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di Carlo Musilli
Lo aspettavano tutti, ed è tornato puntuale. L'allarme dei mercati per la crisi greca è ormai un'abitudine e l'inadeguatezza delle soluzioni adottate rende inevitabile che il problema si ripresenti ciclicamente. L'ultimo caso è scoppiato lunedì, quando l'agenzia Reuters ha battuto la notizia di un presunto "ultimatum" da parte della Troika: Bce, Fmi e Ue avrebbero dato tre giorni ad Atene per fornire garanzie sul rispetto dei patti, altrimenti addio alla prossima tranche d'aiuti. In gioco ci sono gli 8,1 miliardi di euro che i creditori internazionali dovrebbero sborsare ad agosto nell'ambito del piano da 130 miliardi approvato a fine 2012.
Da Bruxelles hanno cercato immediatamente di alleggerire i toni: "Non abbiamo fissato alcuna scadenza - ha detto Simon O'Connor, portavoce del vicepresidente della Commissione europea, Olli Rehn - ma è vero che lunedì l'Eurogruppo prenderà una decisione" sulla Grecia.
Ora, è di tutta evidenza che la sospensione tout-court degli aiuti non sia verosimile. Le casse di Atene andrebbero ben presto in crisi di liquidità e il default disordinato scatenerebbe un effetto domino finanziario che avrebbe conseguenze drammatiche per tutti i compagni di Eurolandia.
Ben più verosimili sono altre due soluzioni di cui si è parlato ieri: il congelamento della rata d'aiuti per tre mesi o la sua diluizione in tre pagamenti mensili. La prima ipotesi è la più temuta, ma non rischia di provocare alcun disastro, dal momento che la Grecia in estate non ha bisogno di molti fondi e potrebbe in ogni caso far fronte ad eventuali necessità con titoli di Stato a breve termine.
Ma cos'è che turba i sonni della Troika? I creditori internazionali non sono soddisfatti dei progressi compiuti dalla Grecia su varie riforme poste originariamente come condizione per l'avvio del nuovo piano d'aiuti. Nel mirino ci sono soprattutto i provvedimenti in tema di pubblica amministrazione, fisco e sanità. In particolare, Atene non ha rispettato il termine del 30 giugno, data entro la quale avrebbe dovuto mettere in mobilità 12.500 dipendenti statali (un passo che di fatto precede il licenziamento). Sembra che il ministro per le Riforme amministrative Kyriakos Mitsotakis voglia chiedere una proroga fino alla fine di settembre.
Sul fronte del lavoro, invece, Bruxelles preme perché i tecnici della Troika mettano a punto con i greci una riforma del lavoro che punti a un'iper-flessibilità, avvantaggiando però solo le aziende. L'idea - cara in particolar modo a Berlino - punta a ridurre la disoccupazione aumentando i contratti part-time con retribuzioni da fame (al massimo 350 euro) e senza alcun ritorno previdenziale.
Secondo alcune indiscrezioni, durante una riunione al ministero greco delle Finanze sarebbe stata decisa la presentazione in Parlamento di un disegno di legge da approvare con urgenza che comprenderà tutte le misure considerate indispensabili dalla Troika. In questo modo il ministro Yannis Stournaras potrebbe presentarsi all'Eurogruppo di lunedì annunciando almeno la volontà politica di proseguire lungo la strada imposta dai creditori.
Tutto questo per continuare nell'accanimento terapeutico che ormai da anni maschera il fallimento della Grecia, visto che le condizioni del Paese peggiorano inesorabilmente sia sul piano finanziario sia su quello dell'economia reale. D'altra parte, a gennaio gli stessi dirigenti del Fmi ammisero ufficialmente di aver sbagliato i conti.
All'errore, purtroppo, non è seguita alcuna correzione. Anzi, il mese scorso - secondo il Financial Times - proprio il Fondo monetario internazionale avrebbe minacciato di sospendere gli aiuti alla Grecia entro la fine di luglio dopo aver stimato un buco nel piano di sostegno finanziario di 3-4 miliardi di euro.
Una decisione che avrebbe conseguenze incalcolabili, anche perché Finlandia, Paesi Bassi, Austria e Germania - il cosiddetto fronte del Nord - hanno già chiarito che, se l’Fmi si facesse da parte, anche loro si tirerebbero indietro. In questo caso tuttavia si tratta quasi certamente di un bluff, peraltro più che comprensibile, visto che il 22 settembre i tedeschi andranno al voto per eleggere Bundestag e cancelliere.
Angela Merkel ha dichiarato che la Grecia deve concentrarsi sull'attuazione delle riforme e non su un possibile nuovo taglio del debito. Anche perché, dopo la ristrutturazione a inizio 2012 della quota nei portafogli dei privati, questa volta bisognerebbe intervenire sui titoli ellenici in mano agli stati. E il peso si farebbe sentire sui contribuenti-elettori europei.
Ma nel frattempo come se la passano i greci? La disoccupazione è aumentata in meno di quattro anni dal 7,4% al 27%, mentre il 22% delle famiglie e il 24% dei bambini vivono oggi sotto la soglia di povertà. I senza lavoro sono un milione e 320 mila e altri 485 mila non hanno nemmeno il sussidio di disoccupazione, perché ne hanno già usufruito per due anni. In condizioni simili, forse, nemmeno la cancelliera si concentrerebbe sulle riforme.
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di Carlo Musilli
Quella che si è appena chiusa a Bruxelles è stata una settimana di accordi molto attesi, ma rimangono ancora diverse zone d'ombra. Nonostante la soddisfazione espressa dai vari capi di Stato e di governo, non è chiaro se e in che modo le intese raggiunte saranno in grado di sostenere concretamente l'economia europea. Fra le decisioni prese nel corso del vertice Ue di giovedì e venerdì, quelle di maggiore interesse riguardano il lavoro e gli investimenti.
Sul primo fronte si è stabilito che i sei miliardi di euro già stanziati per l'occupazione giovanile saranno interamente spendibili nel biennio 2014-2015 (inizialmente erano spalmati fino al 2020). A questa somma si aggiungeranno altri 2-3 miliardi grazie alla flessibilità concordata per il bilancio europeo 2014-2020 (su cui il Consiglio ha finalmente trovato un accordo, tutelando lo "sconto" tradizionalmente concesso alla Gran Bretagna). Il presidente Ue Herman Van Rompuy ha parlato di due miliardi, il premier Enrico Letta di tre. All'Italia spetterà circa un miliardo e mezzo: "Un grandissimo risultato", ha detto il Presidente del Consiglio, dal momento che la somma è stata "quasi triplicata".
L'iniziativa dovrà essere “pienamente operativa entro gennaio 2014 - si legge nelle conclusioni del vertice - in modo da consentire i primi pagamenti ai beneficiari nelle regioni Ue con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25%”.
Purtroppo ancora non è dato sapere come questi "pagamenti" saranno impiegati per tamponare la piaga del lavoro che non c'è. Mentre aspettiamo il secondo pacchetto di misure annunciato dal nostro governo (sperando che contenga provvedimenti più efficaci del primo), prendiamo atto che buona parte dei fondi sarà spesa per finanziare il programma europeo "Youth Guarantee", con cui si dovrebbe assicurare ai giovani sotto i 25 anni un posto di lavoro o una formazione d’eccellenza entro i primi quattro mesi dalla fine degli studi.
Ora, anche sfruttando questo canale, il nostro Paese rischia di trovarsi in seria difficoltà. Il programma dovrà infatti essere gestito dai centri per l'impiego, che in Italia non sono certamente un modello d'efficienza.
Rimane infine da capire quale efficacia potrà avere la somma stanziata complessivamente. In uno slancio d'onestà il cancelliere austriaco Werner Fayman ha ammesso che "per rispondere alla sfida della disoccupazione giovanile in Europa ci vorrebbero almeno sei miliardi l'anno".
Quanto al secondo grande capitolo affrontato la settimana scorsa a Bruxelles, il Consiglio Ue ha deciso di rafforzare il ruolo della Banca europea degli investimenti (Bei) come erogatore di garanzie e di prestiti (che aumenteranno "almeno del 40%", contro il +50% indicato nella prima bozza d'accordo). La Bei ha già individuato opportunità di prestiti per circa 150 miliardi di euro, con priorità per l'accesso al credito delle imprese, l'innovazione e la formazione, l'efficienza energetica e le infrastrutture strategiche.
Il ruolo della Bei è al centro della più classica controversia europea, quella fra i rigoristi intransigenti e coloro che preferirebbero allentare il cappio. I primi vogliono che l'istituto conservi il rating massimo, la famosa "tripla A", investendo soltanto in progetti più che sicuri. La fazione opposta - di cui fa parte l'Italia - chiede invece che la Bei allarghi il suo raggio d'azione per sostenere in modo più incisivo l'economia reale. Che rimane ancora in attesa.
Il dibattito europeo non ha prodotto invece particolari sorprese su altri fronti. Nessun passo avanti, ad esempio, sull'unione bancaria, se non l'illuminante precisazione che si tratta di una "priorità chiave". Più movimentata la discussione sui nuovi Paesi da accogliere nella grande famiglia europea.
Due decisioni sono ormai acquisite: la Croazia è ufficialmente il 28esimo Paese dell'Ue, mentre dall'anno prossimo la Lettonia entrerà a far parte dell'Eurozona. La partita è invece ancora aperta e complicata per quanto riguarda la Serbia. Il Consiglio ha stabilito di aprire “al più tardi nel gennaio 2014” i negoziati per l’ingresso di Belgrado nell'Unione.
La cancelliera tedesca Angela Merkel, tuttavia, non è una fan dell'allargamento europeo nei Balcani. Su pressione della Germania, dunque, si è deciso che la struttura dei negoziati con la Serbia dovrà essere approvata dal Consiglio Ue di fine 2013. Van Rompuy avrebbe preferito affidare il dossier al Consiglio Affari Esteri, ma questo avrebbe rimesso la pratica al giudizio dei ministri dei vari Paesi.
Il cambiamento di rotta, invece, consentirà molto probabilmente alla Merkel di occuparsi personalmente della vicenda. Il calcolo è semplice: a settembre la Germania andrà al voto e, se dalle urne dovesse uscire un governo di grande coalizione, i socialdemocratici potrebbero pretendere il ministero degli Esteri.
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di Carlo Musilli
Ai danni miliardari seguono beffe colossali. E chi riteneva che esistesse un limite oltre il quale nemmeno i boss della finanza potessero spingersi si deve ricredere per l'ennesima volta. Sono bastate poche pagine a JP Morgan per screditare la tradizione politica e culturale di mezza Europa. In un documento dello scorso 28 maggio - appena 16 cartelle - la super banca americana ha pensato bene di salire in cattedra per spiegare ai governi dell'Eurozona come risollevarsi dalla crisi del debito.
Di per sé questa non sarebbe una novità, i report didattici dei colossi bancari ingombrano archivi interi. Stavolta però l'istituto è andato oltre, puntando il dito contro diverse Carte Costituzionali del vecchio continente, colpevoli d'esser state scritte sulla scorta d'un'ispirazione ideologica antifascista.
“I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo - scrivono da JP Morgan - presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”.
E quali sarebbero queste caratteristiche? Secondo i raffinati politologi con il conto in banca a Manhattan, “i sistemi politici della periferia meridionale (dell'Europa, ndr) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.
Eccolo qua lo spauracchio, il pericolo rosso. Quei bolscevichi dei padri costituenti - che nel nostro Paese furono in maggioranza democristiani - avrebbero inserito nelle Carte una serie di nefasti principi socialisti che oggi ostacolerebbero le riforme necessarie a far ripartire l'economia. Quali? JP Morgan ci fa anche la lista: "Esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo".
Le condizioni miserevoli dell'occupazione nell'Eurozona del Sud sono sufficienti a dimostrare quanto "le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori" abbiano a che vedere con la situazione attuale. Il dramma del lavoro è un effetto della crisi, non una sua causa. Quanto al clientelismo, non è certamente un vanto, ma verrebbe da chiedere agli eruditi analisti d'indicarci quali articoli della nostra Carta lo eleggano a principio fondativo del consenso. Quanto alla "licenza di protestare", i signori americani farebbero bene a rileggere il primo emendamento della loro Costituzione.
A questo punto non possiamo fare a meno di domandarci da quale pulpito ci giunga questa inascoltabile predica. Se le opinioni di JP Morgan risultano quantomeno discutibili, le sue responsabilità storiche lo sono molto meno. Stiamo parlando di uno dei colossi di Wall Street che ha scatenato la crisi finanziaria del 2008, nata negli Usa e poi esportata in Europa, dove col tempo si è trasformata in crisi dei debiti sovrani.
Nell'ottobre del 2012 lo Stato di New York ha fatto causa a JP Morgan, chiedendole di restituire i soldi rubati con la truffa dei mutui subprime, ovvero la miccia che ha fatto detonare l'economia di mezzo mondo. Sulla banca sono ricaduti i peccati di quella che oggi è una sua controllata, Bear Sterns, sotto accusa per aver venduto a peso d'oro titoli derivati che sapeva essere carta straccia proprio perché garantiti dai subprime. Le operazioni risalgono al 2006-2007 e si stima abbiano causato perdite agli investitori per 22,5 miliardi di dollari, provocando la disoccupazione di sette milioni di americani.
Ma non basta, perché JP Morgan è protagonista anche di un altro gigantesco scandalo finanziario, quello della "Balena di Londra". L'anno scorso un broker inglese della banca americana ha aperto una voragine nei conti dell'istituto con una serie di scommesse rischiosissime e fallimentari sui Cds (ancora una volta titoli derivati). E poco più di tre mesi fa la Sottocommissione permanente per le indagini del Senato Usa ha accusato JP Morgan di aver continuato ad ingannare le autorità di vigilanza e gli investitori, mentendo sull'ammontare delle perdite legate alla "London Whale".
Secondo il senatore democratico Carl Levin, gli investigatori "hanno scoperto operazioni di trading, fondate sul rischio, che ignoravano i limiti posti all'assunzione dei rischi stessi, nascondevano le perdite, eludevano la supervisione e disinformavano il pubblico".
Ora questi stessi signori pretendono d'insegnarci come correggere la nostra Costituzione. Fingono di dimenticare che le radici più profonde della crisi finanziaria sono da ricercare proprio in quel mercato dove loro hanno operato indisturbati per anni. I veri peccati originali sono stati l'assenza di regole nel settore dei derivati e la mancanza di controlli da parte delle autorità.
E' perlomeno sospetto che speculatori di questo calibro si scaglino contro i diritti acquisiti dalla tradizione antifascista europea. Diritti che rappresenterebbero un ostacolo lungo la strada delle "riforme strutturali" tanto anelate dalla banca. Il dubbio è che gli analisti di JP Morgan non vogliano filosofeggiare contro generiche "idee socialiste", ma puntino in realtà rosicchiare progressivamente lo stato sociale europeo. L'ultima vacca grassa che la rendita finanziaria non ha ancora finito di dissanguare.
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di Carlo Musilli
Per allietare i mesi estivi, a Karlsruhe va in scena un nuovo spettacolo della saga "Nibelunghi contro Draghi". Dopo la querelle dell'anno scorso sul fondo Esm, stavolta la Corte Costituzionale tedesca è chiamata ad esprimersi sulla legittimità del programma Omt (Outright monetary transactions) messo a punto fra agosto e settembre 2012 dalla Banca centrale europea. Un teatrino che la dice lunga su una porzione consistente dell'opinione pubblica e della politica tedesca, pronta a difende la moneta unica solo finché riesce a trarne il massimo profitto.
Aiutare gli altri membri dell'Eurozona non rientra affatto nei loro piani. Al contrario, pur di continuare a guadagnare sulle disgrazie altrui, le stesse persone che hanno difeso per anni la rigida osservanza dei trattati europei oggi mettono in discussione l'indipendenza della Bce.
L'ultimo oggetto del contendere - il programma Omt - consente all'istituto centrale di acquistare sul mercato secondario i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, in modo da raffreddare gli spread. Chiunque voglia attivarlo deve sottoscrivere un memorandum con la Commissione Ue e la stessa Eurotower, impegnandosi formalmente a risanare i propri conti e a varare le riforme strutturali necessarie. L'aspetto chiave del programma è però tutto in un aggettivo: "illimitato". Una volta iniziati, gli acquisti possono proseguire senza alcuna soglia massima stabilita preventivamente.
E' proprio questo aspetto ad aver scaricato la pistola in mano ai grandi speculatori internazionali. L'Omt finora non è mai stato messo in pratica, ma il solo effetto-annuncio è bastato ad allentare in modo significativo la tensione sui mercati. Chi in passato ha scommesso contro paesi come Italia e Spagna, speculando sui rialzi dello spread, oggi sa benissimo che il gioco non funzionerebbe, perché nessun fondo può competere con la potenza di fuoco della Bce.
Contro questo programma hanno fatto ricorso 35mila cittadini tedeschi, che però non si sono rivolti alla Corte di giustizia europea (in Lussemburgo), ma alle loro beneamate toghe costituzionali. Peccato che il tribunale di Karlsruhe, per quanto supremo, sia pur sempre un organismo nazionale e non possa quindi piegare al proprio volere un'istituzione di diritto europeo.
Gli stessi giudici tedeschi hanno riconosciuto i limiti della propria giurisdizione, ma invece di lasciare il compito ai colleghi del Lussemburgo hanno deciso di proseguire lungo la propria strada. Rientra infatti nelle loro prerogative stabilire se le Omt abbiano superato alcuni limiti fissati dal diritto europeo, risultando incompatibili anche con la Costituzione tedesca.
I punti fondamentali su cui si concentra il ricorso sono due. Primo: le Omt metterebbero a rischio il bilancio pubblico tedesco, impedendo al Parlamento di decidere liberamente altre spese. Secondo: le grandi immissioni di liquidità nel sistema rischierebbero di far impennare l'inflazione, pregiudicando la stabilità dell'euro, ovvero la condizione fondamentale posta oltre 20 anni fa dall'Esecutivo di Berlino per firmare il trattato di Maastricht.
Sembra abbastanza evidente che nessuna di queste due obiezioni abbia ragion d'essere. Innanzitutto, per quanto illimitati, gli acquisti della Bce riguarderebbero solo bond già emessi e con scadenze comprese fra uno e tre anni: in nessun caso un'eventuale perdita (che per altro si avrebbe solo in caso di default di un Paese dell'Eurozona...) potrebbe mai superare la soglia massima di spesa già fissata dalla Corte di Karlsruhe nel 50% del bilancio federale annuo.
Quanto al secondo tema, la Bce ha già chiarito che la liquidità immessa nel sistema con l'acquisto dei titoli verrebbe sterilizzata: nessun aumento della massa monetaria, nessuna impennata dell'inflazione. Inoltre, mettendo al riparo l'euro da attacchi speculativi, il programma Omt contribuirebbe casomai a rafforzare la moneta unica, non certo a indebolirla.
A difesa della Bce di sono già espressi la cancelliera Angela Merkel e il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, oltre al presidente dell' Parlamento europeo, il tedesco Martin Schultz, e alla numero uno del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde.
Ma allora per quale ragione tanti tedeschi si scagliano contro Mario Draghi? A pensar male si farà peccato, ma è un fatto che gli spread eccessivamente alti abbiano garantito affari d'oro alla Germania. Un tesoro che dal 2009 a oggi ha raggiunto gli 80 miliardi, destinati a diventare 100 entro fine anno.
Il meccanismo di base non è complesso. Quando il mercato dei debiti pubblici era dominato dal panico, gli investitori puntavano sui titoli di Stato tedeschi come veri beni-rifugio, consentendo a Berlino di rifinanziare il proprio debito a tassi bassissimi. I rendimenti sono scesi spesso addirittura sotto lo zero e il Tesoro è riuscito a guadagnare denaro mentre ne chiedeva in prestito (come se la banca dove accendiamo un mutuo, invece di chiederci gli interessi, fosse disposta a pagarceli per avere il privilegio di dare a noi i suoi soldi). Il circolo virtuoso per la Germania ha coinvolto anche le banche private e le aziende tedesche, che hanno raccolto denaro pagando tassi nettamente inferiori a quelli delle loro concorrenti europee.
L'egoismo dei tedeschi che invocano la Corte Costituzionale ha quindi le sue ragioni. Ma si tratta di una prospettiva miope. Come fece notare in passato lo stesso Schultz, continuando con il giochetto dei differenziali "non ci sarà più un mercato per i prodotti della Germania, perché gli altri non avranno i soldi per comprarli". Una deduzione logica. Speriamo se ne rendano conto anche a Karlsruhe.
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di Carlo Musilli
"Questa riforma non s'ha da fare", dicono le banche di Wall Street. E ancora una volta sono loro a spuntarla. L'applicazione delle nuove norme sul mercato dei derivati made in Usa è stata ufficialmente rinviata di due anni: se ne riparlerà nel luglio del 2015. Al centro del contendere, una serie di regole contenute nella Dodd-Frank, la legge che dovrebbe mettere un freno all'anarchia della finanza americana. Il testo è stato approvato ormai tre anni fa, ma ad oggi è entrato in vigore solo il 38% delle misure previste, stando allo studio legale Davis Polk, che segue l'applicazione della riforma.
A chiedere più tempo per l'applicazione delle norme è stato un manipolo di colossi (JP Morgan, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Hsbc, Morgan Stanley e US Bancorp), sette sorelle che molto probabilmente saranno imitate a breve da altri istituti. Il via libera al rinvio è arrivato dall'Office of the Comproller of the Currency (Occ), l'ufficio di vigilanza del Dipartimento del Tesoro che insieme alla Federal Reserve ha la responsabilità di supervisionare le banche. La stessa Fed, inoltre, aveva già chiarito nei giorni scorsi che un'eventuale proroga avrebbe interessato anche gli istituti stranieri attivi negli Usa.
In particolare, la controffensiva della lobby di Wall Street si è scatenata contro una norma che punta a ridurre il potenziale distruttivo dei derivati più rischiosi (come i Cds, titoli con i quali è possibile guadagnare dal fallimento altrui). Si tratta della "Swap push-out Rule", che prevede l'obbligo di concentrare alcune operazioni finanziarie in società distinte da quelle che raccolgono le attività meno pericolose.
L'obiettivo fondamentale è circoscrivere il perimetro delle potenziali bombe finanziarie per evitare effetti sistemici in caso di esplosione e limitare al contempo il costo di eventuali salvataggi (pagati come sempre dai contribuenti). Insomma, si tratterebbe di fare in modo che una valanga come quella innescata nel 2008 dal fallimento di Lehman Brothers non possa ripetersi.
All'epoca furono proprio i derivati - in particolare quelli legati ai mutui subprime - a mettere in ginocchio l'intero sistema finanziario americano, scatenando un effetto domino che ebbe ripercussioni a livello globale e accese la miccia della crisi dei debiti sovrani europei. E' probabile che al momento non siano in vista nuovi tsunami finanziari di quella portata, ma il punto è un altro: un minimo barlume di raziocinio suggerisce di prevenire oggi quello che potrebbe finire di distruggerci domani.
Peccato che non siano dello stesso avviso a Wall Street, dove negli ultimi anni gli indici azionari si sono ampiamente risollevati, tornando di recente a far segnare record storici. Da sole, le cinque maggiori banche americane (JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs) controllano il 90% dei derivati, in un mercato che vale qualcosa come 700 mila miliardi di dollari.
Purtroppo la politica americana, su entrambe le sponde del Congresso, è evidentemente troppo compromessa con questi grandi poteri finanziari. Non c'è quindi da stupirsi se nemmeno la democratica amministrazione Obama ha la forza, gli strumenti o anche semplicemente l'intenzione di cambiare veramente le regole del gioco fra i giganti di Borsa.
Le pressioni della lobby bancaria hanno la meglio sempre e comunque. Il triste destino della Dodd-Frank lo dimostra in modo pressoché inequivocabile. Quella degli istituti di credito è una lenta opera d'erosione che punta ad ammorbidire, dilazionare, smontare pezzo a pezzo e depotenziare l'unico strumento concepito negli Stati Uniti per correggere le storture del sistema finanziario.
Fra i moltissimi ritardi nell'applicazione delle regole, un altro esempio clamoroso è quello della cosiddetta "Volcker Rule", relativa alla separazione tra banche d'affari e istituti d'investimento. L'uomo che dà il nome alla norma, Paul Volcker - già governatore della Federal Reserve - ha fondato un'istituzione autonoma, la Volcker Alliance, che si contrappone esplicitamente alla lobby finanziaria per cercare di piegare le banche alle nuove regole. Non rimane da sperare che un ultraottantenne abbia successo dove le varie agenzie federali hanno fallito.