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di Carlo Musilli
Il mirino dei mercati punta su Lisbona e la tensione finanziaria sale in tutta la periferia d’Europa. Ieri lo spread italiano è tornato per qualche minuto sopra la soglia psicologica dei 300 punti base e Piazza Affari, dopo un avvio positivo, ha chiuso in ribasso di oltre un punto e mezzo, il secondo peggior calo fra le principali Borse europee dopo quello di Madrid (-2,32%). A incidere non sono state solo le difficoltà politiche nostrane, ma anche (e soprattutto) quelle del Portogallo.
La crisi di governo che si è aperta nel Paese iberico alimenta la possibilità che il piano di salvataggio siglato con i creditori internazionali possa essere rinegoziato, come chiede Antonio José Seguro, leader dell’opposizione socialista. La sola ipotesi, naturalmente, fa la gioia degli speculatori, che ad agosto potrebbero allestire un nuovo attacco ai membri periferici dell’unione valutaria. Il grido di battaglia è sempre lo stesso: “Rischio contagio!”.
Ma cosa sta accadendo di tanto preoccupante in quel di Lisbona? Com’è ovvio, ai mercati non interessano affatto i disastri prodotti dall’austerity. Al contrario, tutta l’attenzione degli investitori si concentra sulla possibilità che il Portogallo venga meno ai patti siglati con la Troika per ottenere gli aiuti internazionali.
Lunedì i rappresentanti di Ue, Bce e Fmi dovrebbero tornare in terra portoghese per l'ottava missione di revisione, che ha il compito di valutare fino a che punto siano stati attuati i piani per la riduzione della spesa (i risparmi previsti per il prossimo biennio valgono 4,7 miliardi di euro). Il Governo portoghese ha però chiesto di rinviare l'esame a settembre "a causa dell'attuale situazione politica".
Da circa due settimane, infatti, il governo guidato da Pedro Passos Coelho cammina su un filo sottilissimo. Dopo giorni tribolati, l’Esecutivo sembrava aver trovato una faticosa quadra, eppure non è riuscito a convincere il presidente della Repubblica, Aníbal Cavaco Silva, che ha bloccato il piano per ricompattare il governo, invocando un nuovo accordo fra la coalizione di maggioranza e l'opposizione socialista. L’obiettivo è blindare le misure di austerità per uscire nel giugno 2014 dal programma di salvataggio e allo stesso tempo traghettare il Paese verso nuove elezioni politiche.
L’appello del Presidente è rivolto ai tre partiti protagonisti dell'accordo con la Troika per ottenere il prestito di 78 miliardi. Nel 2011, quando era il governo, fu il partito socialista a chiedere gli aiuti internazionali. Gli impegni che ciò ha comportato sono poi stati rispettati dalla coalizione di centrodestra salita al potere dopo le elezioni anticipate del 2012.
Cavaco Silva ha chiarito che se non arriverà l’accordo "cercherà altre soluzioni", ma ha escluso di convocare nuove elezioni quest'anno, come invece vorrebbero il Partito socialista, gli altri gruppi d’opposizione e i sindacati. Il Presidente ritiene comunque ancora aperta la crisi politica iniziata ufficialmente la settimana scorsa, quando il ministro delle Finanze Vitor Gaspar si era dimesso in segno di dissenso con le misure di eccessivo rigore previste dal secondo piano anticrisi (il primo era stato bocciato dalla Corte costituzionale).A stretto giro aveva dato forfait anche il ministro degli Esteri, Paulo Portas, il quale, essendo anche leader del Centro Democrático Social-Partido Popular, aveva minacciato di far cadere il governo. Venerdì scorso, tuttavia, Portas aveva trovato un nuovo accordo con il socialdemocratico Passos Coelho, ottenendo la nomina a vicepremier e ministro degli Affari finanziari. L'alleanza fra i due partiti di maggioranza, per quanto fragile, sembrava ristabilita, ma il Presidente della Repubblica ha rimesso tutto in discussione.
A questo punto è possibile che il "governo di salvezza nazionale" chiesto dal Capo dello Stato veda effettivamente la luce. Il Premier si è detto pronto a trovare un accordo con i principali partiti del Paese per gestire il piano di salvataggio. Timide aperture sono arrivate anche da Portas e da Seguro.
Mentre le manovre politiche proseguono, tuttavia, il Portogallo è alle prese la più grave crisi economica dagli anni settanta e la tensione sociale è ormai alle stelle. L'austerity imposta da Bruxelles ha prodotto un aumento generalizzato delle tasse sui redditi e sui consumi, il calo delle retribuzioni nel pubblico impiego e il taglio alle spese per sanità e istruzione.
La recessione dura dal 2011 e il tasso di disoccupazione è al 18%, mentre fra i giovani raggiunge il 43%. In questo quadro non si può escludere che per risollevare le finanze pubbliche del Paese sia necessaria una soluzione simile a quella adottata in Grecia, ovvero una rinegoziazione del debito a discapito dei creditori privati. Ma a quel punto torneremmo a fare i conti ogni giorno con lo spettro più temuto dai mercati e più sfruttato dagli speculatori: il rischio contagio.
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di Carlo Musilli
Da Bruxelles arriva un'altra delusione per la Grecia. L'Eurogruppo ha deciso lunedì sera che questo mese Atene riceverà solamente 2,5 miliardi di euro, contro gli 8,1 precedentemente concordati. Non solo: i fondi saranno versati esclusivamente a patto che il Paese ''metta in opera le azioni programmate entro il 19 luglio'', ha spiegato Jereon Dijsselbloem, presidente dell'Eurogruppo.
Ma che fine hanno fatto gli altri soldi? La rata è stata ridotta complessivamente da 8,1 a 6,8 miliardi e divisa in sotto-tranche il cui pagamento è subordinato all'obbedienza del governo Samaras. Oltre ai 2,5 miliardi in arrivo dal fondo salvastati Efsf, questo mese Atene incasserà anche un altro miliardo e mezzo dai profitti sui titoli di stato detenuti dalle Banche centrali. Ad ottobre, invece, sempre se i greci soddisferanno le richieste dei creditori internazionali, arriverà la seconda sotto-tranche: 0,5 miliardi dall'Efsf e altrettanti dai profitti sui bond.
Intanto, ad agosto, il Fondo monetario internazionale dovrebbe pagare la sua quota di 1,8 miliardi di euro. Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, ha fatto sapere che la decisione sullo sblocco dei fondi sarà presa dal comitato direttivo a fine mese.
Da un punto di vista strettamente finanziario, per le casse elleniche cambia poco: nel breve termine il Tesoro non ha bisogno di molti fondi per finanziare il debito e di certo nessuno nell'Eurozona ha interesse a mandare la Grecia in crisi di liquidità, una mossa che alimenterebbe i timori sulla tenuta della moneta unica e forse accenderebbe la miccia per una nuova tornata di speculazione balneare in agosto.
Lo spacchettamento degli aiuti deciso a Bruxelles va letto quindi solo in chiave politica. Più che un ultimatum, si tratta al contempo di una punizione e di un mezzo di coercizione, nel più totale disinteresse per il principio di sovranità nazionale e della stessa dignità del popolo greco.
"In molte aree dobbiamo riscontrare misure più decise per accelerare la ripresa", ha chiarito Olli Rehn, commissario europeo per gli Affari economici e monetari. In particolare, alla Grecia si chiede di procedere con le liberalizzazioni, la riforma fiscale e quella del settore pubblico.
L'insoddisfazione dell'Europa nasce dalle conclusioni a cui è giunta la Troika - composta dai tecnici di Ue, Fmi e Bce -, che nel suo rapporto sull'economia ellenica ha segnalato una serie di ritardi nel perseguimento degli obiettivi fissati per risanare i conti, pur ammettendo che alcuni passi avanti sono stati compiuti. "La missione e le autorità concordano sul fatto che l'outlook rimane complessivamente in linea con le proiezioni del programma - si legge nella relazione -, con un ritorno alla crescita nel 2014. Comunque le prospettive rimangono incerte".A sentire parlare di "ritorno alla crescita" e di "prospettive incerte" i greci probabilmente sorridono, se hanno abbastanza autocontrollo per non infuriarsi. Da anni ormai vengono costantemente umiliati da un'Europa che finge di aiutarli mentre tutela i propri interessi. Un occhio sui mercati internazionali, l'altro sui conti pubblici di Atene.
E nessuno che si ponga il problema delle condizioni di vita in cui è stato ridotto il Paese, flagellato prima dalla propria classe politica criminale, poi dall'incertezza e dall'indifferenza dei tecnocrati di Bruxelles, interessati solo a evitare il contagio e a tutelare i creditori.
Lunedì il sindaco di Atene, Giorgos Kaminis, è stato aggredito da un gruppo di sconosciuti mentre usciva dalla sede dell'Associazione centrale dei Comuni di Grecia, dove aveva partecipato a una riunione sulla decisione del governo di mettere in mobilità il personale della polizia locale e le guardie degli edifici scolastici. L'Associazione dei Lavoratori delle autonomie locali ha condannato l'episodio, definendolo "fascista e dannoso per gli interessi dei lavoratori" e sostenendo che si è trattato "di una provocazione premeditata di persone di estrema destra e di Chrysi Avgi" (il partito neo-nazista) che vogliono "disorientare la società greca dalla giusta causa dei lavoratori del settore".
La vicenda è legata proprio ad una di quelle riforme che l'Europa chiede con più vigore: la messa in mobilità di 12.500 dipendenti pubblici al 70% dello stipendio, un provvedimento che precede il trasferimento o il licenziamento per chi non è ricollocabile. Atene si era impegnata a chiudere la partita entro fine giugno, ma non ce l'ha fatta. Il nuovo termine è stato fissato a settembre, ma il periodo di mobilità verrà ridotto da un anno a otto mesi. Tanto per non mettere in dubbio quanto all'Europa stia a cuore la concordia sociale.
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di Carlo Musilli
Lo aspettavano tutti, ed è tornato puntuale. L'allarme dei mercati per la crisi greca è ormai un'abitudine e l'inadeguatezza delle soluzioni adottate rende inevitabile che il problema si ripresenti ciclicamente. L'ultimo caso è scoppiato lunedì, quando l'agenzia Reuters ha battuto la notizia di un presunto "ultimatum" da parte della Troika: Bce, Fmi e Ue avrebbero dato tre giorni ad Atene per fornire garanzie sul rispetto dei patti, altrimenti addio alla prossima tranche d'aiuti. In gioco ci sono gli 8,1 miliardi di euro che i creditori internazionali dovrebbero sborsare ad agosto nell'ambito del piano da 130 miliardi approvato a fine 2012.
Da Bruxelles hanno cercato immediatamente di alleggerire i toni: "Non abbiamo fissato alcuna scadenza - ha detto Simon O'Connor, portavoce del vicepresidente della Commissione europea, Olli Rehn - ma è vero che lunedì l'Eurogruppo prenderà una decisione" sulla Grecia.
Ora, è di tutta evidenza che la sospensione tout-court degli aiuti non sia verosimile. Le casse di Atene andrebbero ben presto in crisi di liquidità e il default disordinato scatenerebbe un effetto domino finanziario che avrebbe conseguenze drammatiche per tutti i compagni di Eurolandia.
Ben più verosimili sono altre due soluzioni di cui si è parlato ieri: il congelamento della rata d'aiuti per tre mesi o la sua diluizione in tre pagamenti mensili. La prima ipotesi è la più temuta, ma non rischia di provocare alcun disastro, dal momento che la Grecia in estate non ha bisogno di molti fondi e potrebbe in ogni caso far fronte ad eventuali necessità con titoli di Stato a breve termine.
Ma cos'è che turba i sonni della Troika? I creditori internazionali non sono soddisfatti dei progressi compiuti dalla Grecia su varie riforme poste originariamente come condizione per l'avvio del nuovo piano d'aiuti. Nel mirino ci sono soprattutto i provvedimenti in tema di pubblica amministrazione, fisco e sanità. In particolare, Atene non ha rispettato il termine del 30 giugno, data entro la quale avrebbe dovuto mettere in mobilità 12.500 dipendenti statali (un passo che di fatto precede il licenziamento). Sembra che il ministro per le Riforme amministrative Kyriakos Mitsotakis voglia chiedere una proroga fino alla fine di settembre.
Sul fronte del lavoro, invece, Bruxelles preme perché i tecnici della Troika mettano a punto con i greci una riforma del lavoro che punti a un'iper-flessibilità, avvantaggiando però solo le aziende. L'idea - cara in particolar modo a Berlino - punta a ridurre la disoccupazione aumentando i contratti part-time con retribuzioni da fame (al massimo 350 euro) e senza alcun ritorno previdenziale.
Secondo alcune indiscrezioni, durante una riunione al ministero greco delle Finanze sarebbe stata decisa la presentazione in Parlamento di un disegno di legge da approvare con urgenza che comprenderà tutte le misure considerate indispensabili dalla Troika. In questo modo il ministro Yannis Stournaras potrebbe presentarsi all'Eurogruppo di lunedì annunciando almeno la volontà politica di proseguire lungo la strada imposta dai creditori.Tutto questo per continuare nell'accanimento terapeutico che ormai da anni maschera il fallimento della Grecia, visto che le condizioni del Paese peggiorano inesorabilmente sia sul piano finanziario sia su quello dell'economia reale. D'altra parte, a gennaio gli stessi dirigenti del Fmi ammisero ufficialmente di aver sbagliato i conti.
All'errore, purtroppo, non è seguita alcuna correzione. Anzi, il mese scorso - secondo il Financial Times - proprio il Fondo monetario internazionale avrebbe minacciato di sospendere gli aiuti alla Grecia entro la fine di luglio dopo aver stimato un buco nel piano di sostegno finanziario di 3-4 miliardi di euro.
Una decisione che avrebbe conseguenze incalcolabili, anche perché Finlandia, Paesi Bassi, Austria e Germania - il cosiddetto fronte del Nord - hanno già chiarito che, se l’Fmi si facesse da parte, anche loro si tirerebbero indietro. In questo caso tuttavia si tratta quasi certamente di un bluff, peraltro più che comprensibile, visto che il 22 settembre i tedeschi andranno al voto per eleggere Bundestag e cancelliere.
Angela Merkel ha dichiarato che la Grecia deve concentrarsi sull'attuazione delle riforme e non su un possibile nuovo taglio del debito. Anche perché, dopo la ristrutturazione a inizio 2012 della quota nei portafogli dei privati, questa volta bisognerebbe intervenire sui titoli ellenici in mano agli stati. E il peso si farebbe sentire sui contribuenti-elettori europei.
Ma nel frattempo come se la passano i greci? La disoccupazione è aumentata in meno di quattro anni dal 7,4% al 27%, mentre il 22% delle famiglie e il 24% dei bambini vivono oggi sotto la soglia di povertà. I senza lavoro sono un milione e 320 mila e altri 485 mila non hanno nemmeno il sussidio di disoccupazione, perché ne hanno già usufruito per due anni. In condizioni simili, forse, nemmeno la cancelliera si concentrerebbe sulle riforme.
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di Carlo Musilli
Quella che si è appena chiusa a Bruxelles è stata una settimana di accordi molto attesi, ma rimangono ancora diverse zone d'ombra. Nonostante la soddisfazione espressa dai vari capi di Stato e di governo, non è chiaro se e in che modo le intese raggiunte saranno in grado di sostenere concretamente l'economia europea. Fra le decisioni prese nel corso del vertice Ue di giovedì e venerdì, quelle di maggiore interesse riguardano il lavoro e gli investimenti.
Sul primo fronte si è stabilito che i sei miliardi di euro già stanziati per l'occupazione giovanile saranno interamente spendibili nel biennio 2014-2015 (inizialmente erano spalmati fino al 2020). A questa somma si aggiungeranno altri 2-3 miliardi grazie alla flessibilità concordata per il bilancio europeo 2014-2020 (su cui il Consiglio ha finalmente trovato un accordo, tutelando lo "sconto" tradizionalmente concesso alla Gran Bretagna). Il presidente Ue Herman Van Rompuy ha parlato di due miliardi, il premier Enrico Letta di tre. All'Italia spetterà circa un miliardo e mezzo: "Un grandissimo risultato", ha detto il Presidente del Consiglio, dal momento che la somma è stata "quasi triplicata".
L'iniziativa dovrà essere “pienamente operativa entro gennaio 2014 - si legge nelle conclusioni del vertice - in modo da consentire i primi pagamenti ai beneficiari nelle regioni Ue con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25%”.
Purtroppo ancora non è dato sapere come questi "pagamenti" saranno impiegati per tamponare la piaga del lavoro che non c'è. Mentre aspettiamo il secondo pacchetto di misure annunciato dal nostro governo (sperando che contenga provvedimenti più efficaci del primo), prendiamo atto che buona parte dei fondi sarà spesa per finanziare il programma europeo "Youth Guarantee", con cui si dovrebbe assicurare ai giovani sotto i 25 anni un posto di lavoro o una formazione d’eccellenza entro i primi quattro mesi dalla fine degli studi.
Ora, anche sfruttando questo canale, il nostro Paese rischia di trovarsi in seria difficoltà. Il programma dovrà infatti essere gestito dai centri per l'impiego, che in Italia non sono certamente un modello d'efficienza.
Rimane infine da capire quale efficacia potrà avere la somma stanziata complessivamente. In uno slancio d'onestà il cancelliere austriaco Werner Fayman ha ammesso che "per rispondere alla sfida della disoccupazione giovanile in Europa ci vorrebbero almeno sei miliardi l'anno".
Quanto al secondo grande capitolo affrontato la settimana scorsa a Bruxelles, il Consiglio Ue ha deciso di rafforzare il ruolo della Banca europea degli investimenti (Bei) come erogatore di garanzie e di prestiti (che aumenteranno "almeno del 40%", contro il +50% indicato nella prima bozza d'accordo). La Bei ha già individuato opportunità di prestiti per circa 150 miliardi di euro, con priorità per l'accesso al credito delle imprese, l'innovazione e la formazione, l'efficienza energetica e le infrastrutture strategiche. Il ruolo della Bei è al centro della più classica controversia europea, quella fra i rigoristi intransigenti e coloro che preferirebbero allentare il cappio. I primi vogliono che l'istituto conservi il rating massimo, la famosa "tripla A", investendo soltanto in progetti più che sicuri. La fazione opposta - di cui fa parte l'Italia - chiede invece che la Bei allarghi il suo raggio d'azione per sostenere in modo più incisivo l'economia reale. Che rimane ancora in attesa.
Il dibattito europeo non ha prodotto invece particolari sorprese su altri fronti. Nessun passo avanti, ad esempio, sull'unione bancaria, se non l'illuminante precisazione che si tratta di una "priorità chiave". Più movimentata la discussione sui nuovi Paesi da accogliere nella grande famiglia europea.
Due decisioni sono ormai acquisite: la Croazia è ufficialmente il 28esimo Paese dell'Ue, mentre dall'anno prossimo la Lettonia entrerà a far parte dell'Eurozona. La partita è invece ancora aperta e complicata per quanto riguarda la Serbia. Il Consiglio ha stabilito di aprire “al più tardi nel gennaio 2014” i negoziati per l’ingresso di Belgrado nell'Unione.
La cancelliera tedesca Angela Merkel, tuttavia, non è una fan dell'allargamento europeo nei Balcani. Su pressione della Germania, dunque, si è deciso che la struttura dei negoziati con la Serbia dovrà essere approvata dal Consiglio Ue di fine 2013. Van Rompuy avrebbe preferito affidare il dossier al Consiglio Affari Esteri, ma questo avrebbe rimesso la pratica al giudizio dei ministri dei vari Paesi.
Il cambiamento di rotta, invece, consentirà molto probabilmente alla Merkel di occuparsi personalmente della vicenda. Il calcolo è semplice: a settembre la Germania andrà al voto e, se dalle urne dovesse uscire un governo di grande coalizione, i socialdemocratici potrebbero pretendere il ministero degli Esteri.
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di Carlo Musilli
Ai danni miliardari seguono beffe colossali. E chi riteneva che esistesse un limite oltre il quale nemmeno i boss della finanza potessero spingersi si deve ricredere per l'ennesima volta. Sono bastate poche pagine a JP Morgan per screditare la tradizione politica e culturale di mezza Europa. In un documento dello scorso 28 maggio - appena 16 cartelle - la super banca americana ha pensato bene di salire in cattedra per spiegare ai governi dell'Eurozona come risollevarsi dalla crisi del debito.
Di per sé questa non sarebbe una novità, i report didattici dei colossi bancari ingombrano archivi interi. Stavolta però l'istituto è andato oltre, puntando il dito contro diverse Carte Costituzionali del vecchio continente, colpevoli d'esser state scritte sulla scorta d'un'ispirazione ideologica antifascista.
“I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo - scrivono da JP Morgan - presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”.
E quali sarebbero queste caratteristiche? Secondo i raffinati politologi con il conto in banca a Manhattan, “i sistemi politici della periferia meridionale (dell'Europa, ndr) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.
Eccolo qua lo spauracchio, il pericolo rosso. Quei bolscevichi dei padri costituenti - che nel nostro Paese furono in maggioranza democristiani - avrebbero inserito nelle Carte una serie di nefasti principi socialisti che oggi ostacolerebbero le riforme necessarie a far ripartire l'economia. Quali? JP Morgan ci fa anche la lista: "Esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo".
Le condizioni miserevoli dell'occupazione nell'Eurozona del Sud sono sufficienti a dimostrare quanto "le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori" abbiano a che vedere con la situazione attuale. Il dramma del lavoro è un effetto della crisi, non una sua causa. Quanto al clientelismo, non è certamente un vanto, ma verrebbe da chiedere agli eruditi analisti d'indicarci quali articoli della nostra Carta lo eleggano a principio fondativo del consenso. Quanto alla "licenza di protestare", i signori americani farebbero bene a rileggere il primo emendamento della loro Costituzione.
A questo punto non possiamo fare a meno di domandarci da quale pulpito ci giunga questa inascoltabile predica. Se le opinioni di JP Morgan risultano quantomeno discutibili, le sue responsabilità storiche lo sono molto meno. Stiamo parlando di uno dei colossi di Wall Street che ha scatenato la crisi finanziaria del 2008, nata negli Usa e poi esportata in Europa, dove col tempo si è trasformata in crisi dei debiti sovrani.Nell'ottobre del 2012 lo Stato di New York ha fatto causa a JP Morgan, chiedendole di restituire i soldi rubati con la truffa dei mutui subprime, ovvero la miccia che ha fatto detonare l'economia di mezzo mondo. Sulla banca sono ricaduti i peccati di quella che oggi è una sua controllata, Bear Sterns, sotto accusa per aver venduto a peso d'oro titoli derivati che sapeva essere carta straccia proprio perché garantiti dai subprime. Le operazioni risalgono al 2006-2007 e si stima abbiano causato perdite agli investitori per 22,5 miliardi di dollari, provocando la disoccupazione di sette milioni di americani.
Ma non basta, perché JP Morgan è protagonista anche di un altro gigantesco scandalo finanziario, quello della "Balena di Londra". L'anno scorso un broker inglese della banca americana ha aperto una voragine nei conti dell'istituto con una serie di scommesse rischiosissime e fallimentari sui Cds (ancora una volta titoli derivati). E poco più di tre mesi fa la Sottocommissione permanente per le indagini del Senato Usa ha accusato JP Morgan di aver continuato ad ingannare le autorità di vigilanza e gli investitori, mentendo sull'ammontare delle perdite legate alla "London Whale".
Secondo il senatore democratico Carl Levin, gli investigatori "hanno scoperto operazioni di trading, fondate sul rischio, che ignoravano i limiti posti all'assunzione dei rischi stessi, nascondevano le perdite, eludevano la supervisione e disinformavano il pubblico".
Ora questi stessi signori pretendono d'insegnarci come correggere la nostra Costituzione. Fingono di dimenticare che le radici più profonde della crisi finanziaria sono da ricercare proprio in quel mercato dove loro hanno operato indisturbati per anni. I veri peccati originali sono stati l'assenza di regole nel settore dei derivati e la mancanza di controlli da parte delle autorità.
E' perlomeno sospetto che speculatori di questo calibro si scaglino contro i diritti acquisiti dalla tradizione antifascista europea. Diritti che rappresenterebbero un ostacolo lungo la strada delle "riforme strutturali" tanto anelate dalla banca. Il dubbio è che gli analisti di JP Morgan non vogliano filosofeggiare contro generiche "idee socialiste", ma puntino in realtà rosicchiare progressivamente lo stato sociale europeo. L'ultima vacca grassa che la rendita finanziaria non ha ancora finito di dissanguare.