di Carlo Musilli

Capita mai di dimenticare un problema? Nella vita quotidiana è difficile, ma all'opinione pubblica succede quasi ogni giorno. Dello spread, ad esempio, ci siamo scordati. Lui però è ancora lì e a guardarlo oggi quasi non ci si crede. Continua a calare. Lunedì è sceso sotto la soglia psicologica di 250, fino a 244 punti base, ovvero il livello più basso dal luglio del 2011.

Ormai è lontano anni luce dalla vetta siderale raggiunta alla fine dell'ultimo governo Berlusconi - quando toccò il massimo storico di 575 - e si posiziona ben al di sotto anche della cosiddetta "quota Monti", quei 287 punti fissati come obiettivo dal Professore (la metà della "quota Berlusconi"). Si avvicina anzi a quello che secondi vari analisti dovrebbe essere lo "spread naturale" del nostro Paese, circa 200 punti base.

Ora non rimane che da capire come sia possibile. Quale drastico cambiamento, quale straordinario episodio ha convinto gli investitori a fidarsi nuovamente dell'Italia? A favorire la discesa di ieri è intervenuta senz'altro un'asta positiva di Bot da parte del Tesoro, oltre al surriscaldamento del tasso del Bund tedesco (salito dal 22 luglio scorso di oltre 20 punti base).

Allargando lo sguardo agli ultimi mesi, tuttavia, sono altri i fattori da tenere in considerazione: a giugno l'Ue ha chiuso la procedura d'infrazione per deficit eccessivo nei nostri confronti, abbiamo varato un programma per iniettare 40 miliardi nel sistema delle imprese (pagando in parte i debiti della Pa) e secondo tutte le previsioni alla fine dell'anno inizierà una lenta ripresa che ci porterà timidamente fuori dalla recessione nel 2014. Allo stesso tempo, però, la disoccupazione è ancora fuori controllo, i consumi non ripartono, il credit crunch continua a mordere e la situazione politica tragicomica ha spinto fin qui il nuovo governo a rimandare tutti i provvedimenti più importanti in agenda.

Dati di questo tipo sono certamente importanti, ma rappresentano solo la parte visibile dell'iceberg. E quella dello spread è una partita che si gioca in gran parte sotto il pelo dell'acqua, nell'oceano di una finanza scarsamente interessata all'economia reale. Per chi investe nei Btp conta di più lo stato dei nostri conti pubblici (che oggi, almeno sul fronte del deficit, sono formalmente tra i migliori dell’Eurozona) e la rassicurante presenza della Bce.

Dopo aver inondato di liquidità il settore bancario, l'Eurotower ha scaricato la pistola in mano agli speculatori promettendo interventi calmieranti sugli spread in caso di pressione eccessiva da parte dei mercati. Ed è inutile montarsi la testa: è stata questa mossa di Mario Draghi a far scomparire la parola "spread" dai titoli dei giornali.

Ora, fatta salva una certa volatilità ineliminabile, gli spettri delle tempeste finanziarie incontrollate si sono allontanati. Gli investitori internazionali hanno iniziato a rendersi conto che i titoli di Stato dei Paesi periferici dell'Eurozona - Italia e Spagna su tutti - possono essere dei buoni affari, dal momento che garantiscono tassi d'interesse ancora piuttosto alti (i rendimenti sui nostri decennali rimangono superiori al 4%) a fronte di un rischio meno angosciante rispetto al passato (per quanto ci possa sembrare assurdo, restiamo comunque una delle principali economie del pianeta).

Inoltre, dal 2010, il rendimento dei Bond di molti Paesi emergenti si è ridotto e solo il debito di emittenti quasi in default (come l’Argentina) paga tassi superiori al 10%. Un quadro che ha contribuito ad aumentare ulteriormente l'appeal dei titoli italiani.

L'altro tassello fondamentale del puzzle è la liquidità. Da dove arrivano gli investimenti sui titoli di Stato dell'Europeriferia? I mercati che al momento dispongono di maggiori risorse sono quelli di Stati Uniti e Giappone, dove le politiche fortemente espansive della Federal Reserve e della Bank of Japan hanno liberato capitali buoni anche per investimenti oltreoceano.

Nelle ultime settimane uno dei massimi timori sui mercati è proprio che la Banca centrale americana possa ridurre o addirittura avviare a chiusura il programma di stimoli. Una mossa forse ancora prematura, ma che prima o poi arriverà e avrà un effetto inevitabilmente negativo anche sul nostro spread.

Per il momento, tuttavia, l'Italia dovrebbe approfittare dei minori rendimenti che è costretta a pagare sul debito e utilizzare le somme risparmiate per cercare di rianimare l'economia reale. Lo scollamento paradossale è proprio questo: anche se il nostro Paese riuscisse nell'impresa di risollevarsi, in futuro il differenziale potrebbe comunque tornare a salire. E a quel punto ne torneremo a sentir parlare.

di Carlo Musilli

La sua assenza era quasi una stonatura. Proprio lei, la seconda banca degli Stati Uniti, tenuta fuori da uno dei club più esclusivi della finanza internazionale. Una vera ingiustizia. Ora però è entrata almeno in lista d'attesa per ottenere l'iscrizione. Il circolo in questione riunisce i responsabili della truffa del secolo, quella dei mutui subprime, da cui nel 2008 è partito l'effetto domino che ha generato la crisi globale. L'istituto in attesa di tesseramento è Bank of America (BofA). 

Ieri il dipartimento di Giustizia degli Usa e la Sec (la Consob americana) hanno avviato in sede civile due cause parallele per frode nei confronti di BofA e di due sue controllate, accusate di aver ingannato gli investitori nel 2008. Il copione è lo stesso già sentito varie volte negli ultimi cinque anni: le banche avrebbero nascosto agli investitori i rischi connessi all'acquisto di titoli derivati legati ai mutui immobiliari subprime. In particolare, non sarebbe stato comunicato alla clientela che oltre il 70% di quei prodotti proveniva da intermediari esterni al gruppo bancario e quindi era molto più esposto al rischio default. I titoli nel mirino delle autorità americane valevano in tutto 850 milioni di dollari.

La replica di Bank of America non si è fatta attendere. Secondo l'istituto - che promette battaglia in tribunale - quei derivati erano rivolti a investitori "sofisticati" e avrebbero perfino garantito un ritorno migliore rispetto a titoli analoghi. L'autodifesa si riassume in una frase: “Non siamo responsabili del crollo del mercato immobiliare”.

Il caso riguarda oltre mille mutui venduti tra gennaio e febbraio 2008 a cinque investitori, tra cui la Federal Home Loan Bank di San Francisco e Wachovia, banca rilevata durante la crisi da Wells Fargo. Il dipartimento di Giustizia ritiene però che il numero di mutui finiti in default sia troppo alto e "non possa essere spiegato solo con la crisi del mercato immobiliare degli ultimi anni".

Intanto, il Presidente in persona è intervenuto nel dibattito sulla riforma del sistema di finanziamento e di garanzia dei mutui. Secondo Barack Obama, bisogna ridurre il coinvolgimento pubblico e aumentare al contempo i capitali privati: sarebbe "inaccettabile" tornare "al sistema della bolla destinata a scoppiare, che ha causato la crisi finanziaria" ed è necessario "mettere fine all’era del salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac", ovvero i due colossi del credito ipotecario nazionalizzati durante la crisi.

Ma come funziona(va) il sistema (suicida) della bolla? La truffa dei subprime va analizzata su due piani. Il primo è quello della vita reale, in cui le banche americane spingevano i loro clienti a usare le case come bancomat, accendendo mutui immobiliari in serie. Ad ogni prestito che ottenevano (bastava chiedere), i debitori estinguevano il mutuo precedente e, avendo ottenuto dagli istituti un importo superiore (perché nel frattempo il prezzo delle case era salito), intascavano la differenza. Appena i prezzi delle case hanno smesso di crescere, naturalmente, il giocattolo si è rotto. Milioni di americani si sono ritrovati con debiti impossibili da ripagare e sono stati sfrattati.

Il secondo piano è quello della finanza più rarefatta. Mentre concedevano mutui a profusione, le banche emettevano titoli derivati garantiti proprio da quei prestiti e li vendevano con l'inganno: sapevano che prima o poi i subprime sarebbero scoppiati, ma facevano credere agli investitori che si trattasse di prodotti sicurissimi. Il tutto con la complicità delle agenzie di rating che, in un clamoroso conflitto d'interessi (erano pagate dalle banche stesse) assegnavano a quei derivati il giudizio d'affidabilità più alto, la mitica tripla A. Il vero capolavoro, tuttavia, è arrivato quando gli istituti hanno iniziato a scambiare fra loro i titoli legati ai mutui: invogliati dai facili guadagni (e dai maxi-bonus) garantiti dal trading, hanno finto di non vedere che stavano gonfiando il palloncino come una mongolfiera.

Ora, le azioni legali sono notizia recente, ma è scorretto pensare che fin qui Bank of America sia stata immune allo tsunami dei subprime. Anzi, lo scorso inverno l'istituto ha accettato di pagare qualcosa come 11,6 miliardi di dollari a Fannie Mae per archiviare un pesantissimo contenzioso. La grana era iniziata con l'acquisto della Countrywide Financial, vera regina della truffa dei mutui, che è già costata a BofA circa 40 miliardi di dollari.

Ma non basta. A gennaio Bank of America figurava anche nella lista dei 10 colossi di Wall Street (fra cui anche JP Morgan, Citibank e Wells Fargo) che hanno siglato un accordo con le autorità americane, accettando di pagare in tutto 8,5 miliardi come risarcimento per i pignoramenti facili a danno delle famiglie americane.

Entrambi i precedenti si sono risolti quindi in un patteggiamento. Forse anche le nuove cause avranno il medesimo epilogo, ma non è questo il punto cruciale. I risarcimenti sono importanti per gli americani e per gli investitori. Al resto del mondo, invece, interessa che gli Stati Uniti riescano finalmente a varare una riforma seria per evitare che negli anni si gonfino nuove bolle assassine. Anche se i membri del club, lungimiranti come al solito, non saranno d'accordo.


di Carlo Musilli

Se i nemici giurati del popolo greco fossero ordinati in una classifica, a questo punto la Troika sarebbe davanti anche agli eserciti persiani dei re Dario e Serse. Forse era proprio questo primato l'obiettivo di Ue, Bce e Fmi, perché ad Atene e dintorni sono in pochi a vedere il nesso fra la mattanza sociale evidentissima e il presunto salvataggio. L'ultimo colpo del macellaio-creditore è arrivato ieri, quando il Parlamento greco ha approvato di misura (153 voti favorevoli su 300) la riforma della pubblica amministrazione tanto invocata da Bruxelles.

La legge prevede la nascita di una società in cui saranno trasferiti 25 mila lavoratori, che si cercherà di ricollocare nei prossimi otto mesi, periodo durante il quale le persone coinvolte avranno lo stipendio ridotto al 75%. Quattromila dipendenti pubblici, per lo più poliziotti locali e insegnanti, perderanno subito il lavoro. E non saranno certo gli ultimi, visto che il governo ellenico si è impegnato a tagliare entro il 2015 ben 150 mila posti pubblici.

Il colpo di machete è l'ennesima condizione posta dai creditori internazionali per continuare a pagare il debito pubblico greco. In particolare, nei prossimi mesi dovrebbe arrivare ad Atene una tranche di aiuti da 6,8 miliardi, di cui 2,5 a fine luglio. Soldi con i quali potremo continuare a fingere che prima o poi il Paese sarà in grado di tornare a finanziarsi autonomamente sul mercato. Una prospettiva quanto mai onirica, anche perché due giorni fa Bruxelles ha annunciato che l'anno prossimo, alla fine del programma di aiuti, nei conti ellenici potrebbe rimanere un buco finanziario compreso tra i 2,8 e i 4,6 miliardi di euro. Un'altra stima interna alla Commissione europea parla di 4,9 miliardi. Notare la precisione dei calcoli.

Intanto, la rabbia popolare continua a crescere. Mentre il Parlamento si produceva nell'ennesimo voto suicida dopo giorni di manifestazioni e scioperi, nelle strade della capitale ellenica sono andate in scena nuove proteste organizzate da migliaia di docenti, agenti della polizia municipale e altri dipendenti pubblici. Ma non li hanno ascoltati. La riforma è stata varata dai due partiti al potere, i conservatori di Nea Dimokratia e i socialisti del Pasok (gli stessi che negli anni passati hanno truccato i bilanci, gettando le basi per la successiva catastrofe). Nelle scorse settimane proprio la riforma della pubblica amministrazione aveva provocato la fuoriuscita dalla maggioranza di Dimar, la sinistra democratica.

Il premier Samaras, dopo il voto, ha provato a rivendicare un risultato positivo ottenuto nelle trattative con la Troika, ovvero la riduzione dell’Iva sui ristoranti e i prodotti di ristorazione dal 23 al 13%. Il provvedimento potrebbe aiutare il turismo, ma è davvero poco per far dimenticare ai la sequela di umiliazioni subite in silenzio dal governo. A riportare giustamente l'attenzione sul diluvio di licenziamenti che getterà sul lastrico migliaia di famiglie ci ha pensato Alexis Tsipras, il leader della sinistra radicale, che ha parlato di "sacrificio umano", definendo il progetto "un disastro".

Ai greci non rimane quindi che scendere in piazza per esprimere quantomeno il proprio dissenso. "Una polemica di dignità", per dirla con il poeta. Almeno questo sarà concesso, giusto? Sbagliato.

Ieri nel centro di Atene sono state vietate le manifestazioni per evitare scontri in occasione della vista del ministro tedesco delle Finanze. Il rigorosissimo Wolfgang Schaeuble - che si fa notare anche per il tempismo delle sue apparizioni - si è naturalmente sperticato in lodi per la nuova riforma, sottolineando che il settore pubblico greco era eccessivamente ampio per risultare sostenibile.

"Se nel 2014 la Grecia avrà rispettato i propri impegni e se avrà ottenuto un avanzo di bilancio primario - ha aggiunto Schaeuble -, allora si apriranno le trattative per un eventuale nuovo taglio del debito, ma anche per nuovi aiuti economici. Come concordato, siamo pronti a discutere ulteriori misure alla fine del programma attuale. Ora però dobbiamo fare tutto quello che è necessario".

Il dramma vissuto dalla gente comune, come sempre, viene liquidato con frasi concessive. Qualcosa del tipo "non si può fare altrimenti, anche se sarà difficile dal punto di vista sociale". Poche ore prima la stessa Commissione europea aveva certificato che in Grecia una famiglia su cinque vive sotto la soglia di povertà. Ma sono statistiche che non interessano a nessuno, nemmeno ai persiani.

di Carlo Musilli

Il mirino dei mercati punta su Lisbona e la tensione finanziaria sale in tutta la periferia d’Europa. Ieri lo spread italiano è tornato per qualche minuto sopra la soglia psicologica dei 300 punti base e Piazza Affari, dopo un avvio positivo, ha chiuso in ribasso di oltre un punto e mezzo, il secondo peggior calo fra le principali Borse europee dopo quello di Madrid (-2,32%). A incidere non sono state solo le difficoltà politiche nostrane, ma anche (e soprattutto) quelle del Portogallo.

La crisi di governo che si è aperta nel Paese iberico alimenta la possibilità che il piano di salvataggio siglato con i creditori internazionali possa essere rinegoziato, come chiede Antonio José Seguro, leader dell’opposizione socialista. La sola ipotesi, naturalmente, fa la gioia degli speculatori, che ad agosto potrebbero allestire un nuovo attacco ai membri periferici dell’unione valutaria. Il grido di battaglia è sempre lo stesso: “Rischio contagio!”. 

Ma cosa sta accadendo di tanto preoccupante in quel di Lisbona? Com’è ovvio, ai mercati non interessano affatto i disastri prodotti dall’austerity. Al contrario, tutta l’attenzione degli investitori si concentra sulla possibilità che il Portogallo venga meno ai patti siglati con la Troika per ottenere gli aiuti internazionali. 

Lunedì i rappresentanti di Ue, Bce e Fmi dovrebbero tornare in terra portoghese per l'ottava missione di revisione, che ha il compito di valutare fino a che punto siano stati attuati i piani per la riduzione della spesa (i risparmi previsti per il prossimo biennio valgono 4,7 miliardi di euro). Il Governo portoghese ha però chiesto di rinviare l'esame a settembre "a causa dell'attuale situazione politica".

Da circa due settimane, infatti, il governo guidato da Pedro Passos Coelho cammina su un filo sottilissimo. Dopo giorni tribolati, l’Esecutivo sembrava aver trovato una faticosa quadra, eppure non è riuscito a convincere il presidente della Repubblica, Aníbal Cavaco Silva, che ha bloccato il piano per ricompattare il governo, invocando un nuovo accordo fra la coalizione di maggioranza e l'opposizione socialista. L’obiettivo è blindare le misure di austerità per uscire nel giugno 2014 dal programma di salvataggio e allo stesso tempo traghettare il Paese verso nuove elezioni politiche.

L’appello del Presidente è rivolto ai tre partiti protagonisti dell'accordo con la Troika per ottenere il prestito di 78 miliardi. Nel 2011, quando era il governo, fu il partito socialista a chiedere gli aiuti internazionali. Gli impegni che ciò ha comportato sono poi stati rispettati dalla coalizione di centrodestra salita al potere dopo le elezioni anticipate del 2012.

Cavaco Silva ha chiarito che se non arriverà l’accordo "cercherà altre soluzioni", ma ha escluso di convocare nuove elezioni quest'anno, come invece vorrebbero il Partito socialista, gli altri gruppi d’opposizione e i sindacati. Il Presidente ritiene comunque ancora aperta la crisi politica iniziata ufficialmente la settimana scorsa, quando il ministro delle Finanze Vitor Gaspar si era dimesso in segno di dissenso con le misure di eccessivo rigore previste dal secondo piano anticrisi (il primo era stato bocciato dalla Corte costituzionale).

A stretto giro aveva dato forfait anche il ministro degli Esteri, Paulo Portas, il quale, essendo anche leader del Centro Democrático Social-Partido Popular, aveva minacciato di far cadere il governo. Venerdì scorso, tuttavia, Portas aveva trovato un nuovo accordo con il socialdemocratico Passos Coelho, ottenendo la nomina a vicepremier e ministro degli Affari finanziari. L'alleanza fra i due partiti di maggioranza, per quanto fragile, sembrava ristabilita, ma il Presidente della Repubblica ha rimesso tutto in discussione. 

A questo punto è possibile che il "governo di salvezza nazionale" chiesto dal Capo dello Stato veda effettivamente la luce. Il Premier si è detto pronto a trovare un accordo con i principali partiti del Paese per gestire il piano di salvataggio. Timide aperture sono arrivate anche da Portas e da Seguro.

Mentre le manovre politiche proseguono, tuttavia, il Portogallo è alle prese la più grave crisi economica dagli anni settanta e la tensione sociale è ormai alle stelle. L'austerity imposta da Bruxelles ha prodotto un aumento generalizzato delle tasse sui redditi e sui consumi, il calo delle retribuzioni nel pubblico impiego e il taglio alle spese per sanità e istruzione.

La recessione dura dal 2011 e il tasso di disoccupazione è al 18%, mentre fra i giovani raggiunge il 43%. In questo quadro non si può escludere che per risollevare le finanze pubbliche del Paese sia necessaria una soluzione simile a quella adottata in Grecia, ovvero una rinegoziazione del debito a discapito dei creditori privati. Ma a quel punto torneremmo a fare i conti ogni giorno con lo spettro più temuto dai mercati e più sfruttato dagli speculatori: il rischio contagio.

di Carlo Musilli

Da Bruxelles arriva un'altra delusione per la Grecia. L'Eurogruppo ha deciso lunedì sera che questo mese Atene riceverà solamente 2,5 miliardi di euro, contro gli 8,1 precedentemente concordati. Non solo: i fondi saranno versati esclusivamente a patto che il Paese ''metta in opera le azioni programmate entro il 19 luglio'', ha spiegato Jereon Dijsselbloem, presidente dell'Eurogruppo.

Ma che fine hanno fatto gli altri soldi? La rata è stata ridotta complessivamente da 8,1 a 6,8 miliardi e divisa in sotto-tranche il cui pagamento è subordinato all'obbedienza del governo Samaras. Oltre ai 2,5 miliardi in arrivo dal fondo salvastati Efsf, questo mese Atene incasserà anche un altro miliardo e mezzo dai profitti sui titoli di stato detenuti dalle Banche centrali. Ad ottobre, invece, sempre se i greci soddisferanno le richieste dei creditori internazionali, arriverà la seconda sotto-tranche: 0,5 miliardi dall'Efsf e altrettanti dai profitti sui bond.

Intanto, ad agosto, il Fondo monetario internazionale dovrebbe pagare la sua quota di 1,8 miliardi di euro. Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, ha fatto sapere che la decisione sullo sblocco dei fondi sarà presa dal comitato direttivo a fine mese.

Da un punto di vista strettamente finanziario, per le casse elleniche cambia poco: nel breve termine il Tesoro non ha bisogno di molti fondi per finanziare il debito e di certo nessuno nell'Eurozona ha interesse a mandare la Grecia in crisi di liquidità, una mossa che alimenterebbe i timori sulla tenuta della moneta unica e forse accenderebbe la miccia per una nuova tornata di speculazione balneare in agosto.

Lo spacchettamento degli aiuti deciso a Bruxelles va letto quindi solo in chiave politica. Più che un ultimatum, si tratta al contempo di una punizione e di un mezzo di coercizione, nel più totale disinteresse per il principio di sovranità nazionale e della stessa dignità del popolo greco.  

"In molte aree dobbiamo riscontrare misure più decise per accelerare la ripresa", ha chiarito Olli Rehn, commissario europeo per gli Affari economici e monetari. In particolare, alla Grecia si chiede di procedere con le liberalizzazioni, la riforma fiscale e quella del settore pubblico.

L'insoddisfazione dell'Europa nasce dalle conclusioni a cui è giunta la Troika - composta dai tecnici di Ue, Fmi e Bce -, che nel suo rapporto sull'economia ellenica ha segnalato una serie di ritardi nel perseguimento degli obiettivi fissati per risanare i conti, pur ammettendo che alcuni passi avanti sono stati compiuti.  "La missione e le autorità concordano sul fatto che l'outlook rimane complessivamente in linea con le proiezioni del programma - si legge nella relazione -, con un ritorno alla crescita nel 2014. Comunque le prospettive rimangono incerte".

A sentire parlare di "ritorno alla crescita" e di "prospettive incerte" i greci probabilmente sorridono, se hanno abbastanza autocontrollo per non infuriarsi. Da anni ormai vengono costantemente umiliati da un'Europa che finge di aiutarli mentre tutela i propri interessi. Un occhio sui mercati internazionali, l'altro sui conti pubblici di Atene.

E nessuno che si ponga il problema delle condizioni di vita in cui è stato ridotto il Paese, flagellato prima dalla propria classe politica criminale, poi dall'incertezza e dall'indifferenza dei tecnocrati di Bruxelles, interessati solo a evitare il contagio e a tutelare i creditori.

Lunedì il sindaco di Atene, Giorgos Kaminis, è stato aggredito da un gruppo di sconosciuti mentre usciva dalla sede dell'Associazione centrale dei Comuni di Grecia, dove aveva partecipato a una riunione sulla decisione del governo di mettere in mobilità il personale della polizia locale e le guardie degli edifici scolastici. L'Associazione dei Lavoratori delle autonomie locali ha condannato l'episodio, definendolo "fascista e dannoso per gli interessi dei lavoratori" e sostenendo che si è trattato "di una provocazione premeditata di persone di estrema destra e di Chrysi Avgi" (il partito neo-nazista) che vogliono "disorientare la società greca dalla giusta causa dei lavoratori del settore".

La vicenda è legata proprio ad una di quelle riforme che l'Europa chiede con più vigore: la messa in mobilità di 12.500 dipendenti pubblici al 70% dello stipendio, un provvedimento che precede il trasferimento o il licenziamento per chi non è ricollocabile. Atene si era impegnata a chiudere la partita entro fine giugno, ma non ce l'ha fatta. Il nuovo termine è stato fissato a settembre, ma il periodo di mobilità verrà ridotto da un anno a otto mesi. Tanto per non mettere in dubbio quanto all'Europa stia a cuore la concordia sociale. 









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