di Carlo Musilli

Si aspettavano di vederlo imbracciare un bazooka, ma lui si è presentato alla guida di un panzer. Con le nuove misure annunciate giovedì 10 marzo, Mario Draghi ha confermato per l’ennesima volta che la Bce è l’unica istituzione europea a mettere in campo una politica davvero espansiva per l’economia dell’area valutaria. Gli interventi varati dal Consiglio direttivo sono andati ben oltre le attese.

L’Eurotower ha potenziato il quantitative easing, portando da 60 a 80 miliardi di euro l’importo dei titoli che saranno acquistati ogni mese (i mercati avevano previsto un aumento a 70) e allargando il programma anche ai bond emessi dalle società non bancarie, purché con rating “investment grade”.

La Bce ha anche tagliato tutti i tassi d’interesse, azzerando quello principale (prima allo 0,05%) e riducendo da -0,3 a -0,4% quello sui depositi. Questo significa che ora le banche dell’Eurozona dovranno pagare ancora di più per parcheggiare il proprio denaro nei forzieri di Francoforte e ciò dovrebbe indurle a incrementare gli impieghi, dando così linfa agli investimenti e all’inflazione.

Tuttavia, i tassi a questi livelli danneggiano la redditività degli istituti, perché riducono il margine di guadagno sui prestiti. Si può allora immaginare che le banche preferiscano spostare la liquidità in eccesso ancora una volta sui mercati finanziari, sennonché i bond non rendono quasi più nulla e le azioni sono dominate da una volatilità poco rassicurante. Allora, che fine farà tutto quel denaro?

E’ qui che arriva la vera manDragata. A partire da giugno, la Bce lancerà quattro nuove aste - una ogni tre mesi - per rifinanziare le banche di Eurolandia con prestiti quadriennali. Si chiamano Tltro (Targeted long term refinancing operation) e prevedono che gli istituti possano incassare i fondi dell’Eurotower solo se si impegnano a usarli per aiutare famiglie e imprese.

Di per sé queste operazioni non sono una novità e finora non hanno avuto un impatto decisivo, dal momento che le banche non hanno mai avuto un reale incentivo ad aumentare la propria esposizione nei confronti di aziende e privati cittadini. Ecco perché la Bce ha introdotto una modifica: il tasso d’interesse sulle nuove Tltro sarà pari a zero (come il tasso di riferimento), ma potrà scendere ulteriormente, fino ad arrivare a un rendimento negativo pari a -0,4% (come il tasso sui depositi) se gli istituti chiederanno fondi oltre una certa soglia.

In altri termini, la Bce pagherà le banche perché facciano credito. Difficile immaginare una misura più espansiva di questa, soprattutto perché finalmente il mirino dell’istituto centrale è puntato dritto sull’economia reale, non sui mercati finanziari.

Le novità in arrivo da Francoforte, insomma, sono più che buone, ma guai a confonderle con una panacea. Per quanto illuminata e aggressiva, la politica monetaria della Bce rimane solo una variabile dell’equazione e da sola non basta a far tornare i conti.

Come ha ribadito lo stesso Draghi, servono anche “politiche fiscali orientate alla crescita”. Traduzione: meno tasse e più investimenti da parte dei governi centrali. Il problema è che su questo fronte le richieste dell’ex governatore di Bankitalia si scontrano con la spinta in senso opposto che arriva dalla Commissione europea.

Al contrario di quanto accade nel board della Bce, l’Esecutivo di Bruxelles rimane sotto il giogo del rigorismo tedesco, che non consente all’Eurozona di cambiare davvero passo. Le discussioni sulla flessibilità sono meglio che niente, ma - nelle condizioni in cui siamo - trattare per mesi su ogni 0,1% di deficit-Pil in più vuol dire cercare di riempire una vasca da bagno con un cucchiaino da tè.

Ormai la contraddizione fra la politica monetaria super espansiva della Bce e la rigidità ostinata di Bruxelles non potrebbe essere più evidente. Di sicuro, se negli ultimi anni la Commissione avesse fatto per l’Eurozona un terzo di quello che ha fatto la Bce, ora navigheremmo in acque molto migliori. Invece Mario Draghi, dopo aver salvato l’euro con l’ormai proverbiale “whatever it takes” che spaventò gli speculatori, rischia di passare alla storia anche come l’unico dei potenti ad aver davvero combattuto contro la deflazione e la stagnazione secolare.

di Antonio Rei

Un colpo di genio dietro l’altro: eurobond, unione bancaria, superministro europeo dell’Economia, politica comune sui migranti, flessibilità per crescita e occupazione. Su queste proposte, nelle stanze del Tesoro, hanno ragionato a lungo. Si sono pure consultati con Palazzo Chigi, così da coniugare la scienza dei tecnici alla visione dei politici. Alla fine hanno partorito un position paper (in English, come bail in e stepchild adoption, roba da esperti) che hanno spedito in pompa magna ai vertici dell’Unione europea. E c’è da scommettere che a Bruxelles abbiano reagito come i giornalisti stranieri all’annuncio di Renzi sulla conclusione della Salerno-Reggio Calabria entro l’anno: con grasse risate.

In attesa che qualcuno in Europa manifesti interesse per la posizione italiana su un qualsiasi argomento socio-politico-economico, l’Italia ha pensato bene d’inviare all’Europa un documento in cui produce nientemeno che la ricetta per risollevare i destini dell’Ue. Il ponderoso documento consta di ben nove paginette e sul sito del governo presenta addirittura un titolo in italiano: «Proposta strategica dell'Italia per il futuro dell'Unione Europea: crescita, lavoro e stabilità». Peccato che poi il testo sia soltanto in English (as usual), forse perché a Palazzo Chigi si rendono conto che gli italiani hanno cose più serie di cui preoccuparsi.

Sì, perché il documento in sé pare davvero uno scherzo. Lungi dal concepire un’idea che avesse la pur minima parvenza di originalità, il nostro governo si è limitato a riscaldare un minestrone preparato con le proposte più trite che si siano sentite in Europa negli ultimi anni.

Intendiamoci, nessuna delle misure elencate è sbagliata: anzi, sarebbero tutte auspicabili (escluso il Superministro, declinazione europea del concetto renziano di potere). Il problema è che sono tutti argomenti su cui si è già dibattuto fino alla noia, senza mai venire a capo di nulla. E il perché è ovvio: l’asse dei Paesi nordici (la Germania e i suoi sherpa) non hanno mai accettato alcuna forma di condivisione dei rischi con gli altri membri dell’Ue, ritenuti poco affidabili. Di conseguenza gli eurobond sono rimasti una chimera, ormai quasi una figura mitologica le cui origini si rintracciano forse nella tradizione orale dei cantastorie.

In tempi più recenti, e con maggiore concretezza, si è parlato di completare l’unione bancaria con la garanzia europea sui depositi, ma anche su questo fronte l’opposizione teutonica è insuperabile. Si può immaginare che un bavarese paghi per restituire i soldi persi da un maremmano con il crack di Banca Etruria?

Quanto al Superministro dell’Economia, non è escluso che prima o poi ci si arrivi, ma è di tutta evidenza che sarà accettato solo in cambio della garanzia che su una poltrona del genere siedano personaggi in stile Katainen o Dijsselbloem. Se Superministro sarà, insomma, sarà in livrea. Sul fronte dell’immigrazione, invece, il trattato di Schengen è ormai attaccato da mezza Europa e la sua difesa richiederà una battaglia politica ben più impegnativa di un paragrafo rabberciato in via XX settembre. Infine, nemmeno l’uso della flessibilità per aiutare crescita e occupazione è esattamente un tema nuovo da affrontare.

Fa quasi tenerezza immaginare Padoan e Renzi che si intestano queste proposte e le rilanciano in Europa con un documento Word da pochi kilobyte. Ma siccome i due soggetti non sono così ingenui, viene da chiedersi perché mai abbiano deciso di esporsi a una così magra figura. Anche in questo caso, la risposta non sembra tanto difficile.

L’Italia sta per essere redarguita dall’Europa per l’ignobile legge di Stabilità che ha varato a dicembre. Una manovra farcita di mance e mancette che ai consumi fanno il solletico, socialmente iniqua perché toglie le tasse sulla casa anziché abbassarle sul lavoro, economicamente nulla perché non rilancia in alcun modo gli investimenti (né pubblici né privati), addirittura complice degli evasori perché alza il tetto per l’utilizzo del contante.

E’ questo l’uso che abbiamo fatto della flessibilità che ci hanno concesso (e, per la verità, anche di quella che devono ancora concederci). Quando da Bruxelles arriverà la bastonata, però, potremo rispondere: “Ve l’abbiamo già detto che non siamo d’accordo con voi. Dovete cambiare politica. Ma l’avete letto il nostro position paper?”.

di Carlo Musilli

Dopo anni di marginalità forzata, l'Iran torna ad avere il coltello dalla parte del manico sul mercato del petrolio. La rivalsa di Teheran è legata non soltanto alla revoca delle sanzioni in seguito all'accordo sul nucleare, ma anche ai calcoli sbagliati dall'Arabia Saudita, che la settimana scorsa ha cercato invano di correggere la propria strategia.

Insieme a Qatar e Venezuela (entrambi Paesi Opec), martedì 16 febbraio Riyadh ha siglato un accordo con la Russia per congelare la produzione di greggio ai livelli di gennaio. Non si tratta di una svolta in grado di far risalire il prezzo del barile nel lungo termine, dal momento che l’attuale livello di produzione globale supera la domanda di almeno due milioni di barili al giorno, ma l'intesa è comunque importante, perché segna la fine di un muro contro muro durato 15 anni e l'inizio di una fase di disgelo fra Mosca e il cartello dei produttori.

Con questa mossa l'Arabia Saudita - dominus dell'Opec - rinnega per la prima volta la politica della sovrapproduzione inaugurata mesi fa per abbattete i prezzi e danneggiare così i Paesi concorrenti, guadagnando quote di mercato a livello globale. La prima parte del piano ha funzionato: se nella seconda metà del 2014 i prezzi del petrolio viaggiavano oltre i 100 dollari al barile, quest’anno sia il Brent sia il Wti sono scesi fin sotto i 30 dollari (oggi si attestano poco oltre questa soglia), toccando i livelli più bassi da oltre 10 anni.

Eppure, la caduta dei prezzo non ha dato finora i risultati che Riyadh sperava, visto che nel mirino dei sauditi c’era in primo luogo la produzione statunitense di shale oil (il petrolio ottenuto con la tecnica non convenzionale del fracking, la fratturazione idraulica della roccia). Anche se è stato raggiunto l’obiettivo minimo - evitare che gli Stati Uniti si affrancassero dai Paesi arabi per l’approvvigionamento di energia - le società Usa di shale oil costrette a dichiarare bancarotta sono state molte meno di quelle che ci si attendeva alcuni mesi fa. Secondo le ultime stime, i giacimenti di petrolio da scisto di almeno 10 contee del Texas potrebbero viaggiare in utile anche con prezzi inferiori ai 30 dollari al barile e in alcuni casi la soglia di sopravvivenza sarebbe addirittura a 22,5 dollari. Il settore, insomma, ha rivelato capacità di resistenza superiori a quelle pronosticate dai sauditi.

Il fallimento su questo fronte non è facile da accettare per l’Arabia, che per attuare la strategia dei prezzi bassi ha sacrificato anche i propri redditi da petrolio (il 90% delle entrate del Paese), chiudendo il 2015 con un deficit pubblico di circa 130 miliardi di dollari, pari a 118 miliardi di euro (per intenderci, più di tre volte l’ultima legge di Stabilità italiana). Il disavanzo record ha costretto Riyadh ad annunciare un taglio alla spesa e ai sussidi pubblici, provocando non poco malcontento.

A questo punto, però, invertire la rotta non è facile. Un semplice taglio della produzione non basterebbe a far risalire le quotazioni in modo significativo nel lungo periodo, almeno per due ragioni. Primo, perché per rivelarsi efficace la riduzione dovrebbe essere davvero molto significativa, addirittura superiore al 50% stando ai calcoli di vari analisti. Secondo, perché un’operazione del genere dovrebbe essere concordata perlomeno fra Opec e Russia: se fosse messa in pratica da un singolo Paese - anche dall’Arabia Saudita - equivarrebbe a un suicidio commerciale.

Non a caso, l’accordo siglato a Doha il 16 febbraio prevedeva una clausola: “I quattro Paesi - ha spiegato Mohammed Saleh al-Sada, ministro del petrolio del Qatar - hanno concordato di congelare la produzione ai livelli di gennaio a condizione che gli altri grandi produttori facciano lo stesso”.

Il riferimento è naturalmente all’Iran, che a gennaio, subito dopo la fine delle sanzioni - per colpa delle quali le sue esportazioni di greggio sono crollate da circa 2,5 milioni di barili al giorno nel 2011 agli attuali 1,1 mbg - aveva annunciato un piano per aumentare l’export di petrolio di 500mila barili al giorno.

Com’era prevedibile, mercoledì 17 febbraio Mehdi Asali, delegato iraniano all’Opec, ha definito “illogica” la richiesta di congelare la produzione: gli altri esportatori hanno approfittato degli anni di embargo nei confronti della Repubblica islamica per aumentare il loro output fino a 4 milioni di barili al giorno “e ora si aspettano che l’Iran paghi il costo di un riequilibrio. Se ci chiedono di diminuire la nostra produzione, la risposta è no”.

Subito dopo il ministro del petrolio iraniano Bijan Zanganeh, al termine di un incontro con i suoi omologhi di Iraq, Qatar e Venezuela, ha detto che Teheran “appoggia la decisione presa da membri Opec e paesi non-Opec di mantenere un tetto alla produzione per stabilizzare il mercato e i prezzi a beneficio dei produttori e dei consumatori”. Parole sibilline con cui il ministro è riuscito a confondere i mercati, provocando un immediato e inspiegabile rialzo delle quotazioni che è stato riassorbito nei giorni seguenti.

In realtà, la posizione dell’Iran è piuttosto chiara: se gli altri Paesi si sforzano di far risalire il prezzo del greggio ben venga, ma non si può pretendere che questo obiettivo sia raggiunto con la collaborazione di Teheran, che dal 2013 a causa degli embarghi internazionali ha perso qualcosa come 5 miliardi di dollari al mese. Insomma, la produzione globale aumenterà invece di diminuire o di stabilizzarsi. Del resto, con l’Arabia Saudita in difficoltà, come si può chiedere all’Iran di non picchiare sulla ferita?

di Carlo Musilli

Se nella tragedia greca le colpe dei  padri ricadevano sui figli, nell’Italia contemporanea il potere dei figli dà una mano alle banche dei padri. Dopo il caso Boschi-Banca Etruria, a far discutere è il collegamento fra la riforma degli istituti di credito cooperativo e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il renzianissimo Luca Lotti.

Iniziamo dal principio: cosa sono le Bcc e in cosa si distinguono dalle altre banche? La caratteristica più importante del credito cooperativo è la mutualità. L'attività di queste banche non persegue l'obiettivo del profitto, ma del vantaggio: innanzitutto quello dei soci, cui le Bcc concedono la maggior parte del credito, poi quello della comunità locale e del territorio in cui gli istituti svolgono la loro attività.

Le banche di credito cooperativo devono destinare almeno il 70% degli utili netti annuali a riserva legale e il 3% dei profitti deve essere corrisposto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Ciò che resta degli utili dopo la distribuzione ai soci deve essere destinato a fini di beneficenza o mutualità.

Mercoledì 10 febbraio il Consiglio dei ministri ha varato un decreto sulle banche che contiene, fra l’altro, la riforma delle Bcc (il testo è stato approvato “salvo intese”, il che significa che potrà essere modificato ancora dall’Esecutivo prima di arrivare in Parlamento). Il provvedimento impone a questi istituti - in tutto 376 - di aderire a un unico gruppo bancario cooperativo guidato da una Spa con un patrimonio non inferiore al miliardo di euro. La maggioranza del capitale della holding sarà in mano alle banche del gruppo, mentre il resto potrà entrare nei portafogli di soggetti omologhi (gruppi cooperativi bancari europei o fondazioni) oppure essere quotato in Borsa.

L’obbligo di adesione al gruppo unico, però, non vale per tutte le Bcc: potranno scegliere di sottrarsi a questa regola le banche che hanno riserve per almeno 200 milioni di euro e accetteranno di versare su queste un'imposta straordinaria del 20%. Gli istituti che seguiranno questa strada, tuttavia, perderanno lo status di Bcc e dovranno trasformarsi in Spa (diventando perciò facilmente scalabili, viste le dimensioni di queste banche), altrimenti scatterà la liquidazione.

Il punto più controverso della riforma è proprio questo paracadute concesso alle poche Bcc che avrebbero riserve sufficienti per sfilarsi (“una decina” secondo il ministro Padoan, 14 stando ai dati di Mediobanca riferiti al 2014). Federcasse, l’associazione degli istituti di credito cooperativo, sostiene che questa norma creerebbe disparità di trattamento tra le banche, favorendo la frammentazione bancaria e indebolendo la coerenza cooperativa. Inoltre, c’è il rischio che sia incostituzionale.

In gioco ci sono infatti le cosiddette “riserve indivisibili”, accumulate dalle Bcc in regime di esenzione d’imposta per svolgere attività mutualistica, che in base all’articolo 45 della Costituzione italiana non può avere “fini di speculazione privata”. L’obiezione, perciò, è che dare questi soldi a una Spa dietro pagamento del 20% significherebbe privatizzare un bene comune.

“A me sembra una riforma che aiuta a consolidare il sistema delle Bcc”, replica il sottosegretario Lotti, considerato l’artefice dell’inserimento nel decreto della norma della discordia, peraltro non prevista nella versione originaria della riforma - su cui le Bcc avevano lavorato per mesi con il Tesoro e Bankitalia - e invisa a mezzo governo, dai ministri Alfano e Galletti alla minoranza Pd, da Scelta Civica ad Area popolare, più buona parte delle opposizioni.

Il problema è che, in questa vicenda, Lotti non è proprio super partes. L’accusa mossa al sottosegretario, e di riflesso al Premier, è di voler favorire gli istituti toscani, i più insofferenti all’idea di aggregarsi alla holding unica (perché puntano a costituire un polo bancario regionale). Su tutte Chianti Banca e, soprattutto, la Bcc di Cambiano, che ha sede a Castelfiorentino, piccolo Comune in provincia di Firenze.

Di questo istituto è dirigente Marco Lotti, padre del sottosegretario, e presidente Paolo Regini, renziano della prima ora, già sindaco Ds di Castelfiorentino dal 1990 al 1999 e tuttora marito della senatrice Pd Laura Cantini (a sua volta sindaco di Castefiorentino dal 1999 al 2009, oltreché vicepresidente della Provincia di Firenze).

Non solo. Nel 2009 era stata proprio la Bcc di Cambiano a concedere a Renzi un mutuo di 72mila euro per la campagna elettorale che lo ha portato a diventare sindaco di Firenze e nel 2012 lo stesso istituto si è occupato della raccolta fondi per la candidatura dell’attuale capo del governo alle primarie del Pd. Una strategia azzeccata, a quanto pare.

di Carlo Musilli

La parte peggiore della tempesta è forse alle spalle, ma il cielo sopra le banche italiane non è ancora sereno. Tutt’altro. Al di là del rimbalzo di venerdì scorso a Piazza Affari, trainato in larga misura dal riaccendersi del risiko sulle popolari - in molti considerano ormai scontata la fusione fra Banco Popolare e Bpm -, per diversi istituti del nostro Paese il riscatto è ancora lontano. Secondo i dati di Borsa Italiana, nella classifica dei 10 peggiori titoli da inizio anno, la metà sono bancari: Mps (-46,54%), Carige (-43,09%), Banco Popolare (-33,80%), Unicredit (-31,24%) e Ubi (-31,12%).

Come mai, visto che sia dalla Bce sia dalla Banca d’Italia sono arrivate rassicurazioni sui conti del nostro sistema creditizio? Si sbaglia Draghi, quando dice che “le banche italiane hanno accantonamenti simili a quelli dell'area euro e hanno anche un alto livello di garanzie e collaterali”? Oppure sbaglia Visco, secondo cui “le banche italiane sono ben patrimonializzate” e “i crediti deteriorati sono ampiamente coperti da svalutazioni e garanzie”? In realtà non sbaglia nessuno: neanche i mercati.

La spiegazione più ovvia è che, in larga parte, i crolli cui abbiamo assistito nelle ultime settimane siano frutto della speculazione dei grandi operatori, evidentemente orientata al ribasso. Lo strumento principe per mettere in pratica questo genere di strategia è la vendita allo scoperto (o short selling), che consiste nel vendere titoli non posseduti direttamente, impegnandosi ad acquistarli dopo un determinato periodo di tempo, in genere assai breve. Il margine di guadagno sussiste nel momento in cui il prezzo di vendita (oggi) è superiore a quello di acquisto (domani), per cui si parla di speculazione al ribasso. In sostanza, si scommette sul fatto che un titolo perderà valore. A volte, però, l’investitore che vende allo scoperto ha una potenza di fuoco e una reputazione tale da orientare il mercato, per cui l’esito della scommessa è in qualche misura condizionato.

Un investitore di questo calibro è George Soros, che a inizio gennaio ha paragonato le turbolenze finanziare globali, esacerbate dai crolli dei mercati cinesi, “alla crisi che abbiamo vissuto nel 2008”. Chi conosce un po’ le regole del gioco sospetta fortemente che il buon Soros - probabilmente uno degli speculatori più noti al mondo, senz’altro uno dei più spregiudicati - abbia un interesse preciso ogni volta che semina allarmismo a piene mani. Fece la stessa cosa nel settembre del 2011, quando parlò della crisi economica dell’Eurozona, e nel 1992, quando contribuì a portare la Lira sull’orlo del baratro.

Ora, nemmeno alla più nichilista delle cassandre verrebbe in mente di paragonare la congiuntura attuale a quella del 2008, per cui sembra lecito dedurre che il caro vecchio George abbia deciso di scommettere sui ribassi. Forse ha dettato la linea, forse ha scoperto carte che erano già in mano anche ad altri giocatori, fatto sta che in questo strano 2016 i mercati internazionali sembrano seguire la via indicata dal finanziere di Budapest.

Intendiamoci, i segnali negativi non mancano, dal crollo senza fine del prezzo del petrolio al rischio geopolitico legato al fronte mediorientale. Eppure, nella realtà dei conti spesso non esistono motivazioni valide per giustificare l’accanimento reiterato contro i medesimi titoli. Nel caso delle banche italiane, per qualche giorno si è provato a dire che l’ondata di vendite era legata a un’indagine Bce sui crediti deteriorati dei nostri istituti (ovvero quelli a rischio e quelli che certamente non saranno restituiti).

In effetti, le sofferenze sono un problema reale per il nostro sistema bancario e non è ancora chiaro quanto le nuove bad bank “light” concordate dal Tesoro con Bruxelles saranno in grado di aiutare. Tuttavia, non c’è alcuna catastrofe alle porte. Lo stesso Mario Draghi ha chiarito che l’operazione della Bce è del tutto ordinaria: non coinvolge solo gli istituti del nostro Paese e soprattutto non prelude affatto alla richiesta di ulteriori accantonamenti o di nuovi aumenti di capitale.

Al contrario, a dicembre la Banca centrale europea aveva già condotto un esame piuttosto complesso sulla solidità patrimoniale di vari istituti dell’Eurozona, e tutte le grandi banche italiane erano state promosse, perfino la tanto bersagliata Mps.

In questo scenario, l’ultima conferenza stampa di Draghi a Francoforte è stata particolarmente istruttiva: dopo aver ripetuto più volte che non è suo compito giudicare l’andamento delle Borse, Supermario ha inchiodato tutti affermando che il comportamento dei mercati è “legato a una certa confusione” e che “la migliore risposta alle tensioni è assicurare che il comparto bancario è resistente: tutte le misure prese, sia in Europa che nel mondo, hanno prodotto un settore ben più forte di quanto fosse prima della crisi”. Con buona pace di Soros e di quelli come lui.


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