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di Emanuela Pessina
BERLINO. Alla riunione di Mosca del G20, al centro del dibattito ci sono e le svalutazioni competitive, il nuovo cruccio più o meno dichiarato dei ministri della Finanza e dei banchieri che vi prenderanno parte. Una moneta debole favorisce l’economia interna di una nazione, a discapito tuttavia degli altri Paesi, e nessun limite è stato finora stabilito all’attuazione di una simile politica monetaria: c’è già chi comincia a parlare di una vera e propria guerra delle valute.
I riferimenti, in questo senso, non sono del tutto casuali. La preoccupazione maggiore è rivolta al Giappone, dove la Banca centrale ha attuato negli ultimi tempi una decisa politica di allentamento dello Yen. Tokyo ha svalutato la propria moneta, rendendo più appetibili le esportazioni e favorendo l’economia interna, ma creando non pochi problemi alle economie degli altri Paesi. Negli ultimi sei mesi l’euro si è apprezzato quasi del 30 percento sulla moneta giapponese: l’aumento dei prezzi ha fatto calare le importazioni dall’Europa drammaticamente.
Per gli esperti, il timore di una guerra delle valute è eccessivo e il rischio reale di attuazioni di svalutazioni competitive è del tutto improbabile. Ne sono convinti, ad esempio, Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea (Bce), e Christine Lagarde, la direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi), che sottolineano l’assenza di particolari anomalie nel corso attuale delle principali valute.
Ma la tentazione rimane forte, soprattutto quella dei più scettici di presentire un tale conflitto, perché un cambio favorevole può far comodo a tutte le economie, e la situazione di crisi attuale non sembra lasciar spazio a scrupoli di nessun tipo. Tanto per dirne una: oggi la Grecia ha una disoccupazione giovanile del 60 percento, cosa non si farebbe per riprendere un contesto talmente grave? Da anni, ormai, Bce e Federal Reserve (Fed), proprio in risposta alla ormai onnipresente crisi, attuano politiche monetarie che garantiscano tassi d’interesse bassi.
La debolezza dell’euro favorirebbe le esportazioni della Grecia, così come quella di Spagna, Italia e così via, aiutando la ripresa delle maglie nere d’Europa e, di conseguenza, tutta l’economia continentale. Diventa difficile non aspettarsi l’introduzione di politiche monetarie che puntino a migliorare la situazione economica interna, pur alle spese degli altri Paesi. È arduo non pensare male, nonostante le rassicurazioni degli esperti, per cui la guerra delle valute rimane uno scenario inverosimile.
Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, uno dei protagonisti della politica economica dell’Eurozona, si è espresso, a margine del G20, a favore di una politica monetaria basata sul libero gioco di domanda e offerta e non determinata dall’intervento degli Stati. In un articolo della versione online dell’autorevole settimanale tedesco Spiegel, il ministro si definisce “sicuro” di una posizione unanime di tutti i partecipanti al G20 in questo senso.
Non sembra della stessa idea Sergej Glasew, economista russo da poco entrato a fare parte del cerchio di consulenti del presidente russo Vladimir Putin, per cui la guerra delle valute sarebbe già in atto. Secondo Spiegelonline, Glasew accusa Washington di fare pressione sul dollaro per fare incetta delle aziende russe: per l’esperto si tratta di una vera e propria “aggressione legalizzata” da parte degli Stati Uniti.
La Russia, in realtà, punta ad avere una maggiore influenza nell’ambito del Fondo monetario internazionale, organizzazione in cui hanno predominato finora Europa e Stati Uniti, e le sue aspettative sono ambiziose. Fra i temi di discussione di questo G20 non mancherà sicuramente il ribilanciamento delle voci all’interno dell’Fmi, questo è poco ma sicuro.
Tra gli altri temi ci sono la regolamentazione dei mercati, il risanamento del bilancio, i piani di crescita e gli investimenti, ma a premere sarà probabilmente la questione delle valute. E una politica monetaria che garantisca la stabilità dei prezzi e la crescita e non indebolisca le rispettive valute.
Tra gli altri temi del G20 ci sono la regolamentazione dei mercati,il risanamento dei bilanci, il piano di crescita dei singoli Stati e gli investimenti, ma a premere sarà probabilmente la questione delle valute e la necessità di una politica monetaria che garantisca la stabilità dei prezzi e la crescita e non indebolisca le rispettive valute. Sempre che il confine tra lecito e non lecito sia già stato superato, come qualcuno già sospetta, e una guerra delle valute, se così la si vuol chiamare, non sia già in corso.
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di Carlo Musilli
Dopo anni passati in una discreta sonnolenza, negli ultimi tempi la vicenda dei mutui subprime sembra aver ridestato la giustizia americana. Gli sviluppi più recenti riguardano una causa in cui è coinvolta la super banca JP Morgan e una nuova indagine sulle tre sorelle del rating: Standard&Poor's, Moody's e Fitch. Contro S&P, inoltre, la settimana scorsa il Dipartimento di Giustizia degli Usa ha aperto una causa civile.
Iniziamo da JP Morgan. Stando a quanto riporta il New York Times, sono emersi nuovi dettagli sulla causa intentata nel 2012 dal disgraziato istituto franco-belga Dexia, che accusa il colosso americano di avergli venduto 1,8 miliardi di titoli garantiti da mutui subprime mentendo spudoratamente sul reale valore di quei bond. In particolare, sono state depositate e-mail e trascrizioni di domande fatte ai dipendenti da cui emerge che Jp Morgan conosceva i problemi legati a quei prestiti per la casa.
Erano mutui ad alto rischio d'insolvenza (infatti per la maggior parte non sono stati ripagati) e questo significa che i derivati costruiti a partire da quelle operazioni non potevano essere che spazzatura. La Banca avrebbe però ritoccato i risultati delle sue analisi interne (alcune risalenti addirittura al 2006) in modo che i titoli apparissero in uno stato migliore di quello in cui erano.
Le accuse coinvolgono anche i due istituti rilevati da JP Morgan nel 2008, ovvero Washington Mutual e Bear Stearns. Per quanto assurdo possa sembrare, nelle tre banche alcuni dipendenti avevano potere di veto sui controlli interni. E pare che l'abbiano ampiamente usato per nascondere la verità, massimizzare i ricavi legati alla vendita dei titoli sul mercato e ridurre così le enormi perdite causate dal tonfo del mercato immobiliare.
JP Morgan ha finora negato di aver commesso violazioni, eppure lo scorso novembre ha acconsentito a pagare 296,9 milioni di dollari per chiudere la causa intentata dalla Sec (Securities and Exchange Commission, la Consob americana), che riteneva Bear Stearns colpevole di aver ingannato gli investitori dando informazioni false sui mutui più a rischio.
Un'altra accusa di questo tipo è arrivata nel marzo 2012 dalla società Assured Guaranty Corp, che - dopo aver perso oltre 75 milioni di dollari - ha deciso di denunciare Bear Stearns e la Emc Mortgage, ennesima controllata di JP Morgan.
Tutti questi bei giochetti non sarebbero mai riusciti se le banche non avessero potuto contare sull'aiuto di preziosi alleati, le agenzie di rating. Il loro peccato originale è ben noto: un classico e clamoroso conflitto d'interessi.
Queste società avrebbero infatti il compito di valutare l'affidabilità e il valore dei titoli finanziari (certi derivati sono talmente complessi che quasi nessuno è in grado di comprenderli con le proprie forze). Il servizio dovrebbe essere a favore degli investitori, peccato però che le agenzie vengano pagate dalle banche. Ossia da chi emette i titoli, non da chi li compra. Ecco perché Standard & Poor's, Moody's e Fitch premiavano con il massimo dei voti (la tanto celebrata tripla A) la maleodorante spazzatura dei bond legati ai subprime.
Si spiega così la (tardiva) decisione del procuratore generale di New York, Eric Scheiderman, che la settimana scorsa ha avviato un'indagine sulle tre agenzie. Secondo il Wall Street Journal, Scheiderman intende esaminare i rating che le società hanno emesso durante la crisi, ma ancora non è chiaro se sarà in grado di procedere con un'azione legale.
Intanto, dopo S&P, sembra che l'amministrazione Obama (insieme a diversi stati) sia pronta ad agire anche contro Moody's. Secondo le indiscrezioni riportate da Reuters, tuttavia, potrebbe volerci del tempo: prima di muoversi contro il secondo colosso del rating, le autorità potrebbero attendere di conoscere l'evoluzione in tribunale della causa contro Standard & Poor's.
Ma lo stillicidio dei subprime non è finito. Tutto quello di cui abbiamo parlato finora accade a meno di due mesi dai mega patteggiamenti dello scorso dicembre, quando 10 delle maggiori banche americane hanno accettato di pagare 8,5 miliardi alle vittime dei pignoramenti facili, mentre la sola Bank of America ha chiuso un accordo per risarcire 11,6 miliardi all'agenzia para-governativa Fannie Mae.
Insomma, lo scandalo che nel 2008 ha travolto la finanza degli Stati Uniti, abbattendosi poi sull'intera economia mondiale, è ufficialmente tornato di moda. Purtroppo però sembra davvero che fin qui l'unica strada battuta con reale convinzione dall'amministrazione Obama sia quella del patteggiamento. Che - inevitabilmente - ha sempre il sapore dell'inciucio.
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di Carlo Musilli
A Piazza Affari si sente l'odore di un nuovo scandalo. Non c'è più solo Mps a turbare i sonni dei broker: il nuovo imputato si chiama Saipem, società del gruppo Eni specializzata nella perforazione di pozzi petroliferi e nella costruzione di oleodotti e gasdotti. Ieri il titolo dell'azienda ha ridefinito il concetto di "tonfo" in Borsa, chiudendo la seduta in rosso di quasi 35 punti.
La perdita netta ha sfiorato i tre miliardi di euro e il contraccolpo ha trascinato nel baratro anche Eni, che - avendo in pancia il 43% delle azioni Saipem - ha lasciato sul campo il 4,7%. I due crolli (insieme all'ennesimo scivolone dello yo-yo Montepaschi, -9,5%) hanno fatto di Milano la peggiore fra le Borse europee (-3,36%).
"L’impatto per gli azionisti di Eni di quanto comunicato ieri da Saipem sarà nel 2013 di circa 200 milioni di euro, circa il 3% dell'ultimo utile annuale", ha detto alla stampa il CFO del cane a se zampe, Massimo Mondazzi, che ha preso atto di "quanto dichiarato da Saipem, e cioè che la flessione sarà transitoria e si avrà una significativa ripresa già dal 2014". Magra consolazione dopo un tracollo del genere.
Ma quale sassolino ha causato questa ennesima valanga finanziaria? In realtà, si tratta di un macigno: lunedì sera, a mercati chiusi, Saipem ha diffuso un "profit warning", ovvero una comunicazione per annunciare che i suoi risultati saranno inferiori alle previsioni. In particolare, sono state riviste al ribasso le stime sugli utili del 2012 e quelle sui conti del 2013. Il motivo? Sembra che gli ordini abbiano rallentato nell'ultimo trimestre e che "le negoziazioni di nuovi contratti - ha ammesso la società - si concluderanno con esiti inferiori alle previsioni". Tutto questo significa meno soldi da distribuire agli azionisti, che quindi hanno iniziato a liberarsi dei titoli.
Fin qui la storia sembra lineare, ma non lo è. I sospetti sono molti. A cominciare da quelli che circolano intorno al misterioso "investitore istituzionale" che lunedì ha venduto per intero la sua corposa partecipazione nel capitale di Saipem, pari al 2,2% (a quanto risulta dai registri, escludendo Eni, l'unico investitore ad avere più del 2% di Saipem è il fondo Fidelity, che però si è detto estraneo alla vicenda).
Guarda caso, la lungimirante (e strana) operazione è stata conclusa in fretta e furia poche ore prima del funesto "profit warning". Un tempismo formidabile che ha consentito a questi geni della finanza di evitare una perdita mostruosa, piazzando ogni singolo titolo a 31 euro, 11 in più rispetto alla quotazione post-crollo. Fortuna, magia nera o inciucio? A stabilirlo sarà la Consob, che ha avviato un'indagine.
C'è poi un altro aspetto da considerare, probabilmente più grave. I numeri che Saipem ha drasticamente corretto due giorni fa erano stati scritti quando a guidare la società era Pietro Franco Tali, l'amministratore delegato che Eni ha deciso di sostituire a inizio dicembre. Una scelta che non aveva nulla a che vedere con la strategia aziendale, dal momento che su questo manager così ottimista grava una pesante accusa di corruzione.
La vicenda è legata a uno scandalo esploso in Algeria intorno alla Sonatrach, compagnia petrolifera dello Stato nordafricano. Il presidente Mohamed Meziane e 15 dirigenti, accusati di corruzione e malversazione, sono stati costretti a dimettersi. Secondo la stampa algerina, il sospetto è che i manager abbiano intascato tangenti in cambio di appalti da concedere a tre società straniere, fra cui Saipem.
L'azienda italiana ha siglato con Sonatrach un contratto da 580 milioni di dollari per la realizzazione di un gasdotto lungo 350 chilometri, il GK3. Il progetto, tra l'altro, avrebbe dovuto assicurare l'approvvigionamento del futuro gasdotto Galsi, che collegherà l'Algeria all'Italia attraverso la Sardegna. L'accordo però sarebbe stato raggiunto "in condizioni poco chiare", in cambio di "servizi" o "commissioni". Per così dire, visto che si parla di appartamenti e ville tra Parigi e Algeri.
All'epoca, Tali si era difeso affermando di non essere coinvolto nell'indagine algerina. Peccato che martedì la Procura di Milano gli abbia inviato un avviso di garanzia.
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di Carlo Musilli
Il grande medico dell'economia mondiale si è sbagliato: ha sottovalutato gli effetti collaterali delle medicine che ha prescritto. Ora, mentre il suo paziente agonizza, non può far altro che ammettere l'errore. Ma anche di fronte al disastro, sceglie comunque di proseguire con la stessa cura. Il sanitario in questione è l'Fmi. Il malato è la Grecia.
Come ampiamente sottolineato di recente dalla stampa greca (non da quella europea), Olivier Blanchard, direttore del settore ricerche del Fondo Monetario Internazionale, ha ammesso che le previsioni dell'istituzione sugli effetti dell'austerity erano sbagliate. E non di poco. I grandi tecnici del Fondo avevano stimato che ogni punto di spesa pubblica tagliato avrebbe prodotto una contrazione del Pil pari allo 0,5%. Purtroppo per i greci, proprio sulla base di questo calcolo sbagliato sono stati allestiti i piani d'austrità imposti ad Atene.
Peccato che nell'economia reale, fuori dagli asettici uffici degli economisti, le cose siano andate diversamente. Il moltiplicatore esatto si è rivelato ben più alto, oscillando fra lo 0,9 e l'1,7%. Questo significa che gli effetti negativi sulle attività e sulle vite dei greci sono stati fra le due e le tre volte superiori al previsto.
Come ampiamente prevedibile, né il buon Blanchard né gli altri illustri esponenti del Fondo hanno avuto il buon gusto di scusarsi per l'errore marchiano. Anzi, hanno addirittura avanzato nuove pretese, prospettando un futuro insostenibile per la Grecia e bacchettando l'Europa.
Dopo aver dato il via libera mercoledì scorso alla propria quota della nuova tranche di aiuti in favore di Atene (3,2 miliardi di euro, ma l'esborso complessivo da qui al 2016 sarà di 28 miliardi), l'Fmi ha lanciato l'ennesimo allarme. Poul Thomsen, rappresentante del Fondo all'interno della Troika (che comprende anche esponenti della Bce e della Commissione europea) si è prodotto in una sentenza sena appello: il debito greco "non è sostenibile" senza "trasferimenti diretti nel budget da parte della Ue. Abbiamo rilevato un buco nei conti. E' fondamentale che gli europei lo sappiano, perché dovranno riempirlo".
Vale a dire: non contate più su di noi. Anche perché, all'interno dell'Fmi, i Paesi emergenti fanno pressing per una riduzione dell'impegno nei confronti dell'Europa. "C'è un gap, in base alle nostre proiezioni preliminari per il 2015-2016", ha detto ancora Thomsen, precisando che la somma da reperire si aggira intorno ai "9,5 miliardi di euro".
Come se la passano intanto gli sventurati greci? Quanto ha pesato sulla vita delle persone quello strafalcione nei calcoli del Fondo? Dopo il massacro d'austerità imposto dai creditori, i lavoratori non hanno alcuna speranza che la loro economia possa tornare a crescere. Il prodotto interno lordo ellenico è calato del 7,2% nel terzo trimestre, dopo il -6,3% registrato fra aprile e giugno. La recessione - che dura da 5 anni - sta quindi accelerando.
Ma, al di là dei conti, per un quadro abbastanza significativo della situazione è sufficiente citare quello che negli ultimi giorni sta accadendo in città come Atene, Salonicco e Patrasso, avvolte in una surreale nube di fumo.
Parlare di smog è improprio: non c'entrano la benzina, le auto, i tubi di scappamento. La storia ha dell'incredibile: il cielo ellenico è sempre più inquinato perché le persone non hanno più i soldi per pagare il riscaldamento e devono tornare al metodo antico, la cara vecchia combustione. Nel migliore dei casi si brucia il legno, ma - visto che il mercato è crudele - di recente il suo prezzo è raddoppiato (il Wall Street Journal ha documentato il caso di vari parchi pubblici presi d'assalto e semi-disboscati per ricavarne i ceppi da ardere in salotto).
Stufe e caminetti vengono riempiti spesso con oggetti di tutti i giorni, compresi quelli di plastica, che naturalmente creano un'insopportabile nube tossica. In tutto, circa 500 mila famiglie sono rimaste anche senza elettricità, perché la bolletta da pagare era diventata troppo cara per le loro tasche. Chissà se all'Fmi ci avevano pensato.
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di Antonio Rei
Ci hanno raccontato che per salvarci dalla bancarotta non avevamo altra scelta: dovevamo tassarci. Poi ci hanno detto di stare tranquilli, perché nell'immediato le nostre condizioni sarebbero peggiorate, ma con il tempo - per qualche oscura ragione bocconiana - le riforme assassine avrebbero dispiegato i loro misteriosi effetti benefici. Insomma, la recessione nel 2012 era inevitabile. E quella del 2013, invece? La più clamorosa smentita alle favole del professor Monti arriva dalla fonte più istituzionale possibile, la Banca d'Italia.
Lungi dal confermare le previsioni del Premier e quelle del suo sherpa al Tesoro, il Grilli parlante, gli economisti di Via Nazionale non fanno altro che rivedere al ribasso le stime sull'andamento dell'economia italiana. Secondo gli ultimi calcoli, nel 2013 il Pil italiano calerà di ben un punto percentuale (ricordiamo che secondo il centro studi di Confindustria la flessione sarà ancora peggiore: -1,1%). Altro che lo 0,2% di cui parlava il governo. Da mesi sentiamo blaterare di luce in fondo al tunnel, ma a questo punto sorge il sospetto che la metafora più calzante sia quella della catacomba.
E' vero, nel bollettino si legge anche che "lo scenario prefigura un ritorno alla crescita nella seconda metà dell'anno, sia pure su ritmi modesti e con ampi margini d'incertezza", e che la dinamica del Pil dovrebbe tornare "lievemente positiva nel 2014", con una crescita dello 0,7%. Magra consolazione. Non solo perché ad ogni giro di boa, quando il futuro diventa presente, le stime dei mesi precedenti vengono tagliate con una regolarità sconcertante, ma soprattutto perché l'Istituto centrale snocciola anche un'altra serie di dati a dir poco drammatica.
In particolare sul fronte del lavoro, la vera tragedia sociale che il nostro Paese continua ad ignorare. La Banca d'Italia stima che “l'occupazione si ridurrà quest'anno (in media di quasi l'1%) e ristagnerà nel successivo. Il tasso di disoccupazione aumenterà, riflettendo anche l'aumento delle persone in cerca di lavoro, e toccherà il 12% nel 2014”.
Quanto ai consumi, com'è ovvio in una situazione del genere, le prospettive sono ugualmente fosche. Da Palazzo Koch scrivono che "anche nei prossimi mesi" i comportamenti di consumo dovrebbero restare "depressi", dal momento che "non emergono segnali di una loro ripresa". Dopo il crollo del 4,1% registrato nel 2012, quest'anno la flessione dovrebbe essere dell'1,9%.
E per rialzare la testa non si potrà certo chiedere aiuto alle banche, visto che “l'offerta di finanziamenti è ancora frenata dall'elevato rischio percepito dagli intermediari, in relazione agli effetti della recessione sui bilanci delle imprese”, e che “i crediti deteriorati sono aumentati in misura significativa".
Era davvero questo che i tecnici avevano in mente quando hanno iniziato il loro mandato? A quanto pare sì, visto che nessuno ha ancora avuto l'onestà di prodursi in un pur minimo e tardivo esercizio d'autocritica. D'altra parte, quando il Capo è impegnato in campagna elettorale, i dipendenti lo sostengono. Contro tutto e tutti, anche contro l'evidenza.
E così il Grilli parlante ha pensato bene di regalarci l'ennesima summa del Monti-pensiero, spiegandoci con le parole di sempre per quale motivo abbiamo deciso di sacrificare le nostre vite al bilancio pubblico: “L’Italia aveva poca scelta - ha ribadito il ministro, mai stanco di ripetere la poesia - E' impossibile costruire una strategia di crescita senza mercati stabilizzati, sarebbe come costruire una casa sulla sabbia”.
Grilli ha poi smentito la necessità di una nuova manovra correttiva, sostenendo che quest'anno l'Italia arriverà certamente al tanto sospirato pareggio di bilancio in termini strutturali. Peccato che per raggiungere questo (inutile) obiettivo, se la crisi si rivelasse peggiore delle stime del governo (finora completamente sballate), mancherebbero all'appello almeno sette miliardi. Per non parlare degli altri quattro miliardi di cui avremmo bisogno per scongiurare il rincaro della terza aliquota Iva a partire da luglio, l'ennesimo balzello che rischia di affossare ulterormente non solo i consumi, ma l'attività economica in generale.
A tutto questo fa riferimento Pier Luigi Bersani quando parla della “polvere sotto il tappeto” da verificare all'inizio della prossima legislatura. Sempre che non ci sia da spolverare tutta casa.