di Emanuela Pessina

Se lo scopo del vertice tra Berlino e Parigi era di rassicurare i mercati sulle sorti dell'area euro, allora si può dire che è stato un vero e proprio buco nell’acqua. Per proteggere l’euro dalla crisi, la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno proposto la creazione ex-novo di un Consiglio economico della zona euro, un’istituzione sovrannazionale che vada a garantire un maggiore equilibrio tra i Paesi membri dell’Unione europea (Ue) a 17. Un’idea di tutto rispetto, che andrebbe a risolvere uno dei punti più deboli dell’Unione, eppure le parole dei leader non sono riuscite a convincere i mercati: i nodi da sbrogliare sono ancora tanti e, per gli investitori, i risultati del vertice franco-tedesco rimangono l’ennesimo di una serie di esitanti placebo che non riescono a dare una sana prospettiva alla moneta unica.

La proposta è stata resa pubblica durante la conferenza stampa che ha seguito il vertice di martedì all’Eliseo. All’Unione europea non mancano le strutture interne, ma una maggiore volontà politica, e il futuro Consiglio economico (che si chiamerà Eurocouncil) è la risposta più immediata a questa necessità fondamentale. L’istituzione si riunirà una volta al mese, hanno anticipato i leader, sarà composto dai 17 capi di Stato e di governo della zona euro ed eleggerà un presidente stabile per due anni e mezzo. Per l’immediata guida del Consiglio, Sarkozy ha proposto l’attuale presidente Ue Herman Van Rompuy. La sua candidatura verrà formalizzata già in questi giorni.

Per costruire la volontà politica dell’Europa non bastano le istituzioni superiori e i due leader hanno stabilito ulteriori misure per regolare la politica economica interna di ogni Stato. Oltre a mantenere i conti pubblici in equilibrio, i 17 paesi membri saranno tenuti a ridurre il proprio debito pubblico entro l’estate 2012, una “regola d’oro”: in ogni Paese verrà istituita una commissione per stabilire le regole necessarie a frenare l'indebitamento. Per quel che riguarda le transazioni finanziarie, i leader hanno annunciato una nuova tassa a partire dal prossimo settembre.

Francia e Germania hanno ribadito ancora una volta l’intenzione di difendere la moneta unica e hanno speso molte parole di rassicurazione in questo senso: gli specialisti troveranno i mezzi per concretizzare questa volontà politica e per salvare l’Unione dal fallimento, di questo ne sono sicuri. “L’Euro è il nostro futuro, è la base del nostro benessere e sta anche alla base della nostra convivenza pacifica”, ha spiegato la Cancelliera. Eppure, i mercati non hanno apprezzato le buone intenzioni dei leader: i primi risultati da Wall Street e dalle Borse asiatiche hanno mostrato un’atmosfera ancora molto turbata, chiudendo in negativo proprio alla luce delle notizie deludenti provenienti da Parigi.

Perché, ancora una volta, la Germania si è dichiarata contraria all'utilizzo degli Eurobond: "Non penso che gli eurobond risolverebbero i problemi" dell'Eurozona, ha detto Angela Merkel, sostenuta da Sarkozy che ha puntualizzato che Parigi condivide la posizione di Berlino. A tradire i due Paesi è la paura di compromettere veramente la propria economia, un sentimento che trasmette poi l’insicurezza ai mercati di tutto il mondo. Il Governo tedesco e i Paesi dell'Europa del Nord si sono da sempre espressi contro gli eurobond, considerati una violazione di quell’ideale europeo secondo cui gli Stati membri cooperano pur rimanendo responsabili dei propri affari fiscali. Si potranno applicare in futuro, ha spiegato Sarkozy, quando “sarà completato il processo di integrazione economica” Gli eurobond sono quindi un’ipotesi da prendere in considerazione “alla fine del processo e non all'inizio''.

In conclusione si può dire che il vertice non ha portato novità clamorose e non è riuscito, nell’immediato, a dare la sicurezza che ci si aspettava. Il rafforzamento della governance economica dell’Unione è un passo avanti, e va a colmare un vuoto che accompagna l’Unione dalla sua fondazione, ma rimane sempre e comunque una promessa rivolta al futuro e non ha nulla a che fare con la crisi attuale. L’economia mondiale vacilla e la crisi deve essere affrontata con determinazione e lucidità: gli eurobond e l’aumento delle risorse del fondo salva Stati sembravano le soluzioni più vicine alla realtà, ma Francia e Germania hanno mostrato chiusura totale in questo senso. Rimane ora da vedere se l’Eurocouncil riuscirà, a medio e lungo termine, a tranquillizzare i mercati: il prendere tempo di Francia e Germania, per il momento, sembra un puro e semplice giocare con il fuoco e, neppure nell’immediato, è riuscito a illudere le piazze mondiali.

di Mario Braconi

Parafrasando la celebre canzone degli Smiths, “è panico per le strade di Londra” - ma anche per quelle di New York e di Berlino, si potrebbe dire. Tuttavia, in questo momento tanto grave per la finanza e per l’economia, giova un pizzico di freddezza e di senso dell'umorismo: se non fosse che le conseguenze della “crisi”, tanto per cambiare, saranno pagate dai soliti cittadini in gran parte ignari e certamente impotenti, vi sarebbe molto da sorridere.

Cominciamo con l’altissimo debito pubblico italiano: un dato innegabile, per carità, ma che oggi viene abilmente sfruttato come pretesto per giustificare quello che è solo un vile attacco speculativo ai danni di un intero continente (e forse di un intero sistema culturale - si veda anche la chiara resistenza di “qualcuno” ad avere un capo del Fondo Monetario Internazionale europeo). L’Italia ha un debito pubblico pari a circa il 120% del prodotto interno lordo; mentre quello degli USA, complici i necessari interventi pubblici causati dalle gesta dei “terroristi” delle banche d’affari internazionali, veleggia allegramente attorno al 100%. Si dirà che la capacità di crescita degli USA non è quella italiana, soffocata dall’immobilismo e dalle rendite, ma resta il fatto che si tratta di dati comparabili. Eppure, almeno fino al clamoroso coup de théâtre messo a segno lo scorso venerdì da Standard & Poor’s, secondo il razionalissimo verdetto dei “mercati?h i nostri BTP erano carta straccia, mentre il debito pubblico USA continuava ad essere considerato un porto sicuro.

Giusto per capire come funziona questa kinderhaus che abbiamo il coraggio di chiamare “mercato finanziario”, risulterebbe che il verdetto negativo che ha colpito il rating del debito pubblico americano si basi su calcoli non proprio esattissimi: secondo John Bellows, Assistant Secretary alle Politiche Economiche del Tesoro USA, il modello di S&P contiene delle ipotesi errate, che porterebbero ad una sopravvalutazione del debito pubblico USA di “soli” 2.000 miliardi di dollari. Una piccola svista, può succedere...

La cosa veramente comica è che l’agenzia di rating, sulla scorta della nota di Bellows, si mette al lavoro per verificare il suo compitino, concludendo che... effettivamente l’errore c’è. Già l’idea che i mercati finanziari mondiali siano nelle mani di analisti talmente inesperti da commettere errori sesquipedali come questi gela il sangue. Perché vuol dire che il destino di tutti noi, cittadini globali è nelle mani di una organizzazione che non è in grado nemmeno di impedire agli incapaci che lavorano tra le sue file di fare danni... Ma non basta. La tracotanza di S&P, si spinge oltre: anche se i calcoli erano completamente sbagliati, per sua stessa ammissione, il verdetto negativo non cambia. Cambia però la giustificazione: ad allarmare l’agenzia, ora, non sono tanto i numeri, quanto l’affidabilità della classe politica americana, effettivamente appannata dagli eccessi autolesionistici ed irresponsabili del Tea Party, una minoranza di esaltati senza cervello, in grado però di condizionare settori conservatori normalmente più ragionevoli. Con questo ultimo episodio, dovrebbe essere finalmente chiaro a tutti quanto vale il giudizio delle agenzie di rating: meno di zero. L’incompetenza e l’irresponsabilità dimostrate sono talmente macroscopiche che perfino le persone meno inclini a vedere complotti in ogni dove si possono sentire legittimate ad interpretare  l’ultima boutade di S&P come una mossa destinata a danneggiare Obama.

Ed in effetti, l’impressione che si ricava osservando i recenti eventi sui mercati finanziari è quella che si riporterebbe vedendo un ubriaco alla guida di una Ferrari. Sì, perché, se è vero che i mercati completamente liberalizzati corrono come una Rossa di Maranello, è altrettanto vero che le persone che li dovrebbero guidare, o almeno capire, sono addormentate o in stato di ebbrezza. Si è già detto delle agenzie di rating; si è accennato en passant all’atteggiamento irresponsabile dei Repubblicani che hanno dato cittadinanza ai deliri dei Tea Party. Ma  alla lista bisogna anche aggiungere politici e politicanti europei.

Brilla in particolare per atomismo ed irresponsabilità la Banca Centrale Europea. E’ infatti noto che nei “liberi” mercati il modo più sicuro per avere ragione è mostrare i muscoli, e magari anche agitare una mazza da baseball mantenendo un’espressione truce. Fuor di metafora, per calmare i bollenti spiriti “animali” degli speculatori che hanno deciso di distruggere l’Europa, sarebbe bastato far capire che, per ogni vendita di titoli di stato effettuata a scopo speculativo, ci sarebbe stata un’entità in grado di ricomprarsi tutto fino all’ultimo euro, stampando carta se necessario, ovvero la Banca Centrale Europea. Gli speculatori, si sa, sono parassiti, e niente li avrebbe spaventati di più di un avversario che, per definizione, può cambiare a suo favore le regole del gioco (cosa in cui loro sono normalmente abilissimi, pur avendo limiti che un’istituzione sovranazionale non ha).

Viceversa, come ormai è consuetudine, è prevalso il particolarismo della Germania, che ha gettato le basi per interventi di sostegno contraddittori: dapprima “Portogallo e Grecia sì, ma Italia e Spagna no”. Salvo poi passare a sostegno per tutti i paesi in difficoltà. Si è perso tempo, molto denaro, e quel che è peggio, credibilità nei confronti dei parassiti, che ne hanno approfittato per continuare a rubare denaro. Il tutto reso ancora più surreale dal fatto che ad un cittadino europeo ormai letteralmente in mutande venivano imposti ulteriori sacrifici a suon di dichiarazioni roboanti e moralistiche; il tutto il governo italiano, pure impegnato a dare il contentino a Eurotower, continuava a rifiutare una onorevole via di fuga, ovvero l'introduzione di un’imposta patrimoniale. Tutto questo porta alla triste conclusione che l’incapacità dei politici è il carburante con il quale viaggiano i fuoribordo della speculazione.

di Ilvio Pannullo

La notizia è ormai conosciuta da tutti. È sempre la stessa da qualche mese a questa parte. Apre tutti i giornali e i telegiornali della nazione, tanto da aver costretto anche il più riottoso italiano ad informarsi su cosa sia il differenziale tra i Buoni Ordinari del Tesoro italiani e i Bund tedeschi. Si potrebbe ragionevolmente considerarla un aggiornamento, un triste aggiornamento. Ecco l’ultimo: ieri, 4 agosto, per la seconda volta nell’anno 2011, le borse europee sono state sospese a causa delle perdite senza freni dei listini. Alla fine per l’Italia il risultato finale ha visto la Borsa di Milano perdere il 5,6%. Il numero merita però una spiegazione: ieri, 4 agosto, una tempesta di panico, paura, credibilità e speculazione si è abbattuta sui pilastri fondamentali della nostra economia. I titoli di Stato italiani, lo strumento economico-giuiridico grazie al quale il paese finanzia le proprie spese pubbliche, hanno ieri accusato il colpo raggiungendo il livello dei titoli spagnoli, salvo poi tornare sotto i 400 punti. Una ben triste consolazione.

Vanno giù tutte le Borse asiatiche: Tokyo, Shanghai, Sydney e Seul segnalano pesanti ribassi sulla scia delle chiusure negative dei mercati europei e di Wall Street. La peggiore è Taiwan che chiude a -5.58%.  Peggio solo noi. Si comprende dunque la febbricitante attesa per la giornata di oggi, soprattutto per Piazza Affari, che apre negativa. Il Ftse Mib all'inizio della giornata di ieri segnava un calo del 3,23%. Raffica di sospensioni per eccesso di ribasso, poi il cambio di direzione e il leggero recupero. Negative anche le aperture di tutte le altre borse europee. Fin qui l’aggiornamento. Ma qual è il senso di tutto questo? Quali sono gli insegnamenti che se ne dovrebbero dedurre?

In primo luogo quanto sta accadendo ci dovrebbe far riflettere sul valore delle nostre democrazie rappresentative. La delegazione senza vincolo di mandato della sovranità popolare, in favore di una classe dirigente non preventivamente selezionata attraverso rigide procedure, ha drammaticamente fallito. Appare oltremodo evidente infatti che i nostri leader, tutti, dai politici di governo a quelli di opposizione, dal Presidente della Repubblica ai sindacati, agli industriali, hanno deciso di lasciarci andare a fondo pur di non ammettere che la causa principale della situazione è l’unificazione della moneta, e riconoscere, quindi, che il progetto era sbagliato. Non che sia sbagliata l’idea in sé, piuttosto sono state sbagliate le modalità attraverso le quali il progetto è stato realizzato. E’ sorprendente che perfino Berlusconi, accusato di tutte le colpe possibili e immaginabili, non abbia fatto nemmeno un’allusione a questo problema, nel discorso tenuto alla Camera e al Senato proprio per illustrare la situazione economica del Paese.

Costruire una Unione Economica e Monetaria doveva originariamente essere l’inizio di un progetto molto più ambizioso: creare un’Europa unita, una Nazione Europea. Le difficoltà politiche implicate nell’operazione erano straordinarie, apparentemente insuperabili. Appariva come un sogno, una meta: il mondo vero, irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile, ma in quanto già pensato una consolazione, un dovere, un imperativo per tutte le classi dirigenti di un continente dilaniato da due guerre mondiali. Si pensò o si indusse a pensare che l’unificazione economica e monetaria avrebbe poi inevitabilmente portato, gradualmente, ad un’unificazione politica. Così non è stato. Dopo 25 anni dalla firma dell’Atto Unico Europeo nel 1986 e dopo 18 anni da quel 1° novembre del 1993, giorno in cui entrò in vigore il Trattato di Maastricht, o Trattato sull'Unione Europea, allora firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht, dai dodici paesi membri dell'allora Comunità Europea, oggi Unione Europea, nulla di tutto ciò che era stato promesso è stato realizzato. La patria europea rimane un miraggio e ciò che rimane è il senso di amarezza quando si coglie la distanza tra che poteva essere e ciò che è: un gigante economico ora incalzato dalle potenze emergenti di tutti i continenti, un nano politico privo di una voce che possa impegnare tutti gli Stati membri dell’Unione, un verme militare senza bandiera né inno.

In secondo luogo si dovrebbero analizzare le reali ragioni dello status quo e proporre delle soluzioni ragionevoli e dunque concretamente e politicamente praticabili. Proporre l’uscita della Germania dall’euro, come fatto dal premio nobel per l’economia Stiglitz, non può che essere una provocazione in quanto la moneta unica è stata creata proprio nell’interesse tedesco. Dunque cosa fare? Ritornare a battere una moneta il cui valore sia correlato alla nostra economia appare l’unica strada sana e ragionevole, non soltanto per noi ma per molti paesi dell’Unione, quali la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo, visto che è evidentemente una finzione e una falsità che paesi finanziariamente così deboli siano titolari di una moneta apparentemente forte perché corrispondente, sotto il nome di “euro”, al vecchio marco tedesco. È dunque di una finzione che si sta parlando, una falsità che i mercati e le Borse valori di tutto il mondo stanno “giustamente” distruggendo.

Si parla molto in questi giorni dell’aggressione all’euro da parte degli speculatori, ma si tace sui motivi per i quali questa speculazione sia capace di metterci al tappeto con tanta facilità. Dopo tutto come europei siamo il popolo che ha conquistato il mondo intero, ad esclusione della penisola asiatica – geograficamente e antropologicamente l’Eurasia è infatti un unico blocco continentale. La popolazione sfiora i 450 milioni di persone, eppure sembra basti poco per metterle in ginocchio tutte in poco tempo. La verità è stata da tempo raccontata: l’euro – quella che ci viene venduta come la “nostra” moneta – è una moneta fabbricata (“emessa”) da una banca che porta un nome fittizio e truffaldino: si chiama Banca Centrale Europea, ma gli Stati europei non vi hanno quasi nulla a che fare in quanto appartiene a privati cittadini.

Il suo capitale sociale è diviso in quote di proprietà delle singole Banche Centrali Nazionali ed insieme formano il SEBC: il Sistema Europeo di Banche Centrali. Le singole Banche Centrali Nazionali sono a loro volta istituti di diritto pubblico (istituti cioè disciplinati dal diritto pubblico) la cui veste giuridica è quella di mere società per azioni. La proprietà delle azioni, del capitale sociale, implica dunque la proprietà degli istituti di diritto pubblico che sono a loro volta i proprietari della Banca Centrale Europea. Il cerchio si chiude quando si leggono i nomi delle società per azioni proprietarie del capitale sociale delle Banche Centrali Nazionali: semplicemente le banche e i gruppi assicurativi più potenti delle singole aree di influenza. Gli organismi di diritto pubblico chiamati a sorvegliare e garantire la correttezza del sistema bancario sono espressione delle banche e dei gruppi assicurativi, che vantano la più alta capitalizzazione nelle rispettive Borse valori. In altre parole controllori e controllati esprimono interessi comuni. Detto ancora più semplicemente: il conflitto d’interessi più devastante e spaventoso che si sia mai manifestato in questo angolo di mondo.

Per non rimanere sul vago e ragionare astrattamente, si fa riferimento a singoli gruppi di banchieri banchieri, famiglie ricchissime che esercitano l’attività bancaria fin da quando questa ha iniziato ad affermarsi sul nostro continente: dai Fugger di Amburgo ai Roschildt di Francoforte, che possiedono anche buona parte di altre banche, come ancora i famosi Rockfeller, e ancora re e regine anch’essi ricchissimi, quali la Regina d’Olanda Beatrice (una delle donne più ricche del mondo), la regina di Spagna Sofia, il re del Belgio Baldovino, la Regina d’Inghilterra Elisabetta II, solo per citare i più noti ed influenti. L’euro, dunque, è un caso unico nella storia: una moneta che non ha nessuno Stato alle spalle e che, di conseguenza, non ha nessuna entità istituzionale capace di garantirla. Si parla infatti di debiti “sovrani” quando ci si riferisce ai debiti degli Stati, in quanto sono gli Stati che sono “sovrani”, ossia esprimono potere, territorio e autorità su popoli che da loro dipendono e che al tempo stesso ne garantiscono la sovranità. La Banca Centrale Europea non possiede ovviamente nessuna sovranità, così come non la possiede l’Unione Europea non essendo il Parlamento europeo depositario ex lege di alcuna sovranità: entrambe, quindi, non sono (recte: non sarebbero) legittimate a produrre e far circolare nessuna moneta.

L’Unione Europea ricorda come struttura l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Unesco, e cioè organizzazioni internazionali istituite in forza di accordi internazionali, dotati ciascuno di essi di particolari compiti e particolari strutture. Rimane però il punto di cui sopra: non sono Stati sovrani. Farebbe davvero ridere se l’Onu, per esempio, pretendesse di emettere una moneta valida per tutti gli Stati che vi appartengono. L’euro è perciò una moneta “finta” e non regge alla prova dei fatti in quanto nessuno può garantirla. Dunque, delle due l’una: o si cambiano d’imperio gli obiettivi statutari della Banca Centrale Europea – cosa vietata ad oggi dagli stessi Statuti, della BCE e del SEBC – o gli Stati sovrani d’Europa, e cioè i popoli detentori delle singole sovranità nazionali, farebbero bene a salvaguardare i propri interessi per continuare ad immaginare un futuro libero e sostenibile.

di Michele Paris 

Nella giornata di lunedì, la Chrysler e il principale sindacato americano del settore automobilistico (UAW) hanno aperto ufficialmente le trattative per il rinnovo del contratto di lavoro in scadenza a metà settembre. I negoziati, che giungono a pochi giorni dall’acquisizione della maggioranza della compagnia statunitense da parte di FIAT, richiederanno con ogni probabilità ulteriori concessioni ai dipendenti, dopo che i precedenti accordi e la bancarotta controllata del 2009 avevano già segnato un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro e di retribuzione.

All’apertura delle trattative nella sede di Auburn Hills tra Chrysler e “United Auto Workers”, che rappresenta circa 23 mila lavoratori di questa azienda, faranno seguito quelle tra lo stesso sindacato, General Motors e Ford nel corso della settimana. Le cosiddette “Big Three” occupano oggi complessivamente poco più di 400 mila dipendenti e, in seguito ai fallimenti pilotati di GM e Chrysler, i loro profitti negli ultimi mesi sono tornati a far segnare numeri importanti.

Per salvare Chrysler, l’amministrazione Obama due anni fa sborsò qualcosa come 12,5 miliardi di dollari dei contribuenti. Una cifra oggi quasi tutta rimborsata, dopo che la settimana scorsa FIAT, con 560 milioni di dollari, ha rilevato la rimanente quota in mano al Tesoro USA. Grazie a questa recentissima operazione, la compagnia torinese controlla ora il 53 per cento di Chrysler.

L’obiettivo principale della dirigenza Chrysler nelle trattative con il sindacato è quello di non far aumentare in nessun modo i costi di produzione, così da mantenere l’attuale livello di competitività nei confronti dei produttori esteri. Nelle parole del vice-presidente per le relazioni con il personale, Al Iacobelli, Chrysler “ha la responsabilità di evitare un ritorno alle vecchie formule”, dove per vecchie formule s’intende il mero adeguamento degli stipendi dei lavoratori al costo della vita.

Grazie alle ristrutturazioni e agli accordi siglati a partire dal 2007, tutte e tre le compagnie di Detroit sono riuscite a ridurre notevolmente il costo della loro manodopera. Secondo stime interne, quattro anni fa un dipendente Chrysler costava mediamente 76 dollari l’ora tra stipendio e benefit, mentre oggi si è scesi a 49 dollari (56 per GM e 58 per Ford). Questa riduzione è stata favorita non solo dalla politica dell’amministrazione Obama, il cui obiettivo è l’aumento delle esportazioni americane tramite il ridimensionamento del costo della forza lavoro nel paese, ma anche dalla strategia della UAW (che controlla una fetta di Chrysler), più interessata al mantenimento dei profitti e delle posizioni privilegiate dei suoi dirigenti che all’impoverimento dei lavoratori.

Tramite il presidente Bob King, la UAW ha infatti già fatto sapere di essere sulla stessa lunghezza d’onda dei vertici di Chrysler. La preoccupazione principale di King sembra essere quella di mantenere l’azienda competitiva, per questo ha promesso che non verranno ripetuti gli errori del passato. In sostanza, la UAW non intende chiedere alcun ritocco verso l’alto della paga oraria dei lavoratori, puntando piuttosto sul diritto di ricevere una parte dei profitti, impennatisi nei primi mesi del 2011. Le retribuzioni, in definitiva, dovranno essere legate alla produttività e agli utili della compagnia, la quale potrà così trasferire le eventuali perdite agli stessi lavoratori nei periodi negativi.

Che quelle avviate lunedì non siano precisamente trattative tra due parti con interessi contrastanti è risultato d’altra parte evidente dal clima più che cordiale che ha caratterizzato la cerimonia di Auburn Hills. Le già deboli resistenze manifestate dalla UAW nel 2007, quando vennero indetti alcuni scioperi, difficilmente si ripresenteranno in questa occasione, anche perché le condizioni del salvataggio di Chrysler e GM da parte dell’amministrazione Obama nel 2009 prevedevano, tra l’altro, la rinuncia al diritto di scioperare.

L’erosione dei diritti dei lavoratori delle Big Three aveva subito un’accelerazione con i contratti sottoscritti nel 2007. In quell’occasione erano state fissate alcune condizioni la cui portata difficilmente può essere sottovalutata. Le compagnie automobilistiche, ad esempio, erano state esentate dall’obbligo di contribuire all’assistenza sanitaria dei lavoratori in pensione e, soprattutto, gli accordi ora in scadenza avevano creato un doppio sistema di trattamento economico per i dipendenti, con gli stipendi dei neo-assunti di fatto dimezzati (circa 14 dollari l’ora) rispetto a quelli assicurati a coloro che già facevano parte della forza lavoro.

La crisi economica del 2008 e la bancarotta forzata del 2009 portarono poi ad ulteriori concessioni, come la già ricordata clausola che proibisce gli scioperi e il ricorso obbligatorio ad un arbitrato in caso di questioni irrisolte tra azienda e sindacati. Quest’ultima condizione pare sia stata inserita negli accordi su insistenza di Sergio Marchionne, oggi CEO di Chrysler. Non è un caso perciò che Chrysler abbia annunciato di essere pronta a ricorrere proprio all’arbitrato nel caso di un improbabile stallo sulla questione dell’adeguamento degli stipendi all’inflazione.

Secondo quanto pubblicato dalla stampa di Detroit, quando in grado di produrre utili, Chrysler offrirebbe ai propri dipendenti bonus nell’ordine di 4 / 5 mila dollari l’anno. In cambio, tuttavia, verranno richiesti nuovi sacrifici ai lavoratori: maggiore flessibilità, soppressione di alcune festività pagate e aumento della quota riservata alla copertura sanitaria proveniente dagli stipendi (attualmente il 7 per cento), così da mantenere appunto la competitività con i produttori rivali in territorio americano.

Il pacchetto proposto da Chrysler, su cui convergerà senza troppi problemi il sindacato, sarà da modello anche per le trattative con GM e Ford e servirà a non far lievitare il costo del lavoro nei prossimi anni. Tutte e tre le compagnie di Detroit hanno ormai raggiunto il misero livello di paga oraria dei loro competitori tedeschi, giapponesi e coreani che operano svariati impianti non sindacalizzati soprattutto nel sud degli Stati Uniti.

Il ridimensionamento del costo del lavoro è il fattore principale che ha contribuito al ritorno agli utili delle Big Three nell’ultimo anno e mezzo. Le tre aziende nel 2010 hanno fatto segnare profitti per un totale di 10,65 miliardi di dollari. Nel primo trimestre di quest’anno, inoltre, GM ha incassato 3,2 miliardi di utili, Ford 2,6 miliardi e Chrysler 116 milioni. Come confermano i dati ufficiali, l’aumento del fatturato e degli utili derivano in gran parte dalle performance in Nord America dove, secondo un recente articolo del Detroit Free Press, tra luglio e settembre Ford prevede di aumentare la propria produzione di 44 mila veicoli rispetto all’anno scorso.

Nella retorica dei vertici delle case automobilistiche e dei sindacati, insomma, il punto centrale delle trattative in corso è identico a quello sostenuto da trent’anni a questa parte, ovvero da quando è iniziato l’assalto ai diritti conquistati con fatica dai lavoratori nei decenni precedenti. Solo con le concessioni e i sacrifici, cioè, si potranno conservare i posti di lavoro, nonostante l’industria americana abbia visto svanire oltre un milione di posti nel settore automobilistico negli ultimi tre decenni.

In questa corsa verso la creazione di una forza lavoro a basso costo negli USA, il sindacato automobilistico americano ha giocato un ruolo di spicco. Assecondando sempre più il volere dei vertici aziendali, la UAW ha così voltato progressivamente le spalle agli interessi dei propri iscritti - scesi significativamente da 1,5 milioni nel 1979 a 390 mila nel 2010 - contribuendo ad affermare il “modello Detroit” nelle relazioni aziendali. Un modello che la stessa FIAT nei mesi scorsi ha imposto negli impianti italiani con il sostanziale accordo anche dei sindacati nostrani.

di Carlo Musilli

Alla fine di un lungo travaglio, giovedì sera si è concluso uno dei parti più dolorosi che l'Europa abbia affrontato nella sua storia unitaria. Finalmente da Bruxelles è arrivato un programma concreto per salvare la Grecia dalla bancarotta. Era ora. Anche in Italia possiamo tirare un lungo sospiro di sollievo. Dai nostri incubi si allontanano i mostri della speculazione e i fantasmi di un debito pubblico che rischiava di farci morire dissanguati.

Dopo ore di colloqui, i diciassette capi di Stato e di Governo dell'Eurozona si sono accordati sugli aiuti da destinare al Paese ellenico: 109 miliardi di euro. Ma non finisce qui, questi sono solo i fondi messi a disposizione da Ue e Fmi. C'è poi il tanto vituperato "settore finanziario" che, stando alle parole di Nicolas Sarkozy, nei prossimi 30 anni sosterrà la Grecia per una cifra pari a 135 miliardi.

L'intervento sarà "su base volontaria" (neanche troppo) e consisterà nello scambio di bond o nelle più oscure pratiche del "rollover" e del "buyback". In sostanza, i privati che già possiedono titoli di Stato di Atene sono chiamati a riacquistarli alla scadenza, sostituendoli però con obbligazioni di durata maggiore e dagli interessi meno redditizi.

Insieme a Irlanda e Portogallo (gli altri due Paesi destinatari di aiuti internazionali), la Grecia potrà poi beneficiare di più tempo per restituire i prestiti: dagli attuali sette anni e mezzo, le scadenze si dilateranno a un minimo di 15 anni, che potrà estendersi fino a 30. Il tutto con dei tassi d'interesse ben più bassi di quanto sperimentato finora, dal 4,5 al 3,5%.

Ma la parte più interessante del nuovo piano arriva con l'entrata in gioco dell'Efsf, il Fondo Ue "salva-stati", nato appena un anno fa. I suoi poteri saranno estesi, arrivando a comprendere la possibilità di acquistare titoli di Stato (non solo greci, ma di tutti i "Paesi in difficoltà") anche sul mercato secondario (vale a dire le piazze dove girano le obbligazioni scambiate abitualmente, non quelle appena emesse, che invece costituiscono il mercato primario). Insomma, se ancora non siamo arrivati ai tremontiani Eurobond (titoli sul debito pubblico comunitario), poco ci manca.

In realtà questo passaggio ha anche una fondamentale importanza politica. Affidando all'Efsf il compito di riempirsi di spazzatura, l'Europa solleva da questa gravosa responsabilità la Bce. Si tratta di una moneta di scambio. Lo scaricabarile sul Fondo salva-stati ha portato Jean Claude Junker, presidente dell'istituto di Francoforte, a lasciar perdere la crociata contro il coinvolgimento dei privati nel piano di salvataggio.

A ben vedere, l’hanno chiamato Piano Marshall più che altro per megalomania, o forse solo per nobilitare la miserabile condizione in cui si è ridotta la moneta unica ad appena dieci anni dalla sua nascita. Fatto sta che il paragone storico sembra un po' azzardato, se confrontiamo le prospettive dell'economia Usa nell'immediato dopoguerra a quelle dell'Ue nei primi anni Dieci del Duemila. Eppure, arrivati a questo punto, c'è veramente di che rassicurarsi.

Fino a poco prima del vertice comunitario, infatti, le cose sembravano aver preso una piega ben diversa. Al punto che quel cervellone di Jean Claude Junker, presidente dell'Eurogruppo, arrivando in mattinata a Bruxelles, aveva pensato bene di dichiarare urbi et orbi che la possibilità di un default greco non era da escludere. Parole che, come era ampiamente prevedibile, hanno avuto il solo risultato di far crollare d'un colpo le Borse europee.

Ma il buon Junker non aveva tutti i torti, almeno stando a quello che è successo nella notte berlinese tra mercoledì e giovedì. Al termine di un colloquio durato sette ore, il presidente francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel erano arrivati a un'intesa piuttosto preoccupante. Avevano previsto, infatti, un "default selettivo" (cioè limitato e controllato) del debito greco.

Un vero rischio, soprattutto perché una scelta del genere avrebbe messo l'Europa del Sud in balia delle odiose agenzie di rating targate Usa. Il probabile filotto di downgrade sui debiti dei Paesi periferici dell'Eurozona avrebbe potuto scatenare un effetto domino difficilmente controllabile. Si sarebbe così  potuta verificare l'ipotesi più temuta: l'estendersi della crisi debitoria anche a Spagna e Italia.

A quel punto per noi italici sarebbe stato l'armageddon, considerando che già da settimane siamo nel mirino della speculazione internazionale. Per fortuna così non è stato. Questa versione posticcia del Piano Marshall per la Grecia ci ha davvero levato le castagne dal fuoco.

Se Atene è salva, improvvisamente anche la nostra situazione non desta più tante preoccupazioni. E' così soprattutto agli occhi degli speculatori, che dalla sera alla mattina non hanno più tutte le ragioni del mondo per scommettere contro di noi. Certo, qualcuno potrebbe continuare, ma se così fosse le ragioni non andrebbero più ricercate nel quadro internazionale, quanto nella nostra patetica condizione interna.

Difficilmente potremmo chiedere all'Europa più di quello che ha già fatto. Nel documento finale del vertice, i Paesi dell'Eurozona hanno perfino avuto lo stomaco di inserire un paragrafetto per complimentarsi con noi: "Apprezziamo il programma di bilancio presentato recentemente dal governo italiano, che assicurerà il ritorno del deficit sotto il 3% nel 2013 e il pareggio di bilancio nel 2014". Queste parole, insieme al piano per i nostri cugini greci e all'abbandono dell'idea francese di tassare le banche, hanno fatto sì che Piazza Affari chiudesse la settimana in testa alla classifica continentale, facendo segnare un roboante +3,76%. A questo punto, se cadremo ancora, sarà solo per colpa nostra.


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