di Mario Braconi

Si è finalmente chiuso, dopo febbrili trattative protrattesi nella nottata, il vertice di Bruxelles. Non poteva mancare, ovviamente, il colpo di teatro dell’ulteriore richiamo alla serietà, diretto all’Italia: cui del resto Silvio Berlusconi ha dato seguito da par suo con una missiva nella quale sostiene che il governo italiano ha finalmente raggiunto l’accordo sull’età pensionabile a 67 anni, oltre a dare una serie di rassicurazioni.

Peccato che, come ricorda stamattina Roberto Petrini su La Repubblica, la proroga dell’età pensionabile era già pienamente operativa già dopo la manovra di Ferragosto. E peccato che, in ossequio al signor Bossi (la cui consorte è andata in pensione d’anzianità molto prima dei cinquanta anni,) il nodo delle pensioni di anzianità non sia stato toccato: non a caso i percettori delle pensioni di anzianità sono soprattutto in “Padania”.

Insomma, alla forzatura politica dell’ulteriore appello in extremis all’Italia un personaggio come il nostro presidente del Consiglio non poteva che rispondere con una burla. Anche se a Bruxelles sembra che la storiella del ritocco alle pensioni e della brillante negoziazione con Bossi se la siano bevuta (o per lo meno, hanno finto in modo convincente).

Nella lettera di Berlusconi salta però fuori una brutta sorpresa che certifica le intenzioni del governo sul mercato del lavoro. Nella missiva, infatti, si promette di dar corso, entro maggio dell’anno venturo, a una riforma che ha come obiettivo rendere più agevoli i licenziamenti dei lavoratori privati a tempo indeterminato per “motivazioni economiche”. La misura non costituisce una novità assoluta, dato che aveva già fatto la sua comparsa nelle pieghe della seconda puntata della telenovela estiva sulla manovra. Nella più benevola delle ipotesi, essa dovrebbe rispondere alla tortuosa argomentazione politica secondo cui una maggior facilità di licenziamento dovrebbe consentire una maggiore facilità di assunzione, e tassi di occupazione più elevati equivarrebbero a più elevato prelievo dal lavoro dipendente.

I precedenti, sfortunatamente, censurano ogni ottimismo. E’ nei fatti la declinazione compiutamente classista con cui il governo ha finora dato seguito ai diktat europei: drenando risorse dall’IVA (che ovviamente pesa più sui lavoratori dipendenti con i redditi più bassi) piuttosto che tassare i patrimoni; proteggendo i ricchi che guadagnano fino a 150.000 euro, dando poi al popolo il contentino della simbolica “punizione” di una manciata di super-ricchi onesti (cosa che peraltro gli è valsa un gettito nell’ordine delle decine di milioni di euro); considerando il patrimonio dello stato come un’occasione per far fare agli amici ottimi affari a prezzo di realizzo anziché un possibile, interessante cespite (con possibili ricadute sociali positive sulle categorie più deboli, impossibilitate ad accedere ad un mercato delle locazioni ancora drogato a dispetto della crisi del mercato immobiliare); infine, non facendo nulla contro l’evasione fiscale, al netto di vuoti proclami dei cui gli evasori si sono abituati a non preoccuparsi.

In effetti, in un Paese serio un dibattito di questo genere sarebbe accompagnato e sostenuto da proposte credibili di rinforzo del welfare per garantire un sussidio dignitoso fino alla successiva occupazione alle persone rimaste senza lavoro. Non in Italia, dove il Governo sembra un bambino intento a giocare al piccolo chirurgo, veloce di bisturi ma facile ad annoiarsi quando si tratti di ricucire. Non in Italia, appunto, forse l’unico paese al mondo dove programmi socialmente impervi vengono formalizzati ai massimi livelli di formalità internazionale, mentre al dibattito sulle ricadute sociali viene sostituito uno stucchevole monologo televisivo. Il tutto senza contare il piccolo dettaglio che l’eventuale ricorso alla Cassa Integrazione, sbandierato coram populo dal Premier nel salotto degli orrori, a occhio vuol dire maggiore spesa pubblica, in un momento in cui non si fa che parlare di tagli.

Lasciando da parte le deprimenti considerazioni sull’Italia, il vertice di Bruxelles si è chiuso con un accordo formale sui due temi più critici, ovvero la cosiddetta “partecipazione volontaria” alle perdite sui titoli di stato greci e sulla forma tecnica da dare al fondo di stabilità finanziaria europea (EFSF). Quanto al primo punto, l’Euro Summit Statement pubblicato ieri notte ribadisce l’obiettivo di ricondurre il debito greco al 120% del PIL (oggi è al 160%) entro il 2020. Per fare questo, gli Eurostati “chiedono” agli investitori privati di accettare, come rimborso dei loro titoli in portafogli, la metà del loro valore nominale. Per ogni titolo di stato in scadenza, diciamo del valore di 100 euro, il portatore potrà “scegliere” di accettarne 50 cash, ovvero vederselo sostituire con un altro titolo di stato greco con durata molto più lunga (in precedenza si è trattato di titoli trentennali).

Anche se il documento rimanda i dettagli ad una fase negoziale futura, la proposta porta già l’imprimatur di Charles Dallara, supremo capo della IIF (Institute of International Finance) che, stando a Bloomberg, avrebbe confermato per e-mail l’accordo della associazione bancaria. Dallara ha tenuto a precisare che l’eventuale sostituzione con titoli di più lunga durata dovrà avvenire alle stesse condizioni di quelle previste per il rimborso cash, ovvero al 50%. Questo vuol dire che per le banche internazionali è accettabile una dilazione nel rimborso tale che il valore attualizzato dei titoli non sia inferiore alla metà del loro valore nominale iniziale. La buona notizia è che, del pacchetto di 130 miliardi di euro (la famosa “seconda tranche”) ben 30 sono messi a disposizione del Private Sector Involvement, cosa che obiettivamente facilità la sua digeribilità.

Quanto a EFSF, il summit si chiude con una conferma su “cosa” sarà chiamato a fare: “supportare l’accesso al mercato per gli stati membri che debbano affrontare pressioni di mercato ed assicurare un adeguato funzionamento del mercato del debito sovrano euro, senza compromettere il merito di credito di EFSF”. Tradotto, a regime EFSF prenderà il testimone dalla BCE, rilevandola dallo sgradito compito di acquistare i titoli di stato greci e italiani e fungerà da garante (a pagamento) per le nuove emissioni europee facilitandone il collocamento e tenendo sotto controllo i tassi.

Ma come si finanzierà? Chiuso il possibile rubinetto della BCE e vietato l’incremento di garanzie da parte degli stati membri (come voleva la Germania), EFSF si sosterrà finanziariamente con le commissioni ricevute dagli investitori privati come contropartita della garanzia da un lato e sollecitando il mercato degli investitori privati tramite una serie SPV (“special purpose vehicle”). Sembra davvero che la Merkel sia riuscita nel disperato tentativo di tenere assieme tutti gli angoli della coperta, impedendo un aggravio di costi per i suoi contribuenti, garantendo l’indipendenza della banca centrale, e trovando una soluzione per le nuove emissioni dei paesi a rischio.

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