di Mario Braconi

Nel corso dei tre mesi che si sono rivelati necessari a sigillarlo, il pozzo Deepwater Horizon ha disperso nel Golfo del Messico poco meno di 5 milioni di barili di petrolio: l’incidente, come noto, ha provocato undici morti e un disastro ambientale persino più grave di quello prodotto dalla Exxon Valdez. Come è stato riconosciuto da una specifica commissione presidenziale americana, a provocare la catastrofe non è stato un ghiribizzo crudele della natura, ma gli errori commessi da tutti gli attori in gioco.

Le evidenze fornite in proposito da Fred Bartlit, capo legale della commissione, sono impressionanti: la British Petroleum non ritenne di prendere alcuna contromisura, pur essendo al corrente dei problemi relativi al tipo di cemento che la Halliburton continuava ad usare da tre anni per sigillare; i suoi manager si rifiutarono di dotare la struttura di un dispositivo di sicurezza che sarebbe costato due milioni di dollari e che avrebbe potuto evitare lo scempio.

Scelta demenziale, anche a valutarla solo dal punto di vista economico, visto che un piccolo investimento di due milioni avrebbe forse evitato alla società costi futuri attualmente stimati in 41 miliardi di dollari (tanto valgono infatti gli accantonamenti relativi a bilancio).

Il documento cita in particolare nove scelte del management (sulle quali tutte c’e stato un pieno coinvolgimento della BP) basate su un disinvolto baratto tra il tempo ed il denaro risparmiato dalle singole aziende ed un aumento significativo del rischio di incidenti, ambientali e non. Secondo la commissione voluta da Obama, da un lato l’incidente “non si sarebbe verificato se le tre società interessate (BP, Halliburton e Transocean) fossero state guidate da un principio indefettibile di “sicurezza prima di tutto”; dall’altro non vanno minimizzate le responsabilità dei regolatori, che avrebbero dovuto mostrare “di pretendere i massimi livelli di sicurezza possibili”. Ma i veri problemi, per la commissione, sono stati soprattutto l’incapacità e l’atteggiamento superficiale del management.

Per questa ragione è particolarmente deprimente lo spettacolo degli altri dirigenti della BP (inclusi i due trombati dopo il caso Deepwater Horizon) che ricevono bonus faraonici per il loro “ottimo” lavoro: sotto la lente, in particolare, i cospicui pacchetti azionari che potrebbero essere assegnati a Tony Hayward e ad Andy Inglis, rispettivamente ex Amministratore Delegato ed ex capo della divisione Esplorazione e Produzione, le cui teste sono cadute subito dopo il disastro.

Una liquidazione in titoli della società, di importo pari a 9 e 6 milioni circa di equivalente euro, rispettivamente. Inoltre, l’associazione degli Assicuratori Britannici (ABI), ha stigmatizzato in un apposito rapporto il fatto che tanto il direttore finanziario (Byron Grote) che il direttore del servizio Raffinazione (Iain Conn) abbiano ricevuto bonus pari a circa 115 mila euro ciascuno.

La BP risponde alle critiche con imbarazzanti sofismi, ad esempio sottolineando come ad Hayward ed Inglis non siano stati pagati benefici in contanti, ma in azioni, o spiegando che, nel caso di Grote e Conn, i soldi erano dovuti in quanto i due hanno raggiunto gli risultati obiettivo previsti per l’anno. Ma non convince.

Ed è interessante notare che a protestare questa volta non siano i guastafeste scettici sulle virtù salvifiche del capitalismo altamente finanziarizzato, i soliti no global per intenderci, ma interlocutori ben più compassati e soprattutto adusi a solcare con le loro fiammanti Church le moquette pregiate dei corridoi delle banche d’affari. Ad esempio la PIRC, società di consulenza specializzata in questioni di corporate governance, ha definito “eccessivi” i bonus e le retribuzioni dei due, consigliando agli azionisti di non approvare quella parte del bilancio di esercizio di BP in cui si stabiliscono gli emolumenti degli alti dirigenti.

Di tenore diverso ed argomentate in modo più completo, invece, le istanze di un gruppo di azionisti che rappresenta complessivamente 12 miliardi di dollari (8,5 miliardi di euro) di massa investita e circa un milione di azioni della BP. Questa piccola “coalizione dei volenterosi” è capitanata dalla Christian Brothers Investment Services (CBIS), una realtà imprenditoriale che mette assieme Dio e Mammona, visto che investe per conto di istituzioni cattoliche sparse in tutto il mondo.

Quelli della CBIS non solo sono giustamente indignati del trattamento riservato alle persone coinvolte nel disastro del Golfo del Messico, ma intendono fare domande precise, e scomode, all’assemblea fissata il 14 aprile per approvare il bilancio.

Come dice al Wall Street Journal Julie Tanner, vice direttore del dipartimento responsabilità sociale dei Christian Broters “gli azionisti hanno bisogno di informazioni più dettagliate per capire in che modo la funzione sicurezza e gestione rischi della BP è stata rafforzata e quali controlli il Consiglio di Amministrazione abbia messo in atto per sorvegliare il processo”.

Insomma, l’assemblea della settimana ventura potrebbe rivelarsi più movimentata ed interessante del solito; nel frattempo non occorre essere troppo maliziosi per domandarsi se la massa di denaro con la quale sono stati affogati i due ex boss uscenti della BP non possa provocar loro qualche utile amnesia, caso mai dovessero essere interpellati in futuro dai media.

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