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di Carlo Musilli
Sulla scacchiera del petrolio, in quest'ultima parte dell'anno, le strategie dei giocatori si fanno più scoperte. Le quotazioni sono calate di circa il 40% in meno di sei mesi, con il Brent che la settimana scorsa è sceso per la prima volta in cinque anni sotto li muro dei 60 dollari al barile, salvo poi risalire leggermente.
Il crollo è dovuto al combinato composto di due fattori: la flessione della domanda globale (a dicembre l'Agenzia internazionale dell'Energia ha tagliato le stime per la quarta volta in cinque mesi) e la mancata reazione dell'Opec, che ha deciso di non ridurre la produzione, mantenendola a 30 milioni di barili al giorno.
Nel corso di un forum sull'energia ad Abu Dhabi, il ministro del Petrolio saudita, Ali al-Naimi, ha confermato che Riyadh non toccherà gli attuali livelli di produzione anche se i Paesi non Opec decideranno di diminuirla: "Se vogliono tagliarla sono i benvenuti - ha detto -, ma certamente l'Arabia Saudita non lo farà", pur essendo "al 100% insoddisfatta" dell'attuale costo del petrolio. Affermazioni apparentemente contraddittorie, che però rispondono a una logica precisa.
In effetti, il Brent sotto i 90 dollari al barile causerà un deficit di bilancio nelle casse saudite, ma è un prezzo che Riyadh pagherà volentieri in vista di obiettivi superiori. A grandi linee, il disegno è fare in modo che l'Opec danneggi i Paesi produttori estranei al cartello, colpendo direttamente i concorrenti più pericolosi (Usa e Canada) e i principali alleati della Siria di Assad (Russia e Iran), oltre a uno scomodo rivale come il Venezuela.
Sul primo fronte, il calo delle quotazioni del petrolio punta a ridurre la convenienza economica del fracking, la tecnica di estrazione di petrolio e gas tramite la fratturazione della roccia che ha permesso agli Usa di ridurre la dipendenza dall’energia estera e che presto potrebbe trasformarli in un esportatore netto (di gas). Sul ritorno economico del fracking i pareri sono discordanti: secondo Bernstein Research, un terzo della produzione non sarebbe conveniente con il prezzo del Wti di sotto di 80 dollari al barile (oggi è a 57), mentre Morgan Stanley stima che il punto di pareggio sia a circa 77 dollari al barile. Goldman Sachs e Credit Suisse ritengono invece che per i grandi giacimenti i profitti sarebbero assicurati anche al di sotto dei 60 dollari.
D'altra parte, alla Casa Bianca non dispiacciono affatto gli altri obiettivi del piano saudita, a cominciare dagli effetti sull'Iran. Più scende il prezzo del petrolio, infatti, e meno conveniente diventa il programma nucleare di Teheran, che è stato concepito anche per conservare petrolio e gas da vendere sui mercati internazionali.
Sempre dal punto di vista di Washington, però, la conseguenza più importante del tonfo petrolifero è il durissimo colpo inferto alla Russia, nemica anche dei sauditi in quanto alleato del regime di Damasco ed esportatrice di energia in Europa. Insieme alle rinnovate sanzioni economiche per la crisi ucraina e al rallentamento generale dell'economia, il calo del greggio ha innescato una serie di pesanti attacchi speculativi contro il rublo (il cui valore si è praticamente dimezzato) e potrebbe traghettare Mosca verso almeno un paio d'anni di recessione.Infine, il calo dei prezzi del petrolio ha almeno un altro effetto gradito agli Usa, ovvero lo schiaffo al chavismo in Venezuela. Secondo un report di Moody's, il Paese sudamericano rischierebbe la bancarotta se le quotazioni del greggio si stabilizzassero intorno a quota 60 dollari al barile. Le esportazioni venezuelane dipendono per il 96,1% dal petrolio, che garantisce anche il 65% delle entrate statali. E non è un caso che gli avvoltoi della speculazione abbiano puntato il mirino proprio su Caracas, portando i rendimenti dei titoli pubblici decennali alle soglie del 24% e lo spread con il Bund addirittura oltre il 2.300 punti base.
Quanto all'Italia, il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha ripetuto più volte che il petrolio a 60 dollari "potrebbe essere una buona notizia", perché garantirebbe al nostro Paese uno "0,5% di crescita in più". Intanto, però, ci pensa il Fisco a fare in modo che i consumi non traggano il massimo vantaggio dal calo delle quotazioni.
Secondo stime dell'Unione petrolifera pubblicate la settimana scorsa, il prezzo del greggio è tornato sui livelli del novembre 2010, ma rispetto ad allora la benzina costa circa 27 centesimi in più (23 dovuti alle tasse e quattro all'effetto cambio), mentre il gasolio è più caro di 33 centesimi (28 per le accise e cinque per il cambio). Inoltre, nuovi aumenti fiscali sono previsti fino al 2021 da diverse clausole di salvaguardia contenute in vari provvedimenti legislativi. E pensare che oggi, al netto dei rincari sulle accise, in Italia la benzina costerebbe meno di 1,4 euro al litro e il gasolio meno di 1,2. Prezzi del genere, però, nel nostro Paese sono destinati a rimanere un miraggio. Nemmeno fossimo nel deserto saudita.
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di Antonio Rei
Tra le varie favole che si raccontano sull'economia italiana, ce n'è una che fa più danni delle altre. L'ultima istituzione a raccontarla è stata l'agenzia di rating Standard & Poors', che sabato ha aggiunto un meno alla valutazione sul merito di credito del nostro Paese, perché "un forte aumento del debito, accompagnato da una crescita perennemente debole e dalla bassa competitività, non è compatibile con un rating BBB".
Sui primi due punti nessuno può dare torto a S&P. Il terzo, invece, è una fandonia che ormai sentiamo raccontare da tempo immemore. Non è affatto vero che la competitività italiana sui mercati internazionali sia bassa: i numeri ufficiali smentiscono questa tesi ormai cristallizzata nell'opinione comune.
Secondo i dati diffusi dall'Istat lo scorso 17 novembre, nei primi nove mesi del 2014 il saldo commerciale dell'Italia fuori dall'Unione europea - ovvero la differenza fra esportazioni e importazioni - è stato positivo per 28,2 miliardi di euro, in miglioramento rispetto al surplus da 19 miliardi registrato nello stesso periodo del 2013. Inoltre, se non consideriamo il commercio di energia, che pesa moltissimo sull'import, il risultato s'impenna di oltre il 100%, arrivando a quota 61,7 miliardi. Tra gennaio e settembre 2014, in generale, l'export è salito dell'1,4%, mentre l'import è sceso dell'1,9%. In tutto il 2013, infine, il saldo è stato positivo per 29,230 miliardi.
In un report successivo, pubblicato il 24 novembre, l'Istituto di statistica ha comunicato che - secondo le stime preliminari - lo scorso ottobre l'avanzo commerciale extra Ue è stato pari a 4,038 miliardi (contro il surplus di 2,805 miliardi dell'ottobre 2014), il livello più alto dal gennaio del 1993. Al netto dei prodotti energetici il dato sale a 6,8 miliardi, con esportazioni e importazioni in crescita rispettivamente dell'1,6 e del 7,5%. I mercati di sbocco più dinamici sono stati Turchia (+13,1%), Stati Uniti (+9,8%) e Cina (+4,8%).
Ora, nessuno vuole dipingere un quadro assurdamente ottimistico della congiuntura attraversata dall'Italia, ma è inevitabile porsi una domanda: in che modo si conciliano i calcoli dell'Istat con la vulgata della "bassa competitività"? Risposta: in alcun modo. Si può pensare che surplus così ampi siano stati prodotti dal progressivo crollo delle importazioni, ma i numeri smentiscono anche questa interpretazione.
Al contrario, la verità è che sui mercati internazionali, specie quelli globalmente più ricettivi, le aziende italiane continuano a dar prova non solo di resistenza, ma perfino di dinamismo. Da questo punto di vista alcuni comparti del Made in Italy hanno un che di eroico, considerando che nei mesi scorsi la forza dell'euro sul dollaro ha rappresentato un ostacolo non da poco alle esportazioni.Ma allora perché tanta enfasi nel raccontare la fiaba della "bassa competitività"? Viene da pensare che l'obiettivo principale dei cantastorie sia glissare sulla vera natura dei problemi che affliggono il nostro sistema produttivo. E cioè che la crisi attuale e la stagnazione del prossimo futuro hanno tutt'altra origine: la debolezza della domanda interna.
I consumi degli italiani, quelli sì, sono crollati nel baratro. Stando a una ricerca pubblicata la settimana scorsa da Confcommercio, nel 2014 si sono attestati allo stesso livello del 1997. Rispetto al picco del 2007 sono stati erosi circa duemila euro a testa di spesa, per un calo complessivo del 12%. L'allarme dell'associazione riguarda anche il reddito reale pro-capite, che nel 2013-2014 sarebbe tornato addirittura ai livelli del 1986, perdendo circa 2.700 euro negli ultimi sette anni.
Purtroppo, in quasi tutti gli allarmi lanciati da Bruxelles, dai centri studi delle banche e dalle agenzie di rating la parola "consumi" si legge solo nei paragrafi secondari. Questa faccia del problema non è mai segnalata come una delle priorità da affrontare: è piuttosto vista come una conseguenza lineare dell'alto tasso di disoccupazione, che a sua volta viene giudicato un danno collaterale accettabile pur di non mettere in discussione i vincoli di bilancio. Di rilanciare la domanda interna con una politica di (vero) sostegno ai redditi, non si parla nemmeno.
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di Carlo Musilli
Da quando la cura dell'austerità si è abbattuta sulla Grecia, ciclicamente, sull'economia ellenica si raccontano verità stiracchiate, piegando i numeri alle ragioni della convenienza politica. Il fenomeno si ripete più o meno ogni volta che i Paesi dell'Eurozona pubblicano i dati trimestrali sul prodotto interno lordo e si rafforza man mano che l'anno volge al termine, permettendo di tirare le somme con un margine d'errore minimo sull'andamento dei 12 mesi.
L'ultima volta è accaduto alla fine della scorsa settimana, quando Atene ha fatto sapere che il Pil greco del terzo trimestre è cresciuto dello 0,7% (la variazione migliore fra quelle di tutti i membri dell'area euro), dopo il +0,8 e il +0,3% registrati rispettivamente nel primo e nel secondo trimestre. Su base annua, invece, il Pil greco è salito dell'1,4% fra luglio e settembre e, secondo le ultime previsioni, nell'intero 2014 il Paese dovrebbe mettere a segno una crescita dello 0,6%.
Questi dati certificano che - dopo sei anni di contrazione - la Grecia è uscita ufficialmente dalla recessione più lunga della storia moderna. A livello tecnico si tratta di un'affermazione indiscutibile. I problemi iniziano quando si stilano classifiche sulla base di questi dati. Sempre nel terzo trimestre, infatti, Germania e Francia hanno fatto segnare una crescita congiunturale più debole rispetto a quella di Atene, rispettivamente dello 0,1 e dello 0,3% (con Berlino che ha evitato per un soffio la recessione tecnica dopo il -0,1% del periodo aprile-giugno), mentre l'Italia ha continuato a viaggiare in territorio negativo, incassando una flessione del Pil pari allo 0,1% rispetto al trimestre precedente e apprestandosi a chiudere l'anno con un rosso dello 0,3%.
Alla luce di questi numeri, si è tentati di dipingere la performance ellenica come una sorta di rivincita nei confronti delle principali potenze economiche europee, se non addirittura come una prova che la cura da cavallo imposta dalla Troika, alla fine, si è rivelata efficace. Bisogna però ricordare che fra il 2008 e il 2013 la Grecia ha lasciato per strada il 24% del proprio Pil, di gran lunga la contrazione più grave rispetto a quella accumulata in qualsiasi altro Paese di Eurolandia.
Negli stessi anni i consumi sono sprofondati del 26% e gli investimenti si sono ridotti di quasi due terzi. Non solo: secondo un rapporto dei ricercatori delle Università di Cambridge, Oxford e Londra pubblicato a inizio anno dalla rivista medica britannica The Lancet, in Grecia la mortalità infantile nei primi mesi di vita dei bambini è aumentata del 43% a seguito dei tagli alla spesa pubblica e al dimezzamento del bilancio della Sanità imposti da Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. Non è un caso che, in più di un'occasione, lo stesso Fmi abbia ha riconosciuto la gravità degli errori commessi in Grecia.Ora, davanti a statistiche di questo tipo, è davvero il caso di festeggiare per un +0,7% nel terzo trimestre? Le condizioni di vita nel Paese restano lontane anni luce dai livelli pre-crisi, ma a qualcuno basta che i conti pubblici siano considerati in ordine (anche se il debito pubblico toccherà quest'anno il picco del 177% del Pil) e Atene abbia raggiunto il primo surplus primario di bilancio da decenni.
In questo scenario, il governo del conservatore Antonis Samaras punta raccogliere nove miliardi di euro nel 2015 direttamente sul mercato dei capitali, uscendo dal programma di assistenza dell'Fmi entro la fine del 2014, in anticipo rispetto alla tabella di marcia, che prevedeva la conclusione degli aiuti nel 2016 (il programma di sostegno targato Ue terminerà invece a fine anno).
Ma perché mai tanta fretta? La spiegazione più verosimile è politica: Samaras vuole liberarsi del Fondo monetario per interrompere le visite della Troika, riguadagnare consensi e affrontare più serenamente le prossime sfide. A febbraio, infatti, sarà costretto a trovare una maggioranza di 180 deputati per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica e un'eventuale crisi potrebbe rendere inevitabili le elezioni anticipate. Un rischio che i conservatori non sono disposti a correre in questo momento, visto che in testa ai sondaggi c'è Syriza, partito di sinistra alternativa guidato da Alexis Tsipras.
Se poi le previsioni finanziarie del governo si rivelassero errate e la Grecia non fosse in grado di ottenere fiducia e soldi dal mercato, niente paura, perché l'Esm (European Stability Mechanism) ha già assicurato che accompagnerà l'uscita dai programmi di aiuti con linee di credito precauzionali da attivare nel caso in cui il Paese "avesse bisogno di maggiori fondi". Samaras dirà quindi addio alla Troika, ma non agli aiuti internazionali.
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di Carlo Musilli
Il cervello che guida la politica economica europea manifesta i sintomi di un disturbo dissociativo. Fino a un paio di anni fa la Troika parlava con una sola voce, mentre ora sembra affetta da personalità multipla: Bruxelles continua a indicare il rigore dei conti come unica strada praticabile, mentre il Fondo Monetario Internazionale non smette di chiedere scusa per aver sostenuto in passato la politica europea dell'austerità.
Fra i due estremi s'inserisce la Bce di Mario Draghi, che esorta i Paesi dell'Unione a rispettare il Patto di Stabilità, ma intanto prepara il Quantitative easing all'europea, la più grande inondazione di liquidità che i nostri mercati abbiano mai conosciuto.
Queste tre voci hanno dato vita la settimana scorsa a un coro stonato. "Non possiamo cambiare le regole durante il gioco, possiamo solo usare la flessibilità esistente nel Patto: il suo rispetto è cruciale per l'Eurozona", ha detto giovedì Jeroen Dijsselbloem, presidente dell'Eurogruppo, commentando la proposta renziana di scorporare alcuni investimenti dal calcolo del deficit. Si tratta di un'idea lanciata a suo tempo da Mario Monti, l'ultima persona che si può tacciare di antieuropeismo, eppure non incontra il favore di Bruxelles.
A questo punto è un mistero quale sia la "flessibilità esistente nel patto" evocata da Dijsselbloem. Di sicuro non ha a che vedere nemmeno con i tempi d'attuazione, visto che Italia e Francia continuano ad essere sul banco degli imputati per aver fatto slittare il conseguimento degli obiettivi di bilancio.
Su questo punto il nuovo Commissario agli affari economici, Pierre Moscovici, avverte che l'assenza di bocciature "non vuol dire che la storia sia finita", perché la Commissione sta valutando se chiedere "altri sforzi ad alcuni Stati". La posizione del socialista francese è forse il simbolo più eclatante della dissociazione europea, visto che proprio lui - quando era ministro dell'Economia nel suo Paese - ha contribuito più di ogni altro a far deviare i conti della Francia dalla rotta imposta da Bruxelles.
Piazzato in Commissione dal Pse nella speranza che ammorbidisse l'impostazione rigorista dell'Ue, Moscovici è stato sottomesso da Jean Claude Juncker al potere di veto del falco Jyrki Katainen - nuovo vicepresidente dell'Esecutivo comunitario - e ora non può far altro che adeguarsi. "Non possiamo esagerare con la creatività", ha detto a proposito dello scorporo degli investimenti.
E' chiaro perciò che dall'Unione europea non arriverà alcuna svolta in tema di politica economica: saranno forse possibili alcune concessioni, e il piano Juncker per 300 miliardi d'investimenti produrrà qualche risultato, ma non quello shock sistemico e strutturale di cui l'Ue avrebbe bisogno.
Al contrario, nell'approccio del Fondo monetario internazionale qualcosa è cambiato davvero. Dopo i vari mea culpa per la macelleria socio-economica inflitta alla Grecia, martedì scorso l'Fmi ha allargato il raggio dell'autocritica, definendo "prematuro" il richiamo del 2010-2011 a ri-orientare verso austerità le politiche di bilancio. In un documento del suo Indipendent evaluation office, il Fondo ammette che le misure imposte ai Paesi europei in crisi "non si sono rivelate pienamente efficaci nel sostenere la ripresa e al tempo stesso hanno esacerbato le ricadute negative". Insomma, l'Fmi si è reso conto che imporre a un Paese in recessione di concentrarsi sul taglio di deficit e debito equivale a salvare un uomo in mare gettandogli un'ancora invece di un salvagente. Purtroppo l'illuminazione è arrivata tardi, e negli ultimi anni la possibilità di mettere in campo misure espansive è stata concessa soltanto alla Bce, che ha salvato le banche, ma non è riuscita a trasmettere risorse sufficienti all'economia reale.
L'Eurotwer però non si arrende e prepara nuove mosse. Sempre giovedì scorso, Draghi ha annunciato che il Consiglio direttivo "ha dato mandato allo staff della Bce di preparare ulteriori misure" che potrebbero risultare necessarie per contrastare la bassa inflazione. Parole che sono state lette come un chiaro riferimento a un Quantitative easing in stile Fed, ovvero un programma per l'acquisto generalizzato di titoli privati e pubblici da parte dell'istituto centrale.
Questa mossa - sollecitata a più riprese sia dall'Fmi sia dall'Ocse - si somma ai diversi interventi già varati: il taglio dei tassi d'interesse al minimo storico dello 0,05%, le aste Tltro per fornire liquidità a buon mercato alle banche (che sono obbligate a usarla per finanziare l'economia reale) e i piani per l'acquisto di titoli Abs e di obbligazioni garantite (covered bond).
L'Europa arriverà così al paradosso di avere una politica monetaria comune ultra-espansiva, mentre i singoli parlamenti nazionali - nel rispetto del Patto di Stabilità - continueranno a produrre manovre finanziarie votate (nel migliore dei casi) alla stagnazione.
Rientra in questa categoria anche l'ultima legge di Stabilità italiana, dal momento che, secondo le ultime simulazioni dell'Istat, "nel 2015 e nel 2016 la crescita economica reale beneficerà in modo marginale delle manovre espansive, rimanendo sostanzialmente invariata rispetto al quadro tendenziale". Sempre che, nel frattempo, le personalità multiple non siano aumentate.
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di Michele Paris
Per la terza volta in sei anni, la Federal Reserve americana ha annunciato questa settimana la fine del proprio programma di acquisto di titoli azionari legati ai mutui e di bond del Tesoro, comunemente denominato “quantitative easing” (QE). Il programma è servito in sostanza a iniettare migliaia di miliardi di dollari nel sistema finanziario d’oltreoceano e si è accompagnato al mantenimento dei tassi di interesse attorno allo zero, cosa che la Fed ha assicurato di voler continuare anche nel prossimo futuro.
La decisione senza precedenti di intraprendere la strada del QE era stata adottata dall’ex governatore della Fed, Ben Bernanke, dopo che sul finire del 2008 la crisi finanziaria da poco esplosa aveva gettato i vertici politici e finanziari americani nella disperazione. Senza altri strumenti a disposizione per influenzare il corso degli eventi, una volta azzerati i tassi di interesse, Bernanke aveva avviato il discusso programma di acquisto per sostenere i mercati, garantendo agli istituti finanziari la possibilità di scaricare sulla Fed i propri “asset” senza valore.
La terza e fin qui ultima fase del “quantitative easing” o QE3 era iniziata nel settembre del 2012 con l’acquisto di titoli legati ai mutui per 40 miliardi di dollari ogni singolo mese. Tre mesi più tardi, la Banca Centrale USA avrebbe poi aggiunto altri 45 miliardi mensili per acquistare bond del Tesoro. Il graduale abbandono del QE, o “tapering”, era iniziato nel gennaio di quest’anno, in coincidenza con l’addio alla Fed di Bernanke. Al poso di quest’ultimo, il presidente Obama avrebbe scelto la sua vice, Janet Yellen, la quale ha seguito diligentemente i piani del suo predecessore.
I titoli nel portafoglio della Fed hanno così raggiunto cifre da capogiro, essendo passati da meno di mille miliardi all’inizio del programma ai quasi 4,5 mila miliardi odierni, pari a oltre un quarto del PIL degli Stati Uniti. Vista l’esposizione della Fed, in caso di esplosione di una nuova crisi finanziaria, le prospettive in termini di tenuta del sistema appaiono dunque preoccupanti.
La chiusura del rubinetto erogante denaro stampato dalla Fed per drogare i mercati non ha causato il panico in borsa come qualcuno prevedeva. Ciò è dovuto principalmente al fatto che Janet Yellen e i governatori dei distaccamenti regionali della Fed hanno deciso di mantenere i tassi di interesse vicini allo zero fino a quando il livello di inflazione negli USA tornerà ad avvicinarsi al 2%. In questo modo, banche e investitori continueranno ad avere accesso al denaro a costo zero per proseguire con le proprie operazioni speculative.
Inoltre, la Fed non intende disfarsi a breve dei titoli che ha in portafoglio, ma inizierà a farlo gradualmente sempre in concomitanza con il rialzo del livello di inflazione e dei tassi di interesse, secondo gli analisti non prima della metà del 2015.
Il giorno dopo l’annuncio della Fed, i giornali americani si sono interrogati sull’utilità del “quantitative easing” e sulla corrispondenza alla realtà del paese del contenuto delle dichiarazioni ufficiali diffuse per motivare lo stop al programma di acquisto titoli.Il comunicato formale della Fed è in effetti un concentrato di cinismo e tentativi di dipingere un quadro economico decisamente più roseo di quello reale. In particolare, le dichiarazioni rilasciate mercoledì sottolineano sia il “sostanziale miglioramento delle prospettive per il mercato del lavoro” sia la “forza dell’economia in generale”, tale da favorire “l’avanzamento verso il livello massimo di occupazione in un contesto di stabilità dei prezzi”.
La pretesa che la massiccia infusione di denaro sui mercati finanziari abbia portato a un miglioramento dei livelli occupazionali o delle condizioni economiche della maggior parte della popolazione americana è semplicemente assurda.
L’enorme quantità di denaro stampato dalla Fed - a fronte della continua richiesta di sacrifici a lavoratori e classe media a causa della presunta mancanza di risorse per finanziare la spesa pubblica - ha infatti finito per beneficiare pressoché esclusivamente la speculazione finanziaria, arricchendo gli investitori e senza indurre riflessi significativi sull’economia reale.
Come ha ricordato giovedì il New York Times, il QE della Fed americana ha alimentato una delle strisce più lunghe di aumenti degli indici di borsa nella storia degli Stati Uniti. A partire dal primo round, inaugurato nel novembre 2008, l’indice Standard & Poor’s 500 è salito ad esempio del 131%, mentre dall’avvio del QE3 due anni fa l’impennata è stata di oltre il 42%.
Questa corsa al rialzo ha permesso a quei soggetti in grado di beneficiare dell’andamento positivo delle borse di arricchirsi in maniera spropositata, come conferma il quasi raddoppiamento dal 2009 a oggi dei beni nelle mani dei 400 americani più facoltosi, i quali detengono un totale di 2,9 mila miliardi di dollari.
Complessivamente, la Fed americana e le altre banche centrali nel corso della crisi hanno iniettato nei mercati finanziari una cifra stimata tra i settemila e i diecimila miliardi di dollari, confermando come il “quantitative easing” sia uno dei principali strumenti del trasferimento di ricchezza verso il vertice della piramide sociale messo in atto dalle classe dirigenti dei vari paesi.
La Fed, poi, ha citato la riduzione del numero dei senza lavoro negli Stati Uniti per dimostrare l’efficacia del QE. Se il tasso di disoccupazione è nominalmente sceso dall’8,1% alla vigilia dell’inizio della terza fase del “quantitative easing” nell’agosto del 2012 all’attuale 5,9%, ciò è dovuto in larga misura, come ha dovuto ammettere giovedì anche il Wall Street Journal, all’abbandono del mercato del lavoro da parte di un numero crescente di senza lavoro che non vengono così più conteggiati tra i disoccupati.
Gli impieghi creati, inoltre, risultano oggi in gran parte molto meno pagati e più precari rispetto a quelli svaniti durante la crisi, così come il denaro della Fed, infine, non ha promosso quasi per nulla investimenti produttivi, bensì attività speculative.
Nel consiglio dei governatori della Banca Centrale USA, alla decisione di interrompere il QE3 si è opposto soltanto il numero uno della Fed di Minneapolis, Narayana Kocherlakota, secondo il quale il programma di acquisto di titoli avrebbe dovuto proseguire fino a quando l’inflazione non fosse aumentata in maniera più sostenuta.La Fed ha comunque fatto sapere di essere pronta a riprendere il QE nel caso la situazione dell’economia dovesse nuovamente volgere al peggio, ritornando così sui propri passi come aveva già fatto dopo l’annuncio della fine dei primi due round del programma.
Se, come già ricordato, lo stop al QE3 non ha provocato scossoni in Borsa, in molti prevedono invece gravi turbolenze nel momento in cui la Fed deciderà di far salire i tassi di interesse, visto che l’eliminazione dell’ultima stampella della Fed costringerà l’economia USA a camminare sulle proprie gambe, probabilmente senza esserne in grado.
Anche se appoggiate dapprima dall’amministrazione Bush e successivamente da quella Obama, le iniziative della Fed sono viste con apprensione da molti all’interno della classe dirigente americana, soprattutto per i timori che esse abbiano contribuito alla formazione di una bolla che potrebbe esplodere in maniera ancora più rovinosa di quella dei sub-prime.
Ciononostante, i vertici politici e finanziari negli Stati Uniti come in Europa e in Asia sono da tempo a corto di ricette alternative per soccorrere un sistema capitalistico in crisi strutturale. Perciò, in concomitanza con l’abbandono del “quantitative easing” da parte della Fed, questo stesso programma di sovvenzionamento della speculazione continua a essere implementato dalla Banca Centrale del Giappone ed è stato da poco inaugurato, sia pure per il momento in una versione ridotta, dalla BCE di Mario Draghi.