di Carlo Musilli

Il patteggiamento sta diventando lo sport preferito dai grandi banchieri. Dopo l'accordo con cui la settimana scorsa 10 istituti americani si sono impegnati a pagare 8,5 miliardi di dollari per espiare colpe legate ai mutui subprime, oggi si torna a parlare dello scandalo Libor. Secondo quanto riportato dall'agenzia Bloomberg, la Royal Bank of Scotland sarebbe vicina a chiudere un'intesa con le autorità inglesi e americane per cancellare i propri peccati. Le basterà pagare 800 milioni di dollari, poco più di 600 milioni di euro.

Se la transazione andrà in porto sarà la terza maxi multa inflitta a una grande banca internazionale per il caso Libor e si piazzerà sul secondo gradino del podio. Altri due colossi, infatti, hanno già deciso di smacchiarsi la coscienza mettendo mano al portafoglio. Si tratta di Ubs (che il mese scorso si è impegnata a pagare addirittura 1,16 miliardi di euro) e di Barclays (che a giugno ha concordato una sanzione da 360 milioni).

A questo punto sorgono due domande. Primo: che cos'è il Libor? L'oscuro acronimo sta per "London Interbank Offered Rate". Si tratta del principale tasso d'interesse a cui le banche si prestano denaro fra loro e viene preso a riferimento per fissare i tassi di moltissimi contratti. Poiché la finanza contemporanea vive di derivati (strumenti teoricamente legati ad attività economiche "sottostanti", rispetto alle quali possono tuttavia avere un valore decine di volte superiore), il Libor arriva ad influenzare asset pari a circa 10 volte il Pil del pianeta Terra.

Secondo: come mai istituti di simili dimensioni si affrettano a patteggiare invece di dare battaglia con i loro reggimenti d'avvocati? Perché la loro posizione è semplicemente indifendibile. Nel caso della banca scozzese, le indagini - compresa una interna - hanno dimostrato che fra 2007 e 2010 diversi trader si sono adoperati per manipolare il più importante dei tassi interbancari. L'obiettivo era monetizzare i loro investimenti nei titoli derivati legati al Libor stesso. Vere e proprie scommesse che - in condizioni normali - avrebbero comportato un alto tasso di rischio, come tutte le operazioni finanziarie capaci di garantire guadagni sconfinati in breve tempo. E visto che il pericolo era alto, gli operatori hanno pensato bene di aggirare l'ostacolo barando.

In ogni caso, le multe negoziate con le autorità non chiuderanno definitivamente la pratica. Al Libor è legato l'andamento dei tassi d'interesse su milioni di prestiti e mutui, ed è ampiamente prevedibile che prima o poi dai clienti arrivino delle spaventose richieste di risarcimento.

Ma il caso di Rbs non è del tutto assimilabile a quello delle altre banche coinvolte nello scandalo. C'è un surplus di vergogna: dal 2008, infatti, la Royal Bank of Scotland non è più un istituto privato. Al culmine della crisi, l'istituto scozzese è stato salvato con un'iniezione di denaro pubblico dalle proporzioni oceaniche, ovvero 45 miliardi e mezzo di sterline. Risultato: l'81% del capitale è passato nelle mani del Tesoro britannico, che si è dovuto sobbarcare perdite per circa 20 miliardi di sterline.

Un episodio che avrebbe dovuto causare una qualche forma di crisi di coscienza (ad averne). Invece niente. Ora sappiamo che per altri due anni dopo il salvataggio i dipendenti di Rbs, anziché cospargersi il capo di cenere e inginocchiarsi davanti ai contribuenti, hanno continuato serenamente con le loro redditizie truffe finanziarie. Anzi, probabilmente hanno proseguito ancor meno preoccupati di prima, ormai convinti di poter usare lo Stato come un'infrangibile rete di sicurezza.

Se così stanno le cose, perché mai la gente comune e gli investitori dovrebbero continuare a portare i loro soldi in una società del genere? Quale credibilità può ancora avere Rbs? Nessuna, è ovvio. Lo sanno benissimo anche i top manager: oltre un certo limite, i danni d'immagine possono avere conseguenze serie sui bilanci. E così, per recuperare un po' dell'onorabilità perduta, la Banca ha annunciato che chiederà ai suoi dipendenti coinvolti nello scandalo la restituzione delle somme guadagnate negli ultimi anni. Inoltre, saranno tagliati i bonus legati all'investment banking. Incredibilmente, non solo i premi per i trader-scommettitori sono sopravvissuti alla crisi, ma godono ancora di ottima salute.

di Carlo Musilli

Oltre al rigore c'è di più. Dopo anni passati in ginocchio davanti all'altare dell'austerity, alla fine questa illuminazione è arrivata anche nei cieli di Strasburgo. E non in un circolo di vecchi compagni con la bandiera rossa attaccata alla parete, ma nella venerabile sede del Parlamento europeo. "Bisogna ritrovare la dimensione sociale dell'unione economica e monetaria con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro, altrimenti perderemo credibilità e approvazione della classe operaia, per dirla con Marx". Parole sorprendenti, arrivate non da un "pericoloso estremista" (come ha ironizzato Nichi Vendola), ma nientedimeno che da Jean Claude Juncker, presidente dell'Eurogruppo, premier del Lussemburgo e membro di spicco del Partito popolare europeo. Non proprio un manipolo di trozkisti.

"Stiamo sottovalutando l'enorme tragedia della disoccupazione, che ci sta schiacciando - ha proseguito Juncker -. Attualmente supera l'11% e dobbiamo ricordarci che quando è stato creato l'euro avevamo promesso agli europei che tra i vantaggi della moneta unica ci sarebbe stato un miglioramento degli squilibri sociali".

Secondo Juncker, il vero problema è la mancanza di un accordo europeo "sulla strada da imboccare nei prossimi anni: gli Usa e gli altri ci interpellano a proposito e noi abbiamo solo risposte di cortissimo respiro". E quale sarebbe un primo passo convincente? Innanzitutto un modello di fiscalità realmente progressivo: "Vorrei che in Europa si facesse sopportare le conseguenze della crisi ai più forti, è questa la solidarietà - ha detto ancora Juncker -. Non mi piace sentir dire che è necessario colpire i più svantaggiati perché sono più numerosi. Ne va del modello europeo. Non accetto che i ricchi non paghino semplicemente perché sono di meno".

Insomma, ieri finalmente abbiamo ascoltato da un'autorevole fonte europea un discorso incredibilmente diverso dal solito, un punto di vista a cui nessuno dei tecnocrati era più abituato. Il numero uno dell'Eurogruppo ha attaccato il modello d'austerity che attualmente domina la politica economica europea, ma a sostenere il suo intervento non c'erano in primo luogo le ragioni dell'economia. Dalle sue parole è emersa un'istanza che sembrava ormai smarrita: la preoccupazione sociale, la solidarietà che si richiede ai cittadini della medesima comunità in virtù di un principio di giustizia.

Naturalmente Juncker non è arrivato a mettere in discussione il rigore: anche per lui il pareggio di bilancio rimane la stella polare verso cui fare rotta. Tuttavia, per la prima volta è sembrato che anche nei cuori degli eurocrati possa germogliare un dubbio, se non sulla destinazione finale, quantomeno sulla via migliore per raggiungerla. Comincia a insinuarsi il sospetto che l'austerità di oggi possa rivelarsi ben più cara di quanto riescano a comprendere i maestri della finanza: i conti pubblici magari torneranno in ordine, ma prima di allora avremo ridotto in miseria milioni di persone.

Ci sono delle elementari ragioni economiche che sconsigliano di proseguire su questa strada (come torneremo a crescere quando nessuno sarà più in grado di consumare?), ma evidentemente chi ha responsabilità di governo non può semplicemente scrollare le spalle davanti alla questione sociale. Nemmeno il giorno prima del default.

Purtroppo fino a oggi questo scrupolo non è sembrato essere esattamente in cima alle priorità dell'Eurogruppo. Ecco perché ieri la vera sorpresa è arrivata quando Juncker ha evocato la necessità di "politiche attive", come il salario minimo garantito per l'intera Eurozona. A noi italiani sembra un miraggio da vetero-comunisti, ma si tratta di una misura diffusa in molti Paesi d'Europa tutt'altro che sinistrorsi (in Francia, ad esempio, nel 2010 valeva circa 1.343 euro lordi al mese). In totale, è previsto dalla legislazione di 20 membri dell'Ue su 27. Fra gli esclusi, a parte Cipro e Italia, figurano stati ricchissimi e con un sistema di welfare già molto ampio (Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Finlandia).

Quello di Juncker non è stato quindi un appello del tutto velleitario. E' bene però ricordare che fra pochi giorni il lussemburghese lascerà la presidenza dell'Eurogruppo. La scadenza imminente del mandato, a cui non seguirà alcuna ricandidatura, può far pensare che il discorso di ieri a Strasburgo sia stato poco più di un exploit finale, la zampata conclusiva del vecchio politico che libera le scarpe dai sassolini prima di salutare tutti. Forse le cose stanno davvero così. Ma è stato comunque un piacere.

di Carlo Musilli

Come peccatrici in cerca d'assoluzione, le banche Usa recitano la penitenza dei dollari. Tanti, per la verità: in tutto circa 20 miliardi. Ma la colpa da espiare è la più grande di sempre e nemmeno un fiume di soldi può lavare una macchia del genere. E' stata la truffa del millennio, quella dei mutui subprime. La bomba che, dopo aver ridotto sulla strada milioni di americani, ha provocato il collasso della finanza mondiale. Partita dagli Stati Uniti nel 2007-2008, ha sorvolato l'Atlantico e in Europa si è trasformata a poco a poco in crisi dei debiti sovrani. Ora i colpevoli cercano di ricostruirsi una verginità. E lo fanno pochi giorni prima di pubblicare i loro conti trimestrali, tornati finalmente positivi.

I casi sono due e vanno associati ai diversi piani dello scandalo. Partiamo dall'inizio. Due giorni fa 10 delle maggiori banche americane (da JP Morgan a Citibank, passando per Bank of America e Wells Fargo) hanno raggiunto un accordo con le autorità federali di vigilanza, accettando di pagare 8,5 miliardi per risarcire i pignoramenti facili degli ultimi anni. Operazioni eseguite grazie a "firme automatiche" degli atti giudiziari, senza che nessuno si preoccupasse di analizzare caso per caso, come pure era stato promesso. In fondo, si trattava semplicemente di buttare fuori di casa milioni di persone. O meglio, di creditori insolventi.

Il risarcimento sarà diviso in questo modo: 3,3 miliardi andranno alle famiglie sfrattate irregolarmente fra il 2009 e il 2010, mentre gli altri 5,2 saranno impiegati per aiutare chi è ancora sommerso dai debiti. Ogni nucleo familiare potrà ricevere fino a 125 mila dollari. L'intesa si aggiunge a quella da 25 miliardi raggiunta lo scorso anno fra cinque grandi banche, l'amministrazione Obama e molti Stati americani.

Ma come si è arrivati fino a questo punto? In sintesi, le banche spingevano i loro clienti a usare le case come fossero bancomat. Per anni sono stati accesi mutui immobiliari in serie: i nuovi prestiti servivano a estinguere quelli precedenti ed essendo d'importo superiore (perché nel frattempo il prezzo delle case era salito) permettevano alle famiglie d'intascare la differenza. Un suicidio, con il senno di poi: appena il prezzo delle case ha smesso di salire, infatti, il giochino si è interrotto e milioni di americani si sono ritrovati con un mutuo impossibile da ripagare. A quel punto le banche si sono prese le case, creando in alcune zone delle vere proprie città fantasma.

Purtroppo però non si sono limitate a questo. Da dove sarebbero arrivati altrimenti i maxi-profitti dei manager? Mentre rifilavano i subprime killer ai poveri americani, gli istituti emettevano titoli finanziari complessi garantiti proprio da quei mutui. Prodotti derivati che poi vendevano con l'inganno: sapevano di smerciare carta straccia (perché era evidente che i subprime non sarebbero mai stati coperti), ma facevano credere agli investitori che si trattasse di un affare. Il tutto anche grazie alla complicità delle agenzie di rating, che (pagate dalle banche stesse, e quindi in palese conflitto d'interessi) assegnavano a quei titoli la mitica tripla A, il giudizio d'affidabilità più alto in assoluto.

Ancora non è finita. All'inizio le banche piazzavano questi derivati a clienti esterni, poi però hanno iniziato a scambiarseli fra loro. Con la vista offuscata dai facili e sterminati guadagni garantiti dal trading, hanno fatto finta di non vedere che la bolla speculativa stava per esplodere.

Arriviamo così alla seconda storia degli ultimi giorni. Stavolta sulla scena c'è la sola Bank of America, che ha accettato di versare ben 11,6 miliardi di dollari a Fannie Mae (agenzia finanziaria para-governativa che garantisce e ri-assicura i mutui emessi dagli istituti di credito). La Banca archivia così il contenzioso legale con l'istituzione.

Tutto iniziò quando Bank of America prese la scellerata decisione di acquistare la Countrywide Financial, vero e proprio Mefistofele dei subprime. Purtroppo per l'istituto, le inchieste hanno dimostrato le frodi reiterate della Countrywide, che truffava sistematicamente i clienti a cui vendeva titoli legati ai mutui immobiliari, spacciandoli per investimenti sicurissimi. Un raggiro in cui sono caduti molti colossi, tra cui appunto Fannie Mae. Ad oggi la finanza criminale della Countrywide è  costata a Bank of America circa 40 miliardi di dollari.

E' bene sottolineare che tutti i risarcimenti di cui abbiamo parlato non sono frutto di condanne, ma di patteggiamenti. Le banche hanno accettato di pagare pur di chiudere la storia. Viene quindi da pensare che le reali dimensioni delle loro colpe rimarranno sempre un mistero. Ammettiamo però che non sia così, fingiamo di credere che ogni istituto abbia ripagato il maltolto fino all'ultimo centesimo. Non basta comunque. Finché le autorità non avranno riformato nel profondo la finanza, creando delle regole per evitare che uno scempio come i subprime possa ripetersi, nessun risarcimento sarà mai sufficiente.

di Carlo Musilli

Chiamateli Invulnerabili. Non c'è crisi né recessione che tenga, non contano niente gli spread, le tasse o il crollo della domanda internazionale. Quel gruppetto la spunta comunque: loro, i 100 uomini più ricchi del pianeta, continuano a macinare soldi. In anni bui (quasi) per tutti, le fortune di questo facoltoso manipolo si fanno sempre più sterminate. Con tanti saluti alla redistribuzione della ricchezza.

Secondo il Bloomberg Billionaires Index, nel corso del 2012 il patrimonio complessivo dei 100 paperoni globali è aumentato di 241 miliardi di dollari, fino a raggiungere la vetta dei 1.900 miliardi. Una somma di poco inferiore all'intero debito pubblico italiano, ma decisamente superiore al nostro prodotto interno lordo, che due anni fa non è andato oltre i 1.500 miliardi.

Diamo un'occhiata alla classifica di questi Invulnerabili, ma non iniziamo dal più ricco. Partiamo invece da chi l'anno scorso ha guadagnato di più. Ha 76 anni e viene dalla malandata Spagna: il suo nome è Amancio Ortega, patron della corazza Inditex, un gigante del commercio al dettaglio che fra i suoi gioielli annovera il celebre marchio Zara. Nell'anno che si è appena chiuso ha praticamente raddoppiato il suo patrimonio, portandolo a 57,5 miliardi (+22 miliardi).

A guardare la graduatoria assoluta dei conti in banca, però, Ortega è solo terzo. La medaglia d'oro era e resta di sua maestà Carlos Slim, il tycoon messicano al timone del gruppo di telecomunicazioni America Movil e dei conglomerati industriali e finanziari Grupo Carso e Grupo Financiero Inbursa. Grazie a queste due ultime attività, che hanno registrato un'impennata dei guadagni (+21,6%), la fortuna di Slim ha toccato la quota siderale di 75,2 miliardi di dollari.

In seconda posizione troviamo invece il nome più noto e prevedibile, quello di Bill Gates. Il papà di Microsoft ha chiuso l'anno con un portafoglio da 62,7 miliardi di dollari, sette in più del 2011. Appena fuori dal podio, scalzato da Ortega, c'è invece una leggenda della finanza mondiale, l'americano Warren Buffett. Negli scorsi 12 mesi "l'Oracolo di Omaha" si è tolto una bella soddisfazione: le azioni della sua holding, la Berkshire Hathaway, hanno battuto il mercato, registrando un guadagno del 17%, contro il +13% messo a segno dall'indice S&P 500. Una performance che ha portato a quella volpe di Buffett un guadagno di circa cinque miliardi, ingrassando il suo patrimonio fino a 47,9 miliardi.

A chiudere la top five c'è poi il "miliardario componibile", lo svedese Ingvar Kamprad, demiurgo di Ikea, che ha festeggiato l'ultimo capodanno con in tasca poco meno di 43 miliadi (+16,6% rispetto al 2011). Fra gli italiani, il primo in classifica è Michele Ferrero, al ventiquattresimo posto con 22,1 miliardi di dollari. Seguono l'imprenditore Ernesto Bertarelli (romano di nascita, svizzero di passaporto), cinquantesimo con 15,2 miliardi, e Leonardo Del Vecchio (Luxottica), cinquantaquattresimo con 14,2 miliardi di dollari.

Ma com'è possibile che, mentre il sistema economico occidentale arranca, qualcuno sia ancora in grado di gonfiare in modo simile la propria ricchezza? E' la speculazione, baby. Nella maggior parte dei casi, il club degli Invulnerabili deve la propria fortuna alla finanza, ovvero al rialzo delle azioni sui diversi mercati del mondo. Com'è ovvio, i titoli salgono solo se i risultati trimestrali delle aziende a cui si riferiscono convincono il mercato.

Eppure, ciò non toglie che se quei signori si pagassero lo stipendio soltanto con gli utili che producono nel mondo reale dovrebbero accontentarsi di cifre molto meno astronomiche. Nel magico mondo del trading, invece, si può far leva ancora su una sostanziale (e colpevole) mancanza di regole, nonché su una tassazione spesso del tutto assente.

L'importanza del know-how finanziario è testimoniata dall'orribile performance 2012 del bimbo prodigio Mark Zuckerberg. Secondo una classifica pubblicata da Bloomberg Businessweek, il fondatore di Facebook è stato il peggior manager dell'anno. A causa di una quotazione non proprio a regola d'arte della sua creatura (dal giorno dello sbarco in Borsa il titolo ha perso circa il 30%), Zuckerberg ha mandato in fumo 5,2 miliardi di dollari, riducendo la propria ricchezza del  29,9%, a 12,3 miliardi . Forse era il caso di chiedere consiglio al buon vecchio Buffett. 

 

di Carlo Musilli

Scordatevi la slitta, le renne e i camini: Babbo Natale lavora per Goldman Sachs. In tempi di crisi i regali sotto l'albero sono diminuiti, e così l'omone in rosso ha scelto d'impiegarsi dodici mesi l'anno in una delle più grandi banche d'affari del pianeta. Non c'è davvero altro modo per spiegare gli ultimi dati in arrivo dalla City.

Secondo alcuni documenti ufficiali citati dal Guardian, nel 2011 i 95 dipendenti di livello più alto nella sede londinese di Goldman hanno ricevuto in media 1,8 milioni di sterline a testa (poco meno di due milioni e 190mila euro). In tutto, il bottino vale 169 milioni di sterline, di cui il 45% è stato versato cash e la quota rimanente in titoli di varia natura.

Ma chi sono questi fortunati paperoni? Si tratta del cosiddetto "code staff", ovvero di quei dipendenti responsabili dell'assunzione e della gestione dei rischi. Le regole dell'Unione europea obbligano le banche a comunicare quante siano queste persone e quanti soldi si mettano in tasca. I nomi, naturalmente, restano segreti.

 Su questo terreno è difficile confrontare i dati di Goldman con quelli degli altri giganti della City, perché la nozione di "code staff" è soggetta a qualche interpretazione. Barclays, ad esempio, ha comunicato che i suoi dipendenti di questa categoria sono stati 238 nel 2011 e hanno ricevuto in media 1,2 milioni di sterline a testa.

Ancora più poveri i 386 lavoratori della Royal Bank of Scotland, che nello stesso periodo hanno infilato nel portafogli appena 820mila sterline (meno di un milione di euro, poverini...). Entrambi gli istituti hanno il quartier generale a Londra, per questo il loro "code staff" risulta superiore a quello della cugina Goldman, che invece è di casa a New York.

Questa pratica comunicativa di minima trasparenza sui soldi in uscita è una novità: nella storia della finanza è solo la seconda volta che dettagli del genere vengono resi pubblici. Ma le banche hanno davvero di che consolarsi: accanto a un danno d'immagine assai ridotto (praticamente irrilevante), i mega-istituti hanno fin qui schivato il pesante taglio di bonus e pagamenti ai manager che i governi minacciano dal 2008, anno d'inizio dell'ultima crisi finanziaria.

Il tema non è affatto secondario. Anzi, svolge un ruolo fondamentale nell'attuale perversione del sistema economico mondiale. Con la prospettiva d'incassare un lauto premio in denaro, i trader e tutti gli operatori che hanno la responsabilità di calcolare i rischi delle varie operazioni sono incentivati a puntare sul jackpot. Se perdono la scommessa, ci rimette la società, ma la loro vita opulenta non viene sconvolta. Se però il cavallo vince la corsa, il conto in banca di chi ha piazzato la giocata si gonfia a dismisura. Non c'è modo migliore per cercare la prossima buca dove cadere.

Cerchiamo ora di capire un po' meglio di chi stiamo parlando. Nel decennio scorso l'americana Goldman Sachs è stata protagonista assoluta dello scempio speculativo all'origine dell'intera crisi globale, compresa quella dei debiti sovrani europei. In sintesi, l'istituto piazzava i titoli derivati legati ai mutui subprime spacciandoli per investimenti sicuri, pur sapendo che si trattava di carta straccia.

La truffa è andata avanti per anni grazie alla complicità delle agenzie di rating, che, in un incredibile conflitto d'interessi (erano pagate dalle stesse banche che emettevano i titoli), attribuivano a questi derivati la mitica "tripla A", il voto più alto in assoluto.

All'inizio gli attori di questa gigantesca associazione a delinquere erano accecati dai guadagni favolosi che riuscivano a incassare. Poi hanno capito che stravano scavando la voragine in cui sarebbe crollata l'economia mondiale, ma hanno continuato tranquillamente con il loro business. Come sanzione per questa frode, Goldman ha pagato alla Sec (la Consob americana) una multa record da 550 milioni di dollari (ed è stato un patteggiamento).

Ora però i tempi bui per la Banca sono alle spalle. Visto che a pagare ci pensano i contribuenti di mezzo mondo, i manager dell'istituto possono crogiolarsi nelle loro voluttuose buste paga. Ironia della sorte, i dati sul "code staff" relativi al 2011 arrivano poco prima di un altro bel regalino. Nelle prime settimane del nuovo anno, i manager di Goldman e delle altre super-banche attive nella City si vedranno recapitare i bonus per il 2012. Anche stavolta Babbo Natale dovrà fare gli straordinari.

 


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