di Carlo Musilli

Negli Stati Uniti lo sport preferito dai grandi banchieri è il patteggiamento. Dopo Bank of America, Citigroup, JP Morgan, Citibank, Wells Fargo e altri ancora, l'ennesimo colosso di Wall Street scende a patti con la giustizia di Washington. Si tratta di Goldman Sachs, che la settimana scorsa ha concordato con le autorità americane il pagamento di 1,2 miliardi di dollari. Come sempre, il caso è legato alla truffa del secolo, quella dei mutui subprime, che a partire dal 2007 ha ridotto sul lastrico milioni di americani, per poi trasformarsi nel detonatore della bomba che ha portato al collasso finanziario globale.

Goldman riacquisterà titoli per 3,15 miliardi di dollari da Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi del credito ipotecario Usa nazionalizzati durante la crisi. La differenza fra la cifra sborsata e l'attuale valore di mercato dei bond è appunto di 1,2 miliardi, una sanzione di gran lunga inferiore rispetto a quella recentemente patteggiata da Bank of America (16,5 miliardi di dollari), ma comunque una delle più alte mai pagate da Goldman nella sua storia ultracentenaria.

Per non dimenticare le colpe e la follia all'origine della grande crisi, vale la pena di riepilogare il meccanismo della truffa. In primo luogo, le banche statunitensi spingevano i loro clienti a usare le case come bancomat, accendendo mutui immobiliari in serie. I nuovi prestiti coprivano quelli precedenti ed essendo d'importo superiore (perché nel frattempo il prezzo delle case era salito) consentivano agli americani d'intascare la differenza. Il trucco suicida si è forzatamente interrotto non appena il prezzo delle case ha smesso di salire. A quel punto un'infinità di persone si è ritrovata con un mutuo impossibile da ripagare e ha dovuto lasciare la propria abitazione in mano alla banca.

Purtroppo non è finita. Mentre piazzavano i subprime ai piccoli clienti, infatti, gli istituti emettevano titoli derivati garantiti proprio da quei mutui. Questi prodotti finanziari complessi venivano poi smerciati con l'inganno: le banche sapevano di rifilare carta straccia (perché era evidente che i subprime non sarebbero mai stati coperti), ma facevano credere agli investitori che si trattasse di titoli incredibilmente convenienti.

L'ultima rotella del meccanismo erano le agenzie di rating, che - in palese conflitto d'interessi, essendo pagate dalle banche stesse - assegnavano a quei titoli la celebre tripla A, ovvero il massimo giudizio d'affidabilità.

A completare il disastro è stata la folle cupidigia degli istituti, che all'inizio rifilavano questi derivati a clienti esterni, poi hanno iniziato a scambiarseli fra loro. Il trading garantiva guadagni così alti che tutti hanno fatto finta di non vedere quanto il meccanismo fosse drogato. Quando il giocattolo dei mutui si è rotto, ovviamente, la bolla speculativa è esplosa.

Intossicate dai subprime, Fanie Mae e Freddie Mac (che non erogano prestiti, ma li comprano e li trasformano in prodotti finanziari, fornendo garanzie in caso di default dei mutui stessi) sono state salvate dai contribuenti americani con 187 miliardi di dollari, ma poi hanno ripagato il loro debito e sono tornate alla redditività.

Nel 2011 la Fhfa (Federal Housing Finance Agency) ha intentato causa contro 18 istituti che avevano venduto alle due agenzie titoli legati ai subprime per un totale di 196 miliardi di dollari. Da allora la giustizia americana non può certo dire di aver prevalso, poiché l'ostruzionismo delle lobby ha fatto in modo che quasi tutte le banche pagassero sanzioni lontanissime dalla ricchezza bruciata per colpa loro. E il club del patteggiamento continua a crescere.



di Carlo Musilli

Per non soffocare in Brasile, Telecom Italia vuole respirare aria francese. Secondo Valor Economico e la versione online de La Folha de S. Paulo, rispettivamente il principale quotidiano economico e il giornale più venduto del Paese sudamericano, la società italiana sarebbe pronta a cedere il 20% del proprio capitale a Vivendi, gruppo francese di tlc guidato da Vincent Bolloré. In cambio, Telecom vorrebbe mettere le mani su Global Village Telecom (Gvt), azienda brasiliana che fa capo proprio a Vivendi. 

Sarebbe questo il passaggio principale del piano messo a punto dalla squadra dell'ad Marco Patuano, che - stando alla ricostruzione del Sole 24 Ore - si dovrebbe articolare in tre tempi. Primo: massiccio (e difficoltoso) aumento di capitale di Tim Brasil, di cui Telecom ha il 67%. Secondo: integrazione di Tim Brasil e Gvt, che si fonderebbero in una nuova società controllata per il 50% da Telecom e per il 50% da Vivendi. Terzo: ingresso dei francesi nel capitale del gruppo italiano con una quota che - se sarà davvero del 20% - farà di Vivendi il nuovo socio di riferimento di Telecom.

Il progetto è stato concepito per rispondere all'affondo arrivato da Telefonica, che a inizio mese ha messo sul piatto una ghiotta offerta da 6,7 miliardi per Gvt. Il pagamento sarebbe effettuato per la gran parte in contanti (circa il 60%), ma anche con la cessione di azioni Vivo, la controllata brasiliana degli spagnoli che il colosso di Madrid vuole integrare con Gvt. Se l'offerta sarà accettata, Vivendi avrà anche l'opportunità di acquistare poco più dell'8% di Telecom Italia, di cui la stessa Telefonica è ancora primo socio (pur avendo ridotto dal 15 all’8,1% la propria presenza diretta nel capitale attraverso un bond convertibile in azioni).

Sempre secondo a La Folha de S. Paulo, l'offerta di Telecom avrebbe un valore complessivo di sette miliardi di euro: sarebbe quindi superiore in termini assoluti a quella degli spagnoli, ma non prevedrebbe alcun pagamento in contanti.

Gli italiani sono però convinti che Vivendi giudicherà più interessante la loro proposta per una serie di ragioni: primo, incontrerebbe il favore dell'autorità antitrust brasiliana, che in passato ha già manifestato la propria ostilità a un eccessivo rafforzamento di Telefonica; secondo, garantirebbe ai francesi un canale di distribuzione per i contenuti video e musicali da loro prodotti rispettivamente con Canal+ e Universal Music; terzo, fra gli azionisti di Telecom c'è Mediobanca, di cui Bolloré è vicepresidente e secondo socio con il 7,01% del capitale.

Patuano & Co. dovranno formalizzare l'offerta entro il 28 agosto (previa approvazione dei Cda di Tim Brasil e Telecom), data in cui il Consiglio d'amministrazione di Vivendi si riunirà per esaminare la proposta di Telefonica (che scade il 3 settembre, anche se è assai probabile che gli spagnoli non si arrenderanno senza rilanciare).

Da tutto ciò si potrebbe dedurre che Gvt sia un gioiellino invidiabile, ma non è così. Da sola non ha mai prodotto utili e oggi fa gola per ragioni strategiche, dal momento che - potendo contare su una scintillante rete in fibra ottica - è già posizionata più che bene sia sul mercato della banda larga sia su quello della pay tv. Insieme a Tim Brasil, attiva nel mobile, potrebbe creare un gruppo leader in grado di impensierire seriamente Vivo. Ecco spiegata l'opposizione di Telefonica. 

Se alla fine vinceranno gli spagnoli, si ridurranno drasticamente le prospettive di Tim Brasil, troppo piccola per sostenere la concorrenza di Telefonica-Gvt. Se invece saranno gli italiani a prevalere, l'alleanza Telecom-Vivendi potrebbe essere importata anche in Europa. L'ago della bilancia è in mano a Bolloré.



di Carlo Musilli

Dimenticate i derivati, i Cds e i mutui subprime. Quella è roba da dilettanti, troppo facile. Riuscite a immaginare quanto sia più complicato mettere in piedi una truffa milionaria commerciando in frullati e tisane? Qualcuno, a quanto pare, ci riesce. Stavolta nell’occhio del ciclone finanziario è finita Herbalife, società americana quotata a Wall Street, nota al mondo per gli integratori e le bevande dimagranti.

A onor del vero, non sono state emesse sentenze, quindi vale il principio della presunzione d’innocenza. Ma la vicenda è troppo originale per non suscitare attenzione. Tutto nasce da Pershing Square, un hedge fund che ha speso 50 milioni di dollari per pagare un’indagine investigativa privata con l’obiettivo di smascherare la (presunta) maxi-frode di Herbalife.

“Datemi retta… Quando vedrete quel che abbiamo raccolto vi renderete conto che sono stati soldi ben spesi”, ha assicurato il miliardario Bill Ackman, numero uno del fondo. La sua tesi è che il regno delle tisane sia costruito su uno schema di vendite piramidale proibito dalla legge.

In termini generali, questo tipo di marketing - vietato anche in Italia dal 2005 -  promette facili guadagni con bassi investimenti, senza richiedere alcuna qualifica o capacità particolare. In sostanza, le persone vengono indotte a pagare una somma generalmente irrisoria per entrare nella piramide commerciale: i soldi sono destinati a chi occupa i livelli superiori della gerarchia, mentre i neofiti sperano di rientrare dell’investimento (per poi iniziare a guadagnare) portando a loro volta nuovi adepti su cui incassare una percentuale. Chi è al vertice della piramide guadagna più degli altri e molto spesso si dilegua dopo aver messo da parete un discreto gruzzolo. 

Secondo Ackman, questo sarebbe più o meno il meccanismo creato da Herbalife, che conta su due milioni di distributori indipendenti, chiamati a reclutarne sempre di nuovi. In particolare - stando all'indagine - molte persone acquisterebbero i prodotti dell'azienda solo per essere poi abilitate ad aprire uno dei cosiddetti "nutrition club", nella (falsa) speranza di trarne profitto.

L'inchiesta, che prende in considerazione un campione di club aperti a New York, sostiene che queste attività subiscano delle perdite annue medie di 12mila dollari. La società stessa ammette che nel 2013 appena 7.300 persone sulle 409mila che compongono la rete di vendita sono riuscite a guadagnare più di 5mila dollari. Secondo Herbalife, però, la sproporzione si spiega col fatto che la grande maggioranza di loro punta solo a ottenere sconti sui prodotti, non a guadagnare.

Ackman non ci crede e ormai dà battaglia dal dicembre del 2012, anche se solo di recente - all'apice dell'enfasi - è arrivato a scommettere un miliardo di dollari contro i titoli in Borsa dei suoi suoi nemici giurati, accusandoli di aver ingannato i distributori, fornito dati falsi sulle vendite e gonfiato in modo smisurato il prezzo di prodotti di bassa qualità. Ora il materiale raccolto dall’hedge fund sarà messo a disposizione della polizia, ma alla fine dovranno pronunciarsi la Federal Trade Commission degli Stati Uniti, il Dipartimento di Giustizia, l'Fbi e almeno un paio di procuratori generali: tutte autorità che, a quanto si apprende, starebbero indagando su Herbalife.

Intanto, la società sotto accusa si difende, minaccia azioni legali e incassa una generosa ricompensa dai mercati azionari. Dopo le prime dichiarazioni di Ackman, la quotazione dell’azienda è crollata dell’11% a Wall Street, arrivando a perdere il 31% nel conto da inizio anno; subito dopo, tuttavia, le azioni hanno registrato un rimbalzo spettacolare, mettendo a segno il miglior rialzo di sempre in una sola seduta (+26%). E’ evidente che il mercato non ha creduto alla storia della frode. Ma questo - come insegnano i derivati, i Cds e i mutui subprime - significa davvero poco.

di Carlo Musilli

Jyrki Katainen non parla a nome dell'Europa, ma non è nemmeno uno sparuto e isolato commentatore. Da poco nominato commissario agli Affari economici e monetari dell'Ue, carica che ricoprirà pro tempore (ma con il rischio d'impiantarsi stabilmente da novembre), il simpatico falco della Finlandia ha iniziato il suo mandato sparando contro il nostro Paese: "La cosa più importante per l'Italia, che da anni si avvicina sempre di più all'abisso, è attuare le riforme promesse dagli ultimi governi", ha detto in un'intervista pubblicata ieri sul sito del quotidiano tedesco Die Welt.

Secondo Katainen, "il dibattito in corso è sbagliato", parlare di flessibilità è "pericoloso" e bisogna "evitare qualsiasi ipotesi sulla possibilità di trovare un modo di eludere" il Patto di stabilità. I due precedenti governi italiani "hanno varato importanti riforme - ha aggiunto il neocommissario - e l'attuale esecutivo ha obiettivi ambiziosi, ma sarebbe di aiuto se realizzasse ciò su cui ha trovato un accordo". Come a dire: lavorate per rispettare il Fiscal compact e smettetela di farci perdere tempo parlando di flessibilità delle regole.

Il governo italiano ha replicato per bocca di Sandro Gozi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'Ue: "Con tutto il rispetto per Katainen - ha detto -, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in Europa non lo dice il commissario pro tempore finlandese, ma il Consiglio dell'Unione, che ha parlato chiaro su crescita e flessibilità: di solo rigore l'Europa non campa".

Fonti di Palazzo Chigi hanno poi aggiunto che "l'Italia ha il massimo rispetto della Commissione, rispetta e rispetterà tutti gli accordi. Ma la linea della sola austerità non porta da nessuna parte. E non è la linea del consiglio europeo che ha licenziato un documento programmatico che parla di rigore e crescita e flessibilità insieme. Portiamo in Europa milioni di voti e miliardi di euro. Non siamo scolaretti indisciplinati, ciò che fa l'Italia - le riforme su cui siamo impegnati dal primo giorno - lo decide il popolo italiano, non certo il temporaneo commissario finlandese".

In effetti, il problema non è Katainen in sé - che un finlandese sputi sentenze ottusamente rigoriste non è una sorpresa per nessuno - ma lo stesso Consiglio europeo. Nel corso della loro riunione di fine giugno, è vero che i capi di Stato e di Governo hanno parlato di crescita e flessibilità - come ricorda Gozi - ma purtroppo lo hanno fatto in termini che piacciono più a Katainen che a noi. Nelle conclusioni del vertice si ribadisce l'impegno a rispettare il Fiscal Compact e di flessibilità si parla solo in termini assai vaghi, precisando però in modo chiarissimo che ogni deroga agli accordi sottoscritti è esclusa. I margini di manovra in questione sono quelli già contenuti nel Patto di Stabilità, dunque, per quanto positivi, non potranno mai rappresentare una vera svolta nella politica economica europea.

In particolare, l’ipotesi principale sul tavolo prevede di scorporare dal computo del deficit gli investimenti a sostegno dei progetti in regime di cofinanziamento con l’Unione europea. Una misura che andrebbe a vantaggio di tutti i Paesi (incluse Germania e Finlandia), non soltanto di quelli più in difficoltà, e che ancora non si capisce in che modo possa essere legata all'attuazione delle riforme strutturali.

Il quadro non è migliorato con l'Ecofin dello scorso 7 luglio, durante il quale i ministri delle Finanze dell'Unione non sono addivenuti ad alcuna definizione comune del concetto di flessibilità (su cui si tornerà a discutere soltanto dopo l'estate). Hanno invece ratificato le raccomandazioni sull'Italia elaborate a maggio dalla Commissione e poi irrigidite nel percorso verso l'approvazione definitiva. Nel testo, di fatto, si chiede una manovra correttiva - che il governo Renzi rifiuta categoricamente - rispedendo al mittente la richiesta di spostare al 2016 il termine per il pareggio di bilancio e avvicinando la possibilità di una procedura per debito eccessivo che da metà dell'anno prossimo rischia di azzerare la capacità di azione dell'Esecutivo di Roma.

Non è detto che questa prospettiva si realizzi, perché prima di aprire una procedura si potrebbe tener conto anche delle riforme e della crescita (su cui venerdì Bankitalia ha rivisto le stime, abbassando a +0,2% l'incremento del Pil previsto per quest'anno e alzando a +1,3% quello per il 2015). Ma anche se riuscissimo a scongiurare questa prospettiva, dal 2016 il Fiscal Compact ci imporrebbe comunque di ridurre di un ventesimo l'anno la quota di debito pubblico eccedente il 60% del Pil (oggi è oltre il 130%). Flessibilità per noi vorrà dire anche cercare di diluire nel tempo questo impegno quasi impossibile da sostenere. Nella speranza che, con il tempo, Katainen non diventi Cassandra.     

di Carlo Musilli

Il mostro dei mutui subprime genera l'ennesimo patteggiamento. Citigroup ammette le proprie colpe nella più grave truffa del nuovo millennio e per archiviare le accuse accetta di pagare sette miliardi di dollari in tutto: una multa da 4,5 (di cui quattro al dipartimento di Giustizia degli Usa e 0,5 alle altre autorità coinvolte), più altri 2,5 in rimborsi ai clienti.

Alla luce di questo accordo, il colosso bancario statunitense archivia il secondo trimestre con oneri straordinari per circa 3,8 miliardi di dollari, al lordo delle tasse. Fra aprile e giugno l'utile netto di Citigroup scende così del 96% su base annua, a quota 181 milioni. Tuttavia, l'utile adjusted della Banca - ovvero al netto degli oneri straordinari - sale da 3,89 a 3,93 miliardi di dollari, battendo le stime degli analisti. I profitti per azione arrivano a 1,24 dollari, appena sotto gli 1,25 dollari registrati nel terzo trimestre 2013 e molto più degli 1,05 dollari attesi dal mercato.

"L'intesa annunciata oggi - ha commentato Michael Corbat, amministratore delegato della Banca - risolve tutte le indagini civili in corso legate alla sottoscrizione, strutturazione ed emissione di Rmbs e Cdo", rispettivamente i Residential mortgage-backed security, titoli garantiti da mutui residenziali, e le Collateralized debt obligation, pacchetti di prodotti derivati sempre garantiti dai subprime. "Riteniamo che questo accordo sia nel migliore interesse degli azionisti - ha chiosato l'ad - e che ci consenta di andare oltre, concentrandosi sul futuro e non sul passato".

Rimane da capire se l'intesa raggiunta sia anche "nel migliore interesse" dei cittadini americani truffati, molti dei quali con la crisi del 2008 hanno perso tutto e ancora oggi faticano davvero a "concentrarsi sul futuro", mentre le banche sono già da tempo tornate a macinare utili. Certo è che se un istituto accetta di pagare multe e risarcimenti, lo fa nella consapevolezza che la somma pattuita è largamente inferiore a quella che avrebbe meritato di sborsare (all'inizio Citigroup aveva offerto appena 363 milioni e il dipartimento di Giustizia aveva risposto chiedendo 12 miliardi). Il patteggiamento fa sempre comodo a chi è nel torto e non rende mai piena giustizia alle vittime, ma è solo questa la strada che l'amministrazione Obama ha deciso di percorrere per ripulire la macchia vergognosa dei subprime. Sembra che il Tribunale non sia un'opzione disponibile.  

Eppure il materiale non sarebbe mancato, visto che lo schema della truffa è noto ormai da anni. I piani da analizzare sono due. Il primo è quello della vita reale, in cui le banche americane spingevano i loro clienti a usare le case come bancomat, accendendo mutui immobiliari in serie.

A ogni prestito che ottenevano (bastava chiedere), i debitori estinguevano il mutuo precedente e, avendo ottenuto dagli istituti un importo superiore (perché nel frattempo il prezzo delle case era salito), intascavano la differenza. Appena i prezzi delle case hanno smesso di crescere, naturalmente, il giochino non ha più funzionato. Milioni di americani si sono ritrovati con debiti impossibili da ripagare e sono stati sfrattati.

Il secondo piano è quello assai più complicato della finanza. Mentre concedevano mutui a profusione, le banche emettevano titoli derivati garantiti proprio da quei prestiti e li vendevano con l'inganno: sapevano che prima o poi i subprime sarebbero scoppiati, ma facevano credere agli investitori che si trattasse di prodotti sicurissimi.

Il tutto con la complicità delle agenzie di rating, che, in un clamoroso conflitto d'interessi (perché erano pagate dalle banche stesse) assegnavano a quei derivati il giudizio d'affidabilità più alto, la famosa tripla A. In sostanza, si vendeva spazzatura come fosse oro.

Di fronte a colpe del genere, la giustizia americana ha fallito, sconfitta dall'ostruzionismo delle lobby. La maggior parte delle banche ha patteggiato sanzioni lontane anni luce dalla ricchezza bruciata per colpa della loro malafede (e parliamo di cifre anche tre volte superiori a quella concordata da Citigroup: dai 13 miliardi di JP Morgan ai 9,5 di Bank of America, che presto potrebbe accettare di versarne altri 12).

Quanto ai singoli responsabili, continuano a vivere nel loro mondo dorato. Un esempio su tutti è quello di Dick Fuld, ex presidente e Ceo di Lehman Brothers, la banca da cui è partito il crack, che si è messo in tasca fra il 2000 e il 2007 qualcosa come 457 milioni di dollari. Contro di lui non è mai stata nemmeno aperta un'azione penale.


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