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di Carlo Musilli
Se l'unico fine è il massimo profitto ad ogni costo, il risultato non può che essere l'ingiustizia sociale unita al degrado ambientale. Non serve essere cattolici per dare ragione a Papa Francesco su questa tesi, uno dei fondamenti dell'enciclica “Laudato si'” (il titolo richiama la celebre anafora del Cantico delle Creature di San Francesco ed è in volgare umbro del Duecento anziché in latino, il che la dice lunga sulla discontinuità che intende marcare).
Secondo il Pontefice, la crisi ecologica e quella sociale vanno di pari passo e continuano a essere alimentate per sostenere gli irragionevoli modelli di consumo delle minoranze al comando. Vale la pena di soffermarci su ciò che questo significa in termini finanziari. Bergoglio ha scritto che il "salvataggio a ogni costo delle banche è stato fatto pagare alla popolazione".
Qualche anima candida ricorda che, in realtà, salvare le banche si è rivelato un grande affare, perché i singoli Stati ci hanno guadagnato: in Gran Bretagna i salvataggi bancari hanno fruttato 14,3 miliardi di sterline, negli Usa 15,3 miliardi di dollari, in Irlanda un miliardo. Chi si limita a considerare questi numeri per bacchettare Bergoglio, tuttavia, fa la figura di quello che guarda il dito invece del cielo.
Gli interessi che le banche hanno doverosamente pagato sui prestiti (ricevuti nel momento più nero della crisi che loro stesse avevano provocato) non giustificano in alcun modo l'iniquità e la perversione del sistema generale. Una stortura di fondo che, malgrado i disastri degli ultimi anni, non è ancora stata corretta: al contrario, il turboliberismo - dopo aver dimostrato a ripetizione il proprio insuccesso storico - ci viene propinato ancora come panacea dei mali prodotti nel suo stesso nome.
L'ultima crisi, quella del 2008, è nata dalla finanza e ha affossato l'economia reale, eppure a pagarla sono stati i cittadini, secondo uno schema ormai rodato che prevede la privatizzazione degli utili e la socializzazione delle perdite. Ora i responsabili (le banche) sono tornati a produrre ricchi utili e possono permettersi di restituire senza sforzo i prestiti con gli interessi; le vittime invece, ovvero i contribuenti, subiscono ancora la beffa suprema dell'austerità, per di più presentata come medicina necessaria a ridare fiducia ai mercati.
Il tutto mentre i mercati stessi continuano a essere inondati di liquidità dalle banche centrali, ma, invece di restituire il favore a imprese e famiglie, speculano ancora sui listini come hanno sempre fatto, gonfiando la prossima bolla.
"Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale - scrive Bergoglio - e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale. La finanza soffoca l'economia reale. Il mercato, da solo, non garantisce lo sviluppo umano integrale e l'inclusione sociale". E' difficile immaginare parole più ostili al turboliberismo di matrice reaganiana-tatcheriana.
Ma, in effetti, cos'è cambiato per i giganti del capitalismo rispetto ai decenni passati? I trader continuano a ricevere premi smodati quando vincono le scommesse, ma non rischiano praticamente nulla in caso l'azzardo vada male. Le agenzie di rating, dal canto loro, continuano a lavorare nel più lampante conflitto d'interessi, prendendo soldi dagli stessi soggetti che in teoria dovrebbero giudicare. Nessun governo, nemmeno l'amministrazione Obama, è riuscito a varare una singola legge che fosse in grado di limitare in modo significativo lo strapotere delle lobby finanziarie.
Il discorso di Bergoglio però non si limita alla pars destruens e arriva a proporre una strada di rinascita abbracciando i fondamenti su cui poggiano varie teorie della decrescita. "E' arrivata l'ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo - si legge ancora in “Laudato si'” - procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti. Sappiamo che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria dignità umana. Nessuno vuole tornare all'epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo e recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane".
Secondo Bergoglio, "le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia. Potremmo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti e sporcizia". A leggere queste parole, come grottesco controcanto, tornano alla mente quelle pronunciate da Charles Prince, ex presidente di Citigroup, il 10 luglio 2007: “Quando la musica si fermerà - disse -, in termini di liquidità, le cose diverranno complicate. Ma finché la musica suona, bisogna alzarsi e ballare. Per il momento, continuiamo a ballare”.
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di Carlo Musilli
Inizia oggi il mese della verità per la Grecia. Tra il 5 e il 19 giugno Atene deve rimborsare al Fondo monetario internazionale 1,6 miliardi di euro in quattro rate. Per riuscirci ha bisogno degli aiuti da 7,2 miliardi concordati a febbraio con Ue, Bce e Fmi (l'ex Troika, ora ribattezzata "Brussels Group") e poi congelati per il mancato accordo sulle riforme fra il governo di Syriza e i creditori.
Sabato si è concluso con l'ennesimo nulla di fatto il vertice ad Atene tra l'esecutivo ellenico e le controparti internazionali. Oggi, giorno festivo in Grecia per la Pentecoste, potrebbe andare in scena un’altra teleconferenza fra il premier greco Alexis Tsipras, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande.
La settimana scorsa Yanis Varoufakis, ministro delle Finanze greco, ha ricordato che, "secondo l'accordo del 20 febbraio tra Atene e i Paesi creditori, il piano di aiuti è stato prorogato fino al 30 giugno, quindi bisognerà raggiungere un accordo entro quella data". Ormai però ogni ulteriore giorno di ritardo aggrava le prospettive per il futuro della Grecia, al punto che - durante il G7 di Dresda - anche il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Jack Lew, ha chiesto alle parti di trovare al più presto un "accordo generale" e di "lasciarsi un po' di tempo per lavorare sui dettagli prima che arrivi la scadenza", perché "aspettare fino a uno o due giorni prima è un modo per andare incontro all'incidente". Ovvero alla bancarotta, se non addirittura all'uscita della Grecia dall'euro.
Per allontanare scenari simili, nei giorni scorsi il ministro greco degli Interni Nikos Voutsis - una settimana dopo aver ammesso che Atene non ha il denaro per onorare i suoi debiti con il Fmi - ha comunicato la disponibilità del Paese a posticipare "di sei mesi, o forse di un anno, alcune parti del programma anti-austerità" tanto detestato a Bruxelles e a Berlino, lo stesso grazie al quale Syriza ha vinto le elezioni dello scorso gennaio.
Intanto, Varoufakis ha ribadito di avere un piano per consentire alla Grecia di tornare a finanziarsi sul mercato. L'obiettivo è ottenere un prestito trentennale a bassi interessi dal Meccanismo Europeo di Stabilità (Esm) e usare quelle risorse per ripagare il debito pubblico greco attualmente in mano alla Bce, in una logica di sostituzione. Il resto del debito dovrebbe poi essere ristrutturato, probabilmente attraverso un riscadenziamento. La "priorità", ha detto Varoufakis, è una "combinazione di ristrutturazione del debito, investimenti e riforme che superino la pratica disumana di tagliare pensioni, sovvenzioni e stipendi".
Proprio il sistema previdenziale è uno dei punti su cui si discute più animatamente: "Il negoziato continua - ha detto il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, in un'intervista a Bloomberg tv a margine del G7 -, abbiamo fatto passi avanti, ma c'è ancora da lavorare su una serie di riforme, inclusa quella delle pensioni. E' chiaro che rimane poco tempo e la liquidità della Grecia si asta esaurendo". Altre spaccature difficili da sanare riguardano le richieste dei creditori al governo greco di alzare l'Iva e di fare marcia indietro sulla riassunzione dei dipendenti pubblici.
Queste misure fanno parte della ricetta d'austerità che il Brussels Group vuole ancora imporre ad Atene in cambio degli aiuti per evitare il default (e l'eventuale Grexit).
Proprio contro questa politica si è espresso in termini quasi brutali il premio Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz: "L'austerity sta uccidendo l'Europa - ha detto la settimana scorsa dal Festival di Trento - perché blocca la crescita economica e aumenta le disuguaglianze", che dipendono anche "dalle politiche monetarie: il mandato della Bce, teso a contenere l'inflazione e figlio di una teoria economica superata dai tempi, ha portato la disoccupazione europea al 12%, il doppio di quella degli Usa", mentre il quantitative easing "spinge i listini azionari e dunque ancora una volta favorisce i più ricchi. Se non cambiamo da ora siamo destinati a perpetuare le disuguaglianze anche nelle prossime generazioni".
Sulla stessa linea Thomas Piketty, autore de Il capitale nel XXI secolo. Sempre dal palco di Trento, l'economista Francese ha ricordato come "alla fine della Seconda guerra mondiale, la Germania e la Francia avessero accumulato un enorme debito pubblico, qualcosa come il 200% del Pil: scelsero semplicemente di non pagarlo, d'accordo con i governi Alleati, e di adottare politiche inflazionistiche. È surreale che oggi quegli stessi Paesi pretendano dalla Grecia il pagamento fino all'ultimo centesimo, perpetuandone le sofferenze sociali. In Italia, per esempio, dove già si pagano più tasse di quanto ritorni al popolo in termini di spesa pubblica, oggi si spende il 5% del Pil per il debito, mentre al sistema universitario va appena l'uno per cento. Le risorse vanno orientate con più coraggio verso investimenti utili alla crescita economica e alla redistribuzione del reddito".
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di Carlo Musilli
Invece dell'accordo si avvicina la bancarotta. Dopo mesi di trattative il tempo è quasi scaduto, ma l'intesa fra i creditori internazionali e la Grecia non sembra ancora a portata di mano. Da Atene, intanto, arrivano segnali contrastanti. Ieri Syriza ha respinto la richiesta dell'ala estremista del partito di non rimborsare i prestiti al Fondo monetario internazionale (95 voti contro 75). Bocciate anche le proposte di nazionalizzare le banche e d'indire un referendum sull'intesa da siglare con Ue e Fmi.
"La Grecia e i suoi creditori hanno una necessità imperativa di raggiungere un accordo il prima possibile", ha detto il portavoce del Governo, Gabriel Sakellaridis, aggiungendo che l'Esecutivo punta a raggiungere un'intesa entro l'inizio di giugno: "Finché saremo nella posizione di pagare i nostri impegni, li pagheremo. E' responsabilità del governo fare fronte ai propri obblighi".
L'esecutivo di Alexis Tsipras cerca così di allentare la tensione causata dal ministro dell'Interno, Nikos Voutsis, che domenica aveva lanciato un avvertimento chiaro: "Le quattro rate in scadenza fra il 5 e il 19 giugno con il Fmi ammontano a un miliardo e 600 milioni di euro: denaro che non sarà versato, perché non lo abbiamo".
Voutsis ha anche sottolineato che che Ue e Fmi pongono "condizioni inaccettabili" in cambio dello sblocco degli aiuti. Il governo di Atene non vuole cedere in particolare sulle pensioni e sul ripristino dei contratti collettivi di lavoro, due capitoli su cui Angela Merkel si è dimostrata più rigida che in passato durante l’ultimo vertice europeo di Riga. A questo punto la palla passa al G7, che si riunirà giovedì e venerdì a Dresda.
Il summit in Germania sarà probabilmente l'ultima occasione per sbloccare lo stallo, ma anche un accordo in extremis non sarebbe una soluzione definitiva. Una svolta positiva del negoziato consentirebbe ad Atene d'incassare la tranche da 7,2 miliardi concordata a febbraio, ma quei soldi durerebbero poco, considerando che il Paese ha bisogno di circa 30 miliardi solo per non alzare bandiera bianca prima dell'autunno.
Come vuole il copione degli ultimi anni, l'unica possibilità offerta alla Grecia è di guadagnare tempo. Si chiude una trattativa solo per aprirne un'altra, senza contare che stavolta un ennesimo pacchetto di aiuti rischierebbe di non ottenere il via libera di alcuni parlamenti nazionali, Bundestag in testa. Intanto, il debito pubblico ellenico continua a crescere, i nuovi prestiti vengono usati in massima parte per rimborsare i vecchi crediti e l'economia reale non riparte, ostaggio di un circolo vizioso potenzialmente infinito.
Si torna così a parlare del possibile Grexit, che secondo il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, sarebbe "un avvenimento catastrofico, l’inizio della fine dell’euro". In verità, sul destino della Grecia dopo un'eventuale uscita dalla moneta unica esistono solo ipotesi di scuola più o meno accreditate. Non ci sono precedenti, perciò chi sostiene di avere delle certezze mente o è in malafede.
Dopo l'addio all'Eurozona, teoricamente, la Grecia dovrebbe arginare la fuga dei capitali, nazionalizzare le banche, battere moneta e far decollare l’inflazione per finanziarsi, dal momento che il mercato dei capitali sarebbe precluso anche per i prestiti a breve termine. I tassi d’interesse subirebbero un'impennata e la riedizione della dracma sarebbe colpita da una svalutazione feroce, mentre i debiti privati potrebbero continuare a essere denominati in euro. I soli benefici immediati sarebbero per l'export, che però in Grecia ha un peso limitato e difficilmente sarebbe in grado di trainare una ripresa.
Il Grexit non è però una conseguenza immediata e necessaria della bancarotta. Atene potrebbe dichiararsi insolvente ma rimanere nell'euro, secondo alcuni emettendo una moneta parallela ad uso interno, ovvero per pagare stipendi pubblici e pensioni.
Questa strada sarebbe tuttavia una sconfitta per l'Europa sia sul piano politico che su quello economico: in primo luogo perché si dimostrerebbe che l'Ue, nel momento della crisi, non è capace di proteggere nemmeno il più piccolo dei suoi figli, in secondo luogo perché - dopo l'haircut del 2012 a danno degli investitori privati - stavolta la perdita ricadrebbe sui contribuenti europei, visto che negli ultimi anni il peso del debito ellenico si è spostato dagli istituti di credito agli Stati dell'Unione.
Inoltre, un eventuale default dello Stato greco segnerebbe probabilmente anche la fine delle banche del Paese, perché la Bce dovrebbe chiudere il rubinetto degli aiuti d’emergenza Ela, privando il sistema creditizio ellenico di un sostegno finanziario vitale. A quel punto, Atene potrebbe dover negoziare l'ennesimo piano d’aiuti internazionali, che in circostanze simili sarebbero impossibili da ricevere a meno di non lasciare carta bianca alla Troika. E si ricomincerebbe daccapo.
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di Liliana Adamo
TTIP, l’acronimo ormai lo conosciamo tutti o quasi. Se approvato, questo gigantesco cappio costruito per sancire l’egemonia ultraliberista delle lobby d’oltreoceano, determinerebbe la morte per soffocamento dell’autodeterminazione politica europea, vale a dire la rappresentazione di quei principi democratici su cui si è legittimata l’idea d’Unione Europea con i suoi ventotto stati membri. C’è la convinzione che la crisi economica prodotta nel 2008 da un sistema che non gradisce rigettare i propri criteri, possa risolversi rincarandone le dosi.
Il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Trans Atlantic Trade and Investment Partnership), è un accordo commerciale di libero scambio tuttora in corso, sancito nel 2013 tra Ue e Usa. Obiettivo? Integrare i due mercati, limitando tributi doganali, norme e procedure d’omologazione, standard di sicurezza applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie.
Via libera dunque, alla circolazione delle merci, al flusso degli investimenti, all’accesso ai rispettivi mercati come agli appalti pubblici. Sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel e dal suo nutrito staff strategicamente collocato nei meandri decisionali della Commissione Ue, il trattato potrebbe essere esteso ad altri paesi in cui sono già in vigore consensi analoghi, come quelli iscritti al North American Free Trade Agreement (NAFTA) e dell’Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA). In questo modo si darà l’avvio alla più grande area disponibile di un mercato completamente svincolato, nella condivisione di un’incondizionata deregolamentazione.
Ma quali sarebbero gli effetti e gli esiti di tale “rivoluzione”? In primo luogo va detto che il TTPI è un accordo sottobanco; per meglio dire, è una trattativa tra superburocrati e delegati di varie lobbie (europee e americane), portata avanti in completa “riservatezza”: Fino a quando Wikileaks di Julian Assange ne svelò i contenuti e l’Ue dovette renderli pubblici, ma solo nell’ottobre 2014. In ultima ratio, il TTPI, dovrà essere sottoposto al benestare e al controllo della Commissione europea, dal Consiglio dei Capi di Stato e di governo.
A questo proposito va detto che, dall’aprile scorso, proprio all’interno dell’Europarlamento qualcosa ha iniziato a vacillare: con la ferrea governance nata dall’alleanza tra il Ppe (Partito popolare europeo) e i socialdemocratici (S&D), con il popolare Jean Claude Junker a capo della Commissione e il socialdemocratico Martin Schulz alla presidenza del Parlamento, si dava per scontato che il Trattato fosse approvato senza troppi problemi, grazie a una maggioranza schiacciante (che include, tra l’altro, anche il partito dei Conservatori, quello dei Riformisti e dei Liberaldemocratici dell’Alde).
Ebbene, così non è stato. A sorpresa, accogliendo una montagna d’emendamenti (di Verdi e Sinistra radicale), sei Commissioni su quattordici (fra cui, Occupazione, Ambiente, Petizioni e Affari Costituzionali), hanno votato contro la clausola più discutibile, chiamata Isds (Investor state dispute settlement), la quale punta a introdurre un unico arbitrato per risolvere le dispute fra Stati e società multinazionali, giudicato palesemente favorevole a quest’ultime.
Che metà del Parlamento europeo impugnasse questa mozione nodale, nessuno se lo sarebbe aspettato, men che mai la delegazione di superburocrati nel frattempo riunita a New York, dove si teneva il nono round dei negoziati Usa/Ue; di fatto, almeno sul piano politico, la riunione veniva sconfessata da sei commissioni su quattordici.
Il TTIP sarà presentato agli occhi dei cittadini europei nella solita orchestrazione cui ci hanno abituati da anni: l’accordo produrrà crescita economica, calo considerevole della disoccupazione, benessere diffuso senza danni all’ambiente. E’ la dura legge d’ogni deregulation in campo liberalista e finanziario: sostituire il marketing alla ragione, il Pil al benessere fatto di cooperazione e impegno per l’economia reale, nella difesa della salute e dell’ambiente.
Secondo lo statunitense Joseph Stiglitz (Premio Nobel per l’economia) l’accordo comporterebbe, già dai primissimi impatti, una sostanziale riduzione delle garanzie e mancanza di tutela nei diritti dei consumatori. Per di più, uno studio della Tufts University del Massachusetts, individua una frammentazione del mercato interno europeo e calo del Pil, non certo una crescita.
La ratifica consisterebbe in rilevanti freni legali che tuttora regolano settori cruciali come banche, assicurazioni, telecomunicazioni, servizi postali. L’introduzione del famigerato arbitrato internazionale (l’Isds cui abbiamo già parlato ndr), concederebbe alle imprese d’intentare cause ai governi per “perdita di profitti”, qualora gli stessi governi (eletti con sovranità popolare), “autorizzassero” legislazioni potenzialmente “dannose” alle loro aspettative di guadagno. E’ già accaduto, con il caso Vattenfal/governo tedesco sulla chiusura delle centrali nucleari (dopo il dramma di Fukushima), o nella circostanza di Veolia contro governo egiziano, sull’aumento del salario minimo dei lavoratori.
Nonostante le mozioni contrarie sull’arbitrato internazionale, l’Isds rappresenta comunque una parte di un documento ufficiale, e non basteranno pareri contrari (tra l’altro non vincolanti), per fermare l’avanzata del TTIP al varco dei voti durante la sessione plenaria che si terrà al Parlamento Europeo, in giugno. Ciò nondimeno il percorso è tutt’altro che in discesa, grazie a ben 898 emendamenti che si sono abbattuti come una scure sulla bozza del Rapporto in esame. Rispetto al passato, tanto attivismo nel Parlamento europeo è già una novità interessante.
Il commissario al commercio europeo, Cecilia Malmstrom, si sforza di rassicurare gli europei. Le partnership americane non ci trascineranno in invasioni di manzo agli ormoni, non sostituiranno le nostre eccellenze con cibi Ogm, nessuna minaccia alla buona sanità e alle scuole pubbliche, nessun rischio che l’Europa si trasformi in bieca succursale del capitalismo d’oltreoceano che, ampliandosi, andrebbe a danneggiare direttamente le economie dei paesi sottosviluppati. Gli standard di qualità e democrazia non saranno toccati.
Ciò è rincuorante, ma non corrisponde alla realtà: i cinque miti da sfatare (per la Commissione Ue), implicano, in primis, esattamente quegli standard europei; gli stessi che, dopo decenni di conquiste, servono a proteggere le persone e il pianeta. Basta solo riflettere su come standard Usa e Ue siano maledettamente differenti. E se l’Europa sembra impegnata nella difesa dei suoi modelli affinchè prevalga l’indipendenza dei regolatori, il principio di precauzione (cardine della politica ambientale e delle regole sul consumo) e gsi garantisca ai governi l’approvazione di leggi che difendono i diritti dei lavoratori e dei più deboli, non si può dire facciano altrettanto le multinazionali che si appresterebbero a ritagliarsi una buona fetta di torta.
Il secondo mito da sfatare, riguarda la sicurezza alimentare. Per la Commissione Ue, il modo in cui noi regoliamo le questioni dei cibi geneticamente modificati e tutto ciò che concerne questa materia, resteranno invariati: niente carne d’animali clonati, vitelli ormonati, o polli al cloro. E invece Usa e Ue andranno di pari passo per facilitare importazioni ed esportazioni esattamente nel settore alimentare. Ma come potranno se sussistono regole completamente divergenti? Chi dei due partner dovrà modificare i propri standard di sicurezza? E che fine farebbero quelle migliaia di piccole - medie aziende e produttori agricoli che rischiano d’uscire dal mercato sotto i colpi dei colossi su scala industriale?
Terzo mito: le tariffe. La concorrenza tra i due partner (per non parlare di Cina e paesi asiatici), impone già prezzi ridotti, il TTIP non è altro che un tentativo di smantellare le norme europee, giudicate troppo “ferree” per il libero scambio commerciale. Anche in questo caso, la replica insiste su quei settori le cui tariffe sono ritenute “troppo alte”, alimentari e tessili, per esempio. Il TTIP annullerebbe le tariffe che ancora pesano sull’export europeo verso gli Stati Uniti, contribuendo a favorire lo scambio tra i due.
Come per molti altri accordi su base commerciale, il TTIP sembrerebbe una panacea di presunti benefici per la gente, i prezzi diminuiranno grazie alla concorrenza tra imprese transatlantiche con conseguente aumento d’occupazione. In realtà, la cosa non si risolve così facilmente; nei dettagli, si va ben oltre la semplice rimozione di costi e apertura dei mercati, poiché il trattato si concentra in primo luogo sulla rimozione delle normative sociali e ambientali, concentrando il potere economico e politico nelle mani delle major. Esse valutano queste regole come ostacolo ai profitti.
Lo spiega a chiare lettere la stessa Commissione Europea: lo sbarramento al libero commercio non è (tanto) il dazio dovuto alla dogana, bensì i cosiddetti blocchi “oltre confine”, come i diversi standard ambientali o di sicurezza per le automobili (…). L’obiettivo della trattativa sta nel ridurre i costi “non necessari” per le imprese, le lungaggini burocratiche…Usa e Ue puntano all’armonizzazione e al “reciproco riconoscimento” per le rispettive normative in vista della “più vasta area di libero scambio sul pianeta”.
Quarto mito: i diritti dei governi. Si è detto come il TTIP consentirà alle più potenti aziende americane di poter far causa ai governi (e far pagare i cittadini), qualora, regole emanate con nuove leggi, ostacolassero l’utile delle stesse. Questo è uno degli sviluppi più controversi dell’intero trattato, anche se la replica di Bruxelles insiste nel propinare il piano Isds camuffandolo in sottigliezze linguistiche e cioè che si delibera un sistema per appianare le controversie tra le parti, rinsaldando, per esempio, i poteri regolatori dei governi, consentendo pubblico accesso alle udienze e ai documenti dei tribunali dove si discute delle cause. In pratica, un contentino pro forma.
Quinto mito: i servizi pubblici. L’accordo commerciale, almeno per ciò che riguarda l’Ue, tranquillizza: chiunque è libero di gestire i servizi pubblici come meglio crede e non certo privatizzarli. Scuole, ospedali, ecc. sono beni comuni fondamentali e ogni governo sarà libero di decidere se tale servizio dovrà restare pubblico o metterlo nelle mani di un privato. Per di più (bontà loro), nel caso di mancato rinnovo di un contratto stipulato, nessun governo è passibile di risarcimento.
Partiamo da un presupposto: il primo e fondamentale servizio pubblico è quello sanitario. Per gli investitori internazionali la sanità rappresenta un giro d’affari di valore incalcolabile, una “mucca da mungere”, esattamente. Il Servizio sanitario britannico (UK’s National Health service), è già in fase di destrutturazione affinché si consenta agli investitori transnazionali di “entrare nell’affare”, acquisendone le parti più redditizie. La svendita di servizi sanitari europei alle imprese private è già iniziata e, di fatto, andrà avanti fino a diventare un processo irreversibile.
La crisi finanziaria e le politiche d’austerity hanno minato un diritto, ritenuto finora inalienabile nei paesi europei, quello alla salute, a un’assistenza di qualità a prezzi accessibili. Eclatante l’esempio della Grecia, dove, pazienti malati di cancro, sono impossibilitati a pagare farmaci salva-vita, da quando lo Stato ha tagliato le sovvenzioni alla sanità pubblica, su esplicita richiesta dei finanziatori internazionali. Non basta, in Spagna, gli immigrati rischiano la revoca dei trattamenti anti AIDS, a causa di tagli alla spesa pubblica.
Se il TTIP punta ad “armonizzare” le normative sanitarie Usa/Ue, l’esito sarà di un’inevitabile spirale verso il basso con ridotti standard sanitari. Inoltre, l’apertura del sistema sanitario europeo alla concorrenza di operatori Usa, provenienti dal settore privato, altro non produrrà che aumento dei costi per i cittadini, limitando ulteriormente la possibilità d’accesso alle cure mediche, in un momento già economicamente difficile.
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di Michele Paris
Il dipartimento di Giustizia americano ha annunciato mercoledì l’ammissione di responsabilità da parte di cinque grandi banche internazionali nella creazione di una sorta di “cartello” per la manipolazione del mercato dei cambi delle valute. L’ennesimo patteggiamento che ha coinvolto i colossi finanziari ha comportato l’insolita accettazione delle accuse di condotta criminale e di quelle relative alla legislazione anti-trust, ma, come nei casi precedenti, le conseguenze effettive per i responsabili saranno del tutto trascurabili.
Quattro banche - Citigroup, JPMorgan Chase, Barclays e Royal Bank of Scotland (RBS) - si sono dichiarate colpevoli delle accuse mosse loro dal governo USA, mentre un quinto istituto - la svizzera UBS - pur essendo stata anch’essa accusata di avere manipolato il mercato delle valute, non è stata incriminata per questa ragione.
La condotta di UBS, cioè, ha spinto il dipartimento di Giustizia di Washington a revocare un precedente patteggiamento che aveva risparmiato alla banca l’incriminazione in un altro scandalo, quello del LIBOR, ovvero il tasso di riferimento interbancario. UBS ha dovuto così ammettere la propria colpevolezza in quest’ultima vicenda, caratterizzata dalla manipolazione del tasso di interesse da cui dipendono ogni giorno transizioni finanziarie in tutto il mondo per migliaia di miliardi di dollari.
Complessivamente, le cinque banche coinvolte dovranno pagare sanzioni per circa 5,6 miliardi di dollari, pari a una minima parte dei loro profitti annuali. Inoltre, buona parte della sanzione potrà essere dedotta dalle tasse.
Come hanno chiarito i giornali americani, a livello pratico nessuno di questi istituti bancari subirà conseguenze negative per i propri affari. Secondo il New York Times, “nonostante il divieto previsto dagli enti di vigilanza statunitensi”, vista l’ammissione di colpa, “queste banche si erano date da fare dietro le quinte” per ottenere apposite esenzioni che consentano loro di continuare a condurre affari negli ambiti finanziari più redditizi.
La Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC), ad esempio, ha già emesso numerose esenzioni di questo genere a favore delle cinque banche, in grado perciò di operare come se nulla fosse accaduto.
Oltre a ciò, il Dipartimento di Giustizia ha come al solito evitato di incriminare un solo dipendente o top manager delle banche colpevoli, accontentandosi con ogni probabilità dei già avvenuti licenziamenti dei rispettivi impiegati coinvolti nella trama criminale.
Le commissioni delle prime dieci banche del pianeta sulle operazioni relative ai mercati valutari sono state pari a 11,6 miliardi di dollari nel 2014, in calo da un picco di quasi 22 miliardi nel 2008. Secondo la stampa finanziaria, i margini di guadagno in questo settore sarebbero minori rispetto ad altri, ma le banche continuano a operarvi sia per fornire un servizio richiesto da clienti consolidati sia per cercare di attrarne di nuovi.
Il mercato dei cambi sembra essere particolarmente esposto ad abusi, poiché le agenzie federali di vigilanza negli Stati Uniti non hanno un mandato formale per sorvegliare le operazione che vengono svolte. Per fare ciò esistono speciali commissioni ma sono spesso create dalle stesse banche.
La “riforma” del sistema finanziario approvata dal Congresso americano dopo la crisi del 2008, inoltre, aveva escluso svariate transazioni in valute straniere dalle nuove regolamentazioni implementate.
Le operazioni incriminate delle cinque banche sarebbero avvenute tra il 2007 e il 2013. Lo schema preferito prevedeva che un operatore doveva acquisire un quantitativo importante di una certa valuta per poi disfarsene in un momento cruciale, così da influenzare l’andamento delle quotazioni. Queste iniziative erano in genere coordinate con gli operatori delle altre banche attraverso “chat room” on-line.
La gravità dei fatti è apparsa evidente dalle durissime parole pronunciate dalle autorità americane per descrivere le azioni delle banche. L’assistente direttore dell’FBI, Andrew McCabe, ha affermato che “il crimine è stato commesso su vastissima scala”, mentre il neo-ministro della Giustizia, Loretta Lynch, ha parlato di una “cospirazione sconvolgente”.
Queste denunce stridono però fortemente con i modesti provvedimenti punitivi stabiliti dal patteggiamento. Anzi, se simili dichiarazioni dovrebbero servire a convincere il pubblico della durezza del governo nei confronti di Wall Street, l’effetto risulta esattamente opposto, non facendo altro che sottolineare l’esiguità della pena erogata.
La più recente vicenda relativa al mercato delle valute si aggiunge allo scandalo ancora più clamoroso della manipolazione del LIBOR, scoppiato nel 2012 e nel quale erano coinvolte anche queste stesse banche.
L’elenco delle attività criminali operate da Wall Street è però molto lungo e comprende, tra l’altro, il riciclaggio del denaro dei cartelli del narcotraffico messicano, la truffa dei mutui, l’occultamento di massicce perdite dovute a investimenti speculativi e il coinvolgimento nelle operazioni illegali del finanziere ora in carcere, Bernie Madoff.
All’ampiezza e alla varietà dei crimini commessi dai grandi istituti finanziari non è mai corrisposto un solo caso di condanna esemplare, bensì quasi sempre sono stati concordati patteggiamenti tra i responsabili e il governo americano con sanzioni relativamente contenute e, in ogni caso, quasi mai pagate per intero.
Negli ambienti finanziari e sulla stampa, poi, i guai giudiziari delle banche non fanno più scalpore, come confermano anche i significativi guadagni registrati mercoledì dai titoli di UBS, Barclays e RBS.
Le autorità politiche e giudiziarie, a loro volta, hanno più volte riconosciuto pubblicamente come i giganti finanziari debbano operare di fatto al di sopra della legge, poiché l’adozione di seri provvedimenti nei loro confronti determinerebbe rischi eccessivi per la stabilità del sistema.
Così, mentre le proteste popolari nelle città americane contro la brutalità della polizia e la devastazione sociale provocata dalla crisi economica vengono represse con tutto il peso dell’apparato della sicurezza e del sistema giudiziario, i crimini infinitamente più gravi dell’industria finanziaria sono sempre perdonati o, tutt’al più, scontati senza sforzo con multe più o meno ridicole, considerate a tutti gli effetti come una sorta di tassa per continuare a fare affari al di fuori dei vincoli della legge.