di Carlo Musilli

Lo Stato italiano vanta condizioni finanziarie talmente spumeggianti che il Governo sta pensando di caricare sui contribuenti anche il salvataggio di Alitalia. Non tutto, ma una discreta fetta. Da giorni un coro di voci istituzionali ripete che l'Esecutivo è impegnato a salvare "l'italianità di un asset strategico per il Paese", ma il patriottismo economico è con tutta evidenza uno specchietto per le allodole.

La verità è che gli italiani hanno già salvato l'ex compagnia di bandiera nel 2008, quando l'azienda fu privatizzata pagando con soldi pubblici debiti per quattro miliardi di euro. All'epoca Silvio Berlusconi impedì la completa cessione ad Air France-Klm (che entrò comunque nel capitale con il 25%) e favorì l'ingresso dei cosiddetti "Capitani coraggiosi", una cordata italiana guidata da Intesa Sanpaolo (l'ad era Corrado Passera), Roberto Colaninno e Benetton.

Da allora Alitalia ha accumulato perdite per più di 1,1 miliardi e debiti per un altro miliardo, a fronte di un capitale sociale che ad oggi si aggira intorno ai 200 milioni. Il baratro è vicino: senza una nuova iniezione di risorse la compagnia dovrà portare i libri in tribunale entro un paio di settimane. Intanto, l'Eni ha annunciato di non essere disposta a fornire altro carburante a credito dopo questo fine settimana (le fatture da pagare ammontano già a 35 milioni). 

Per evitare il default, il Governo sta cercando un partner pubblico che faccia da stampella alla malandata compagnia. In sintesi, il piano è questo: un aumento di capitale da 300 milioni sottoscritto per 100-150 milioni da una o più aziende statali e per il resto dai soci italiani e da Air France-Klm (i francesi dovrebbero investire al massimo 75 milioni per evitare di diluire la propria quota), cui si dovrebbero aggiungere nuovi prestiti per 200 milioni, che però le banche sono disposte a concedere solo in presenza di un significativo impegno dello Stato. Il conto totale ammonta a 500 milioni, che dovrebbero garantire un altro anno di affannosa sopravvivenza.

Il dilemma politico di questi giorni è trovare una società pubblica disposta all'impresa: un contributo potrebbe arrivare sia da Ferrovie dello Stato, ma per giorni si è parlato soprattutto di Fintecna, controllata dalla Cassa depositi e prestiti. Peccato che, a quanto pare, i vertici della Cdp siano assolutamente contrari all'operazione. Di qui lo stallo, che però ieri è sembrato sbloccarsi con la discesa in campo delle Poste italiane, che potrebbero mettere sul piatto fino a 75 milioni e intascare una partecipazione fra il 10 e il 15%.

Sempre ieri Vito Riggio, presidente dell'Ente nazionale per l'aviazione civile (Enac), ha chiarito che, se il piano dovesse fallire, da sabato gli aerei Alitalia rimarrebbero a terra: "Davanti a un'ipotesi così drammatica dobbiamo prendere atto che non ci sono gli estremi e le condizioni per andare avanti. Per scaramanzia non lo voglio dire, ma il regolamento è chiaro: se una compagnia non ha fondi per far fronte agli impegni, non c'è alternativa".

Comunque vada a finire - lo scopriremo al termine del Cda di oggi pomeriggio - la situazione è paradossale: gli italiani hanno già pagato per salvare Alitalia e uscirne, ma ora si chiede loro di tornare ad esserne azionisti. Come mai? Semplice, è un pessimo affare. Ma se nel 2008 l'azienda era pubblica, oggi stiamo parlando di una società privata, che andrebbe trattata come tale. Anche perché la natura strategica della compagnia aerea è quantomeno controversa, visto che non contribuisce in modo sostanziale al Pil e non è certamente insostituibile.

Con buona pace dei più patriottici, l'unica soluzione definitiva al dramma Alitalia è la cessione ad Air France. Il problema è che, viste le condizioni disastrate dell'azienda, i francesi pongono delle condizioni molto pesanti: carta bianca su dipendenti e collegamenti, e soprattutto nessun debito. I creditori rimarrebbero quindi senza nulla. E di chi si tratta? Banche, naturalmente. I soggetti più esposti al debito di Alitalia sono Unicredit, Intesa Sanpaolo, Popolare di Sondrio e Mps.

Il vero nodo della questione è perciò negli interessi degli istituti di credito, che non hanno intenzione di perdere un euro. E l'aiuto pubblico dovrebbe invogliare Air France a chiudere l'operazione nonostante i debiti. D'altra parte, le alternative italiane non esistono. Da noi i Capitani saranno pure coraggiosi, ma sempre con i soldi degli altri.

di Liliana Adamo

Sessanta trilioni di dollari. Cifra tonda e di per sé necessariamente speculativa, l’ammontare che l’economia globale sarebbe costretta a sborsare semmai avvenisse la temuta fusione dell’Artico. Il nuovo studio divulgato qualche giorno fa dalla rivista Nature esamina l’impatto sociale ed economico all’origine di una drammatica “rottura” del permafrost artico, infiammando un animato dibattito sul fronte internazionale di chi confuta o no le catastrofiche prospettive. E le previsioni in gioco sono tutt’altro che il risultato d’amene chiacchiere accademiche.

La storia ha inizio negli anni novanta, all’avvio della seconda “rivoluzione energetica”, quando, negli ambienti di ricerca si comincia a discutere di una particolare sostanza presente sui fondali oceanici, gli idrati di metano fino allora pressoché ignorati, ritenuti poco più di una curiosità geologica, privi di qualsiasi valore commerciale.

Il metano biogenico (o idrato di metano), rilasciato attraverso processi di decomposizione della sostanza organica, si va accumulando all'interno dei sedimenti, dove può concentrarsi e risalire in superficie. Se la superficie è un fondale marino, il gas che si libera è coeso all'acqua fredda più profonda, dando forma a una sorta di "ghiaccio", le cui molecole si cristallizzano formando strutture "a gabbia".

Congelando, l'acqua comprime il gas e il composto assume un'elevatissima densità. Chimicamente, gli idrati di metano sono costituiti da una molecola di metano e sei di acqua (CH46H2O), appartengono alla famiglia dei "clatrati", particolari composti in cui la normale struttura cristallina del ghiaccio si altera per “modellare” celle chiuse, dette appunto "a gabbia". Perché questo processo avvenga, sono necessari fattori concomitanti, una bassa temperatura (-15°C), elevata pressione ambientale (20 bar, corrispondenti a una profondità marina di poco meno di 200 m), disponibilità di metano e molecole d’acqua.

Per le particolari condizioni in cui questi composti si formano e rimangono stabili, la loro presenza è limitata a tre habitat fondamentali: fondali oceanici, terreni interessati da permafrost e ghiacci polari. Le condizioni più favorevoli alla formazione d’idrati di metano si realizzano su grande scala sui fondali marini, trovandosi a profondità comprese tra i trecento e i quattromila metri. Sopra tale spessore la compressione non è sufficiente alla loro formazione, al di sotto, dove sono ottimali le condizioni di pressione e temperatura, scarseggerebbe la sostanza organica che dà origine a questa sorta d’idrocarburo gassoso.

Grandi quantità d’idrati sembrano quindi depositarsi lungo il declivio continentale, nelle distese abissali, qui si concentrano i sedimenti, ricchi di sostanza organica, che scivolano dai continenti verso il mare aperto lungo gli scoscendimenti terrestri. Tuttavia, se le temperature sono molto basse, gli idrati di metano si formano a pressioni meno elevate, come, per esempio nelle calotte polari o nei terreni gelati del permafrost, in vaste zone dell'Alaska e della Siberia.

Occupano spazi porosi nei sedimenti, per uno spessore di qualche centinaio di metri. A profondità più elevate, dove la temperatura aumenta a causa del gradiente geotermico, gli idrati si dissociano in acqua passando allo stato gassoso e come nei normali giacimenti, costituiscono una sorta di "crosta" che racchiude metano allo stato aeriforme.

Costituiti da "gabbie" di ghiaccio che intrappolano molecole gassose, gli idrati di metano sono composti stabili solo quando avvengono condizioni d’elevate pressioni e temperature molto basse. Se aumentano le temperature o si riducono le pressioni, il ghiaccio fonde e il metano si libera in forma gassosa: la sopravvivenza degli idrati a pressione e temperatura ambiente è di pochi secondi.

Per questo anche solo il semplice prelievo di campioni di questa sostanza è molto complesso, poiché, riportato in superficie, la maggior parte si disperde, mentre particelle minimali possono essere recuperate sotto forma di solido. Caratteristica, quest’ultima, che rappresenta una limitazione all'estrazione del metano immagazzinato, ma, soprattutto, è fonte di gravi problemi ambientali legati al suo utilizzo.

La fusione del ghiaccio contenuto negli idrati dei fondali oceanici può avvenire per diverse cause, ma la principale è sicuramente un aumento nella temperatura dell'acqua. La liberazione del metano in forma gassosa provoca la formazione di bolle in gas che risalendo si espandono e, una volta raggiunta la superficie, si disperdono nell'atmosfera. Questo origina quel caratteristico "ribollio" delle acque interessate dal fenomeno.

La seconda “rivoluzione energetica” sembra favorire il metano, soprattutto in virtù della sua eccedenza tra i combustibili fossili e al fatto che le multinazionali del settore energetico lo ritengano relativamente “pulito”. La sua molecola è costituita da quattro atomi d’idrogeno e uno di carbonio (CH4), bruciando, libera minor quantità di carbonio, producendo emissioni CO2 inferiori del 25% rispetto alla benzina e del 50% rispetto a gasolio e Gpl. Inoltre, le emissioni sono esenti da residui - benzene e polveri sottili - dannosi alla salute e principali imputati dell’effetto serra.

Si calcola che sui fondali marini e nelle zone di permafrost siano presenti più di 100.000 milioni di miliardi di metri cubi di metano, intrappolati sotto forma d’idrati. In pratica, la quantità sfruttabile potrebbe essere due ordini di grandezza superiore rispetto alla quantità di metano sul pianeta per fornire circa il doppio dell’energia ricavabile da tutti i depositi per combustibili fossili presenti allo stato attuale.

Per questo ci si avvia all’individuazione dei giacimenti, ma la ricerca appare almeno discutibile. A oggi si utilizzano metodi geofisici che ottengono il massimo rendimento dalle proprietà nei livelli ricchi d’idrato che, a loro volta, riflettono onde sismiche. Appositi sistemi (“cannoni” ad aria compressa per le indagini in mare), provocano propagazione di onde sismiche, il fenomeno è chiamato Bottom Simulating Reflectors, attraversando rocce sotto i fondali, si ottengono, fra l’altro, vere e proprie “ecografie” con “profili sismici” di questi strati rocciosi.

A scopo scientifico e commerciale, con l’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale, coadiuvato dalla nave OGS - Explora, pochi sanno che il nostro paese è all’avanguardia in questo tipo di ricerche. Seguono lo statunitense Brookhaven National Laboratory, che conduce test sulla creazione di queste molecole in laboratorio e la Chevron - Texaco, finanziata direttamente dal Dipartimento dell’Energia e dalla stessa compagnia petrolifera.

Nel 2005, durante trentacinque giorni di spedizione nel Golfo del Messico, sono stati studiati e prelevati campioni d’idrati fino a 1300 metri di profondità, grazie a piccoli sommergibili, molto funzionali; scopo della missione, ottenere la liberazione del metano imprigionato nel ghiaccio, senza provocarne la dispersione nell’ambiente, consentendo la dissociazione e il recupero del gas direttamente dai sedimenti. Negli Stati Uniti, il Dipartimento dell’Energia ha avviato un programma che, verosimilmente, potrebbe passare alla produzione commerciale di metano ricavato dagli idrati, già dal 2015.

Ciò che ci interessa sapere è in che modo l’idrato (molto più opaco all’infrarosso della CO2), sia, in realtà, una sostanza addirittura con effetti più devastanti - venti volte superiori a quello dell’anidride carbonica - per l’ambiente. Se, fino a oggi, le conseguenze sono state quasi nulle, testimonianze geologiche dimostrano senz’ombra di dubbio, che a periodi climaticamente più caldi si associano aumenti della concentrazione di metano nell’atmosfera.

E dunque, potenzialmente, lo sfruttamento degli idrati può esporci al pericolo di liberare grandi quantità di metano (in modo “accidentale” com’è successo per il petrolio, o come “danno collaterale” di un normale processo estrattivo). Allo stesso modo, il riscaldamento degli oceani dovuto al global warming porterebbe alla fusione di grandi quantità d’idrati, sui fondali, nei terreni e nei permafrost dei ghiacci polari, liberando metano nell’atmosfera con effetti i cui esiti appaiono difficilmente prevedibili.

Il “contributo” umano al surriscaldamento globale si è dimostrato decisivo, ma consideriamo di bruciare l’intera risorsa di combustibili fossili a nostra disposizione, ciò equivarrebbe a 200 miliardi di tonnellate di CO2 scaricate nell’atmosfera terrestre; nulla al confronto con la possibilità che dagli idrati si scatenino 10.000 miliardi di tonnellate di metano, senza contare che dai sedimenti continentali, in assenza d’idrati, si formerebbe materiale non compatto e instabile, con l’innesto di larghi fenomeni franosi nelle aree soggette a prelievi e “alterazione” dell'ambiente dovuta al surriscaldamento.

Al particolare interesse delle multinazionali sulle enormi riserve intrappolate in Siberia Orientale e in tutto l’Artico (regione nordamericana dell’Alaska in primis), la scienza oppone un concetto terribilmente semplice: qualora questi depositi congelati in forma d’idrati di metano, fossero “liberati”, le retroazioni sarebbero di una tale portata da far aumentare (drammaticamente), il tasso di surriscaldamento del pianeta e ciò nondimeno (com’è già avvenuto in passato), politici e lobby finanziarie fanno orecchie da mercante.

Come sostiene John Vidal (The Guardian), per sfruttare pozzi ricchi di gas e petrolio, governi e industrie attendevano con impazienza lo scioglimento delle regioni artiche, prevedendo in un evento di per sé catastrofico, una “personale benedizione”. Eppure il rilascio di un singolo impulso dal gigante del metano ci esporrebbe a cambiamenti climatici apocalittici e a un conto pari a sessanta trilioni di dollari, un collasso per l’economia globale. “Una bomba a orologeria” ha commentato Gail Whiteman, analista presso l’Università Erasmus di Rotterdam, co-autrice, fra l’altro, del famoso rapporto.

Il ghiaccio nel Mare Artico si ritrae a un tasso senza precedenti. Il trend negativo è stato raggiunto nel 2012, quando è crollato sotto i 3,5 milioni di kmq, cancellando la sua estensione del 40% rispetto agli anni ’70. Un vero record, considerando che le età geologiche della Terra si misurano in centinaia se non in migliaia di anni. Il manto siderale perde anche il suo spessore a tal punto che gli scienziati prevedono il totale scioglimento del ghiaccio estivo entro il 2020. Il punto è che se il ghiaccio artico si ritira, il consecutivo riscaldamento del mare permetterà al permafrost di liberare grandi quantità di metano: una gigantesca riserva di gas serra sotto forma d’idrati potrebbe sconvolgere il clima terrestre nei cinquanta anni successivi.



di Carlo Musilli

Nessuna storia d'amore è fatta solo di passione, nemmeno quella fra Angela Merkel e i mercati finanziari. Ieri le Borse europee non hanno festeggiato la terza rielezione della cancelliera. Anzi, hanno chiuso tutte in rosso: Francoforte -0,47%, Parigi -0,75%, Londra -0,59% e Milano -0,32%. Gli scossoni non sono arrivati nemmeno sul mercato obbligazionario, dove si è assistito a un lieve calo dei tassi: il rendimento sul Bund decennale tedesco è all’1,92%, quello sui Btp di pari scadenza al 4,26% (-2 punti base), con lo spread che ha chiuso a quota 234, sui minimi dell’ultimo mese. La mancanza di euforia, in ogni caso, non significa che gli investitori abbiano disprezzato il risultato elettorale tedesco.

Il trionfo di frau Merkel - che pure avrà difficoltà a formare il governo, vista la debacle dei suoi storici alleati liberali - era ampiamente atteso e i mercati lo avevano già assorbito la settimana scorsa, all'indomani delle elezioni in Baviera. Il voto locale aveva sancito la netta vittoria del partito della cancelliera (un evidente buon auspicio in vista della prova nazionale) e l'indice Dax di Francoforte aveva risposto toccando un nuovo record storico oltre la soglia degli 8.600 punti.

Anche in quel caso, tuttavia, l'attenzione delle Borse non era rivolta principalmente a Berlino. In questi giorni al centro della scena è la Federal Reserve, che deve prendere una decisione sul temutissimo "tapering", ovvero la fine del "Quantitative easing" (Qe), il pacchetto di stimoli economici garantiti dalla Banca centrale americana.

Nelle scorse sedute i mercati avevano apprezzato la decisione dell'ex segretario al Tesoro Larry Summers di ritirarsi dalla corsa alla successione di Ben Bernanke alla guida della Fed. Un passo indietro che sembrava spianare la strada a Janet Yellen, favorevole al mantenimento del Qe o eventualmente a una sua riduzione molto graduale.

Venerdì però James Bullard, presidente della Fed di St. Louis, aveva lanciato il seguente avvertimento: "Non è escluso il tapering a fine ottobre, se i dati sulla disoccupazione lo permetteranno". Parole che hanno pesato ieri sull'andamento dei mercati, insieme al calo degli indici Pmi sulla manifattura (a settembre il dato dell'Eurozona è sceso a 51,1 punti, dai 51,4 di agosto).

Insomma, i fattori in gioco sono diversi, ma ciò non toglie che quella fra Angela e la Borsa (soprattutto tedesca) sia una storia d'amore ormai di vecchia data. Dal novembre 2005, vale a dire da quando frau Merkel è diventata cancelliera, l'indice di Francoforte ha guadagnato il 68% (mentre l'Euro Stoxx 50 ha perso il 15%) e i detentori dei Bund hanno accumulato interessi complessivi per il 40%.

Finanza e economia reale, tuttavia, non sono affatto la stessa cosa. Agli operatori finanziari il rigorismo made in Merkel piace in primo luogo perché offre occasioni di speculazione. Poco importa che ciò avvenga a danno di altri Paesi, cosiddetti periferici, che dalle cure di Angela hanno ottenuto finora soltanto il prolungamento della recessione (come Italia e Spagna), quando non la completa barbarie sociale (come la Grecia).

Purtroppo il pugno duro non piace solo agli speculatori, ma anche (e molto) agli elettori tedeschi, al punto che dopo il successo del fine settimana la cancelliera si è sentita obbligata a ribadire la sua professione di fede, sottolineando che in futuro non ci sarà "alcuna necessità di modificare le politiche europee della Germania". Berlino si muoverà "come sempre", ovvero anteponendo le politiche di aggiustamento dei conti a quelle di stimolo alla crescita. D'altra parte, perché mai cambiare qualcosa, se il comportamento tenuto fin qui ha garantito una rielezione a furor di popolo?

Di ragioni, in verità, ce ne sarebbero molte, a cominciare dall'interesse degli stessi elettori tedeschi. L'austerità colpisce anche loro, perché il mercato interno si sta restringendo e le esportazioni calano, danneggiate dalla recessione prolungata di molti partner commerciali europei, Italia compresa. Prima o poi se ne accorgeranno. Peccato non lo abbiano fatto domenica.




di Mario Lombardo

Dopo essere scampato ad un’umiliante sconfitta al Congresso sulla richiesta di autorizzazione all’uso della forza in Siria, nel fine settimana appena trascorso il presidente Obama si è nuovamente sottratto ad un confronto con i detentori del potere legislativo negli Stati Uniti accettando il ritiro della candidatura a presidente della Federal Reserve del suo ex consigliere economico, Larry Summers.

Il nome del Segretario al Tesoro durante la presidenza Clinton aveva scatenato una vera e propria bufera fin dallo scorso mese di giugno, quando Obama aveva annunciato il ritiro nel prossimo mese di gennaio dopo due mandati dell’attuale numero uno della Banca centrale americana, Ben Bernanke.

Anche se l’inquilino della Casa Bianca né in quell’occasione né successivamente ha discusso pubblicamente dei possibili successori, la stampa d’oltreoceano aveva subito indicato in Summers la scelta più probabile o, per lo meno, quella più gradita al presidente democratico.

Essendo una figura estremamente discussa, nonché correttamente considerato da molti come uno dei principali responsabili del processo di deregulation del sistema finanziario, Summers è prevedibilmente finito da subito sotto il fuoco incrociato delle polemiche. Dopo attacchi e critiche subite da più parti, a segnare la fine delle sue aspirazioni a presidente della Fed è stata nei giorni scorsi l’insolita presa di posizione di alcuni senatori Democratici, in particolare di tre membri della commissione per i servizi bancari, i quali si sono opposti apertamente alla candidatura promossa da Obama.

Come era già accaduto sulla Siria, perciò, di fronte alla prospettiva di vedere bocciato il proprio candidato alla Fed non solo nel voto di conferma previsto in aula ma addirittura in commissione, la Casa Bianca ha con ogni probabilità esortato Summers a ritirarsi “spontaneamente” dalla corsa alla successione a Bernanke.

Nella consueta nota ufficiale consegnata alla stampa, Obama ha affermato di avere accettato in maniera “riluttante” una decisione altrettanto “riluttante” presa da Summers, per poi lasciarsi andare a elogi quanto meno fuori luogo per un uomo che avrebbe messo a disposizione la sua “esperienza, la sua saggezza e le sue doti di leadership” nel pieno della peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione. Ovviamente taciute nella dichiarazione di Obama sono state invece le sue responsabilità nell’avere gettato le basi di questa stessa rovinosa crisi.

Come ha spiegato qualche giorno fa sul New York Times l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, “durante l’amministrazione Clinton, Summers ha appoggiato le politiche di deregulation bancaria, tra cui la soppressione del Glass-Steagall Act [la legge degli anni Trenta che, tra l’altro, stabiliva la separazione tra le attività bancarie tradizionali e quelle speculative e di investimento], che sarebbero state decisive nell’esplosione della crisi finanziaria”.

Il “risultato” più significativo ottenuto da Summers in veste di segretario al Tesoro tra il 1999 e il 2001, secondo Stiglitz, “è stata l’approvazione della legge che ha fatto in modo che i derivati non fossero sottoposti a regolamentazioni, una decisione che ha avrebbe fatto esplodere i mercati finanziari”. Come se non bastasse, a metà degli anni Novanta, Summers aveva poi incoraggiato i governi dei paesi del sud-est asiatico a liberalizzare rapidamente i propri mercati, contribuendo alla crisi finanziaria che sarebbe esplosa di lì a poco in quest’area del globo.

Il ritiro di Summers, in ogni caso, oltre a rappresentare un grave colpo all’ego di uno degli economisti americani più ambiziosi e influenti degli ultimi decenni, ha lasciato commentatori e analisti senza la possibilità di indicare alternative credibili alla presidenza della Fed oltre all’attuale vice di Bernanke, Janet Yellen.

Se quest’ultima appare ora come la scelta più ovvia, vari giornali hanno descritto lunedì tutte le perplessità di Obama nei confronti di un’economista indubbiamente qualificata ma con poche frequentazioni alla Casa Bianca e, pur essendo Democratica, ritenuta in parte colpevole del naufragio della candidatura di Summers. L’altro possibile candidato gradito dal presidente, il suo ex segretario al Tesoro Tim Geithner, si è invece finora mostrato disinteressato alla carica di capo della Fed, mentre il predecessore della Yellen, Donald Kohn, pur essendo stato preso in considerazione sembra non avere il profilo necessario per ricoprire una carica così importante.

Se i media americani hanno collegato la rinuncia di Summers alle difficoltà di Obama nel trovare consensi per le proprie iniziative al Congresso oppure alle sue passate dichiarazioni che lo hanno esposto all’accusa di misoginia o, ancora, alla freddezza di svariati senatori democratici verso un uomo profondamente compromesso con la soppressione delle regolamentazioni del sistema finanziario negli ultimi due decenni, la vera battaglia attorno alla fallita nomination dell’attuale presidente dell’università di Harvard e al successore di Bernanke sembra giocarsi sulle cosiddette politiche di “stimolo” all’economia che la Federal Reserve sta mettendo in atto.

Queste misure, che vanno sotto il nome di “Quantitative Easing”, consistono sostanzialmente nell’immissione di liquidità nei mercati finanziari per oltre 80 miliardi di dollari al mese attraverso l’acquisto di bond da parte della Fed dagli investitori istituzionali. In aggiunta a tutto questo, la Fed sotto la guida di Bernanke conduce fin dal 2008 anche delle “aste speciali”, nelle quali offre alle banche prestiti che ammontano ormai ad un totale di alcune migliaia di miliardi di dollari ad interessi irrisori se non addirittura inesistenti.

Secondo la versione ufficiale, simili iniziative dovrebbero stimolare l’economia e ridurre il tasso di disoccupazione, anche se esse rappresentano piuttosto un regalo colossale elargito alla speculazione finanziaria e sono servite a gonfiare artificialmente i mercati con il rischio di creare una nuova pericolosa bolla pronta ad esplodere.

Il “Quantitative Easing”, perciò, appare oggi come una sorta di droga per i mercati finanziari e la sola ipotesi che una Fed guidata da Larry Summers - come era trapelato nelle scorse settimane - avesse potuto interrompere o ridurre drasticamente l’infusione di denaro garantita da Bernanke ha creato non pochi timori nell’industria finanziaria americana. Ciò, con ogni probabilità, ha messo in moto potenti forze nella politica e nella società civile che hanno orchestrato una efficace campagna contro Summers sfruttando i non pochi aspetti controversi del suo passato da politico ed economista.

A conferma della sensibilità dei mercati di fronte a qualsiasi ipotetica minaccia all’inversione di rotta della Fed nel prossimo futuro, la Borsa statunitense ha fatto segnare consistenti rialzi all’apertura di lunedì in seguito alla notizia del ritiro di Summers. Il balzo degli indici è stato favorito anche dall’avanzata della candidatura di Janet Yellen, considerata da molti ormai come una scelta inevitabile per la successione a Bernanke nonostante le perplessità della Casa Bianca.

L’entusiasmo per la Yellen è determinato dal fatto che quest’ultima viene considerata, assieme allo stesso Bernanke, l’artefice principale del “Quantitative Easing” e una sua presidenza della Fed da gennaio sarebbe segnata da un probabile proseguimento delle politiche di “stimolo” o da un rallentamento graduale e all’insegna della prudenza.

L’intera vicenda della candidatura di Summers, in ogni caso, testimonia della situazione in cui versa l’industria finanziaria americana. Sostenere, infatti, che un uomo che negli ultimi vent’anni ha ricoperto un ruolo di primo piano nel garantire la massima libertà d’azione alle banche di Wall Street - e che da esse ha ricavato guadagni milionari - rappresenti per esse una qualsiasi minaccia sfida ogni logica.

Le ansie per la sua candidatura confermano perciò la precarietà delle fondamenta su cui si basa la presunta ripresa economica in corso negli Stati Uniti, dove anche la sola ipotesi di una futura riduzione della liquidità immessa sui mercati ha scatenato il panico, fino a costringere al ritiro il candidato scelto personalmente dal presidente per guidare la Fed nel dopo Bernanke.

di Carlo Musilli

L'esperienza, diceva Oscar Wilde, è l'insegnante più severa: prima ti fa l'esame, poi ti spiega la lezione. Peccato che, nel mondo della finanza, nemmeno i disastri più terrificanti riescano ad insegnare granché. Sono passati cinque anni e un giorno dal rovinoso crack di Lehman Brothers, ma ancora non si è vista traccia di quella rivoluzione normativa invocata e promessa per evitare che l'armageddon si ripeta.

Era il 15 settembre 2008 quando la gigantesca banca d'affari americana, travolta dalla valanga dei mutui subprime, ha alzato bandiera bianca, scatenando un effetto domino che ha mandato in tilt i mercati mondiali. A poco a poco, il virus ha contagiato l'economia reale e - attraversato l'Atlantico - ha acceso la miccia che ha portato alla crisi dei debiti sovrani europei. Quale insegnante è mai stata più severa di Lehman? Eppure, a quanto pare, abbiamo imparato poco.

L'acquisizione principale è stata questa: le cosiddette banche "too big to fail" possono fallire eccome, ma non devono. Nel 2008 la decisione di abbandonare al proprio destino un colosso di Wall Street fu presa dal governo americano in buona parte per ragioni di politica interna: allo scadere della campagna per le presidenziali, gli elettori avrebbero mal digerito un altro maxi-salvataggio dopo quelli di Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi del credito ipotecario nazionalizzati pochi giorni prima con 200 miliardi di dollari pubblici. L'amministrazione repubblicana non voleva far passare il messaggio che lo Stato fosse una rete di sicurezza per gli spericolati giochi d'azzardo di Wall Street. Ma alla fine è stato esattamente così.

Purtroppo all'epoca nessuno fu in grado di prevedere cosa sarebbe successo dopo la più grande bancarotta della storia. Le conseguenze furono ampiamente sottovalutate e, per evitare fallimenti a catena, fu necessario infliggere ai contribuenti (non solo americani) una stangata molto superiore a quella che sarebbe bastata per salvare la banca maledetta.

Da allora non è più avvenuto alcun cataclisma di proporzioni simili: gli istituti di credito sono stati inondati di liquidità e le Banche centrali hanno ridotto a zero i tassi d'interesse. I governi, tuttavia, avrebbero dovuto fare un passo in più e comprendere che "too big to fail" in realtà vuol dire "too big to exist". Ma non è andata così e il disastro Lehman si è trasformato in una gigantesca occasione sprecata. Altro che nuove regole: la finanza non è stata riportata al servizio dell'economia reale; al contrario, i contribuenti sono stati sfruttati per salvare la finanza.  

Negli Stati Uniti ha prevalso l'ostruzionismo delle lobby, al punto che dopo cinque anni la nuova regolamentazione finanziaria contenuta nel Dodd-Frank Act non è ancora entrata pienamente in vigore. Il presidente Barack Obama continua a premere pubblicamente per accelerare, ma di fatto non può (non gli conviene?) superare la pressione dei gruppi finanziari, che stanno riuscendo a rinviare sine die l'applicazione delle nuove regole, alleggerendo al contempo il loro potenziale impatto sui margini di guadagno degli istituti di credito.

Non solo. Negli ultimi cinque anni ha fallito anche la giustizia, che non è riuscita a punire i colpevoli della truffa dei subprime. La maggior parte delle banche ha patteggiato sanzioni lontane anni luce dalla ricchezza bruciata per colpa della loro malafede. Quanto ai singoli responsabili, continuano a vivere in un mondo di svergognata opulenza. Anzi, in molti casi il loro benessere è perfino aumentato.

Dick Fuld, ex presidente e Ceo di Lehman Brothers, si è messo in tasca dal 2000 al 2007 qualcosa come 457 milioni di dollari. Contro di lui non è mai stata aperta alcuna azione penale e oggi l'ex banchiere si gode la vita a capo di Matrix, la società di consulenza da lui fondata sette mesi dopo il fallimento di Lehman.

Intanto, secondo molti economisti, la leva finanziaria delle principali banche (ovvero il loro rapporto fra capitale ed esposizione) rimane ancora troppo alta. E' vero, i sei istituti più grandi (JPMorgan, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs, Morgan Stanley) hanno raddoppiato il loro capitale dal 2007 ad oggi, ma allo stesso tempo hanno incrementato anche il loro passivo di circa il 30%. Insomma, invece di diminuire, il potenziale distruttivo di queste banche - in caso di fallimento - è addirittura aumentato.

Secondo un rapporto pubblicato a fine 2012 dalla Banca dei regolamenti internazionali, se si ripetesse oggi un cataclisma in stile Lehman le conseguenze sarebbero tre volte più gravi, anche perche le interconnessioni fra i sistemi finanziari sono sempre più profonde e ramificate. "Nuovi episodi simili sono possibili - si legge nel testo -. I regolatori sono invitati a migliorare la vigilanza per evitare shock sistemici". Sono invitati da cinque anni e un giorno.



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