di Carlo Musilli

Dimenticate i derivati, i Cds e i mutui subprime. Quella è roba da dilettanti, troppo facile. Riuscite a immaginare quanto sia più complicato mettere in piedi una truffa milionaria commerciando in frullati e tisane? Qualcuno, a quanto pare, ci riesce. Stavolta nell’occhio del ciclone finanziario è finita Herbalife, società americana quotata a Wall Street, nota al mondo per gli integratori e le bevande dimagranti.

A onor del vero, non sono state emesse sentenze, quindi vale il principio della presunzione d’innocenza. Ma la vicenda è troppo originale per non suscitare attenzione. Tutto nasce da Pershing Square, un hedge fund che ha speso 50 milioni di dollari per pagare un’indagine investigativa privata con l’obiettivo di smascherare la (presunta) maxi-frode di Herbalife.

“Datemi retta… Quando vedrete quel che abbiamo raccolto vi renderete conto che sono stati soldi ben spesi”, ha assicurato il miliardario Bill Ackman, numero uno del fondo. La sua tesi è che il regno delle tisane sia costruito su uno schema di vendite piramidale proibito dalla legge.

In termini generali, questo tipo di marketing - vietato anche in Italia dal 2005 -  promette facili guadagni con bassi investimenti, senza richiedere alcuna qualifica o capacità particolare. In sostanza, le persone vengono indotte a pagare una somma generalmente irrisoria per entrare nella piramide commerciale: i soldi sono destinati a chi occupa i livelli superiori della gerarchia, mentre i neofiti sperano di rientrare dell’investimento (per poi iniziare a guadagnare) portando a loro volta nuovi adepti su cui incassare una percentuale. Chi è al vertice della piramide guadagna più degli altri e molto spesso si dilegua dopo aver messo da parete un discreto gruzzolo. 

Secondo Ackman, questo sarebbe più o meno il meccanismo creato da Herbalife, che conta su due milioni di distributori indipendenti, chiamati a reclutarne sempre di nuovi. In particolare - stando all'indagine - molte persone acquisterebbero i prodotti dell'azienda solo per essere poi abilitate ad aprire uno dei cosiddetti "nutrition club", nella (falsa) speranza di trarne profitto.

L'inchiesta, che prende in considerazione un campione di club aperti a New York, sostiene che queste attività subiscano delle perdite annue medie di 12mila dollari. La società stessa ammette che nel 2013 appena 7.300 persone sulle 409mila che compongono la rete di vendita sono riuscite a guadagnare più di 5mila dollari. Secondo Herbalife, però, la sproporzione si spiega col fatto che la grande maggioranza di loro punta solo a ottenere sconti sui prodotti, non a guadagnare.

Ackman non ci crede e ormai dà battaglia dal dicembre del 2012, anche se solo di recente - all'apice dell'enfasi - è arrivato a scommettere un miliardo di dollari contro i titoli in Borsa dei suoi suoi nemici giurati, accusandoli di aver ingannato i distributori, fornito dati falsi sulle vendite e gonfiato in modo smisurato il prezzo di prodotti di bassa qualità. Ora il materiale raccolto dall’hedge fund sarà messo a disposizione della polizia, ma alla fine dovranno pronunciarsi la Federal Trade Commission degli Stati Uniti, il Dipartimento di Giustizia, l'Fbi e almeno un paio di procuratori generali: tutte autorità che, a quanto si apprende, starebbero indagando su Herbalife.

Intanto, la società sotto accusa si difende, minaccia azioni legali e incassa una generosa ricompensa dai mercati azionari. Dopo le prime dichiarazioni di Ackman, la quotazione dell’azienda è crollata dell’11% a Wall Street, arrivando a perdere il 31% nel conto da inizio anno; subito dopo, tuttavia, le azioni hanno registrato un rimbalzo spettacolare, mettendo a segno il miglior rialzo di sempre in una sola seduta (+26%). E’ evidente che il mercato non ha creduto alla storia della frode. Ma questo - come insegnano i derivati, i Cds e i mutui subprime - significa davvero poco.

di Carlo Musilli

Jyrki Katainen non parla a nome dell'Europa, ma non è nemmeno uno sparuto e isolato commentatore. Da poco nominato commissario agli Affari economici e monetari dell'Ue, carica che ricoprirà pro tempore (ma con il rischio d'impiantarsi stabilmente da novembre), il simpatico falco della Finlandia ha iniziato il suo mandato sparando contro il nostro Paese: "La cosa più importante per l'Italia, che da anni si avvicina sempre di più all'abisso, è attuare le riforme promesse dagli ultimi governi", ha detto in un'intervista pubblicata ieri sul sito del quotidiano tedesco Die Welt.

Secondo Katainen, "il dibattito in corso è sbagliato", parlare di flessibilità è "pericoloso" e bisogna "evitare qualsiasi ipotesi sulla possibilità di trovare un modo di eludere" il Patto di stabilità. I due precedenti governi italiani "hanno varato importanti riforme - ha aggiunto il neocommissario - e l'attuale esecutivo ha obiettivi ambiziosi, ma sarebbe di aiuto se realizzasse ciò su cui ha trovato un accordo". Come a dire: lavorate per rispettare il Fiscal compact e smettetela di farci perdere tempo parlando di flessibilità delle regole.

Il governo italiano ha replicato per bocca di Sandro Gozi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'Ue: "Con tutto il rispetto per Katainen - ha detto -, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in Europa non lo dice il commissario pro tempore finlandese, ma il Consiglio dell'Unione, che ha parlato chiaro su crescita e flessibilità: di solo rigore l'Europa non campa".

Fonti di Palazzo Chigi hanno poi aggiunto che "l'Italia ha il massimo rispetto della Commissione, rispetta e rispetterà tutti gli accordi. Ma la linea della sola austerità non porta da nessuna parte. E non è la linea del consiglio europeo che ha licenziato un documento programmatico che parla di rigore e crescita e flessibilità insieme. Portiamo in Europa milioni di voti e miliardi di euro. Non siamo scolaretti indisciplinati, ciò che fa l'Italia - le riforme su cui siamo impegnati dal primo giorno - lo decide il popolo italiano, non certo il temporaneo commissario finlandese".

In effetti, il problema non è Katainen in sé - che un finlandese sputi sentenze ottusamente rigoriste non è una sorpresa per nessuno - ma lo stesso Consiglio europeo. Nel corso della loro riunione di fine giugno, è vero che i capi di Stato e di Governo hanno parlato di crescita e flessibilità - come ricorda Gozi - ma purtroppo lo hanno fatto in termini che piacciono più a Katainen che a noi. Nelle conclusioni del vertice si ribadisce l'impegno a rispettare il Fiscal Compact e di flessibilità si parla solo in termini assai vaghi, precisando però in modo chiarissimo che ogni deroga agli accordi sottoscritti è esclusa. I margini di manovra in questione sono quelli già contenuti nel Patto di Stabilità, dunque, per quanto positivi, non potranno mai rappresentare una vera svolta nella politica economica europea.

In particolare, l’ipotesi principale sul tavolo prevede di scorporare dal computo del deficit gli investimenti a sostegno dei progetti in regime di cofinanziamento con l’Unione europea. Una misura che andrebbe a vantaggio di tutti i Paesi (incluse Germania e Finlandia), non soltanto di quelli più in difficoltà, e che ancora non si capisce in che modo possa essere legata all'attuazione delle riforme strutturali.

Il quadro non è migliorato con l'Ecofin dello scorso 7 luglio, durante il quale i ministri delle Finanze dell'Unione non sono addivenuti ad alcuna definizione comune del concetto di flessibilità (su cui si tornerà a discutere soltanto dopo l'estate). Hanno invece ratificato le raccomandazioni sull'Italia elaborate a maggio dalla Commissione e poi irrigidite nel percorso verso l'approvazione definitiva. Nel testo, di fatto, si chiede una manovra correttiva - che il governo Renzi rifiuta categoricamente - rispedendo al mittente la richiesta di spostare al 2016 il termine per il pareggio di bilancio e avvicinando la possibilità di una procedura per debito eccessivo che da metà dell'anno prossimo rischia di azzerare la capacità di azione dell'Esecutivo di Roma.

Non è detto che questa prospettiva si realizzi, perché prima di aprire una procedura si potrebbe tener conto anche delle riforme e della crescita (su cui venerdì Bankitalia ha rivisto le stime, abbassando a +0,2% l'incremento del Pil previsto per quest'anno e alzando a +1,3% quello per il 2015). Ma anche se riuscissimo a scongiurare questa prospettiva, dal 2016 il Fiscal Compact ci imporrebbe comunque di ridurre di un ventesimo l'anno la quota di debito pubblico eccedente il 60% del Pil (oggi è oltre il 130%). Flessibilità per noi vorrà dire anche cercare di diluire nel tempo questo impegno quasi impossibile da sostenere. Nella speranza che, con il tempo, Katainen non diventi Cassandra.     

di Carlo Musilli

Il mostro dei mutui subprime genera l'ennesimo patteggiamento. Citigroup ammette le proprie colpe nella più grave truffa del nuovo millennio e per archiviare le accuse accetta di pagare sette miliardi di dollari in tutto: una multa da 4,5 (di cui quattro al dipartimento di Giustizia degli Usa e 0,5 alle altre autorità coinvolte), più altri 2,5 in rimborsi ai clienti.

Alla luce di questo accordo, il colosso bancario statunitense archivia il secondo trimestre con oneri straordinari per circa 3,8 miliardi di dollari, al lordo delle tasse. Fra aprile e giugno l'utile netto di Citigroup scende così del 96% su base annua, a quota 181 milioni. Tuttavia, l'utile adjusted della Banca - ovvero al netto degli oneri straordinari - sale da 3,89 a 3,93 miliardi di dollari, battendo le stime degli analisti. I profitti per azione arrivano a 1,24 dollari, appena sotto gli 1,25 dollari registrati nel terzo trimestre 2013 e molto più degli 1,05 dollari attesi dal mercato.

"L'intesa annunciata oggi - ha commentato Michael Corbat, amministratore delegato della Banca - risolve tutte le indagini civili in corso legate alla sottoscrizione, strutturazione ed emissione di Rmbs e Cdo", rispettivamente i Residential mortgage-backed security, titoli garantiti da mutui residenziali, e le Collateralized debt obligation, pacchetti di prodotti derivati sempre garantiti dai subprime. "Riteniamo che questo accordo sia nel migliore interesse degli azionisti - ha chiosato l'ad - e che ci consenta di andare oltre, concentrandosi sul futuro e non sul passato".

Rimane da capire se l'intesa raggiunta sia anche "nel migliore interesse" dei cittadini americani truffati, molti dei quali con la crisi del 2008 hanno perso tutto e ancora oggi faticano davvero a "concentrarsi sul futuro", mentre le banche sono già da tempo tornate a macinare utili. Certo è che se un istituto accetta di pagare multe e risarcimenti, lo fa nella consapevolezza che la somma pattuita è largamente inferiore a quella che avrebbe meritato di sborsare (all'inizio Citigroup aveva offerto appena 363 milioni e il dipartimento di Giustizia aveva risposto chiedendo 12 miliardi). Il patteggiamento fa sempre comodo a chi è nel torto e non rende mai piena giustizia alle vittime, ma è solo questa la strada che l'amministrazione Obama ha deciso di percorrere per ripulire la macchia vergognosa dei subprime. Sembra che il Tribunale non sia un'opzione disponibile.  

Eppure il materiale non sarebbe mancato, visto che lo schema della truffa è noto ormai da anni. I piani da analizzare sono due. Il primo è quello della vita reale, in cui le banche americane spingevano i loro clienti a usare le case come bancomat, accendendo mutui immobiliari in serie.

A ogni prestito che ottenevano (bastava chiedere), i debitori estinguevano il mutuo precedente e, avendo ottenuto dagli istituti un importo superiore (perché nel frattempo il prezzo delle case era salito), intascavano la differenza. Appena i prezzi delle case hanno smesso di crescere, naturalmente, il giochino non ha più funzionato. Milioni di americani si sono ritrovati con debiti impossibili da ripagare e sono stati sfrattati.

Il secondo piano è quello assai più complicato della finanza. Mentre concedevano mutui a profusione, le banche emettevano titoli derivati garantiti proprio da quei prestiti e li vendevano con l'inganno: sapevano che prima o poi i subprime sarebbero scoppiati, ma facevano credere agli investitori che si trattasse di prodotti sicurissimi.

Il tutto con la complicità delle agenzie di rating, che, in un clamoroso conflitto d'interessi (perché erano pagate dalle banche stesse) assegnavano a quei derivati il giudizio d'affidabilità più alto, la famosa tripla A. In sostanza, si vendeva spazzatura come fosse oro.

Di fronte a colpe del genere, la giustizia americana ha fallito, sconfitta dall'ostruzionismo delle lobby. La maggior parte delle banche ha patteggiato sanzioni lontane anni luce dalla ricchezza bruciata per colpa della loro malafede (e parliamo di cifre anche tre volte superiori a quella concordata da Citigroup: dai 13 miliardi di JP Morgan ai 9,5 di Bank of America, che presto potrebbe accettare di versarne altri 12).

Quanto ai singoli responsabili, continuano a vivere nel loro mondo dorato. Un esempio su tutti è quello di Dick Fuld, ex presidente e Ceo di Lehman Brothers, la banca da cui è partito il crack, che si è messo in tasca fra il 2000 e il 2007 qualcosa come 457 milioni di dollari. Contro di lui non è mai stata nemmeno aperta un'azione penale.

di Carlo Musilli

Dopo mesi di annunci e rassicurazioni, ieri la Banca centrale europea ha dato il via libera alle nuove e tanto sospirate “misure non convenzionali” di politica monetaria. Il tasso di riferimento è calato dallo 0,25 allo 0,15%, nuovo minimo storico, mentre quello sui depositi è sceso per la prima volta sotto lo zero (-0,1%), il che renderà svantaggioso per le banche parcheggiare la propria liquidità nelle casse virtuali dell’Eurotower.

Il presidente Mario Draghi, che non ha escluso per il futuro un vero e proprio quantitative easing in stile Fed, ha poi annunciato un ulteriore pacchetto d’interventi: nuove ondate di prestiti in scadenza nel 2018 per il sistema bancario; stop alle operazioni settimanali con cui la Bce riassorbe la liquidità che ha creato comprando titoli di Stato durante la crisi del debito, pari a circa 165 miliardi di euro; lavoro preparatorio per l'acquisto di Abs (Asset backed securities, titoli cartolarizzati garantiti da crediti e mutui), ma soltanto di quelli “semplici, trasparenti e veri, cioè basati su prestiti reali e non derivati”.

Si tratta di misure ampiamente attese dai mercati (che ieri hanno festeggiato: Piazza Affari +1,5%, spread in calo a 163 punti base) e più volte sollecitate sia dal Fondo monetario internazionale sia dall’Ocse - con cui non sono mancate le scaramucce - ma fin qui rinviate dall’Eurotower per ragioni in primo luogo politiche. Cos’è cambiato nell’Eurozona rispetto ad aprile o a maggio? Assolutamente nulla, sennonché ormai le elezioni europee sono archiviate e nessuno può accusare la Bce di aver agito con un occhio alle urne.

Gli obiettivi fondamentali delle “misure non convenzionali” sono due. Il primo è sventare il pericolo deflazione, ovvero l’inflazione negativa, che si ha quando i prezzi non solo riducono il loro ritmo di crescita (in quel caso si parla di disinflazione), ma addirittura calano. Il taglio dei tassi d'interesse riduce il costo del denaro e aumenta la massa monetaria, il che dovrebbe produrre due risultati: limare la forza eccessiva dell’euro sul dollaro (anche per rendere più competitive le esportazioni) e appunto riaccendere l’inflazione.

Statuto alla mano, è proprio questo il primo obiettivo della Bce: vigilare sulla stabilità dei prezzi, puntando a un’inflazione media annua inferiore ma  vicina al 2%. Un obiettivo ora molto lontano, visto che proprio ieri lo stesso istituto centrale ha tagliato ulteriormente le previsioni sull’inflazione, portando le stime sul 2014 dall’1 allo 0,7%.

Il rischio è l’ingresso in una spirale deflattiva: la debolezza della domanda induce le imprese a ridurre i prezzi, fenomeno che a sua volta spinge consumatori e aziende a rinviare gli acquisti, nella speranza che in futuro i prezzi calino ancora. E così via, in un circolo di aspettative che si auto-avverano, con le imprese che progressivamente tagliano i costi e, nel peggiore dei casi, falliscono. Una situazione di questo tipo si è verificata in Giappone fra il 2000 e il 2006.

Il secondo obiettivo della Bce è allentare il credit crunch. Vanno in questa direzione i nuovi maxi-prestiti alle banche, che si differenziano profondamente dai due LTRO (Long-term refinancing operations) risalenti al dicembre 2011 e febbraio 2012. Il nuovo acronimo è TLTRO (Targeted longer-term refinancing operations), e quella T iniziale segnala un’innovazione decisiva: stavolta le banche otterranno la liquidità soltanto se finanzieranno l’economia reale.

In una prima fase gli istituti potranno prendere in prestito fino al 7% del totale dei loro impieghi verso il settore privato non finanziario, al netto dei prestiti per i mutui in circolazione al 30 aprile 2014. Saranno condotte due aste, a settembre e dicembre di quest'anno, per le quali è previsto un ammontare di circa 400 miliardi di euro. Dal marzo 2015 e al giugno 2016 le banche potranno richiedere altri finanziamenti trimestralmente fino a tre volte l'ammontare dei loro finanziamenti al settore privato non finanziario dell'Eurozona (sempre esclusi i mutui).

Nelle due precedenti operazioni LTRO non solo questo vincolo non esisteva, ma, poiché la Bce accettava come garanzia dalle banche i titoli di Stato dei Paesi Ue, agli istituti di credito era ufficialmente permesso speculare sulla differenza fra i tassi d’interesse irrisori pagati a Francoforte e quelli molto alti ottenuti dagli Stati sovrani. In sostanza, allora le banche usarono l’oceano di liquidità arrivato dall’Eurotower per fare trading e guadagnare, mentre alle famiglie e alle imprese arrivarono le briciole. Stavolta il trucco non dovrebbe funzionare.

di Carlo Musilli

"La Grecia vede finalmente la luce in fono al tunnel" e "nel 2015 crescerà più dell'Italia". Dette così, queste due frasi a effetto in circolazione da qualche giorno funzionano. Peccato che la prima sia falsa e la seconda - pur corretta in termini percentuali - non abbia alcun senso, perché il paragone in sé è un'assurdità. Purtroppo per i greci, le previsioni diffuse la settimana scorsa dal Fondo monetario internazionale hanno generato alcuni equivoci di portata rilevante.

Partiamo dai numeri. Secondo l'ultimo "World Economic Outlook" dell'Fmi, nel 2014 i Pil di Italia e Grecia cresceranno entrambi dello 0,6% (in tutta l'Eurozona faranno peggio solo Finlandia, Slovenia e Cipro), mentre l'anno prossimo Atene metterà a segno un balzo del 2,9%, contro l'anemico +1,1% del nostro Paese. A ben guardare, nel 2015 la crescita ellenica batterà anche quelle di Germania (+1,6%) e Francia (+1,5%), le due maggiori economie dell'area euro.

Com'è possibile? Gli economisti del Fondo monetario non sono impazziti, la vera follia è stilare una classifica sulla base di quei dati. Ciò che attende la Grecia è un semplice rimbalzo dopo la recessione ininterrotta degli ultimi sei anni. Dal 2008 a oggi Atene ha bruciato circa un quarto del proprio Pil, di gran lunga la contrazione più grave rispetto a quella accumulata in qualsiasi altro Paese di Eurolandia.

A fronte di quel baratro, il recupero dell'anno prossimo non sarà particolarmente significativo, perché quando si parla di percentuali è bene ricordare una piccola legge: se oggi perdo l'1% e domani guadagno l'1%, rimango comunque in rosso. Esempio pratico: se il mio capitale è 100 e perdo l'1%, resto con 99, perché l'1% di 100 è 1; quando poi recupero l'1%, il mio capitale non torna a 100, ma si ferma a 99,99, perché l'1% di 99 è 0,99. Può sembrare un'inezia, ma non lo è affatto se si applica questa logica ai numeri di un prodotto interno lordo.

Quanto ai valori assoluti, secondo i calcoli della Banca mondiale, nel 2012 il Pil pro capite dell’Italia è stato pari a 33.048,75 dollari, mentre quello della Grecia è arrivato a 22.082,89 dollari. Nello stesso anno, il Pil del nostro Paese valeva in tutto 2.013 miliardi di dollari, circa nove volte più di quello ellenico, che si fermava a 249,1 miliardi. E' evidente che stiamo parlando di grandezze incommensurabili e di andamenti economici molto differenti. Sbandierare il tasso di crescita che la Grecia porterà a casa nel 2015 è quindi un'operazione strumentale, pura propaganda.

Quel +2,9% aiuterà purtroppo a sedimentare la vulgata secondo cui Atene sta finalmente vedendo i frutti di un'austerità dura ma necessaria. Non è così, e lo certifica ancora una volta il Fondo monetario: sempre secondo i numeri riportati nel "World economic outlook",  il tasso di disoccupazione ellenico si attesterà al 26,3% nel 2014 e al 24,4% nel 2015, più del doppio di quello che si registrerà in Italia e addirittura cinque volte quello atteso in Germania.

Il debito pubblico, invece, a fine 2013 ha nuovamente superato il livello considerato insostenibile nel 2011, salendo al 173,8% del Pil, dal 170,3% del 2011, e l'Fmi prevede che quest'anno crescerà ancora, fino al 174,7%. Sono quindi già svaniti gli effetti della ristrutturazione decisa nel 2012, che aveva abbattuto il debito al 157,2% del Pil. La Grecia è anche il primo Paese dell'Eurozona ad essere entrato ufficialmente in deflazione, registrando a marzo una decrescita dei prezzi pari allo 0,2% su base annua.

Per quanto riguarda le reali condizioni delle persone, secondo un recente rapporto dell'Unicef la vita dei bambini nel Paese ellenico è peggiorata in seguito ai tagli alle prestazioni sociali e al numero crescente di genitori disoccupati, e ciò ha aumentato i livelli di povertà e reso insufficiente l'accesso alle cure mediche. Il numero di bambini che in Grecia erano a rischio povertà o di esclusione sociale nel 2012 è aumentato a 686.009 unità, ovvero il 35,4% del totale, rispetto al 30,4% del 2011. Inoltre è emerso che 292.000 bambini, cioè il 13,2% di tutti i minori in Grecia, vivono attualmente con genitori disoccupati. Nel 2008, prima della crisi, erano 88.000.

Nonostante la situazione resti drammatica, la settimana scorsa Atene è tornata per la prima volta in quattro anni sul mercato dei titoli di Stato. E il risultato è stato eccellente: sono stati collocati bond a cinque anni per tre miliardi di euro, ma la domanda da parte degli investitori ha raggiunto addirittura i 20 miliardi. I rendimenti medi si sono attestati al 4,95%, ben al di sotto delle previsioni, che indicavano una forbice tra il 5,25 e il 5,50%.

L'exploit non è però legato ad alcuna fantomatica ripresa, bensì all'attuale congiuntura del mercato: con i tassi della Bce al minimo storico dello 0,25% (e la prospettiva di ulteriori tagli), la liquidità abbonda e rendimenti alti come quelli sui titoli ellenici sono una tentazione irresistibile. Peraltro, ora che la malattia della recessione sta abbandonando l'Eurozona, nessuno scommette più sull'uscita della Grecia dall'euro.

Il vento è cambiato sui mercati finanziari, ma questo non significa affatto che i greci stiano meglio, o che abbiano delle reali prospettive di risollevarsi. Lo sa bene anche Angela Merkel, che la settimana scorsa ad Atene si è prodotta in un riuscitissimo esercizio d'ipocrisia. "Continueremo a sostenere la Grecia" che è "sulla strada giusta", ha detto la cancelliera, ribadendo poi "la necessità di proseguire sulla strada delle riforme per rafforzare la competitività del Paese", sviluppi necessari, "per aiutare la dinamica dell'Ue nei mercati internazionali".

Secondo Syriza, il principale partito greco di sinistra all'opposizione, "la visita della Merkel ad Atene puntava a premiare l'azione catastrofica del governo Samaras-Venizelos, a controllare che l'austerità continui, che le banche siano regalate ai grandi gruppi d'interesse, che la proprietà pubblica sia svenduta e che gli stipendi siano ridotti al livello di quelli bulgari".

La maggior parte dei greci considera la cancelliera responsabile dell'austerità che li ha colpiti (dal taglio di stipendi e pensioni all'aumento delle tasse, passando per decine di migliaia di licenziamenti nel settore pubblico) e un anno e mezzo fa la accolse mettendo a ferro e fuoco la propria capitale. Questa volta non si sono verificati episodi simili, ma solo perché la polizia aveva vietato tutte le dimostrazioni nel centro di Atene e i trasporti pubblici erano stati sospesi per l'intera giornata.

Grazie a questa interruzione della democrazia, la Merkel ha potuto confermare alla Germania che non ci saranno nuovi pacchetti di salvataggio per la Grecia e che un nuovo haircut sul debito ellenico è escluso. La cancelliera, lei sì, è davvero "sulla strada giusta". Perlomeno in vista delle elezioni europee.





Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy