di Ilvio Pannullo

Tutto pare abbia avuto inizio in Grecia, un tempo culla della democrazia e patria del pensiero classico, oggi terra di sciacalli, periferia degradata di quel mondo occidentale che ha contribuito a forgiare. Ma a quanto ammonta realmente il debito pubblico della Grecia? Visto che potrebbe far saltare l'intera zona euro vale la pena di analizzare qualche numero: si tratta di 350 miliardi di euro.

È certo una bella somma. La quale però rappresenta soltanto il 3,7% del Pil dell'intera zona euro, esclusa quindi una grande economia come il Regno Unito. Non soltanto: il 43% di tale debito è in mano a creditori greci, che per metà sono banche. Quindi, se la matematica non è un’opinione, poco più di 150 miliardi di euro andrebbero espunti dal conto.

Dal totale vanno ancora tolti 7 miliardi di debiti verso gli Usa, 3 verso la Svizzera, circa 2 nei confronti del Giappone. Il debito greco verso la Ue (banche e Stati compresi) consistente soprattutto in obbligazioni e altri titoli, ammonta dunque a meno di 190 miliardi di euro, di cui circa 35 sono dovuti alla Bce. Ora, dal 2008 ad oggi i Paesi europei, Svizzera esclusa, hanno speso o accantonato oltre 3.000 miliardi di euro per salvare le proprie istituzioni finanziarie. Ed ora davvero tremano perché un'economia tutto sommato periferica è in difficoltà per ripagare, a rate, poco più del 6% di tale somma? È evidente che ci sia qualcosa che non va nell'intera faccenda.

Le cose che non vanno sono principalmente due. La crisi greca è in primo luogo un'anteprima di quel che potrebbe succedere ad altri Paesi, Italia compresa, se i governi europei non la smettono di subire le manovre del sistema finanziario, ivi comprese le agenzie di valutazione, e non provano sul serio a regolarlo, anche per evitare che ci piombi addosso tra breve una crisi peggiore di quella del 2008. Lo scenario comprende com'è ovvio il rinnovo potenziato di manovre speculative che i maggiori gruppi finanziari costruiscono scientemente per estrarne il maggior profitto possibile in forma di interessi e plusvalenze; il che implica, come insegnano i modelli di gestione del rischio, il far correre un rischio elevato non già ai gruppi stessi, bensì ai cittadini oggi greci, domani spagnoli o italiani.

Ma comprende anche una spinta selvaggia alle privatizzazioni, che essendo condotte sotto la sferza della troika Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea, consisteranno al caso in vere e proprie svendite di immensi patrimoni nazionali. L'Italia, dopotutto, ha ottomila chilometri di coste e centinaia di isole da mettere all'asta, più il Colosseo e magari l'intera Venezia; altro che la Grecia.

Una seconda cosa che non va è la Bce. Il suo limite fondamentale, imposto dal trattato istitutivo dell’Unione Europea, sta nell'avere come massimo scopo statutario la stabilità dei prezzi, ossia la difesa dall'inflazione. Ciò spiega in parte la lentezza e la goffaggine con cui si è mossa a fronte della crisi greca. Ma un simile limite equivale a decidere per legge, poniamo, che il pronto soccorso del maggior ospedale cittadino si occupa soltanto di lesioni alla gamba sinistra. Le altre due banche centrali dell'Occidente, la Banca d'Inghilterra e la Fed, hanno tra i loro scopi statutari anche lo sviluppo e la crescita dell'occupazione.

Scopi che perseguono anche creando esplicitamente nuovo denaro: una funzione fondamentale che gli stati europei hanno ceduto alla Bce, ma che questa non sembra voler esercitare come, dove e quando ne avrebbero bisogno. Per questo motivo nella Ue cominciano a moltiplicarsi le voci favorevoli a un ampliamento degli scopi statutari della Bce.

La crisi greca potrebbe essere una buona occasione per passare dalle voci all'azione. Sempre che i governi non temano di disturbare la macchina di cui sono per ora a rimorchio. Diversamente sarà difficile glissare o tacciare di complottiamo quanti sono pronti a giurare che quanto sta accadendo è il tentativo di ridurre a discrezione gli Stati, un tempo sovrani ed ora schiavi del sistema finanziario e monetario. L’illogicità manifesta delle politiche europee non lascia, infatti, spazio a dubbi.

Il programma di salvataggio della Grecia su cui si è trovata la mediazione tra i paesi dell’area euro, ed essenzialmente tra la Germania e gli altri paesi, serve ad esempio solo per guadagnare tempo, ma non consente di andare alla soluzione dei problemi strutturali della Grecia. Le condizioni del prestito, seppur preveda tassi sensibilmente inferiori a quelli insostenibili ai quali la Grecia è in grado attualmente di trovare credito sul mercato, non è compatibile con il basso tasso di crescita al quale la Grecia è condannata nei prossimi anni dalla necessità di tagliare il suo deficit pubblico, dalla sua scarsa competitività internazionale e dalla probabile stagnazione della domanda interna europea. I mercati ne hanno consapevolezza e, quindi, le risorse che eventualmente verranno dedicate a tamponare la crisi rischiano di essere sprecate.

Quel che appare evidente è che l’incertezza dell’azione europea riflette l’inesistenza di una strategia europea di uscita dalla crisi, come del resto non c’è stata una effettiva azione europea di contrasto alla crisi. Sono stati i singoli stati ad intervenire con una certa efficacia di fronte all’emergenza della crisi finanziaria ed a tentare di coordinarsi tra di loro, mostrando ancora una volta l’evanescenza politica delle istituzioni economiche europee. Ma quel che ha parzialmente funzionato nell’emergenza non funziona più nel momento in cui i singoli stati europei si trovano ad affrontare in modo non coordinato il mutamento profondo della geografia economica del mondo con cui devono misurarsi per uscire dalla crisi.

L’idea tedesca di poter imporre forti cure di risanamento finanziario ai paesi europei in deficit negando al tempo stesso sia un aiuto finanziario sia un’espansione della sua domanda interna che consentirebbe di trainare la loro ripresa economica è inconsistente. Essa rappresenta il vero pericolo per la tenuta della moneta unica ed il principale ostacolo per affrontare i nodi istituzionali che rendono evanescente la governance economica dell’Europa. In sintesi, il mercato interno europeo è ancora troppo importante per poter immaginare che la crescita di tutti gli stati europei possa essere trainata solo dalla crescita economica extraeuropea.

Delle due l’una: o si trova un modo per ristrutturare i debiti sovrani (e di possibilità alternative ce sono; a mancare è come sempre una chiara volontà politica in questo senso da parte dei governi europei) o la ristrutturazione forzata dei bilanci continentali farà piombare l’Europa in una profonda recessione. Se, come tutto fa pensare, verrà scelta la seconda ipotesi c’è già chi ha proposto una soluzione: secondo il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, l’unica possibilità sarebbe in questo caso rappresentata dall’uscita della Germania da Eurolandia e dalla conseguente svalutazione della moneta unica. Un fallimento epocale per il nostro continente, che segnerebbe la fine di ogni speranza per quanti sognano un’Europa politicamente unita e federale.

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