di Ilvio Pannullo

L'autunno caldo è cominciato. Tornati dalle vacanze ci troviamo, infatti, un paese la cui credibilità appare in caduta libera, vista l’incapacità del governo di indicare una via d’uscita credibile per la crisi del debito, una manovra economica rabberciata e, per questo, inadeguata a raggiungere gli obiettivi necessari per rassicurare i mercati, i padroni della moneta europea pronti a castigare ogni nostro errore. Niente male, insomma. Più che l’autunno caldo, preoccupano veramente le previsioni per l’inverno, che si prevede rigido come non mai.

Si apre, infatti, una settimana che può cambiare il destino dell'Italia e dell'Europa. In queste ore difficili, tra la Banca Centrale Europea e la Banca d'Italia non c'è un solo interlocutore che non esprima "grandissima preoccupazione" per quello che sta accadendo nel nostro Paese. Il "caos totale" nel quale il governo è precipitato in questi ultimi due mesi, cambiando radicalmente per ben quattro volte il menu delle misure di risanamento per assicurare il pareggio di bilancio nel 2013, è una miccia accesa nel cuore della moneta unica.

Per ora, a disinnescarla ha contribuito proprio la Bce, che ha comprato a piene mani i Btp sul mercato secondario, per disarmare la speculazione internazionale. Ma, come ha precisato il governatore Trichet "sull'acquisto dei titoli di Stato sul mercato secondario si decide giorno per giorno". Una cosa, tuttavia, rimane certa: "Il Security Market Program non è un meccanismo permanente" e si pensa a "sanzioni preventive verso i Paesi che sforano i limiti di indebitamento”. Insomma, l’aria sta per cambiare e con la barchetta Italia che fa acqua da tutte le parti e, soprattutto, considerata l’assenza di un timoniere degno di questo nome, il rischio è che per noi si metta davvero male.

"L'Italia deve scegliere: o lancia un vero segnale di svolta sulla manovra, o si offre in pasto ai mercati esponendo l'intera Eurozona a un enorme pericolo". Queste le parole rassicuranti del governatore Mario Draghi, oramai pronto al trasloco con destinazione Francoforte. La linea generale circa l’atteggiamento da seguire nei confronti dei paesi pesantemente indebitati, tra cui il nostro, è, infatti, già stata delineata. E per non dare adito a dubbi Trichet è anche recentemente intervenuto al Forum annuale di Confindustria a Cernobbio, dichiarando che per il nostro paese è “essenziale” il pareggio di bilancio entro il 2013. Se si considerata la confusione sulla manovra e i dati macroeconomici dell’eurozona, ciò che viene definito “essenziale” appare ragionevolmente impossibile da ottenere.

"I dati della congiuntura internazionale non sono affatto confortanti", dicono, infatti, all'Eurotower. Eurolandia è in forte frenata. Come già anticipato dal Fondo monetario, le economie dell'area cresceranno nel 2011 solo dell'1,9%. Nel 2012 andrà peggio, con un deludente 1,4%. "Preoccupa il rallentamento della Germania", che dopo aver trainato il continente quest'anno, si fermerà l'anno prossimo a un fiacco 1,6%. L'Italia - manco a dirlo - va peggio di tutti: non supera lo 0,8% quest'anno, e si ferma allo 0,7% l'anno prossimo. C'è quindi un primo nodo da sciogliere: già con queste cifre, "la manovra da 45 miliardi messa in campo da Berlusconi andrebbe rafforzata ulteriormente". Se scende il Pil, infatti, crescono più del previsto il deficit e il debito. Dunque "servono più tagli di spesa, per garantire il pareggio di bilancio".

Ma la manovra appena varata dal centrodestra, nella sua quarta e schizofrenica versione, non dà garanzie. Né sulle singole misure, né sui saldi. Trichet lo ha già lasciato intendere. I suoi uomini sono stati ancora più espliciti. "L'Italia deve fare di più e di meglio. E deve farlo subito". I falchi del rigore, copiosamente presenti tra i politici e gli economisti tedeschi, hanno già criticato la Banca Centrale perché con i suoi interventi "ha agevolato il lassismo dei Paesi periferici dell'area". Il riferimento sembra proprio diretto al nostro Paese, considerando che, esclusa la Grecia già strozzata e l’Irlanda e il Portogallo prossimi a fare la stessa fine, di maiali nel recinto europeo ne rimangono solo due: noi e gli spagnoli. E qui arriva il colpo basso. "Altri Paesi - segnalano a Francoforte - si stanno dimostrando più responsabili. Uno su tutti: la Spagna, dove il Parlamento ha già varato la sua Legge Finanziaria ed ha approvato l'inserimento della disciplina di bilancio in Costituzione". Insomma, siamo sotto osservazione, pesati, misurati e, ad oggi, il giudizio è senza appello: fallimento.

L’immagine data alle istituzioni europee e ai mercati internazionali con le tre versioni estive del pacchetto anti-deficit è stata, infatti, "pessima": confusione, improvvisazione, approssimazione. Anche vista da Palazzo Koch, la manovra è apparsa un "patchwork indecifrabile". "E' arduo affidare al recupero di evasione fiscale un rientro dal deficit di così vasta portata", si sostiene in Bankitalia, in piena sintonia con i dubbi della Ue. Lo scontro per la futura leadership del centro-destra, tra Berlusconi e Tremonti, ha reso il governo totalmente incapace di fronteggiare la gravità della situazione in cui proprio il cavaliere e il professore hanno sprofondato il paese.

Quanto accaduto è, infatti, la dimostrazione che nessuno in questo esecutivo ha un'idea su ciò che è e su ciò che deve diventare la società italiana. Prima colpiscono il ceto medio con il contributo straordinario, poi colpiscono i pensionati con la gabella sulla naia e la laurea, poi fanno la faccia feroce contro gli evasori, dopo averli blanditi con lo scudo fiscale e con l'irresponsabile sostegno pre-estivo alla diffusa Vandea per le "vessazioni di Equitalia".

Così continuando il fallimento diventa più di un rischio. Diventa inevitabile. Ma rimane un punto: posto che le banche centrali sono create dalle banche nell’esclusivo interesse delle banche e considerando che, in caso di crisi, si muovono e agiscono per tutelare l’esclusivo interesse delle banche, ascoltata l’analisi del problema, è possibile immaginare una soluzione diversa da quella da loro immaginata e, seppur mediatamente, imposta? I banchieri, ovviamente, cercano soluzioni che non intacchino il loro status. Ed è sempre stato così, sin da quando fu ammessa la pratica del prestito a interesse, peraltro oggetto di feroci scontri tra le tre religioni monoteiste. I problemi che siamo chiamati ad affrontare, insomma, sono noti e sono note anche le soluzioni che sono state adottate nel corso della storia. Perché vi è più di una soluzione e non una sola, come l’intero mainstream va ripetendo ossessivamente.

Nel VI secolo a.C. gli Ateniesi, ad esempio, diedero poteri straordinari a un solo uomo per fare le riforme necessarie che avrebbero liberato Atene dalla stagnazione economica e dalla graduale riduzione in schiavitù delle classi inferiori. Si narra che quell'uomo, Solone, abbia forzato la remissione dei debiti, abbia proibito di dare in pegno se stessi o un membro della famiglia come garanzia per i prestiti e abbia liberato tutti quegli ateniesi che erano stati fatti schiavi attraverso impegni di questo tipo. Abrogò anche il duro codice istituito da Dracone (da cui il termine draconiano) e lo rimpiazzò con leggi più umane. Poi, decretando che le sue riforme sarebbero rimaste in vigore per dieci anni, Solone andò all'estero per una vacanza lunga diversi anni, probabilmente per far sì che nessuno provasse a fargli cambiare idea su ciò che aveva fatto.

Oggi, di fronte a circostanze che Solone avrebbe ben riconosciuto, l’ipotesi di una cancellazione del debito va emergendo gradualmente. Tralasciando la giurisprudenza internazionale del “debito detestabile” - sponsorizzata e utilizzata dagli Stati Uniti d’America per rifiutare il pagamento del debito accumulato dalla corona spagnola, in seguito alla conquista di Cuba nel 1898 - il problema è che tale annullamento richiede necessariamente una leadership carismatica, che sappia superare le forti e inevitabili resistenze da parte del settore bancario. L'assemblea ateniese ebbe problemi simili, per cui scelsero di dare a Solone poteri autocratici; oggi la soluzione dovrebbe necessariamente essere diversa.

L’idea di saldare un debito attraverso la costituzione di altri debiti ha già mostrato in Grecia i suoi effetti. A noi, che politicamente ed economicamente abbiamo un peso diverso da quello della Grecia, è stato concesso dalla BCE un paracadute, la cui presenza, però, sta per venir meno. Si vuole così imporre, in via preventiva, una manovra che non potrà non essere recessiva, vista l’incapacità dei nostri governanti a coniugare rigore e crescita, immaginando un qualche intervento per rilanciare qualche settore strategico per la crescita.

Se si considera che l’intera Europa vede costantemente rallentare il suo strutturale margine di crescita, vista la capacità economica e produttiva dei paesi emergenti, non resta che cambiare paradigma o immaginare una soluzione di compromesso tra il rigore contabile dei banchieri e il fallimento dell’Unione Economica e Monetaria. Un processo regolato di annullamento del debito diffonderebbe la pena in modo più uniforme, accelererebbe il processo di deleverage del debito che sta deprimendo l'attività economica e fornirebbe maggiori certezze sui risultati raggiungibili dal nostro continente. Non fare nulla ci garantirà il collasso dello Stato sociale e, verosimilmente, una generazione di laureati indebitati che staranno solo leggermente meglio rispetto agli schiavi per debito dell'Atene che Solone salvò da una vita di disperazione.

di Ilvio Pannullo

L’intervento di Giulio Tremonti al Meeting di Rimini ha lanciato una sottile provocazione che è utile raccogliere, per comprendere meglio quello che sta accadendo in questo periodo dove crisi finanziaria, crisi economica, crisi sociale, crisi energetica, crisi ambientale e crisi alimentare stanno scuotendo le fondamenta della casa comune, all’interno della quale vivono i popoli di tutto il mondo. “Molti errori - ha affermato il ministro italiano nel commentare l’attuale situazione dell’economia mondiale - sono stati finora commessi: non é stato ristrutturato il sistema bancario, anzi il denaro pubblico è stato usato per salvare le banche; non sono state scritte, se non per finta, le regole sulla finanza che, essendo materia complicata, dovevano essere proposte dai banchieri e non dovevano farle i governi”.

Le banche, dunque, nonostante siano state il centro propulsivo e d’incubazione dell’attuale crisi, sono state prima salvate grazie a fiumi di denaro pubblico, poi rafforzate con nuovi e truffaldini criteri di contabilità e, infine, premiate con la richiesta, da parte del mondo politico, di nuove regole per evitare che il piccolo incidente di percorso (dal quale dobbiamo e speriamo ancora di uscire) non si possa più ripresentare. Insomma, un vero affare. Roba da impero del male, altro che Stati canaglia!

Quello che deve essere a tutti i costi impedito è che la tesi di personaggi come George Soros diventi la soluzione, masticata e predigerita, che la classe politica propini al popolo europeo come panacea di tutti i mali.  Queste idee, infatti, sono abbastanza radicali da avere qualche probabilità di convincere i mercati, frenetici al limite dell’isteria, perché consapevoli dell’esistenza di problemi molto seri e spettatori dell’impotenza e dell’incapacità della classe dirigente europea d’immaginare un modo, una via da seguire per uscire dalla crisi del debito sovrano. Vista la profondità di questa crisi, tuttavia, vale la pena di provare a guardare un pochino più lontano (e forse anche più lontano di quanto non si faccia proponendo - come hanno fatto recentemente Francia e Germania - il blocco dei fondi europei per chi non abbia i conti in ordine).

Se le idee di Soros fossero tradotte in pratica, l’Unione Europea finirebbe per essere uno stranissimo animale, una specie di mostro mitologico dal corpo enorme e dalla testa microscopica. Con l’emissione di Euro Bond su larga scala, ad esempio, l’Unione Europea diventerebbe un’entità priva di una qualsivoglia funzione di governo al di fuori della sfera economica: un’entità politica, cioè, senza un Tesoro e con un bilancio minuscolo (pari all’1% del Pil dell’intera Europa) speso tutto in sussidi di dubbia utilità, ma con una moneta rivale del dollaro su scala globale, una Banca Centrale, una Corte di Giustizia, un Parlamento a elezione diretta e sul groppone un debito sovrano pari a minimo il 60% del Pil dell’eurozona, ma probabilmente anche di più, molto di più.

Sarebbe insomma la più grande tecno-struttura della storia, ma in quanto tale radicalmente incomprensibile ai cittadini europei. Tra l’altro, come sarebbe amministrata l’agenzia del debito, presumibile erede del fondo salva-Stati, istituito per fronteggiare la crisi greca? All’unanimità, a maggioranza, con voti pesati secondo il differente peso economico degli stati membri? Forse è arrivato il momento di provare quantomeno a rimettere il processo d’integrazione europea sui piedi, invece che sulla testa com’è ora, smettendo di consentire alla politica economica e finanziaria di guidare il processo politico europeo.

Gli Eurobond sono uno strumento fondamentale per la sopravvivenza dell’Unione Europea, ma per avere un’idea di quello che qui si vuole sostenere, basti pensare all’atteggiamento - degno del peggiore strozzino - tenuto dalla Finlandia in occasione della crisi Greca: per assicurare la quota finlandese al fondo Efsf la Grecia dovrà aprire un conto nella banca centrale finlandese, pagando la stessa somma dovuta dalla Finlandia all'EFSF come pegno. La Finlandia chiese anche, all'inizio delle contrattazioni, qualche immobile greco in pegno. Da qui ad ipotecare il Partenone la via è breve.

Non sarà tempo di provare a ragionare diversamente? Sempre e ovunque i cittadini pagano le tasse per avere in cambio alcune basilari funzioni di governo: legge e ordine, giustizia, sicurezza; e poi sanità, educazione, sicurezza sociale, una moneta come mezzo neutrale di scambio. Tassare e spendere per offrire alcuni o tutti (dipende, in ultima istanza, dalla sensibilità e dalle radici culturali di ogni popolo) quei beni pubblici, percepiti cioè dai cittadini come espressione di interessi collettivi, comuni, valori unitari superiori ai singoli interessi privati, consente a un governo di avere, anche e in seconda battuta, i mezzi per contrastare le crisi con la stabilizzazione macroeconomica anticiclica e la redistribuzione del reddito. Non si chiama comunismo, si chiama socialdemocrazia: una visione al tempo stesso democratica e socialista dello Stato. Niente di rivoluzionario, insomma.

Non si può, infatti, andare avanti all’infinito a fare le cose al rovescio, a confinare cioè l’Unione Europea a una missione di pura stabilità finanziaria e macroeconomica e far seguire da qui tutto il resto. Succede poi che la stabilità finanziaria viene meno e che a ciò segua il nulla. Occorre provare a guardare un po’ più avanti, a un assetto in cui la politica economico-fiscale derivi, come una logica conseguenza, dalle funzioni di governo tipiche di una forma statale, espressione di un dato contratto sociale - e non sia quella a guidare queste come accade invece nell’Unione Europea di oggi.

Alla fine, anche l’Unione Europea dovrà pure funzionare nell’unico modo logico e comprovato dalla storia: tassare e spendere per fornire alcune importanti funzioni di governo ai propri cittadini e su queste basi avere un Tesoro che accompagni l’azione della sua Banca Centrale, magari dopo averle cambiato Statuto, con qualche ampliamento degli obiettivi della sua azione. Qualcosa come un ministero europeo delle finanze che abbia legittimità finanziaria e politica.

Sono sessant’anni che se parla, si scrivono articoli e s’indicono convegni sul tema, ma non si scappa: bisogna realizzare gli Stati Uniti d’Europa. Per farlo ora sull’onda della più grande crisi economico-finanziaria dagli anni trenta, occorre - come sostenuto con forza anche recentemente da Emma Bonino sul Sole 24 Ore - vincere due grandi paure. La prima è quella di creare un super-stato europeo che soffochi gli stati nazionali. La seconda è quella che hanno tutti gli stati membri, chi più chi meno, di perdere sovranità proprie a favore di un centro federale.

Quanto alla prima, c’è da dire che la federazione che sarebbe realisticamente giusto fare oggi, lungi dall’essere un super-stato europeo sarebbe al contrario una “federazione leggera” che assorbirebbe e spenderebbe attorno al 5% del Pil europeo, mentre la spesa pubblica dei maggiori stati nazionali europei si aggira, oggi, attorno alla metà dei rispettivi Pil. Un bilancio da 600-700 miliardi di euro consentirebbe all’Unione di svolgere - anche e all’occorrenza - funzioni di stabilizzazione macroeconomica e di redistribuzione. Insomma, mettere in piedi una struttura istituzionale che abbia la legittimità a emanare atti di ordinaria politica fiscale, magari tassando di più gli Stati in espansione e meno quelli in recessione. Senza creare meccanismi ad hoc o peggio, dar luogo a tutta la pubblicità che circonda ogni vertice chiamato a decidere il prossimo pacchetto di aiuti ai paesi in difficoltà.

Le funzioni di governo che sarebbe logico spostare a livello europeo sono, in primo luogo, la difesa vista l’esistenza di ben 27 eserciti nazionali, 2 milioni di persone in divisa, per un costo complessivo di  230 miliardi di euro l’anno ed un’efficienza vicina allo zero; in secondo luogo, la diplomazia, compresi gli aiuti allo sviluppo e quelli umanitari; in terzo luogo, il controllo delle frontiere e dell’immigrazione, problema di carattere storico e non scaricabile sui singoli stati di confine; in quarto luogo, la creazione delle grandi reti infrastrutturali europee unitamente ad alcuni programmi di ricerca scientifica di grande respiro; il tutto senza smettere di fare quello che il bilancio dell’Unione fa già, ovvero gli aiuti alle regioni più povere e in ritardo di sviluppo.

Quanto alla perdita di sovranità questa c’è già ed è così evidente che è inutile avere remore o rimpianti. Mario Monti - il tecnico (o sarebbe meglio dire tecnocratico?) che potrebbe guidare un eventuale governo di transizione dopo la caduta del biscione - ha recentemente adombrato il concetto di un commissariamento del governo italiano da parte di “un governo tecnico sopranazionale…con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra, New York” a proposito della decisione, annunciata venerdì 5 agosto, di anticipare il pareggio di bilancio. In altre parole un golpe tecnocratico. Roba da Cile 2.0.

Ma per lo stesso commissariamento, va ricordato, sono già passati greci, portoghesi, irlandesi e spagnoli. E attenzione: anche la sovranità tedesca è, nei fatti, limitata dalle responsabilità che la Germania ha verso il resto dell’eurozona, nonostante giochi spesso pericolosamente a fare la parte dell’irresponsabile individualista. Indietro non è infatti possibile tornare, perché i debiti nazionali sono ormai quotati in euro, una moneta forte, ed un’eventuale fuoriuscita di una qualche nazione periferica dall’Unione Economica e Monetaria significherebbe esporre il paese de quo ad attacchi speculativi insostenibili.

Invece di avere un governo tecnico con sedi sparse in tutto il mondo, tanto vale allora avere un governo politico a livello federale a Bruxelles, con un mandato e dei poteri definiti e circoscritti per legge. Un governo cui tutti hanno già ceduto un pezzo della propria sovranità, e a cui tutti, in una logica di piena parità, dovrebbero riconoscere la possibilità di tassare e spendere cifre non enormi - una federazione leggera appunto - ma comunque significative. Sono ormai sessant’anni che l’Europa elude la soluzione del suo problema politico. Oggi, non fosse altro che per uscire da questa crisi e salvare l’euro, sembra a tutti arrivato il momento di rompere questo tabù e fare i conti la storia.

 

di Emanuela Pessina

Se lo scopo del vertice tra Berlino e Parigi era di rassicurare i mercati sulle sorti dell'area euro, allora si può dire che è stato un vero e proprio buco nell’acqua. Per proteggere l’euro dalla crisi, la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno proposto la creazione ex-novo di un Consiglio economico della zona euro, un’istituzione sovrannazionale che vada a garantire un maggiore equilibrio tra i Paesi membri dell’Unione europea (Ue) a 17. Un’idea di tutto rispetto, che andrebbe a risolvere uno dei punti più deboli dell’Unione, eppure le parole dei leader non sono riuscite a convincere i mercati: i nodi da sbrogliare sono ancora tanti e, per gli investitori, i risultati del vertice franco-tedesco rimangono l’ennesimo di una serie di esitanti placebo che non riescono a dare una sana prospettiva alla moneta unica.

La proposta è stata resa pubblica durante la conferenza stampa che ha seguito il vertice di martedì all’Eliseo. All’Unione europea non mancano le strutture interne, ma una maggiore volontà politica, e il futuro Consiglio economico (che si chiamerà Eurocouncil) è la risposta più immediata a questa necessità fondamentale. L’istituzione si riunirà una volta al mese, hanno anticipato i leader, sarà composto dai 17 capi di Stato e di governo della zona euro ed eleggerà un presidente stabile per due anni e mezzo. Per l’immediata guida del Consiglio, Sarkozy ha proposto l’attuale presidente Ue Herman Van Rompuy. La sua candidatura verrà formalizzata già in questi giorni.

Per costruire la volontà politica dell’Europa non bastano le istituzioni superiori e i due leader hanno stabilito ulteriori misure per regolare la politica economica interna di ogni Stato. Oltre a mantenere i conti pubblici in equilibrio, i 17 paesi membri saranno tenuti a ridurre il proprio debito pubblico entro l’estate 2012, una “regola d’oro”: in ogni Paese verrà istituita una commissione per stabilire le regole necessarie a frenare l'indebitamento. Per quel che riguarda le transazioni finanziarie, i leader hanno annunciato una nuova tassa a partire dal prossimo settembre.

Francia e Germania hanno ribadito ancora una volta l’intenzione di difendere la moneta unica e hanno speso molte parole di rassicurazione in questo senso: gli specialisti troveranno i mezzi per concretizzare questa volontà politica e per salvare l’Unione dal fallimento, di questo ne sono sicuri. “L’Euro è il nostro futuro, è la base del nostro benessere e sta anche alla base della nostra convivenza pacifica”, ha spiegato la Cancelliera. Eppure, i mercati non hanno apprezzato le buone intenzioni dei leader: i primi risultati da Wall Street e dalle Borse asiatiche hanno mostrato un’atmosfera ancora molto turbata, chiudendo in negativo proprio alla luce delle notizie deludenti provenienti da Parigi.

Perché, ancora una volta, la Germania si è dichiarata contraria all'utilizzo degli Eurobond: "Non penso che gli eurobond risolverebbero i problemi" dell'Eurozona, ha detto Angela Merkel, sostenuta da Sarkozy che ha puntualizzato che Parigi condivide la posizione di Berlino. A tradire i due Paesi è la paura di compromettere veramente la propria economia, un sentimento che trasmette poi l’insicurezza ai mercati di tutto il mondo. Il Governo tedesco e i Paesi dell'Europa del Nord si sono da sempre espressi contro gli eurobond, considerati una violazione di quell’ideale europeo secondo cui gli Stati membri cooperano pur rimanendo responsabili dei propri affari fiscali. Si potranno applicare in futuro, ha spiegato Sarkozy, quando “sarà completato il processo di integrazione economica” Gli eurobond sono quindi un’ipotesi da prendere in considerazione “alla fine del processo e non all'inizio''.

In conclusione si può dire che il vertice non ha portato novità clamorose e non è riuscito, nell’immediato, a dare la sicurezza che ci si aspettava. Il rafforzamento della governance economica dell’Unione è un passo avanti, e va a colmare un vuoto che accompagna l’Unione dalla sua fondazione, ma rimane sempre e comunque una promessa rivolta al futuro e non ha nulla a che fare con la crisi attuale. L’economia mondiale vacilla e la crisi deve essere affrontata con determinazione e lucidità: gli eurobond e l’aumento delle risorse del fondo salva Stati sembravano le soluzioni più vicine alla realtà, ma Francia e Germania hanno mostrato chiusura totale in questo senso. Rimane ora da vedere se l’Eurocouncil riuscirà, a medio e lungo termine, a tranquillizzare i mercati: il prendere tempo di Francia e Germania, per il momento, sembra un puro e semplice giocare con il fuoco e, neppure nell’immediato, è riuscito a illudere le piazze mondiali.

di Mario Braconi

Parafrasando la celebre canzone degli Smiths, “è panico per le strade di Londra” - ma anche per quelle di New York e di Berlino, si potrebbe dire. Tuttavia, in questo momento tanto grave per la finanza e per l’economia, giova un pizzico di freddezza e di senso dell'umorismo: se non fosse che le conseguenze della “crisi”, tanto per cambiare, saranno pagate dai soliti cittadini in gran parte ignari e certamente impotenti, vi sarebbe molto da sorridere.

Cominciamo con l’altissimo debito pubblico italiano: un dato innegabile, per carità, ma che oggi viene abilmente sfruttato come pretesto per giustificare quello che è solo un vile attacco speculativo ai danni di un intero continente (e forse di un intero sistema culturale - si veda anche la chiara resistenza di “qualcuno” ad avere un capo del Fondo Monetario Internazionale europeo). L’Italia ha un debito pubblico pari a circa il 120% del prodotto interno lordo; mentre quello degli USA, complici i necessari interventi pubblici causati dalle gesta dei “terroristi” delle banche d’affari internazionali, veleggia allegramente attorno al 100%. Si dirà che la capacità di crescita degli USA non è quella italiana, soffocata dall’immobilismo e dalle rendite, ma resta il fatto che si tratta di dati comparabili. Eppure, almeno fino al clamoroso coup de théâtre messo a segno lo scorso venerdì da Standard & Poor’s, secondo il razionalissimo verdetto dei “mercati?h i nostri BTP erano carta straccia, mentre il debito pubblico USA continuava ad essere considerato un porto sicuro.

Giusto per capire come funziona questa kinderhaus che abbiamo il coraggio di chiamare “mercato finanziario”, risulterebbe che il verdetto negativo che ha colpito il rating del debito pubblico americano si basi su calcoli non proprio esattissimi: secondo John Bellows, Assistant Secretary alle Politiche Economiche del Tesoro USA, il modello di S&P contiene delle ipotesi errate, che porterebbero ad una sopravvalutazione del debito pubblico USA di “soli” 2.000 miliardi di dollari. Una piccola svista, può succedere...

La cosa veramente comica è che l’agenzia di rating, sulla scorta della nota di Bellows, si mette al lavoro per verificare il suo compitino, concludendo che... effettivamente l’errore c’è. Già l’idea che i mercati finanziari mondiali siano nelle mani di analisti talmente inesperti da commettere errori sesquipedali come questi gela il sangue. Perché vuol dire che il destino di tutti noi, cittadini globali è nelle mani di una organizzazione che non è in grado nemmeno di impedire agli incapaci che lavorano tra le sue file di fare danni... Ma non basta. La tracotanza di S&P, si spinge oltre: anche se i calcoli erano completamente sbagliati, per sua stessa ammissione, il verdetto negativo non cambia. Cambia però la giustificazione: ad allarmare l’agenzia, ora, non sono tanto i numeri, quanto l’affidabilità della classe politica americana, effettivamente appannata dagli eccessi autolesionistici ed irresponsabili del Tea Party, una minoranza di esaltati senza cervello, in grado però di condizionare settori conservatori normalmente più ragionevoli. Con questo ultimo episodio, dovrebbe essere finalmente chiaro a tutti quanto vale il giudizio delle agenzie di rating: meno di zero. L’incompetenza e l’irresponsabilità dimostrate sono talmente macroscopiche che perfino le persone meno inclini a vedere complotti in ogni dove si possono sentire legittimate ad interpretare  l’ultima boutade di S&P come una mossa destinata a danneggiare Obama.

Ed in effetti, l’impressione che si ricava osservando i recenti eventi sui mercati finanziari è quella che si riporterebbe vedendo un ubriaco alla guida di una Ferrari. Sì, perché, se è vero che i mercati completamente liberalizzati corrono come una Rossa di Maranello, è altrettanto vero che le persone che li dovrebbero guidare, o almeno capire, sono addormentate o in stato di ebbrezza. Si è già detto delle agenzie di rating; si è accennato en passant all’atteggiamento irresponsabile dei Repubblicani che hanno dato cittadinanza ai deliri dei Tea Party. Ma  alla lista bisogna anche aggiungere politici e politicanti europei.

Brilla in particolare per atomismo ed irresponsabilità la Banca Centrale Europea. E’ infatti noto che nei “liberi” mercati il modo più sicuro per avere ragione è mostrare i muscoli, e magari anche agitare una mazza da baseball mantenendo un’espressione truce. Fuor di metafora, per calmare i bollenti spiriti “animali” degli speculatori che hanno deciso di distruggere l’Europa, sarebbe bastato far capire che, per ogni vendita di titoli di stato effettuata a scopo speculativo, ci sarebbe stata un’entità in grado di ricomprarsi tutto fino all’ultimo euro, stampando carta se necessario, ovvero la Banca Centrale Europea. Gli speculatori, si sa, sono parassiti, e niente li avrebbe spaventati di più di un avversario che, per definizione, può cambiare a suo favore le regole del gioco (cosa in cui loro sono normalmente abilissimi, pur avendo limiti che un’istituzione sovranazionale non ha).

Viceversa, come ormai è consuetudine, è prevalso il particolarismo della Germania, che ha gettato le basi per interventi di sostegno contraddittori: dapprima “Portogallo e Grecia sì, ma Italia e Spagna no”. Salvo poi passare a sostegno per tutti i paesi in difficoltà. Si è perso tempo, molto denaro, e quel che è peggio, credibilità nei confronti dei parassiti, che ne hanno approfittato per continuare a rubare denaro. Il tutto reso ancora più surreale dal fatto che ad un cittadino europeo ormai letteralmente in mutande venivano imposti ulteriori sacrifici a suon di dichiarazioni roboanti e moralistiche; il tutto il governo italiano, pure impegnato a dare il contentino a Eurotower, continuava a rifiutare una onorevole via di fuga, ovvero l'introduzione di un’imposta patrimoniale. Tutto questo porta alla triste conclusione che l’incapacità dei politici è il carburante con il quale viaggiano i fuoribordo della speculazione.

di Ilvio Pannullo

La notizia è ormai conosciuta da tutti. È sempre la stessa da qualche mese a questa parte. Apre tutti i giornali e i telegiornali della nazione, tanto da aver costretto anche il più riottoso italiano ad informarsi su cosa sia il differenziale tra i Buoni Ordinari del Tesoro italiani e i Bund tedeschi. Si potrebbe ragionevolmente considerarla un aggiornamento, un triste aggiornamento. Ecco l’ultimo: ieri, 4 agosto, per la seconda volta nell’anno 2011, le borse europee sono state sospese a causa delle perdite senza freni dei listini. Alla fine per l’Italia il risultato finale ha visto la Borsa di Milano perdere il 5,6%. Il numero merita però una spiegazione: ieri, 4 agosto, una tempesta di panico, paura, credibilità e speculazione si è abbattuta sui pilastri fondamentali della nostra economia. I titoli di Stato italiani, lo strumento economico-giuiridico grazie al quale il paese finanzia le proprie spese pubbliche, hanno ieri accusato il colpo raggiungendo il livello dei titoli spagnoli, salvo poi tornare sotto i 400 punti. Una ben triste consolazione.

Vanno giù tutte le Borse asiatiche: Tokyo, Shanghai, Sydney e Seul segnalano pesanti ribassi sulla scia delle chiusure negative dei mercati europei e di Wall Street. La peggiore è Taiwan che chiude a -5.58%.  Peggio solo noi. Si comprende dunque la febbricitante attesa per la giornata di oggi, soprattutto per Piazza Affari, che apre negativa. Il Ftse Mib all'inizio della giornata di ieri segnava un calo del 3,23%. Raffica di sospensioni per eccesso di ribasso, poi il cambio di direzione e il leggero recupero. Negative anche le aperture di tutte le altre borse europee. Fin qui l’aggiornamento. Ma qual è il senso di tutto questo? Quali sono gli insegnamenti che se ne dovrebbero dedurre?

In primo luogo quanto sta accadendo ci dovrebbe far riflettere sul valore delle nostre democrazie rappresentative. La delegazione senza vincolo di mandato della sovranità popolare, in favore di una classe dirigente non preventivamente selezionata attraverso rigide procedure, ha drammaticamente fallito. Appare oltremodo evidente infatti che i nostri leader, tutti, dai politici di governo a quelli di opposizione, dal Presidente della Repubblica ai sindacati, agli industriali, hanno deciso di lasciarci andare a fondo pur di non ammettere che la causa principale della situazione è l’unificazione della moneta, e riconoscere, quindi, che il progetto era sbagliato. Non che sia sbagliata l’idea in sé, piuttosto sono state sbagliate le modalità attraverso le quali il progetto è stato realizzato. E’ sorprendente che perfino Berlusconi, accusato di tutte le colpe possibili e immaginabili, non abbia fatto nemmeno un’allusione a questo problema, nel discorso tenuto alla Camera e al Senato proprio per illustrare la situazione economica del Paese.

Costruire una Unione Economica e Monetaria doveva originariamente essere l’inizio di un progetto molto più ambizioso: creare un’Europa unita, una Nazione Europea. Le difficoltà politiche implicate nell’operazione erano straordinarie, apparentemente insuperabili. Appariva come un sogno, una meta: il mondo vero, irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile, ma in quanto già pensato una consolazione, un dovere, un imperativo per tutte le classi dirigenti di un continente dilaniato da due guerre mondiali. Si pensò o si indusse a pensare che l’unificazione economica e monetaria avrebbe poi inevitabilmente portato, gradualmente, ad un’unificazione politica. Così non è stato. Dopo 25 anni dalla firma dell’Atto Unico Europeo nel 1986 e dopo 18 anni da quel 1° novembre del 1993, giorno in cui entrò in vigore il Trattato di Maastricht, o Trattato sull'Unione Europea, allora firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht, dai dodici paesi membri dell'allora Comunità Europea, oggi Unione Europea, nulla di tutto ciò che era stato promesso è stato realizzato. La patria europea rimane un miraggio e ciò che rimane è il senso di amarezza quando si coglie la distanza tra che poteva essere e ciò che è: un gigante economico ora incalzato dalle potenze emergenti di tutti i continenti, un nano politico privo di una voce che possa impegnare tutti gli Stati membri dell’Unione, un verme militare senza bandiera né inno.

In secondo luogo si dovrebbero analizzare le reali ragioni dello status quo e proporre delle soluzioni ragionevoli e dunque concretamente e politicamente praticabili. Proporre l’uscita della Germania dall’euro, come fatto dal premio nobel per l’economia Stiglitz, non può che essere una provocazione in quanto la moneta unica è stata creata proprio nell’interesse tedesco. Dunque cosa fare? Ritornare a battere una moneta il cui valore sia correlato alla nostra economia appare l’unica strada sana e ragionevole, non soltanto per noi ma per molti paesi dell’Unione, quali la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo, visto che è evidentemente una finzione e una falsità che paesi finanziariamente così deboli siano titolari di una moneta apparentemente forte perché corrispondente, sotto il nome di “euro”, al vecchio marco tedesco. È dunque di una finzione che si sta parlando, una falsità che i mercati e le Borse valori di tutto il mondo stanno “giustamente” distruggendo.

Si parla molto in questi giorni dell’aggressione all’euro da parte degli speculatori, ma si tace sui motivi per i quali questa speculazione sia capace di metterci al tappeto con tanta facilità. Dopo tutto come europei siamo il popolo che ha conquistato il mondo intero, ad esclusione della penisola asiatica – geograficamente e antropologicamente l’Eurasia è infatti un unico blocco continentale. La popolazione sfiora i 450 milioni di persone, eppure sembra basti poco per metterle in ginocchio tutte in poco tempo. La verità è stata da tempo raccontata: l’euro – quella che ci viene venduta come la “nostra” moneta – è una moneta fabbricata (“emessa”) da una banca che porta un nome fittizio e truffaldino: si chiama Banca Centrale Europea, ma gli Stati europei non vi hanno quasi nulla a che fare in quanto appartiene a privati cittadini.

Il suo capitale sociale è diviso in quote di proprietà delle singole Banche Centrali Nazionali ed insieme formano il SEBC: il Sistema Europeo di Banche Centrali. Le singole Banche Centrali Nazionali sono a loro volta istituti di diritto pubblico (istituti cioè disciplinati dal diritto pubblico) la cui veste giuridica è quella di mere società per azioni. La proprietà delle azioni, del capitale sociale, implica dunque la proprietà degli istituti di diritto pubblico che sono a loro volta i proprietari della Banca Centrale Europea. Il cerchio si chiude quando si leggono i nomi delle società per azioni proprietarie del capitale sociale delle Banche Centrali Nazionali: semplicemente le banche e i gruppi assicurativi più potenti delle singole aree di influenza. Gli organismi di diritto pubblico chiamati a sorvegliare e garantire la correttezza del sistema bancario sono espressione delle banche e dei gruppi assicurativi, che vantano la più alta capitalizzazione nelle rispettive Borse valori. In altre parole controllori e controllati esprimono interessi comuni. Detto ancora più semplicemente: il conflitto d’interessi più devastante e spaventoso che si sia mai manifestato in questo angolo di mondo.

Per non rimanere sul vago e ragionare astrattamente, si fa riferimento a singoli gruppi di banchieri banchieri, famiglie ricchissime che esercitano l’attività bancaria fin da quando questa ha iniziato ad affermarsi sul nostro continente: dai Fugger di Amburgo ai Roschildt di Francoforte, che possiedono anche buona parte di altre banche, come ancora i famosi Rockfeller, e ancora re e regine anch’essi ricchissimi, quali la Regina d’Olanda Beatrice (una delle donne più ricche del mondo), la regina di Spagna Sofia, il re del Belgio Baldovino, la Regina d’Inghilterra Elisabetta II, solo per citare i più noti ed influenti. L’euro, dunque, è un caso unico nella storia: una moneta che non ha nessuno Stato alle spalle e che, di conseguenza, non ha nessuna entità istituzionale capace di garantirla. Si parla infatti di debiti “sovrani” quando ci si riferisce ai debiti degli Stati, in quanto sono gli Stati che sono “sovrani”, ossia esprimono potere, territorio e autorità su popoli che da loro dipendono e che al tempo stesso ne garantiscono la sovranità. La Banca Centrale Europea non possiede ovviamente nessuna sovranità, così come non la possiede l’Unione Europea non essendo il Parlamento europeo depositario ex lege di alcuna sovranità: entrambe, quindi, non sono (recte: non sarebbero) legittimate a produrre e far circolare nessuna moneta.

L’Unione Europea ricorda come struttura l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Unesco, e cioè organizzazioni internazionali istituite in forza di accordi internazionali, dotati ciascuno di essi di particolari compiti e particolari strutture. Rimane però il punto di cui sopra: non sono Stati sovrani. Farebbe davvero ridere se l’Onu, per esempio, pretendesse di emettere una moneta valida per tutti gli Stati che vi appartengono. L’euro è perciò una moneta “finta” e non regge alla prova dei fatti in quanto nessuno può garantirla. Dunque, delle due l’una: o si cambiano d’imperio gli obiettivi statutari della Banca Centrale Europea – cosa vietata ad oggi dagli stessi Statuti, della BCE e del SEBC – o gli Stati sovrani d’Europa, e cioè i popoli detentori delle singole sovranità nazionali, farebbero bene a salvaguardare i propri interessi per continuare ad immaginare un futuro libero e sostenibile.


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