di Carlo Musilli

Non solo subprime e Libor. Dopo gli scandali di portata globale su mutui immobiliari e tassi interbancari, la grande finanza dimostra di non essere affatto schizzinosa. Quando c'è da sporcarsi le mani con una bell'imbroglio sui derivati, vanno bene anche le realtà meno estese. Perfino gli enti locali italiani. Il Tribunale penale di Milano ha condannato in primo grado per truffa ai danni del Comune tre giganti dei mercati mondiali più una loro sorellina minore: Deutsche Bank, Ubs, JP Morgan e l'outsider Depfa Bank.

Ogni istituto sarà costretto a pagare un milione di euro. Disposta anche la confisca di 88 milioni di euro in tutto, ovvero il presunto profitto dei reati. Nove manager sono stati condannati a pene comprese fra i sei e gli otto mesi, mentre altri quattro sono stati assolti. Tutte le richieste della Procura sono state accolte.

Il procuratore aggiunto Alfredo Robledo parla di "sentenza storica, perché è stato riconosciuto il principio fondamentale che ci deve essere trasparenza da parte delle banche nel contrattare con la pubblica amministrazione. Gli istituti hanno raggirato il Comune di Milano”, mettendo in atto "un'aggressione alla comunità" per via “dell'opacità assoluta dell'operazione".

Se consideriamo il patrimonio di banche di quel livello, la multa stabilita dal giudice italiano Oscar Magi equivale agli spicci per la merenda. Ma la sentenza ha valore in sé, perché dimostra per l'ennesima volta una tara di fondo dell'economia contemporanea: da anni viviamo una crisi recessiva nata dalla speculazione finanziaria, eppure mancano ancora delle regole minimamente convincenti per questo genere d'operazioni.

In effetti, quando si parla di derivati, il problema di fondo è sempre lo stesso: l'asimmetria informativa. Chi vende questi prodotti finanziari particolarmente complessi gioca sul fatto che gli acquirenti non sono in grado di valutare autonomamente il rischio e le potenzialità dell'investimento. Devono fidarsi, poveri loro.

In teoria sarebbe compito delle agenzie di rating fare chiarezza sulla reale natura degli strumenti in circolazione sul mercato, ma come diversi casi hanno dimostrato (su tutti la bomba dei mutui subprime) spesso queste aziende di presunti super-esperti si sono rivelate complici dei truffatori. E questo per un conflitto d'interessi originario e mai sanato: le agenzie di rating vengono pagate da chi emette i titoli, ovvero da chi dovrebbe finire sotto il microscopio dell'analisi finanziaria.

Il caso milanese ha più o meno la stessa struttura. Il giudice ha ritenuto che le quattro banche abbiano fornito all’amministrazione comunale informazioni scorrette sui contratti stipulati. In particolare, nel mirino della magistratura è finito uno swap (uno strumento che appartiene alla famiglia dei derivati) stipulato nel 2005 su un bond da 1,68 miliardi di euro con scadenza nel 2035.

Durante le indagini, alle quattro banche erano stati sequestrati 108 milioni di euro, ma il provvedimento era stato ritirato nel marzo scorso. Una decisione arrivata grazie all'accordo raggiunto fra gli istituti e il Comune di Milano: nel giro di alcuni anni, 400 milioni affluiranno nelle casse dell'amministrazione, che in cambio ha rinunciato a costituirsi parte civile. Non ci ha rinunciato invece l'Adusbef, associazione dei consumatori e unica parte civile nel processo, che riceverà 50 milioni a titolo di risarcimento.

Dal canto loro, le banche condannate continuano ad affermare la propria innocenza. "Deutsche Bank rimane convinta di aver agito correttamente, come pure i suoi dipendenti - si legge in una nota-. La Banca intende quindi ricorrere in appello confidando in una risoluzione positiva del processo''. Sulla stessa linea Ubs, che "esprime disappunto" e "ritiene che la propria condotta e quella dei propri dipendenti siano state del tutto conformi alla legge". Non ci sta nemmeno JP Morgan a fare mea culpa. Chissà allora a cosa sono serviti quei 400 milioni.

 

di Michele Paris

Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato questa settimana il raggiungimento di un accordo con il colosso bancario HSBC, in base al quale viene escluso qualsiasi procedimento giudiziario a carico di quest’ultimo in cambio del pagamento di una maxi-multa da quasi due miliardi di dollari. La banca britannica è accusata di avere riciclato centinaia di milioni di dollari per i cartelli latinoamericani del narco-traffico e di avere condotto transazioni finanziarie con paesi sottoposti a sanzioni americane, come Cuba, Iran, Sudan, Libia e Myanmar.

Le prove raccolte dall’indagine negli Stati Uniti sul comportamento di HSBC sono più che abbondanti, come ha confermato l’assistente del ministro della Giustizia, Lanny Breuer, nella presentazione dei termini che hanno risolto la vicenda. Ciononostante, i vertici di HSBC hanno potuto evitare il rinvio a giudizio perché, a detta delle stesse autorità americane, la loro banca è un’istituzione troppo grande e importante per essere sottoposta ad un processo penale. L’incriminazione formale di HSBC potrebbe provocare infatti pericolose scosse per il sistema finanziario internazionale.

Dopo che nessun esponente di spicco delle grandi banche d’affari che hanno provocato la crisi del 2008 è stato finora sfiorato da procedimenti giudiziari, la recente decisione relativa a HSBC conferma dunque che questi istituti hanno totale libertà di operare con metodi criminali per accumulare profitti enormi senza doversi preoccupare delle conseguenze legali.

Essi, in definitiva e per stessa ammissione delle agenzie governative che dovrebbero controllarli e che invece fungono da protettori a tutti gli effetti, sono di fatto al di sopra della legge.

Secondo l’accordo raggiunto con il Dipartimento di Giustizia, HSBC dovrà pagare una penale pari a 1,9 miliardi di dollari, una cifra record per vicende di questo genere ma in realtà minima per la gravità delle accuse e per una compagnia che nel solo 2011 ha registrato profitti per ben 22 miliardi di dollari e che vale complessivamente qualcosa come 2.500 miliardi.

Oltre ad avere disposto la sanzione, il governo americano si è riservato il diritto di aprire un procedimento penale in qualsiasi momento nei prossimi cinque anni, nel caso HSBC dovesse nuovamente violare la legge. Questa minaccia appare tuttavia una mera formalità, tanto che il giorno successivo all’annuncio del patteggiamento le azioni della banca a Wall Street hanno fatto segnare un rialzo di mezzo punto percentuale.

I massimi dirigenti di HSBC hanno anche dovuto ammettere le proprie responsabilità per avere violato il “Bank Secrecy Act” del 1970, la legge americana che impone alle banche di verificare e prevenire operazioni di sospetto riciclaggio, così come di avere contravvenuto alle sanzioni imposte dal governo degli Stati Uniti ai paesi citati in precedenza.

Il dettaglio delle transazioni proibite condotte da HSBC sono state descritte dallo stesso Dipartimento di Giustizia, secondo il quale la banca con sede a Londra tra il 2006 e il 2010 ha contribuito al riciclaggio di quasi 900 milioni di dollari provenienti dal traffico di stupefacenti e da altre attività illegali di organizzazioni come il Cartello di Sinaloa messicano e quello di Norte del Valle colombiano.

Secondo Breuer, “i trafficanti non hanno dovuto faticare molto” per ripulire il loro denaro e spesso effettuavano depositi di centinaia di migliaia di dollari presso le filiali messicane di HSBC “in contanti, in un singolo giorno, su un singolo conto corrente, utilizzando scatole della misura adatta per passare attraverso i vetri degli sportelli”.

Queste transazioni finivano per confondersi tra le numerosissime altre che intercorrono quotidianamente tra le filiali HSBC americane e messicane. A volte, il denaro veniva dai guadagni generati dalla vendita di droga in territorio statunitense ed era successivamente trasportato illegalmente in Messico. Da qui veniva poi depositato presso uno sportello della HSBC per essere infine trasferito, e ripulito, ad un’agenzia della stessa banca oltre il confine settentrionale.

Le attività di HSBC erano già state oggetto nei mesi scorsi di un’indagine di una sotto-commissione del Senato di Washington, in base alla quale era emerso il massiccio riciclaggio di denaro dei narcos messicani. La stessa commissione aveva puntato il dito anche contro l’agenzia federale deputata al controllo delle banche operanti negli USA (“Office of the Comptroller of the Currency”) poiché essa nella sua attività di supervisione degli istituti di credito nel 2010, pur avendo complessivamente identificato come sospetti 17 mila conti corrente e transazioni per 60 mila miliardi di dollari, non aveva nemmeno ritenuto di dover sanzionare HSBC.

Se le dimensioni del traffico di denaro illegale passato attraverso le filiali di HSBC appaiono difficilmente eguagliabili, quest’ultima non è l’unica delle grandi banche del pianeta ad essere stata colta con le mani nel sacco negli ultimi anni, contribuendo a rendere florido un mercato, come quello della droga, per combattere il quale i governi del continente americano spendono miliardi di dollari e che ha un costo ancora più pesante in termini di vite umane e di devastazione sociale.

Un paio di anni fa, ad esempio, la banca americana Wachovia, inglobata da Wells Fargo fin dal 2008, aveva patteggiato il pagamento di 160 milioni di dollari ammettendo di avere riciclato più di 400 milioni provenienti dal narco-traffico dei cartelli messicani. Simili accuse sono state inoltre sollevate almeno anche nei confronti di Credit Suisse, Lloyd Banks, ABN Amro e ING, tutte puntualmente risparmiate da imbarazzati processi grazie ad accordi siglati con il Dipartimento di Giustizia americano in cambio di irrisorie sanzioni.

Il ripetuto emergere di prove che dimostrano come le più importanti banche internazionali si dedichino al riciclaggio di denaro illegale indica che tale attività è tutt’altro che un’eccezione per questi istituti. Anzi, dopo l’esplosione della crisi finanziaria del 2008, il riciclaggio del denaro dei narcos e di altri gruppi criminali sembra essere stato un fattore determinante per la sopravvivenza di molte banche.

A confermarlo era stato anche un rapporto commissionato qualche anno fa dall’allora direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Controllo della Droga e la Prevenzione del Crimine (UNODC), l’italiano Antonio Maria Costa, secondo il quale “il denaro proveniente dalle attività criminali ha rappresentato l’unico capitale liquido per investimenti a disposizione di molte banche al picco della crisi”, così come “i prestiti interbancari sono stati finanziati dai proventi del traffico di droga”. Secondo Costa, perciò, “alcuni istituti di credito sono stati salvati dal collasso proprio in questo modo”.

di Carlo Musilli

Rigidi, efficienti, minacciosi. Ma soprattutto amanti del bluff. Quando aprono bocca davanti a un microfono,  i politicanti tedeschi si riconoscono per il tono inesorabile e definitivo di chi ha ragione a prescindere. Oracoli contemporanei, la loro sentenza risuona a Bruxelles con la sacralità del giudizio immutabile, della parola finale. Tutta scena, naturalmente.

Lo abbiamo capito una volta per tutte venerdì scorso, quando i deputati del Bundestag hanno approvato a larga maggioranza il nuovo pacchetto d'aiuti internazionali in favore della Grecia. In tutto 43,7 miliardi di euro, che saranno sbloccati ufficialmente dall'Eurogruppo il prossimo 13 dicembre e a cui la camera bassa del Parlamento tedesco ha dato il via libera con 473 voti favorevoli, 100 contrari e 11 astenuti.

Di fronte a un risultato del genere viene da pensare che la Germania non abbia mai avuto alcun dubbio sulla strada da seguire per risolvere la crisi greca. Eppure fino a poco tempo fa non sembrava affatto così. Anzi, Atene è stata per lungo tempo al centro di minacce e anatemi che solo con il passare dei mesi hanno rivelato tutto il loro carattere strumentale. Per capire la strategia tedesca in fatto di comunicazione è utile confrontare una serie di dichiarazioni arrivate dal venerabile e temutissimo Wolfgang Schaeuble, ministro delle Finanze e principale alfiere del rigore made in Germany.

"Non è pensabile mettere a punto un nuovo programma per la Grecia, ci sono dei limiti agli aiuti che possono essere concessi". Il braccio destro della cancelliera consegnò questa affermazione lapidaria all'agenzia Bloomberg poco più di tre mesi fa, il 18 agosto. All'epoca eravamo nel pieno della trattativa fra la Troika e il governo di Atene, che solo nelle ultime settimane si è piegato alle imposizioni dei creditori, varando l'ennesima infornata di leggi e riforme da macelleria sociale.

Ma non è finita. Nel suo exploit estivo Schaeuble pestò i pugni sul tavolo con tutta la forza possibile, sentenziando che "sarebbe da stupidi" non pensare a un piano d'emergenza per gestire l'eventuale uscita della Grecia dall'euro. Un'ipotesi considerata ancora "tecnicamente possibile", pur rimanendo "una speculazione senza senso la prospettiva di un collasso dell'euro".

E oggi come la pensa il coriaceo ministro? Sembra proprio che l'autunno l'abbia addolcito, riempiendolo addirittura d'angoscia sul futuro della Grecia e della moneta unica. La settimana scorsa, parlando davanti al Bundestag, Schaeuble ha addirittura difeso i nuovi aiuti in favore di Atene (gli stessi che sotto l'ombrellone erano impensabili). Con un certo pathos, il numero uno dei falchi tedeschi ha raccontato ai deputati una storia nuova:  "Senza il nostro sostegno - ha detto - non solo sarebbe in gioco il futuro della Grecia, ma anche il futuro di tutta l'Europa. Rischiamo di innescare un processo alla fine del quale l'intera Eurolandia potrebbe collassare". Ma non era una "speculazione senza senso"?

La prospettiva è cambiata. Adesso per Schaeuble le "speculazioni pericolose" sono quelle su una nuova ristrutturazione del debito greco, perché "se diciamo che i debiti saranno svalutati s'indebolisce di riflesso la spinta ai risparmi". In realtà a indebolirsi sarebbe soprattutto il governo tedesco, che vuole essere riconfermato alle elezioni del prossimo settembre e per questo non ha alcuna intenzione d'inimicarsi i contribuenti.

Dopo quella del marzo scorso sui titoli nei portafogli dei creditori privati, una seconda ristrutturazione dei bond greci colpirebbe inevitabilmente le obbligazioni in mano ai singoli Stati. La perdita non sarebbe più solo un problema contabile delle banche, ma intaccherebbe risorse pubbliche. Una scelta del genere rischierebbe di mandare in pezzi la maggioranza infarcita di euroscettici che sostiene Angela Merkel, allontanando al contempo dalla cancelliera un'ampia e decisiva fetta di elettorato destrorso.

Alle ragioni della politica si aggiungono poi quelle della finanza, visto che le banche tedesche sono ancora fra le più esposte in assoluto al debito ellenico. La Germania ha quindi un enorme interesse a evitare la bancarotta greca, ma per ragioni elettorali il suo governo ha scelto di muoversi nel modo più ambiguo possibile. Il dilemma in effetti è complesso: salvare Atene ristrutturando il debito costerebbe troppo, ma non salvarla costerebbe ancora di più. Berlino ha scelto fin qui la strada del mezzo salvataggio, rinviando al domani le decisioni più spinose.

Ecco perché viene da pensare che la pantomima tedesca sia destinata a ripetersi. Dopo aver escluso a parole i nuovi aiuti poi puntualmente concessi, oggi la Germania si scaglia contro l'ipotesi della ristrutturazione, pur sapendo che prima o poi sarà inevitabile. L'incoerenza è la regola del gioco e la posta in palio sono le elezioni.

 

 

di Carlo Musilli

Eurogruppo e Fmi sono finalmente arrivati a un accordo, ma sul futuro della Grecia rimangono ancora molte incertezze. Il compromesso raggiunto lunedì notte va incontro soprattutto alle esigenze politiche di Angela Merkel, che per essere confermata alle elezioni tedesche del prossimo settembre doveva raggiungere due obiettivi: scongiurare il crack immediato di Atene e al tempo stesso evitare una nuova ristrutturazione del debito ellenico. La cancelliera ha centrato entrambi gli obiettivi. E' riuscita così a guadagnare tempo, ma non ha disinnescato la bomba greca.

Le misure stabilite sono ritenute un presupposto indispensabile per sbloccare la nuova tranche di aiuti da 43,7 miliardi di euro, che sarà concessa in diverse rate a partire dal mese prossimo. Lo scopo è ridurre il debito pubblico di Atene al 124% del Pil nel 2020 (non più al 120%, soglia prevista dai precedenti accordi e fino alla settimana scorsa considerata invalicabile dall'Fmi).

Entro il 2022 si punta invece a un livello "sostanzialmente inferiore" al 110%. Molti economisti ritengono questi obiettivi velleitari e secondo il Financial Times, che cita documenti redatti da fonti vicine alla trattativa, fra otto anni l'indebitamento ellenico non potrà essere inferiore al 126,6% del Pil (oggi è al 160% e l'anno prossimo arriverà al 190%).

Ciò che più conta è però il modo in cui si cercherà di arrivare alla meta. Gli interventi previsti sono un vero campionario di acrobazie contabili e finanziarie: dalla riduzione dei tassi sugli aiuti già erogati al taglio delle commissioni per le garanzie fornite al fondo Efsf; dal rinvio delle scadenze su prestiti e interessi al versamento in favore di Atene dei profitti lucrati da Bce e banche centrali sui bond greci.

Ma non è tutto. Fin qui l'intesa sui nuovi aiuti è meramente formale: per ottenere il via libera ufficiale dall'Eurogruppo del prossimo 13 dicembre, la Grecia dovrà risolvere il rompicapo del "buyback". In sostanza, Bruxelles e il Fondo monetario costringono il Paese ellenico a ricomprare in tutta fretta sul mercato secondario una buona fetta dei suoi stessi titoli di Stato. Il ministro greco delle Finanze, Yannis Stournaras, ha spiegato che l'operazione riguarderà i bond pubblici acquistati dai creditori privati.

Si tratta di titoli che hanno perso molto valore nel corso della crisi, soprattutto dopo la svalutazione che gli obbligazionisti privati si sono visti imporre nel marzo scorso (anche se ufficialmente si è trattato di un'iniziativa "volontaria"). A partire dalla settimana prossima, Atene cercherà quindi di riportare in cassa bond per un totale di 62,3 miliardi di euro, ovvero la metà del debito ora in mano ai creditori privati.

Così facendo il governo greco spera di ridurre il debito di circa 17 miliardi di euro, ma per riuscirci avrà bisogno di prestiti addizionali dai fondi di salvataggio per circa 13 miliardi di euro.

Tutto questo a quale scopo? Evitare l'inevitabile. O meglio, rinviarlo. I creditori della Grecia sono perfettamente consapevoli che prima o poi sarà necessaria comunque una nuova ristrutturazione del debito. E visto che i privati hanno già dato, non rimarrà che svalutare i titoli in mano ai singoli Stati.

Nel corso delle ultime trattative, la numero uno del Fondo monetario, Christine Lagarde, ha detto chiaramente che si tratta di una scelta obbligata. Poi però, per convenienza politica, ha scelto di far slittare la decisione a quando sarà davvero l'unica strada per evitare la bancarotta greca.

Che il piano partorito lunedì notte non sia sufficiente è chiaro a tutti. Lo dimostra un'interminabile e oscura frasetta inserita nel comunicato finale dell'ultimo vertice: "I paesi membri della zona euro valuteranno, se necessario, nuove misure e assistenze (...) in modo da raggiungere una ulteriore riduzione credibile e sostenibile del rapporto debito-Pil greco". Commentando questo passaggio, il ministro delle Finanze francese Pierre Moscovici ha affermato che si tratta di "un'ambiguità costruttiva".

Quando arriverà il momento di parlar chiaro Angela Merkel sarà già stata rieletta e la speculazione avrà incassato tutto il possibile. Ma cosa ne sarà stato dei greci? Le manovre assassine imposte da Bruxelles al governo Samaras avranno finito di uccidere quel poco che resta dell'economia ellenica. Peccato che non interessi a nessuno. 

 

di Carlo Musilli

Per chiudere in bellezza un 2012 che sembra sceneggiato dai Maya, l'Europa si sta affossando in tutte le buche disponibili. A Bruxelles sono in corso due trattative: la prima su come tagliare nuovamente il debito greco, la seconda sul bilancio Ue 2014-2020. Entrambe sono in stallo a causa degli egoismi politici nazionali e ad ogni nuova riunione l'accordo finale si allontana.

Iniziamo dalla Grecia, che attende altri 44 miliardi di aiuti per evitare il default. Ora che il governo di Antonis Samaras ha finito di massacrare il Paese varando le misure imposte dalla Troika (Ue, Bce e Fmi), per il via libera al prestito manca solo l'accordo fra i creditori internazionali. Martedì scorso la decisione era stata rinviata a un Eurogruppo straordinario convocato per oggi, ma nel fine settimana fonti europee citate dall'Ansa hanno rivelato che bisognerà attendere fino alla riunione del 3 dicembre.

Il problema fondamentale è il mancato accordo fra Germania e Fondo monetario su come rendere sostenibile il debito ellenico nei prossimi anni. Un dilemma senza soluzione, perché la verità è che i conti di Atene non sono e non saranno mai sostenibili: oggi l'indebitamento è al 170% del Pil e l'anno prossimo dovrebbe arrivare al 190%. Con la recessione che continua ad aggravarsi, il Paese è di fatto già fallito. Rimarrà formalmente in vita solo fino a quando i suoi creditori gli passeranno decine di miliardi per allontanare lo spettro della bancarotta, che però continuerà a riproporsi ciclicamente. A queste condizioni è impensabile che la Grecia torni prima o poi a finanziarsi autonomamente sul mercato.

La situazione è chiara a tutti, ma non interessa a nessuno. Men che mai ad Angela Merkel, che al momento ha un unico obiettivo: vincere le elezioni tedesche in calendario per il prossimo settembre.

Una meta che la cancelliera sa di poter raggiungere solo conciliando due interessi contrastanti: da una parte deve rinviare il fallimento di Atene (che sarebbe una rovina per le banche teutoniche, le più esposte in terra ellenica); dall'altra deve evitare una nuova ristrutturazione del debito greco. La ragione è semplice: a inizio anno sono stati svalutati i bond detenuti dagli investitori privati, quindi stavolta bisognerebbe intervenire sui titoli in mano a governi e banche centrali. Una misura impossibile da far accettare ai contribuenti tedeschi.

Per soddisfare le esigenze della Germania, l'eurozona punta quindi su una serie di acrobazie contabili. Pare che i 17 Paesi abbiano trovato un accordo di massima su una serie di misure per tagliare il debito ellenico: riduzione degli interessi che la Grecia deve pagare sui prestiti già incassati e restituzione da parte della Bce dei profitti lucrati sui bond greci in suo possesso. Atene potrebbe usare i soldi così ottenuti per il famoso "buyback", ovvero il riacquisto a prezzo scontato dei suoi titoli di Stato in mano ai privati.

Su questo fronte il contrasto fra Bruxelles e l'Fmi è duplice. Gli interventi appena descritti riporterebbero il debito greco al 120% del Pil (un livello considerato sostenibile) nel 2022, e non nel 2020, come era stato concordato con il Fondo. Oltre a non voler concedere ulteriori proroghe, i tecnici dell'Fmi non credono nemmeno nell'efficacia delle misure ideate dall'eurozona per imposizione tedesca. Spingono invece per la tanto temuta svalutazione.

Intanto, il clima in Europa è reso ancor più pesante dalle trattative sul bilancio Ue. Com'era ampiamente prevedibile, la settimana scorsa il primo vertice si è risolto in un fallimento e l'accordo è stato rinviato a un nuovo summit da organizzare a inizio 2013. Un copione già ampiamente conosciuto dalle cancellerie del continente.

Quando si tratta di stanziare i soldi, funziona sempre così: il Consiglio europeo spara la cifra più alta possibile e inizia la trattativa da suk fra i vari Paesi, divisi fra chi vuole incassare di più e chi vuole spendere di meno. Chiudere un negoziato del genere è una vera impresa, considerando che i 27 membri dell'Ue devono approvare il bilancio all'unanimità.

C'è però da registrare una novità rispetto al passato. Con l'elezione all'Eliseo del socialista François Hollande, l'asse franco-tedesco di è sgretolato. In compenso, se n'è creato uno nuovo fra Berlino e Londra, appoggiato dai soliti sherpa del cosiddetto "asse del nord" (Svezia, Finlandia, Danimarca e Olanda).

A guidare la combriccola è il premier inglese David Cameron, che ha due obiettivi: difendere il vergognoso "sconto" sulla quota da stanziare per il funzionamento dell'Ue (di cui la Gran Bretagna gode dai tempi della Tatcher) e portare a casa un taglio sostanziale del bilancio per far contenti gli euroscettici del suo partito.

La situazione è complicata dal fatto che - dopo il trattato di Lisbona - per la prima volta i conti dovranno ricevere anche il via libera del Parlamento europeo. E Strasburgo non intende approvare un bilancio ritenuto insufficiente a sostenere la crescita e lo sviluppo dell’Ue. Lo scontro che si profila ci dirà se in Europa sia nata una nuova diarchia. Dopo Merkozy, Merkeron. 


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