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di Carlo Musilli
Nessuna storia d'amore è fatta solo di passione, nemmeno quella fra Angela Merkel e i mercati finanziari. Ieri le Borse europee non hanno festeggiato la terza rielezione della cancelliera. Anzi, hanno chiuso tutte in rosso: Francoforte -0,47%, Parigi -0,75%, Londra -0,59% e Milano -0,32%. Gli scossoni non sono arrivati nemmeno sul mercato obbligazionario, dove si è assistito a un lieve calo dei tassi: il rendimento sul Bund decennale tedesco è all’1,92%, quello sui Btp di pari scadenza al 4,26% (-2 punti base), con lo spread che ha chiuso a quota 234, sui minimi dell’ultimo mese. La mancanza di euforia, in ogni caso, non significa che gli investitori abbiano disprezzato il risultato elettorale tedesco.
Il trionfo di frau Merkel - che pure avrà difficoltà a formare il governo, vista la debacle dei suoi storici alleati liberali - era ampiamente atteso e i mercati lo avevano già assorbito la settimana scorsa, all'indomani delle elezioni in Baviera. Il voto locale aveva sancito la netta vittoria del partito della cancelliera (un evidente buon auspicio in vista della prova nazionale) e l'indice Dax di Francoforte aveva risposto toccando un nuovo record storico oltre la soglia degli 8.600 punti.
Anche in quel caso, tuttavia, l'attenzione delle Borse non era rivolta principalmente a Berlino. In questi giorni al centro della scena è la Federal Reserve, che deve prendere una decisione sul temutissimo "tapering", ovvero la fine del "Quantitative easing" (Qe), il pacchetto di stimoli economici garantiti dalla Banca centrale americana.
Nelle scorse sedute i mercati avevano apprezzato la decisione dell'ex segretario al Tesoro Larry Summers di ritirarsi dalla corsa alla successione di Ben Bernanke alla guida della Fed. Un passo indietro che sembrava spianare la strada a Janet Yellen, favorevole al mantenimento del Qe o eventualmente a una sua riduzione molto graduale.
Venerdì però James Bullard, presidente della Fed di St. Louis, aveva lanciato il seguente avvertimento: "Non è escluso il tapering a fine ottobre, se i dati sulla disoccupazione lo permetteranno". Parole che hanno pesato ieri sull'andamento dei mercati, insieme al calo degli indici Pmi sulla manifattura (a settembre il dato dell'Eurozona è sceso a 51,1 punti, dai 51,4 di agosto).
Insomma, i fattori in gioco sono diversi, ma ciò non toglie che quella fra Angela e la Borsa (soprattutto tedesca) sia una storia d'amore ormai di vecchia data. Dal novembre 2005, vale a dire da quando frau Merkel è diventata cancelliera, l'indice di Francoforte ha guadagnato il 68% (mentre l'Euro Stoxx 50 ha perso il 15%) e i detentori dei Bund hanno accumulato interessi complessivi per il 40%.
Finanza e economia reale, tuttavia, non sono affatto la stessa cosa. Agli operatori finanziari il rigorismo made in Merkel piace in primo luogo perché offre occasioni di speculazione. Poco importa che ciò avvenga a danno di altri Paesi, cosiddetti periferici, che dalle cure di Angela hanno ottenuto finora soltanto il prolungamento della recessione (come Italia e Spagna), quando non la completa barbarie sociale (come la Grecia).
Purtroppo il pugno duro non piace solo agli speculatori, ma anche (e molto) agli elettori tedeschi, al punto che dopo il successo del fine settimana la cancelliera si è sentita obbligata a ribadire la sua professione di fede, sottolineando che in futuro non ci sarà "alcuna necessità di modificare le politiche europee della Germania". Berlino si muoverà "come sempre", ovvero anteponendo le politiche di aggiustamento dei conti a quelle di stimolo alla crescita. D'altra parte, perché mai cambiare qualcosa, se il comportamento tenuto fin qui ha garantito una rielezione a furor di popolo?
Di ragioni, in verità, ce ne sarebbero molte, a cominciare dall'interesse degli stessi elettori tedeschi. L'austerità colpisce anche loro, perché il mercato interno si sta restringendo e le esportazioni calano, danneggiate dalla recessione prolungata di molti partner commerciali europei, Italia compresa. Prima o poi se ne accorgeranno. Peccato non lo abbiano fatto domenica.
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di Mario Lombardo
Dopo essere scampato ad un’umiliante sconfitta al Congresso sulla richiesta di autorizzazione all’uso della forza in Siria, nel fine settimana appena trascorso il presidente Obama si è nuovamente sottratto ad un confronto con i detentori del potere legislativo negli Stati Uniti accettando il ritiro della candidatura a presidente della Federal Reserve del suo ex consigliere economico, Larry Summers.
Il nome del Segretario al Tesoro durante la presidenza Clinton aveva scatenato una vera e propria bufera fin dallo scorso mese di giugno, quando Obama aveva annunciato il ritiro nel prossimo mese di gennaio dopo due mandati dell’attuale numero uno della Banca centrale americana, Ben Bernanke.
Anche se l’inquilino della Casa Bianca né in quell’occasione né successivamente ha discusso pubblicamente dei possibili successori, la stampa d’oltreoceano aveva subito indicato in Summers la scelta più probabile o, per lo meno, quella più gradita al presidente democratico.
Essendo una figura estremamente discussa, nonché correttamente considerato da molti come uno dei principali responsabili del processo di deregulation del sistema finanziario, Summers è prevedibilmente finito da subito sotto il fuoco incrociato delle polemiche. Dopo attacchi e critiche subite da più parti, a segnare la fine delle sue aspirazioni a presidente della Fed è stata nei giorni scorsi l’insolita presa di posizione di alcuni senatori Democratici, in particolare di tre membri della commissione per i servizi bancari, i quali si sono opposti apertamente alla candidatura promossa da Obama.
Come era già accaduto sulla Siria, perciò, di fronte alla prospettiva di vedere bocciato il proprio candidato alla Fed non solo nel voto di conferma previsto in aula ma addirittura in commissione, la Casa Bianca ha con ogni probabilità esortato Summers a ritirarsi “spontaneamente” dalla corsa alla successione a Bernanke.
Nella consueta nota ufficiale consegnata alla stampa, Obama ha affermato di avere accettato in maniera “riluttante” una decisione altrettanto “riluttante” presa da Summers, per poi lasciarsi andare a elogi quanto meno fuori luogo per un uomo che avrebbe messo a disposizione la sua “esperienza, la sua saggezza e le sue doti di leadership” nel pieno della peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione. Ovviamente taciute nella dichiarazione di Obama sono state invece le sue responsabilità nell’avere gettato le basi di questa stessa rovinosa crisi.
Come ha spiegato qualche giorno fa sul New York Times l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, “durante l’amministrazione Clinton, Summers ha appoggiato le politiche di deregulation bancaria, tra cui la soppressione del Glass-Steagall Act [la legge degli anni Trenta che, tra l’altro, stabiliva la separazione tra le attività bancarie tradizionali e quelle speculative e di investimento], che sarebbero state decisive nell’esplosione della crisi finanziaria”.
Il “risultato” più significativo ottenuto da Summers in veste di segretario al Tesoro tra il 1999 e il 2001, secondo Stiglitz, “è stata l’approvazione della legge che ha fatto in modo che i derivati non fossero sottoposti a regolamentazioni, una decisione che ha avrebbe fatto esplodere i mercati finanziari”. Come se non bastasse, a metà degli anni Novanta, Summers aveva poi incoraggiato i governi dei paesi del sud-est asiatico a liberalizzare rapidamente i propri mercati, contribuendo alla crisi finanziaria che sarebbe esplosa di lì a poco in quest’area del globo.
Il ritiro di Summers, in ogni caso, oltre a rappresentare un grave colpo all’ego di uno degli economisti americani più ambiziosi e influenti degli ultimi decenni, ha lasciato commentatori e analisti senza la possibilità di indicare alternative credibili alla presidenza della Fed oltre all’attuale vice di Bernanke, Janet Yellen.
Se quest’ultima appare ora come la scelta più ovvia, vari giornali hanno descritto lunedì tutte le perplessità di Obama nei confronti di un’economista indubbiamente qualificata ma con poche frequentazioni alla Casa Bianca e, pur essendo Democratica, ritenuta in parte colpevole del naufragio della candidatura di Summers. L’altro possibile candidato gradito dal presidente, il suo ex segretario al Tesoro Tim Geithner, si è invece finora mostrato disinteressato alla carica di capo della Fed, mentre il predecessore della Yellen, Donald Kohn, pur essendo stato preso in considerazione sembra non avere il profilo necessario per ricoprire una carica così importante.
Se i media americani hanno collegato la rinuncia di Summers alle difficoltà di Obama nel trovare consensi per le proprie iniziative al Congresso oppure alle sue passate dichiarazioni che lo hanno esposto all’accusa di misoginia o, ancora, alla freddezza di svariati senatori democratici verso un uomo profondamente compromesso con la soppressione delle regolamentazioni del sistema finanziario negli ultimi due decenni, la vera battaglia attorno alla fallita nomination dell’attuale presidente dell’università di Harvard e al successore di Bernanke sembra giocarsi sulle cosiddette politiche di “stimolo” all’economia che la Federal Reserve sta mettendo in atto.
Queste misure, che vanno sotto il nome di “Quantitative Easing”, consistono sostanzialmente nell’immissione di liquidità nei mercati finanziari per oltre 80 miliardi di dollari al mese attraverso l’acquisto di bond da parte della Fed dagli investitori istituzionali. In aggiunta a tutto questo, la Fed sotto la guida di Bernanke conduce fin dal 2008 anche delle “aste speciali”, nelle quali offre alle banche prestiti che ammontano ormai ad un totale di alcune migliaia di miliardi di dollari ad interessi irrisori se non addirittura inesistenti.
Secondo la versione ufficiale, simili iniziative dovrebbero stimolare l’economia e ridurre il tasso di disoccupazione, anche se esse rappresentano piuttosto un regalo colossale elargito alla speculazione finanziaria e sono servite a gonfiare artificialmente i mercati con il rischio di creare una nuova pericolosa bolla pronta ad esplodere.
Il “Quantitative Easing”, perciò, appare oggi come una sorta di droga per i mercati finanziari e la sola ipotesi che una Fed guidata da Larry Summers - come era trapelato nelle scorse settimane - avesse potuto interrompere o ridurre drasticamente l’infusione di denaro garantita da Bernanke ha creato non pochi timori nell’industria finanziaria americana. Ciò, con ogni probabilità, ha messo in moto potenti forze nella politica e nella società civile che hanno orchestrato una efficace campagna contro Summers sfruttando i non pochi aspetti controversi del suo passato da politico ed economista.
A conferma della sensibilità dei mercati di fronte a qualsiasi ipotetica minaccia all’inversione di rotta della Fed nel prossimo futuro, la Borsa statunitense ha fatto segnare consistenti rialzi all’apertura di lunedì in seguito alla notizia del ritiro di Summers. Il balzo degli indici è stato favorito anche dall’avanzata della candidatura di Janet Yellen, considerata da molti ormai come una scelta inevitabile per la successione a Bernanke nonostante le perplessità della Casa Bianca.
L’entusiasmo per la Yellen è determinato dal fatto che quest’ultima viene considerata, assieme allo stesso Bernanke, l’artefice principale del “Quantitative Easing” e una sua presidenza della Fed da gennaio sarebbe segnata da un probabile proseguimento delle politiche di “stimolo” o da un rallentamento graduale e all’insegna della prudenza.
L’intera vicenda della candidatura di Summers, in ogni caso, testimonia della situazione in cui versa l’industria finanziaria americana. Sostenere, infatti, che un uomo che negli ultimi vent’anni ha ricoperto un ruolo di primo piano nel garantire la massima libertà d’azione alle banche di Wall Street - e che da esse ha ricavato guadagni milionari - rappresenti per esse una qualsiasi minaccia sfida ogni logica.
Le ansie per la sua candidatura confermano perciò la precarietà delle fondamenta su cui si basa la presunta ripresa economica in corso negli Stati Uniti, dove anche la sola ipotesi di una futura riduzione della liquidità immessa sui mercati ha scatenato il panico, fino a costringere al ritiro il candidato scelto personalmente dal presidente per guidare la Fed nel dopo Bernanke.
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di Carlo Musilli
L'esperienza, diceva Oscar Wilde, è l'insegnante più severa: prima ti fa l'esame, poi ti spiega la lezione. Peccato che, nel mondo della finanza, nemmeno i disastri più terrificanti riescano ad insegnare granché. Sono passati cinque anni e un giorno dal rovinoso crack di Lehman Brothers, ma ancora non si è vista traccia di quella rivoluzione normativa invocata e promessa per evitare che l'armageddon si ripeta.
Era il 15 settembre 2008 quando la gigantesca banca d'affari americana, travolta dalla valanga dei mutui subprime, ha alzato bandiera bianca, scatenando un effetto domino che ha mandato in tilt i mercati mondiali. A poco a poco, il virus ha contagiato l'economia reale e - attraversato l'Atlantico - ha acceso la miccia che ha portato alla crisi dei debiti sovrani europei. Quale insegnante è mai stata più severa di Lehman? Eppure, a quanto pare, abbiamo imparato poco.
L'acquisizione principale è stata questa: le cosiddette banche "too big to fail" possono fallire eccome, ma non devono. Nel 2008 la decisione di abbandonare al proprio destino un colosso di Wall Street fu presa dal governo americano in buona parte per ragioni di politica interna: allo scadere della campagna per le presidenziali, gli elettori avrebbero mal digerito un altro maxi-salvataggio dopo quelli di Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi del credito ipotecario nazionalizzati pochi giorni prima con 200 miliardi di dollari pubblici. L'amministrazione repubblicana non voleva far passare il messaggio che lo Stato fosse una rete di sicurezza per gli spericolati giochi d'azzardo di Wall Street. Ma alla fine è stato esattamente così.
Purtroppo all'epoca nessuno fu in grado di prevedere cosa sarebbe successo dopo la più grande bancarotta della storia. Le conseguenze furono ampiamente sottovalutate e, per evitare fallimenti a catena, fu necessario infliggere ai contribuenti (non solo americani) una stangata molto superiore a quella che sarebbe bastata per salvare la banca maledetta.
Da allora non è più avvenuto alcun cataclisma di proporzioni simili: gli istituti di credito sono stati inondati di liquidità e le Banche centrali hanno ridotto a zero i tassi d'interesse. I governi, tuttavia, avrebbero dovuto fare un passo in più e comprendere che "too big to fail" in realtà vuol dire "too big to exist". Ma non è andata così e il disastro Lehman si è trasformato in una gigantesca occasione sprecata. Altro che nuove regole: la finanza non è stata riportata al servizio dell'economia reale; al contrario, i contribuenti sono stati sfruttati per salvare la finanza.
Negli Stati Uniti ha prevalso l'ostruzionismo delle lobby, al punto che dopo cinque anni la nuova regolamentazione finanziaria contenuta nel Dodd-Frank Act non è ancora entrata pienamente in vigore. Il presidente Barack Obama continua a premere pubblicamente per accelerare, ma di fatto non può (non gli conviene?) superare la pressione dei gruppi finanziari, che stanno riuscendo a rinviare sine die l'applicazione delle nuove regole, alleggerendo al contempo il loro potenziale impatto sui margini di guadagno degli istituti di credito.
Non solo. Negli ultimi cinque anni ha fallito anche la giustizia, che non è riuscita a punire i colpevoli della truffa dei subprime. La maggior parte delle banche ha patteggiato sanzioni lontane anni luce dalla ricchezza bruciata per colpa della loro malafede. Quanto ai singoli responsabili, continuano a vivere in un mondo di svergognata opulenza. Anzi, in molti casi il loro benessere è perfino aumentato.
Dick Fuld, ex presidente e Ceo di Lehman Brothers, si è messo in tasca dal 2000 al 2007 qualcosa come 457 milioni di dollari. Contro di lui non è mai stata aperta alcuna azione penale e oggi l'ex banchiere si gode la vita a capo di Matrix, la società di consulenza da lui fondata sette mesi dopo il fallimento di Lehman.
Intanto, secondo molti economisti, la leva finanziaria delle principali banche (ovvero il loro rapporto fra capitale ed esposizione) rimane ancora troppo alta. E' vero, i sei istituti più grandi (JPMorgan, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs, Morgan Stanley) hanno raddoppiato il loro capitale dal 2007 ad oggi, ma allo stesso tempo hanno incrementato anche il loro passivo di circa il 30%. Insomma, invece di diminuire, il potenziale distruttivo di queste banche - in caso di fallimento - è addirittura aumentato.
Secondo un rapporto pubblicato a fine 2012 dalla Banca dei regolamenti internazionali, se si ripetesse oggi un cataclisma in stile Lehman le conseguenze sarebbero tre volte più gravi, anche perche le interconnessioni fra i sistemi finanziari sono sempre più profonde e ramificate. "Nuovi episodi simili sono possibili - si legge nel testo -. I regolatori sono invitati a migliorare la vigilanza per evitare shock sistemici". Sono invitati da cinque anni e un giorno.
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di Carlo Musilli
"Perché io so' io, e voi non siete un Bund". Il compianto Mario Monicelli ci scuserà, ma storpiando la famosa battuta di Alberto Sordi nei panni del "Marchese del Grillo" si ottiene una sintesi efficace dell'ultimo intervento firmato Wolfgang Schaeuble. In un'intervista pubblicata ieri dal giornale finanziario Handelsblatt, il potentissimo ministro dell'Economia tedesco si è detto favorevole a un prossimo rialzo dei tassi nell'Eurozona. Lo ha fatto in modo astuto, camuffando i reali interessi che si celano dietro a una posizione del genere, tutti germanocentrici e nient'affatto europei.
"La Bce ha annunciato che alzerà di nuovo i tassi quando l'economia migliora e questo é positivo - ha sentenziato Schaeuble -. I tassi bassi sono soprattutto un'espressione d'insicurezza sui mercati del debito: questo non può durare all'infinito, anche se rappresenta un beneficio per il bilancio federale tedesco".
A leggerla così sembrerebbe quasi che il superministro auspichi un intervento dell'Eurotower sfavorevole alla Germania in nome del bene finanziario collettivo. Naturalmente non è così. Anzi, è esattamente il contrario.
In scia alle ultime manovre avviate dalla Bundesbank, Schaeuble cerca di fare pressing sulla Bce riportando con gravi omissioni le parole pronunciate e ribadite più volte dal presidente Mario Draghi. Ad oggi nell'Eurozona il tasso di riferimento è al minimo storico dello 0,5% (dopo il taglio di un quarto di punto arrivato lo scorso maggio) ed è assolutamente evidente che prima o poi andrà modificato. Peccato che la congiuntura economica e le ultime indicazioni in arrivo da Francoforte vadano nella direzione opposta rispetto a quella indicata da Schaeuble, almeno per quanto riguarda il prossimo futuro.
A inizio mese, dopo l'ultima riunione del board Bce, Draghi ha confermato che la politica monetaria accomodante "non ha alcuna scadenza precisa" e i rendimenti sono destinati a rimanere bassi ancora "a lungo". A luglio il banchiere centrale aveva perfino annunciato che "i tassi d'interesse chiave e il tasso sui depositi potranno scendere ulteriormente". In estrema sintesi, le ragioni principali sono quattro: l'inflazione nell'area valutaria è sotto controllo, mentre la ripresa è una prospettiva incerta, il credito è ancora asfittico e le condizioni del mercato del lavoro rimangono drammatiche.
Come mai allora il buon Schaeuble ha capito tutt'altro? Semplicemente perché dal suo punto di vista le cose non stanno così. Si è soliti parlare dell'Eurozona come di un insieme compatto, ma le economie dei Paesi che compongono l'area valutaria non sono affatto omogenee. E le differenze più macroscopiche sono proprio quelle che separano la Germania dagli altri membri.
Contrariamente a quanto accade nella maggior parte di Eurolandia, in terra teutonica la ripresa è già realtà. Ieri l'ufficio federale di statistica ha confermato che nel secondo trimestre il Pil tedesco è cresciuto dello 0,7% rispetto ai primi tre mesi, mettendo a segno il balzo in avanti più consistente da un anno a questa parte. Su base annua, invece, l'incremento è stato dello 0,9%. Sono saliti gli investimenti (+1,9% su trimestre), i consumi privati (+0,5%), la spesa per le costruzioni (+0,3%) e il commercio estero (+0,2%).
A preoccupare Berlino è invece l'inflazione, e anche in questo caso si tratta di una differenza fondamentale con i cugini dell'Eurozona. A luglio la corsa dei prezzi è arrivata all'1,9% su anno, il livello più alto registrato nel 2013, contro l'1,8% di giugno e l'1,7% previsto dagli analisti. Su base mensile il dato è salito dello 0,5%.
Non è un caso che nel suo ultimo bollettino mensile la Banca centrale tedesca abbia anticipato Schaeuble, avvertendo che un rialzo dei tassi sarebbe possibile se la pressione dell'inflazione dovesse continuare a crescere (alzando i tassi, infatti, cala l'inflazione, e viceversa). In questa rivelazione si nascondono una banalità e un'ipocrisia.
Primo: è ovvio che la Bce tenga conto dell'andamento dei prezzi nel valutare le mosse di politica monetaria, lo deve fare per statuto. Secondo: l'Eurozona nel complesso non corre affatto il pericolo che l'inflazione salga troppo. Al contrario: la depressione economica lascia prevedere che l'andamento dei prezzi sia orientato al ribasso piuttosto che al rialzo.
Quello dell'inflazione, perciò, è un problema che riguarda solo la Germania, interessata a fare pressioni sulla Bce per distorcere la politica monetaria a proprio favore. Per gli altri Paesi sarebbe una sventura, ma poco importa. Berlino è Berlino.
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di Carlo Musilli
Uscire dall'oscurità non vuol dire necessariamente camminare verso la luce. Purtroppo esiste anche la penombra. In questa sorta limbo si trova al momento l'Eurozona, sospesa fra una recessione ormai alle spalle e una ripresa difficile da pronosticare. Secondo le ultime stime preliminari pubblicate da Eurostat, dopo sette trimestri consecutivi con il segno meno, fra aprile e giugno il Pil dell'area valutaria è cresciuto dello 0,3% rispetto ai tre mesi precedenti (un risultato migliore delle previsioni, che non andavano oltre il +0,2%), mentre su base annua ha registrato ancora una contrazione dello 0,7%. Allargando lo sguardo all'intera Unione europea, il Pil ha segnato un +0,3% su trimestre e un -0,2% su anno.
I numeri complessivi sembrano incoraggianti, ma nascondono al loro interno profondi squilibri fra i diversi Paesi. L'Italia, ad esempio, è rimasta in territorio negativo, facendo segnare un -0,2% su trimestre e un -2% su anno.
Male nel confronto con il periodo gennaio-marzo anche la Spagna (-0,1%), l'Olanda (-0,2%) e Cipro (-1,4%). A trainare la ripresa sono invece Germania (+0,7%, il risultato migliore da un anno a questa parte), Gran Bretagna (+0,6%) e Francia (+0,5%, record dal primo trimestre 2011). Quello di Parigi è un balzo inatteso (+0,1% le previsioni), che porta il Paese fuori dalla recessione dopo due trimestri in rosso.
Su base annua le contrazioni più gravi sono quelle di Cipro (-5,2%) e della Grecia (-4,6%), mentre la crescita più significativa si registra in Lettonia (+4,3%) e Lituania (+4,1%). Germania e Francia hanno segnato rispettivamente +0,5% e +0,3%.
"Chiedo ai politici europei, così come ai partner sociali, ai capi d'azienda, agli accademici e ai commentatori di cogliere questa opportunità - ha scritto Olli Rehn, vicepresidente della Commissione europea -. Una ripresa sostenuta ora è alla portata, ma solo se persevereremo su tutti i fronti della nostra risposta alla crisi: mantenendo il ritmo della riforma economica, riprendendo il controllo sulla nostra montagna di debiti, pubblici e privati, e costruendo i pilastri di una vera unione economica e monetaria senza quelle scappatoie in cui banchieri irresponsabili o politici miopi possono prosperare".
Digeriti i numeri e gli ammonimenti, resta da capire per quale motivo sia ancora avventato parlare di ripresa. Innanzitutto, uno sguardo al lavoro: secondo i dati diffusi da Eurostat a fine luglio, i disoccupati nell'Eurozona sono 19 milioni 266 mila.
A giugno il tasso medio di disoccupazione nell'unione valutaria si è attestato al 12,1% (stesso dato dell'Italia), ma anche in questo caso le differenze fra i vari Paesi sono macroscopiche: in Spagna e Grecia i senza lavoro sono rispettivamente il 26,3% e il 26,9%, mentre in Germania e Austria la percentuale scende al 5,4% e al 4,6%. Nel nostro Paese a preoccupare sono soprattutto i giovani, in cerca di occupazione nel 39,1% dei casi. In un quadro così frammentato, rimane quanto mai difficile ipotizzare soluzioni comuni a livello europeo.
Strettamente connesso al dramma del lavoro è il tema del credito alle imprese, che - secondo le rilevazioni della Banca centrale europea - si è irrigidito ulteriormente nel secondo trimestre. La Royal Bank of Scotland, inoltre, ha calcolato che le banche dell'Eurozona dovranno ridurre le proprie attività (crediti inclusi) di circa 3.200 miliardi di euro nei prossimi 3-5 anni. E questo aumenta il rischio di una nuova contrazione dei prestiti, minando uno dei pilastri su cui dovrebbe poggiare la tanto vagheggiata ripresa.
Sempre più colpite dal credit crunch, le aziende continuano a ridurre i loro investimenti: nel primo trimestre dell'anno il tasso calcolato da Eurostat è calato al 18,8%, dal 19,5% registrato negli ultimi tre mesi del 2012. Si tratta del nuovo minimo storico da quando l'istituto di statistica ha iniziato le rilevazioni.
Quanto ai consumi, sono ancora troppo deboli: a giugno le vendite al dettaglio nell'Eurozona hanno subito una contrazione dello 0,5% su mese e dell’1,1% su anno.
Tutti questi segnali di debolezza non esauriscono certo i fronti su cui bisognerebbe agire, ma danno la misura di quanto fragili siano le basi della futura crescita, anche per la diversità dei problemi e delle soluzioni richieste nei vari Paesi dell'Eurozona. Dal buio pesto siamo passati alla penombra, ma il famoso tunnel è tutt'altro che finito.