedine sono menzogne che, una volta cadute, rivelano l’immagine della realtà: non c’è nulla in cui avere ragionevolmente fiducia. Ed ecco che, tempo qualche mese, come d’incanto, le banche d'investimento spariscono dalla scena.

Erano cinque i gioielli della globalizzazione americana. Il loro volume d'affari faceva impallidire i bilanci nazionali d’interi stati, e non dei più piccoli. Adesso possiamo dire, senza tema di smentite, che erano cinque truffe planetarie. Lehman Brothers e Bear Sterns sono fallite tout court; Merrill Lynch è stata assorbita da una banca commerciale (tutt'altro che immacolata), la Bank of America; Goldman Sachs e Morgan Stanley sono state trasformate in banche ordinarie sotto la garanzia dei soldi stampati dalla Federal Reserve.

In tutto questo il Mercato, quello con la M maiuscola, non c'entra niente. Se lo avessero usato non saremmo in questo pasticcio, se avesse avuto il tempo di agire con le sue regole inflessibili i ciclopici conglomerati finanziari di cui sopra sarebbero falliti e, oggi, non sentiremmo più parlare di loro. Poi ci si sveglia: era solo un bellissimo sogno. Un’altra illusione, l’ennesima, la più gaia e felice: la nostra illusione.

Se però da una parte è vero che le Borse - tutte legate tra loro da complesse relazioni debitorie - vendono solo aria ed illusioni, dall’altra è anche vero che non mancano i soggetti che di realismo se ne intendono. Culture che hanno fatto della capacità di capire come agire efficacemente nel mondo una scienza. Volendo infatti volare un po’ più alto, ci sono ragioni geopolitiche e geostrategiche che fanno pensare a un cambiamento epocale e quindi alla ridiscussione del ruolo degli Usa oltre che alla loro reale possibilità di combattere la crisi attraverso piani inattuabili, dispendiosi e autolesionisti come quello di Tim Geithner, attuale sottosegretario all’economia dell’amministrazione Obama.

La Cina, infatti, sta scaricando il dollaro. Compra rame e altre commodities (materie prime) metalliche in quantità spaventose: lo sta facendo e lo continuerà a fare. Lo State Reserve Bureau sta muovendosi in tal senso per riuscire a districarsi prima possibile dalla propria dipendenza dal biglietto verde: parliamo di 2 trilioni di dollari di riserve che finiranno nell’acquisto di metalli invece che nell’immenso mercato del debito Usa, per anni mantenuto in vita proprio dagli acquisti cinesi dettati dagli enormi disavanzi. Dalla carta straccia alle materie prime.

Una politica dal duplice effetto: dieci volte più di impatto sia sui prezzi delle commodities che sul fronte monetario Usa e in grado di garantire materiale per almeno 50 anni di infrastrutture in Cina. Ma c’è anche un’altra ragione: il futuro dell’auto sta nel settore ibrido che necessita di rame. E la Cina vuole costruire la nuova utilitaria ecologica, la versione new age dell’auto ideale per il consumatore medio cinese. Un po’ quello che rappresentò la prima Fiat 500 durante il boom economico in Italia, negli anni ’60, ma con un accento sulla sostenibilità ambientale e sui consumi del veicolo. Insomma, strategie commerciali di strangolamento e monopolio.

Ma Pechino sta comprando anche alluminio, zinco, nickel e materiali rari come il titanio, l’indio (utilizzato nelle pellicole ad alta tecnologia), il rodio (fondamentale per i convertitori catalitici) e il praseodimio, necessario per la lavorazione del vetro. La nuova “rivoluzione industriale” parte dalla Cina e quando un colosso prende una decisione, difficilmente gli altri possono ignorarla. Tanto più che i numeri sono spaventosi: 329mila tonnellate di rame nel febbraio 2009, 375mila nel mese successivo, in un crescendo costante. Numeri che hanno fatto salire il prezzo del 49 per cento quando gli analisti pronosticavano un crollo del 20 per cento.

Qualcuno comincia a pensare che Pechino stia pensando a una sorta di “Bancor”, una moneta globale ancorata a un paniere di commodities che sostituisca - come si pensava negli anni Quaranta per superare il Golden Standard - lo strapotere del dollaro e prevenisca gli eccessi basati sul credito che ci hanno portato alla situazione attuale. La Cina teme, non senza qualche ragione, che gli Usa stiano studiando una sorta di default “coperto” del proprio debito stampando moneta e, ovviamente, si preoccupa dell’enorme esposizione in dollari dei propri assets basati sul debito statunitense.

Quindi, entrare a gamba tesa nel mercato dei metalli invece che in quello Usa, permette a Pechino di mantenere basso lo yuan senza incorrere nelle ire di Washington riguardo a possibili manipolazioni valutarie e garantisce riserve di materiali facilmente stoccabili a differenza del petrolio. Inoltre permette nel medio-lungo termine un investimento fruttuoso, visto che le riserve di quei materiali non sono infinite e quindi il loro valore è destinato a salire. E’ un esempio tra i tanti che contraddistingue la saggezza della classe dirigente cinese. Forse, per capire come sta evolvendo questa crisi e quale mondo ci lascerà in dote, è meglio smetterla per un po’ di guardare la Borsa e cominciare a tenere sott’occhio le commodities.

 

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