di Michele Paris

Secondo un recente rapporto compilato dall’agenzia di stampa americana Bloomberg, la ricchezza complessiva dei 400 uomini più facoltosi del pianeta è cresciuta di quasi 100 miliardi di dollari nel solo 2014, mentre è poco meno che raddoppiata dall’inizio della crisi economica globale nel 2008. I dati, riportati dall’annuale "Bloomberg Billionaires Index", dimostrano dunque ancora una volta che concetti come recessione, disoccupazione, precarietà o povertà dilagante in questi anni non hanno mai riguardato il ristretto vertice della piramide sociale.

Per costoro, al contrario, la crisi del capitalismo internazionale è stata un’occasione storica per incrementare in maniera sensibile la ricchezza accumulata a spese della grande maggioranza della popolazione.

Ciò che mette in evidenza la ricerca è poi il fatto che questa esplosione dei livelli di ricchezza è stata in sostanza determinata non dalle libere forze del mercato, bensì dalle politiche stesse dei governi e delle banche centrali dei vari paesi, impegnati nell’immettere quantità di denaro senza precedenti nel sistema finanziario.

Secondo l’Indice di Bloomberg, dunque, i beni dei 400 super-ricchi sono saliti di 92 miliardi di dollari lo scorso anno, raggiungendo un totale sbalorditivo di 4.100 miliardi. Questa cifra risulta ad esempio superiore al prodotto interno lordo della Germania, cioè la quarta economia del pianeta, e corrisponde a poco meno della metà di quello della Cina, la seconda economia del pianeta e un paese di oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti.

In media, la ricchezza di ogni singolo individuo appartenente all’elenco è aumentata di 240 milioni di dollari nel 2014 ma un’analisi per ognuno di essi mostra notevoli differenze. L’investitore americano Warren Buffett, accreditato da Bloomberg della seconda posizione tra i paperoni del pianeta, ha visto crescere i propri “asset” di ben 13,7 miliardi di dollari in quella che per lui è stata senza dubbio un’annata alquanto fruttuosa.

La ricchezza totale detenuta da Buffett è assestata ora - o meglio al momento della compilazione dell’Indice - a 74,5 miliardi di dollari, ovvero poco più della ricchezza totale prodotta nel 2013 da un intero paese come la Libia.

Il modello di business che ha consentito a Buffett di competere per le prime posizioni della classifica degli uomini più ricchi del mondo corrisponde in sostanza all’acquisizione di aziende che producono profitti da record grazie al taglio senza scrupoli dei costi e del personale.

Ancor più, come già ricordato, sono state le politiche di “quantitative easing” delle varie banche centrali ad alimentare le impennate degli indici di borsa e le ricchezze di investitori/speculatori, dietro l’apparenza di strategie presentate come necessarie per stimolare la crescita economica.

La ricchezza dei 400 uomini più ricchi del pianeta è così direttamente legata ai picchi toccati dalle borse, da quella americana a quella giapponese o cinese. Il Dow Jones di Wall Street, ad esempio, ha sfondato per la prima volta i 18 mila punti alla fine dell’anno, più che triplicando il livello raggiunto nel marzo del 2009.

Tra gli altri protagonisti del Bloomberg Index spiccano i businessmen cinesi. Due dei tre miliardari che hanno guadagnato di più nel 2014 vengono appunto dalla Cina. Il primo è Jack Ma, CEO di Alibaba Group, il quale ha raccolto 25,1 miliardi in seguito all’offerta pubblica di azioni della sua compagnia di e-commerce.

L’altro è Wang Jianlin di Dalia Wanda, un gruppo operante in vari settori tra cui quello edilizio e del turismo, che ha visto crescere i propri beni di oltre 12 miliardi di dollari in un solo anno.

Gli americani sono in ogni caso ben rappresentati, con Mark Zuckerberg di Facebook che ha fatto segnare +10,6 miliardi di dollari nel 2014 per un totale di beni a sua disposizione pari a 35,3 miliardi, ma anche il solito Bill Gates (+9,1 miliardi; totale 87,6 miliardi) e Larry Ellison di Oracle (+5,7 miliardi; totale 49,4 miliardi).

In definitiva, a differenza del periodo di crescita della ricchezza seguito al secondo dopoguerra, quello attuale è sostanzialmente di natura parassitaria e quasi del tutto svincolato dall’impulso all’attività produttiva, così che non si riflette in nessun miglioramento generale degli standard di vita della popolazione. Anzi, l’economia reale continua a declinare o tutt’al più a rimanere stagnante, mentre montagne di denaro sono sottratte agli investimenti.

Al rapido arricchimento di pochi grazie alla crisi e alle politiche messe in atto dai governi corrisponde l’impoverimento di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, come confermano numerose indagini sui livelli scandalosi di disuguaglianza raggiunti un po’ ovunque.

Mentre nel pianeta il numero di disoccupati ha toccato per la prima volta i 200 milioni e 860 milioni di persone vivono in povertà, un recente studio dell’OCSE ha messo in luce come oggi il 10% della popolazione più ricca guadagna in media 9,5 volte di più del 10% dei più poveri. Il rapporto tra le entrate del vertice e quelle della base della piramide sociale era pari a 7 a 1 negli anni Ottanta.

Tra i 34 paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico le differenze sono però marcate. Se per paesi come l’Italia, il Giappone o la Gran Bretagna questo rapporto è di 10 a 1, la forbice si allarga per Grecia, Israele o Stati Uniti (tra 13 e 16 a 1) per raggiungere livelli vicini addirittura a 30 a 1 nei casi di Messico e Cile.

di Carlo Musilli

Sulla scacchiera del petrolio, in quest'ultima parte dell'anno, le strategie dei giocatori si fanno più scoperte. Le quotazioni sono calate di circa il 40% in meno di sei mesi, con il Brent che la settimana scorsa è sceso per la prima volta in cinque anni sotto li muro dei 60 dollari al barile, salvo poi risalire leggermente.

Il crollo è dovuto al combinato composto di due fattori: la flessione della domanda globale (a dicembre l'Agenzia internazionale dell'Energia ha tagliato le stime per la quarta volta in cinque mesi) e la mancata reazione dell'Opec, che ha deciso di non ridurre la produzione, mantenendola a 30 milioni di barili al giorno.

Nel corso di un forum sull'energia ad Abu Dhabi, il ministro del Petrolio saudita, Ali al-Naimi, ha confermato che Riyadh non toccherà gli attuali livelli di produzione anche se i Paesi non Opec decideranno di diminuirla: "Se vogliono tagliarla sono i benvenuti - ha detto -, ma certamente l'Arabia Saudita non lo farà", pur essendo "al 100% insoddisfatta" dell'attuale costo del petrolio. Affermazioni apparentemente contraddittorie, che però rispondono a una logica precisa.

In effetti, il Brent sotto i 90 dollari al barile causerà un deficit di bilancio nelle casse saudite, ma è un prezzo che Riyadh pagherà volentieri in vista di obiettivi superiori. A grandi linee, il disegno è fare in modo che l'Opec danneggi i Paesi produttori estranei al cartello, colpendo direttamente i concorrenti più pericolosi (Usa e Canada) e i principali alleati della Siria di Assad (Russia e Iran), oltre a uno scomodo rivale come il Venezuela.

Sul primo fronte, il calo delle quotazioni del petrolio punta a ridurre la convenienza economica del fracking, la tecnica di estrazione di petrolio e gas tramite la fratturazione della roccia che ha permesso agli Usa di ridurre la dipendenza dall’energia estera e che presto potrebbe trasformarli in un esportatore netto (di gas). Sul ritorno economico del fracking i pareri sono discordanti: secondo Bernstein Research, un terzo della produzione non sarebbe conveniente con il prezzo del Wti di sotto di 80 dollari al barile (oggi è a 57), mentre Morgan Stanley stima che il punto di pareggio sia a circa 77 dollari al barile. Goldman Sachs e Credit Suisse ritengono invece che per i grandi giacimenti i profitti sarebbero assicurati anche al di sotto dei 60 dollari.

D'altra parte, alla Casa Bianca non dispiacciono affatto gli altri obiettivi del piano saudita, a cominciare dagli effetti sull'Iran. Più scende il prezzo del petrolio, infatti, e meno conveniente diventa il programma nucleare di Teheran, che è stato concepito anche per conservare petrolio e gas da vendere sui mercati internazionali.

Sempre dal punto di vista di Washington, però, la conseguenza più importante del tonfo petrolifero è il durissimo colpo inferto alla Russia, nemica anche dei sauditi in quanto alleato del regime di Damasco ed esportatrice di energia in Europa. Insieme alle rinnovate sanzioni economiche per la crisi ucraina e al rallentamento generale dell'economia, il calo del greggio ha innescato una serie di pesanti attacchi speculativi contro il rublo (il cui valore si è praticamente dimezzato) e potrebbe traghettare Mosca verso almeno un paio d'anni di recessione.

Infine, il calo dei prezzi del petrolio ha almeno un altro effetto gradito agli Usa, ovvero lo schiaffo al chavismo in Venezuela. Secondo un report di Moody's, il Paese sudamericano rischierebbe la bancarotta se le quotazioni del greggio si stabilizzassero intorno a quota 60 dollari al barile. Le esportazioni venezuelane dipendono per il 96,1% dal petrolio, che garantisce anche il 65% delle entrate statali. E non è un caso che gli avvoltoi della speculazione abbiano puntato il mirino proprio su Caracas, portando i rendimenti dei titoli pubblici decennali alle soglie del 24% e lo spread con il Bund addirittura oltre il 2.300 punti base.

Quanto all'Italia, il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha ripetuto più volte che il petrolio a 60 dollari "potrebbe essere una buona notizia", perché garantirebbe al nostro Paese uno "0,5% di crescita in più". Intanto, però, ci pensa il Fisco a fare in modo che i consumi non traggano il massimo vantaggio dal calo delle quotazioni.

Secondo stime dell'Unione petrolifera pubblicate la settimana scorsa, il prezzo del greggio è tornato sui livelli del novembre 2010, ma rispetto ad allora la benzina costa circa 27 centesimi in più (23 dovuti alle tasse e quattro all'effetto cambio), mentre il gasolio è più caro di 33 centesimi (28 per le accise e cinque per il cambio). Inoltre, nuovi aumenti fiscali sono previsti fino al 2021 da diverse clausole di salvaguardia contenute in vari provvedimenti legislativi. E pensare che oggi, al netto dei rincari sulle accise, in Italia la benzina costerebbe meno di 1,4 euro al litro e il gasolio meno di 1,2. Prezzi del genere, però, nel nostro Paese sono destinati a rimanere un miraggio. Nemmeno fossimo nel deserto saudita.

di Antonio Rei

Tra le varie favole che si raccontano sull'economia italiana, ce n'è una che fa più danni delle altre. L'ultima istituzione a raccontarla è stata l'agenzia di rating Standard & Poors', che sabato ha aggiunto un meno alla valutazione sul merito di credito del nostro Paese, perché "un forte aumento del debito, accompagnato da una crescita perennemente debole e dalla bassa competitività, non è compatibile con un rating BBB".

Sui primi due punti nessuno può dare torto a S&P. Il terzo, invece, è una fandonia che ormai sentiamo raccontare da tempo immemore. Non è affatto vero che la competitività italiana sui mercati internazionali sia bassa: i numeri ufficiali smentiscono questa tesi ormai cristallizzata nell'opinione comune.

Secondo i dati diffusi dall'Istat lo scorso 17 novembre, nei primi nove mesi del 2014 il saldo commerciale dell'Italia fuori dall'Unione europea - ovvero la differenza fra esportazioni e importazioni - è stato positivo per 28,2 miliardi di euro, in miglioramento rispetto al surplus da 19 miliardi registrato nello stesso periodo del 2013. Inoltre, se non consideriamo il commercio di energia, che pesa moltissimo sull'import, il risultato s'impenna di oltre il 100%, arrivando a quota 61,7 miliardi. Tra gennaio e settembre 2014, in generale, l'export è salito dell'1,4%, mentre l'import è sceso dell'1,9%. In tutto il 2013, infine, il saldo è stato positivo per 29,230 miliardi.

In un report successivo, pubblicato il 24 novembre, l'Istituto di statistica ha comunicato che - secondo le stime preliminari - lo scorso ottobre l'avanzo commerciale extra Ue è stato pari a 4,038 miliardi (contro il surplus di 2,805 miliardi dell'ottobre 2014), il livello più alto dal gennaio del 1993. Al netto dei prodotti energetici il dato sale a 6,8 miliardi, con esportazioni e importazioni in crescita rispettivamente dell'1,6 e del 7,5%. I mercati di sbocco più dinamici sono stati Turchia (+13,1%), Stati Uniti (+9,8%) e Cina (+4,8%).

Ora, nessuno vuole dipingere un quadro assurdamente ottimistico della congiuntura attraversata dall'Italia, ma è inevitabile porsi una domanda: in che modo si conciliano i calcoli dell'Istat con la vulgata della "bassa competitività"? Risposta: in alcun modo. Si può pensare che surplus così ampi siano stati prodotti dal progressivo crollo delle importazioni, ma i numeri smentiscono anche questa interpretazione.

Al contrario, la verità è che sui mercati internazionali, specie quelli globalmente più ricettivi, le aziende italiane continuano a dar prova non solo di resistenza, ma perfino di dinamismo. Da questo punto di vista alcuni comparti del Made in Italy hanno un che di eroico, considerando che nei mesi scorsi la forza dell'euro sul dollaro ha rappresentato un ostacolo non da poco alle esportazioni.

Ma allora perché tanta enfasi nel raccontare la fiaba della "bassa competitività"? Viene da pensare che l'obiettivo principale dei cantastorie sia glissare sulla vera natura dei problemi che affliggono il nostro sistema produttivo. E cioè che la crisi attuale e la stagnazione del prossimo futuro hanno tutt'altra origine: la debolezza della domanda interna.

I consumi degli italiani, quelli sì, sono crollati nel baratro. Stando a una ricerca pubblicata la settimana scorsa da Confcommercio, nel 2014 si sono attestati allo stesso livello del 1997. Rispetto al picco del 2007 sono stati erosi circa duemila euro a testa di spesa, per un calo complessivo del 12%. L'allarme dell'associazione riguarda anche il reddito reale pro-capite, che nel 2013-2014 sarebbe tornato addirittura ai livelli del 1986, perdendo circa 2.700 euro negli ultimi sette anni.

Purtroppo, in quasi tutti gli allarmi lanciati da Bruxelles, dai centri studi delle banche e dalle agenzie di rating la parola "consumi" si legge solo nei paragrafi secondari. Questa faccia del problema non è mai segnalata come una delle priorità da affrontare: è piuttosto vista come una conseguenza lineare dell'alto tasso di disoccupazione, che a sua volta viene giudicato un danno collaterale accettabile pur di non mettere in discussione i vincoli di bilancio. Di rilanciare la domanda interna con una politica di (vero) sostegno ai redditi, non si parla nemmeno.

di Carlo Musilli

Da quando la cura dell'austerità si è abbattuta sulla Grecia, ciclicamente, sull'economia ellenica si raccontano verità stiracchiate, piegando i numeri alle ragioni della convenienza politica. Il fenomeno si ripete più o meno ogni volta che i Paesi dell'Eurozona pubblicano i dati trimestrali sul prodotto interno lordo e si rafforza man mano che l'anno volge al termine, permettendo di tirare le somme con un margine d'errore minimo sull'andamento dei 12 mesi.

L'ultima volta è accaduto alla fine della scorsa settimana, quando Atene ha fatto sapere che il Pil greco del terzo trimestre è cresciuto dello 0,7% (la variazione migliore fra quelle di tutti i membri dell'area euro), dopo il +0,8 e il +0,3% registrati rispettivamente nel primo e nel secondo trimestre. Su base annua, invece, il Pil greco è salito dell'1,4% fra luglio e settembre e, secondo le ultime previsioni, nell'intero 2014 il Paese dovrebbe mettere a segno una crescita dello 0,6%.

Questi dati certificano che - dopo sei anni di contrazione - la Grecia è uscita ufficialmente dalla recessione più lunga della storia moderna. A livello tecnico si tratta di un'affermazione indiscutibile. I problemi iniziano quando si stilano classifiche sulla base di questi dati. Sempre nel terzo trimestre, infatti, Germania e Francia hanno fatto segnare una crescita congiunturale più debole rispetto a quella di Atene, rispettivamente dello 0,1 e dello 0,3% (con Berlino che ha evitato per un soffio la recessione tecnica dopo il -0,1% del periodo aprile-giugno), mentre l'Italia ha continuato a viaggiare in territorio negativo, incassando una flessione del Pil pari allo 0,1% rispetto al trimestre precedente e apprestandosi a chiudere l'anno con un rosso dello 0,3%.

Alla luce di questi numeri, si è tentati di dipingere la performance ellenica come una sorta di rivincita nei confronti delle principali potenze economiche europee, se non addirittura come una prova che la cura da cavallo imposta dalla Troika, alla fine, si è rivelata efficace. Bisogna però ricordare che fra il 2008 e il 2013 la Grecia ha lasciato per strada il 24% del proprio Pil, di gran lunga la contrazione più grave rispetto a quella accumulata in qualsiasi altro Paese di Eurolandia.

Negli stessi anni i consumi sono sprofondati del 26% e gli investimenti si sono ridotti di quasi due terzi. Non solo: secondo un rapporto dei ricercatori delle Università di Cambridge, Oxford e Londra pubblicato a inizio anno dalla rivista medica britannica The Lancet, in Grecia la mortalità infantile nei primi mesi di vita dei bambini è aumentata del 43% a seguito dei tagli alla spesa pubblica e al dimezzamento del bilancio della Sanità imposti da Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. Non è un caso che, in più di un'occasione, lo stesso Fmi abbia ha riconosciuto la gravità degli errori commessi in Grecia.

Ora, davanti a statistiche di questo tipo, è davvero il caso di festeggiare per un +0,7% nel terzo trimestre? Le condizioni di vita nel Paese restano lontane anni luce dai livelli pre-crisi, ma a qualcuno basta che i conti pubblici siano considerati in ordine (anche se il debito pubblico toccherà quest'anno il picco del 177% del Pil) e Atene abbia raggiunto il primo surplus primario di bilancio da decenni.

In questo scenario, il governo del conservatore Antonis Samaras punta raccogliere nove miliardi di euro nel 2015 direttamente sul mercato dei capitali, uscendo dal programma di assistenza dell'Fmi entro la fine del 2014, in anticipo rispetto alla tabella di marcia, che prevedeva la conclusione degli aiuti nel 2016 (il programma di sostegno targato Ue terminerà invece a fine anno).

Ma perché mai tanta fretta? La spiegazione più verosimile è politica: Samaras vuole liberarsi del Fondo monetario per interrompere le visite della Troika, riguadagnare consensi e affrontare più serenamente le prossime sfide. A febbraio, infatti, sarà costretto a trovare una maggioranza di 180 deputati per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica e un'eventuale crisi potrebbe rendere inevitabili le elezioni anticipate. Un rischio che i conservatori non sono disposti a correre in questo momento, visto che in testa ai sondaggi c'è Syriza, partito di sinistra alternativa guidato da Alexis Tsipras.

Se poi le previsioni finanziarie del governo si rivelassero errate e la Grecia non fosse in grado di ottenere fiducia e soldi dal mercato, niente paura, perché l'Esm (European Stability Mechanism) ha già assicurato che accompagnerà l'uscita dai programmi di aiuti con linee di credito precauzionali da attivare nel caso in cui il Paese "avesse bisogno di maggiori fondi". Samaras dirà quindi addio alla Troika, ma non agli aiuti internazionali.

di Carlo Musilli

Il cervello che guida la politica economica europea manifesta i sintomi di un disturbo dissociativo. Fino a un paio di anni fa la Troika parlava con una sola voce, mentre ora sembra affetta da personalità multipla: Bruxelles continua a indicare il rigore dei conti come unica strada praticabile, mentre il Fondo Monetario Internazionale non smette di chiedere scusa per aver sostenuto in passato la politica europea dell'austerità.

Fra i due estremi s'inserisce la Bce di Mario Draghi, che esorta i Paesi dell'Unione a rispettare il Patto di Stabilità, ma intanto prepara il Quantitative easing all'europea, la più grande inondazione di liquidità che i nostri mercati abbiano mai conosciuto.

Queste tre voci hanno dato vita la settimana scorsa a un coro stonato. "Non possiamo cambiare le regole durante il gioco, possiamo solo usare la flessibilità esistente nel Patto: il suo rispetto è cruciale per l'Eurozona", ha detto giovedì Jeroen Dijsselbloem, presidente dell'Eurogruppo, commentando la proposta renziana di scorporare alcuni investimenti dal calcolo del deficit. Si tratta di un'idea lanciata a suo tempo da Mario Monti, l'ultima persona che si può tacciare di antieuropeismo, eppure non incontra il favore di Bruxelles.

A questo punto è un mistero quale sia la "flessibilità esistente nel patto" evocata da Dijsselbloem. Di sicuro non ha a che vedere nemmeno con i tempi d'attuazione, visto che Italia e Francia continuano ad essere sul banco degli imputati per aver fatto slittare il conseguimento degli obiettivi di bilancio.

Su questo punto il nuovo Commissario agli affari economici, Pierre Moscovici, avverte che l'assenza di bocciature "non vuol dire che la storia sia finita", perché la Commissione sta valutando se chiedere "altri sforzi ad alcuni Stati". La posizione del socialista francese è forse il simbolo più eclatante della dissociazione europea, visto che proprio lui - quando era ministro dell'Economia nel suo Paese - ha contribuito più di ogni altro a far deviare i conti della Francia dalla rotta imposta da Bruxelles.

Piazzato in Commissione dal Pse nella speranza che ammorbidisse l'impostazione rigorista dell'Ue, Moscovici è stato sottomesso da Jean Claude Juncker al potere di veto del falco Jyrki Katainen - nuovo vicepresidente dell'Esecutivo comunitario - e ora non può far altro che adeguarsi. "Non possiamo esagerare con la creatività", ha detto a proposito dello scorporo degli investimenti.

E' chiaro perciò che dall'Unione europea non arriverà alcuna svolta in tema di politica economica: saranno forse possibili alcune concessioni, e il piano Juncker per 300 miliardi d'investimenti produrrà qualche risultato, ma non quello shock sistemico e strutturale di cui l'Ue avrebbe bisogno.

Al contrario, nell'approccio del Fondo monetario internazionale qualcosa è cambiato davvero. Dopo i vari mea culpa per la macelleria socio-economica inflitta alla Grecia, martedì scorso l'Fmi ha allargato il raggio dell'autocritica, definendo "prematuro" il richiamo del 2010-2011 a ri-orientare verso austerità le politiche di bilancio. In un documento del suo Indipendent evaluation office, il Fondo ammette che le misure imposte ai Paesi europei in crisi "non si sono rivelate pienamente efficaci nel sostenere la ripresa e al tempo stesso hanno esacerbato le ricadute negative".

Insomma, l'Fmi si è reso conto che imporre a un Paese in recessione di concentrarsi sul taglio di deficit e debito equivale a salvare un uomo in mare gettandogli un'ancora invece di un salvagente. Purtroppo l'illuminazione è arrivata tardi, e negli ultimi anni la possibilità di mettere in campo misure espansive è stata concessa soltanto alla Bce, che ha salvato le banche, ma non è riuscita a trasmettere risorse sufficienti all'economia reale.

L'Eurotwer però non si arrende e prepara nuove mosse. Sempre giovedì scorso, Draghi ha annunciato che il Consiglio direttivo "ha dato mandato allo staff della Bce di preparare ulteriori misure" che potrebbero risultare necessarie per contrastare la bassa inflazione. Parole che sono state lette come un chiaro riferimento a un Quantitative easing in stile Fed, ovvero un programma per l'acquisto generalizzato di titoli privati e pubblici da parte dell'istituto centrale.

Questa mossa - sollecitata a più riprese sia dall'Fmi sia dall'Ocse - si somma ai diversi interventi già varati: il taglio dei tassi d'interesse al minimo storico dello 0,05%, le aste Tltro per fornire liquidità a buon mercato alle banche (che sono obbligate a usarla per finanziare l'economia reale) e i piani per l'acquisto di titoli Abs e di obbligazioni garantite (covered bond).

L'Europa arriverà così al paradosso di avere una politica monetaria comune ultra-espansiva, mentre i singoli parlamenti nazionali - nel rispetto del Patto di Stabilità - continueranno a produrre manovre finanziarie votate (nel migliore dei casi) alla stagnazione.

Rientra in questa categoria anche l'ultima legge di Stabilità italiana, dal momento che, secondo le ultime simulazioni dell'Istat, "nel 2015 e nel 2016 la crescita economica reale beneficerà in modo marginale delle manovre espansive, rimanendo sostanzialmente invariata rispetto al quadro tendenziale". Sempre che, nel frattempo, le personalità multiple non siano aumentate.


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