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di Carlo Musilli
La Bce mette a rischio la fusione tra Bpm e Banco Popolare, costringendo il governo italiano a scendere in campo per sbloccare la situazione. In gioco c’è la nascita del terzo gruppo bancario del Paese, l’aggregazione più importante dopo quelle che 10 anni fa diedero vita a Intesa Sanpaolo e a Unicredit.
Proprio la storia delle prime due banche italiane fornisce una chiave di lettura per le vicende di oggi: le fusioni Banca Intesa-Sanpaolo Imi e Unicredito-Capitalia furono pilotate tra 2006 e 2007 da Mario Draghi, allora governatore di Bankitalia. La volontà di ostacolare il nuovo matrimonio non va ascritta perciò all’attuale presidente della Bce - da sempre favorevole al consolidamento del sistema creditizio italiano - quanto alla componente franco-tedesca che gestisce l’area tecnica dell’Eurotower, cui non va a genio la nascita di un nuovo importante polo bancario nel nostro Paese.
Difficile spiegare altrimenti l’incoerenza dimostrata dalla Banca centrale europea. Lo scorso novembre tutti i più grandi istituti italiani hanno superato l’indagine Srep (Supervisory review and evaluation process), ovvero il test della Bce su capitale, liquidità, governance e modello di business: in particolare, la Banca Popolare di Milano si è piazzata in seconda categoria, mentre Banco Popolare in terza.
Oggi, tuttavia, per dare il via libera alla fusione fra le due banche, l’Eurotower pone condizioni stringenti sulla governance e soprattutto sullo smaltimento dei crediti deteriorati, che richiederebbe quasi certamente un aumento di capitale. In altri termini, da soli i due istituti vanno bene così, ma se vogliono unirsi devono mettere mano al portafoglio.
La Bce ha fatto anche altre richieste (ad esempio, entro un mese vuole un piano industriale pluriennale e una bozza dello statuto della società che nascerebbe dalla fusione), ma quella della ricapitalizzazione è la più grave e la meno comprensibile, di sicuro l’unica in grado di far saltare l’operazione.
Per scongiurare questo rischio è intervenuto il governo. Venerdì 18 marzo, poche ore dopo che i due istituti avevano reso note le condizioni poste dalla Bce, il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha pubblicato una nota in cui dichiara di “apprezzare questa operazione dalla quale nascerà una banca più grande e più forte, in grado di affrontare il mercato nel quadro delle nuove norme europee di settore e quindi capace di erogare più risorse alle imprese, in una stagione in cui il finanziamento degli investimenti è cruciale per il rilancio dell’economia”.
Ma i primi destinatari delle parole di Padoan non sono i tecnici della Bce, bensì i vertici dei due istituti, implicitamente esortati a proseguire con la fusione malgrado le condizioni siano più pesanti di quelle previste dai due amministratori delegati (Pier Francesco Saviotti del Banco Popolare e Giuseppe Castagna della Popolare di Milano).
Il ministro “è informato della determinazione del management” delle due banche “a procedere nell’operazione di fusione - prosegue la nota - con il soddisfacimento di tutti i requisiti indicati dalla Bce per il via libera. Un’operazione che viene recepita con favore da tutti gli stakeholder e degli investitori”. E ancora: “Si tratta della prima operazione di fusione nel segmento delle banche popolari dopo il varo del decreto legge che ha già avuto come effetto alcune operazioni di trasformazione in società per azioni e l’avvio del processo di quotazione di alcuni istituti”.
Peccato che sabato, durante l’assemblea del Banco che ha approvato i conti del 2015, Saviotti sia stato meno deciso del ministro: “Il progetto ha qualche difficoltà - ha ammesso l’Ad - qualche ostacolo per l'approccio non facilmente comprensibile della vigilanza europea. Il buon esito non è ancora scontato… Se son rose fioriranno e mi auguro che questa fioritura possa avvenire in tempi ragionevolmente brevi”. I consigli d'amministrazione delle due banche dovrebbero riunirsi entro martedì.Sul tema è intervenuto anche Matteo Renzi: “Vanno aiutati i processi di integrazione e fusione - ha detto venerdì il Premier al termine del Vertice Ue sui migranti -, tutto ciò che va nella direzione della riforma delle banche popolari per noi è positivo e incoraggiante. Il 2016 è l’anno in cui l’Italia deve sistemare definitivamente la propria questione bancaria, che non è grave come in altri Paesi ma ha dei margini e dei profili di problematicità per cui stiamo lavorando, anche quando voi non ve ne accorgete. Stiamo lavorando pancia a terra tutti i santi giorni per avere una soluzione compatibile con le regole e che dia tranquillità ai correntisti e garanzie agli istituti di credito”.
Molti hanno letto in queste parole un riferimento alla questione Mps, visto che la settimana scorsa alcune indiscrezioni (poi smentite) parlavano di pressioni da Palazzo Chigi per una soluzione che coinvolgesse Intesa o la Cdp. Fonti di Governo hanno quindi precisato che “quando Renzi sulle banche ha parlato di soluzione intendeva tutta una serie di provvedimenti e di iniziative che sono già in campo e che daranno i loro frutti”. E se è così problematica la fusione Bpm-Banco Popolare, viene da chiedersi in che modo si potrà mai archiviare il dossier Montepaschi.
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di Carlo Musilli
Anche la locomotiva più veloce, prima o poi, deve rallentare. E’ quanto sta accadendo alla Germania, che fatica a trascinare fuori dalle sabbie mobili i suoi diamanti più preziosi, i due gruppi sfoggiati per anni nel mondo come modello di gestione illuminata e profittevole: Volkswagen e Deutsche Bank. Il colosso automobilistico sconta in tutto il mondo gli effetti del Dieselgate, lo scandalo delle emissioni truccate (recentemente arrivato a toccare anche Mercedes, contro cui è stata intentata una class action negli Stati Uniti).
Secondo l’agenzia tedesca Adp, la casa di Wolfsburg ha pronto un piano di esuberi che coinvolgerà 3mila dipendenti del settore amministrativo. Non si tratterebbe di licenziamenti, ma di prepensionamenti, trasferimenti e mancati rinnovi di contratti a tempo determinato. Lo scopo è quello di un’azienda qualsiasi in tempo di crisi: ridurre i costi.
Il mercato, nel frattempo, non aiuta: a febbraio le vendite del gruppo sono scese dell’1,2% su base annua, passando da 701.500 a 693.300 unità, a causa della contrazione del giro d’affari nei paesi emergenti e negli Stati Uniti. Il legame fra questa flessione e il Dieselgate è abbastanza evidente, visto che le immatricolazioni del solo marchio Volkswagen sono scese di ben il 4,7%, a 394.400 unità, compensate solo dai risultati degli altri brand della scuderia (Audi, Skoda, Seat e Porsche).
Ma non è finita. Michael Horn, amministratore delegato e direttore generale della divisione americana della casa automobilistica tedesca, si è dimesso mercoledì. Il top manager era stato tra i principali volti pubblici nella gestione dello scandalo sulle emissioni: si era scusato a nome dell’azienda davanti al Congresso Usa, assumendosi la responsabilità per la vicenda e impegnandosi a rimediare.
Intanto, gli Stati Uniti hanno avviato una nuova vertenza giudiziaria chiedendo a Volkswagen informazioni su diverse questioni aperte, per scoprire se il colosso tedesco abbia violato anche alcune leggi contro le frodi bancarie.
Sul gruppo pende già una causa per violazione delle normative ambientali del valore di circa 46 miliardi di dollari. Come se non bastasse, secondo la Sueddeutsche Zeitung, le manipolazioni ai motori diesel di Volkswagen sarebbero più ampie del previsto e sarebbero aumentate mentre gli inquirenti Usa già svolgevano la loro inchiesta.
Quanto a Deutsche Bank, la banca tedesca ha registrato nel 2015 una maxi-perdita da 6,8 miliardi di euro, ma non ha ritenuto opportuno cancellare i bonus del 2015. Li ha semplicemente ridotti del 17%, a 2,4 miliardi di euro, spiegando però che “gli utili, così come i risultati negativi 2015, sono condizionati soprattutto da effetti straordinari”. Insomma, meriti o colpe non c'entrano: è tutto in mano al caso.
Questa scusa però non vale per i vertici dell'istituto: il consiglio di sorveglianza ha inviato un segnale cancellando per intero (almeno) i premi destinati ai membri del consiglio di gestione, che lo scorso anno avevano incassato 15,7 milioni (3,7 milioni a testa ai due co-Ceo, Anshu Jain e Jurgen Fitschen). Per quest'anno il board deve accontentarsi di 22,7 milioni di stipendi fissi. Si consoleranno pensando che è andata assai peggio agli azionisti della Banca, visto che in un anno il titolo in Borsa ha perso circa il 40%.
A ben guardare, le sorti di Volkswagen e di Deutsche Bank hanno qualcosa in comune. In primo luogo, entrambe le società devono risollevarsi da scandali memorabili. Ma se per il gruppo automobilistico il caso da fronteggiare è uno solo, il Dieselgate, negli ultimi anni il colosso bancario è finito sotto inchiesta ai quattro angoli del pianeta per truffe e operazioni illegali di ogni sorta. Ad esempio, ha manipolato insieme ad altri istituti il Libor e l'Euribor, i tassi di riferimento a cui le banche si prestano denaro fra loro, e per questa ragione ha già ricevuto multe per oltre 3,5 miliardi dalla Commissione europea e delle autorità di vigilanza britanniche e americane.
In Svizzera, invece, la Banca è accusata di aver distorto il mercato dell'oro e dell'argento, mentre negli Stati Uniti potrebbe ricevere sanzioni per non aver rispettato in passato l'embargo sull'Iran. A chiusura di questa carrellata (tutt'altro che esaustiva), non si può dimenticare il ruolo svolto da Deutsche nella grande crisi del 2008: in un'inchiesta del Senato Usa, si legge che la Banca tedesca è stata, insieme a Goldman Sachs, quella che più di ogni altra ha costruito i titoli tossici all'origine del collasso finanziario globale.Ed è qui che si innesta il secondo motivo di analogia con Volkswagen. Come il gruppo automobilistico, che ha peccato di arroganza nel tentativo di vincere la corsa contro Toyota per il primato mondiale, Deutsche Bank ha cercato invano di trasformarsi in un gigante capace di rivaleggiare con i padroni di Wall Street e, per colmare il gap, si è gettata con tanto ardire nella speculazione forsennata che ancora oggi un terzo del bilancio è infettato da prodotti poco trasparenti, derivati in primis.
Di fronte a un quadro simile, anche un vecchio alleato come Stoccolma, uno degli sherpa dell'asse del Nord, si sente in diritto di alzare la voce. La Svezia ha minacciato di portare il governo di Angela Merkel di fronte alla Corte di giustizia europea se Berlino non rispetterà il regolamento di Dublino riammettendo i migranti che, pur essendosi registrati in terra tedesca, sono passati oltreconfine e hanno fatto richiesta di asilo nel Paese scandinavo.
Intanto, si fa strada l'ipotesi che l'Europa proceda finalmente contro la Germania per il suo surplus commerciale eccessivo, visto che ormai da nove anni consecutivi i tedeschi - mentre minacciano procedure d'infrazione a danno degli altri Paesi - violano le regole comunitarie superando la soglia delle esportazioni consentita dall’Unione Europea e danneggiando così l’intera Eurozona. Se un provvedimento arriverà, sarà la dimostrazione di una legge non scritta: quando il potere economico si appanna, il privilegio politico ne risente.
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di Carlo Musilli
Si aspettavano di vederlo imbracciare un bazooka, ma lui si è presentato alla guida di un panzer. Con le nuove misure annunciate giovedì 10 marzo, Mario Draghi ha confermato per l’ennesima volta che la Bce è l’unica istituzione europea a mettere in campo una politica davvero espansiva per l’economia dell’area valutaria. Gli interventi varati dal Consiglio direttivo sono andati ben oltre le attese.
L’Eurotower ha potenziato il quantitative easing, portando da 60 a 80 miliardi di euro l’importo dei titoli che saranno acquistati ogni mese (i mercati avevano previsto un aumento a 70) e allargando il programma anche ai bond emessi dalle società non bancarie, purché con rating “investment grade”.
La Bce ha anche tagliato tutti i tassi d’interesse, azzerando quello principale (prima allo 0,05%) e riducendo da -0,3 a -0,4% quello sui depositi. Questo significa che ora le banche dell’Eurozona dovranno pagare ancora di più per parcheggiare il proprio denaro nei forzieri di Francoforte e ciò dovrebbe indurle a incrementare gli impieghi, dando così linfa agli investimenti e all’inflazione.
Tuttavia, i tassi a questi livelli danneggiano la redditività degli istituti, perché riducono il margine di guadagno sui prestiti. Si può allora immaginare che le banche preferiscano spostare la liquidità in eccesso ancora una volta sui mercati finanziari, sennonché i bond non rendono quasi più nulla e le azioni sono dominate da una volatilità poco rassicurante. Allora, che fine farà tutto quel denaro?
E’ qui che arriva la vera manDragata. A partire da giugno, la Bce lancerà quattro nuove aste - una ogni tre mesi - per rifinanziare le banche di Eurolandia con prestiti quadriennali. Si chiamano Tltro (Targeted long term refinancing operation) e prevedono che gli istituti possano incassare i fondi dell’Eurotower solo se si impegnano a usarli per aiutare famiglie e imprese.
Di per sé queste operazioni non sono una novità e finora non hanno avuto un impatto decisivo, dal momento che le banche non hanno mai avuto un reale incentivo ad aumentare la propria esposizione nei confronti di aziende e privati cittadini. Ecco perché la Bce ha introdotto una modifica: il tasso d’interesse sulle nuove Tltro sarà pari a zero (come il tasso di riferimento), ma potrà scendere ulteriormente, fino ad arrivare a un rendimento negativo pari a -0,4% (come il tasso sui depositi) se gli istituti chiederanno fondi oltre una certa soglia.
In altri termini, la Bce pagherà le banche perché facciano credito. Difficile immaginare una misura più espansiva di questa, soprattutto perché finalmente il mirino dell’istituto centrale è puntato dritto sull’economia reale, non sui mercati finanziari.
Le novità in arrivo da Francoforte, insomma, sono più che buone, ma guai a confonderle con una panacea. Per quanto illuminata e aggressiva, la politica monetaria della Bce rimane solo una variabile dell’equazione e da sola non basta a far tornare i conti.
Come ha ribadito lo stesso Draghi, servono anche “politiche fiscali orientate alla crescita”. Traduzione: meno tasse e più investimenti da parte dei governi centrali. Il problema è che su questo fronte le richieste dell’ex governatore di Bankitalia si scontrano con la spinta in senso opposto che arriva dalla Commissione europea.Al contrario di quanto accade nel board della Bce, l’Esecutivo di Bruxelles rimane sotto il giogo del rigorismo tedesco, che non consente all’Eurozona di cambiare davvero passo. Le discussioni sulla flessibilità sono meglio che niente, ma - nelle condizioni in cui siamo - trattare per mesi su ogni 0,1% di deficit-Pil in più vuol dire cercare di riempire una vasca da bagno con un cucchiaino da tè.
Ormai la contraddizione fra la politica monetaria super espansiva della Bce e la rigidità ostinata di Bruxelles non potrebbe essere più evidente. Di sicuro, se negli ultimi anni la Commissione avesse fatto per l’Eurozona un terzo di quello che ha fatto la Bce, ora navigheremmo in acque molto migliori. Invece Mario Draghi, dopo aver salvato l’euro con l’ormai proverbiale “whatever it takes” che spaventò gli speculatori, rischia di passare alla storia anche come l’unico dei potenti ad aver davvero combattuto contro la deflazione e la stagnazione secolare.
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di Antonio Rei
Un colpo di genio dietro l’altro: eurobond, unione bancaria, superministro europeo dell’Economia, politica comune sui migranti, flessibilità per crescita e occupazione. Su queste proposte, nelle stanze del Tesoro, hanno ragionato a lungo. Si sono pure consultati con Palazzo Chigi, così da coniugare la scienza dei tecnici alla visione dei politici. Alla fine hanno partorito un position paper (in English, come bail in e stepchild adoption, roba da esperti) che hanno spedito in pompa magna ai vertici dell’Unione europea. E c’è da scommettere che a Bruxelles abbiano reagito come i giornalisti stranieri all’annuncio di Renzi sulla conclusione della Salerno-Reggio Calabria entro l’anno: con grasse risate.
In attesa che qualcuno in Europa manifesti interesse per la posizione italiana su un qualsiasi argomento socio-politico-economico, l’Italia ha pensato bene d’inviare all’Europa un documento in cui produce nientemeno che la ricetta per risollevare i destini dell’Ue. Il ponderoso documento consta di ben nove paginette e sul sito del governo presenta addirittura un titolo in italiano: «Proposta strategica dell'Italia per il futuro dell'Unione Europea: crescita, lavoro e stabilità». Peccato che poi il testo sia soltanto in English (as usual), forse perché a Palazzo Chigi si rendono conto che gli italiani hanno cose più serie di cui preoccuparsi.
Sì, perché il documento in sé pare davvero uno scherzo. Lungi dal concepire un’idea che avesse la pur minima parvenza di originalità, il nostro governo si è limitato a riscaldare un minestrone preparato con le proposte più trite che si siano sentite in Europa negli ultimi anni.
Intendiamoci, nessuna delle misure elencate è sbagliata: anzi, sarebbero tutte auspicabili (escluso il Superministro, declinazione europea del concetto renziano di potere). Il problema è che sono tutti argomenti su cui si è già dibattuto fino alla noia, senza mai venire a capo di nulla. E il perché è ovvio: l’asse dei Paesi nordici (la Germania e i suoi sherpa) non hanno mai accettato alcuna forma di condivisione dei rischi con gli altri membri dell’Ue, ritenuti poco affidabili. Di conseguenza gli eurobond sono rimasti una chimera, ormai quasi una figura mitologica le cui origini si rintracciano forse nella tradizione orale dei cantastorie.
In tempi più recenti, e con maggiore concretezza, si è parlato di completare l’unione bancaria con la garanzia europea sui depositi, ma anche su questo fronte l’opposizione teutonica è insuperabile. Si può immaginare che un bavarese paghi per restituire i soldi persi da un maremmano con il crack di Banca Etruria?
Quanto al Superministro dell’Economia, non è escluso che prima o poi ci si arrivi, ma è di tutta evidenza che sarà accettato solo in cambio della garanzia che su una poltrona del genere siedano personaggi in stile Katainen o Dijsselbloem. Se Superministro sarà, insomma, sarà in livrea. Sul fronte dell’immigrazione, invece, il trattato di Schengen è ormai attaccato da mezza Europa e la sua difesa richiederà una battaglia politica ben più impegnativa di un paragrafo rabberciato in via XX settembre. Infine, nemmeno l’uso della flessibilità per aiutare crescita e occupazione è esattamente un tema nuovo da affrontare.Fa quasi tenerezza immaginare Padoan e Renzi che si intestano queste proposte e le rilanciano in Europa con un documento Word da pochi kilobyte. Ma siccome i due soggetti non sono così ingenui, viene da chiedersi perché mai abbiano deciso di esporsi a una così magra figura. Anche in questo caso, la risposta non sembra tanto difficile.
L’Italia sta per essere redarguita dall’Europa per l’ignobile legge di Stabilità che ha varato a dicembre. Una manovra farcita di mance e mancette che ai consumi fanno il solletico, socialmente iniqua perché toglie le tasse sulla casa anziché abbassarle sul lavoro, economicamente nulla perché non rilancia in alcun modo gli investimenti (né pubblici né privati), addirittura complice degli evasori perché alza il tetto per l’utilizzo del contante.
E’ questo l’uso che abbiamo fatto della flessibilità che ci hanno concesso (e, per la verità, anche di quella che devono ancora concederci). Quando da Bruxelles arriverà la bastonata, però, potremo rispondere: “Ve l’abbiamo già detto che non siamo d’accordo con voi. Dovete cambiare politica. Ma l’avete letto il nostro position paper?”.
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di Carlo Musilli
Dopo anni di marginalità forzata, l'Iran torna ad avere il coltello dalla parte del manico sul mercato del petrolio. La rivalsa di Teheran è legata non soltanto alla revoca delle sanzioni in seguito all'accordo sul nucleare, ma anche ai calcoli sbagliati dall'Arabia Saudita, che la settimana scorsa ha cercato invano di correggere la propria strategia.
Insieme a Qatar e Venezuela (entrambi Paesi Opec), martedì 16 febbraio Riyadh ha siglato un accordo con la Russia per congelare la produzione di greggio ai livelli di gennaio. Non si tratta di una svolta in grado di far risalire il prezzo del barile nel lungo termine, dal momento che l’attuale livello di produzione globale supera la domanda di almeno due milioni di barili al giorno, ma l'intesa è comunque importante, perché segna la fine di un muro contro muro durato 15 anni e l'inizio di una fase di disgelo fra Mosca e il cartello dei produttori.
Con questa mossa l'Arabia Saudita - dominus dell'Opec - rinnega per la prima volta la politica della sovrapproduzione inaugurata mesi fa per abbattete i prezzi e danneggiare così i Paesi concorrenti, guadagnando quote di mercato a livello globale. La prima parte del piano ha funzionato: se nella seconda metà del 2014 i prezzi del petrolio viaggiavano oltre i 100 dollari al barile, quest’anno sia il Brent sia il Wti sono scesi fin sotto i 30 dollari (oggi si attestano poco oltre questa soglia), toccando i livelli più bassi da oltre 10 anni.
Eppure, la caduta dei prezzo non ha dato finora i risultati che Riyadh sperava, visto che nel mirino dei sauditi c’era in primo luogo la produzione statunitense di shale oil (il petrolio ottenuto con la tecnica non convenzionale del fracking, la fratturazione idraulica della roccia). Anche se è stato raggiunto l’obiettivo minimo - evitare che gli Stati Uniti si affrancassero dai Paesi arabi per l’approvvigionamento di energia - le società Usa di shale oil costrette a dichiarare bancarotta sono state molte meno di quelle che ci si attendeva alcuni mesi fa. Secondo le ultime stime, i giacimenti di petrolio da scisto di almeno 10 contee del Texas potrebbero viaggiare in utile anche con prezzi inferiori ai 30 dollari al barile e in alcuni casi la soglia di sopravvivenza sarebbe addirittura a 22,5 dollari. Il settore, insomma, ha rivelato capacità di resistenza superiori a quelle pronosticate dai sauditi.
Il fallimento su questo fronte non è facile da accettare per l’Arabia, che per attuare la strategia dei prezzi bassi ha sacrificato anche i propri redditi da petrolio (il 90% delle entrate del Paese), chiudendo il 2015 con un deficit pubblico di circa 130 miliardi di dollari, pari a 118 miliardi di euro (per intenderci, più di tre volte l’ultima legge di Stabilità italiana). Il disavanzo record ha costretto Riyadh ad annunciare un taglio alla spesa e ai sussidi pubblici, provocando non poco malcontento.
A questo punto, però, invertire la rotta non è facile. Un semplice taglio della produzione non basterebbe a far risalire le quotazioni in modo significativo nel lungo periodo, almeno per due ragioni. Primo, perché per rivelarsi efficace la riduzione dovrebbe essere davvero molto significativa, addirittura superiore al 50% stando ai calcoli di vari analisti. Secondo, perché un’operazione del genere dovrebbe essere concordata perlomeno fra Opec e Russia: se fosse messa in pratica da un singolo Paese - anche dall’Arabia Saudita - equivarrebbe a un suicidio commerciale.
Non a caso, l’accordo siglato a Doha il 16 febbraio prevedeva una clausola: “I quattro Paesi - ha spiegato Mohammed Saleh al-Sada, ministro del petrolio del Qatar - hanno concordato di congelare la produzione ai livelli di gennaio a condizione che gli altri grandi produttori facciano lo stesso”.
Il riferimento è naturalmente all’Iran, che a gennaio, subito dopo la fine delle sanzioni - per colpa delle quali le sue esportazioni di greggio sono crollate da circa 2,5 milioni di barili al giorno nel 2011 agli attuali 1,1 mbg - aveva annunciato un piano per aumentare l’export di petrolio di 500mila barili al giorno.
Com’era prevedibile, mercoledì 17 febbraio Mehdi Asali, delegato iraniano all’Opec, ha definito “illogica” la richiesta di congelare la produzione: gli altri esportatori hanno approfittato degli anni di embargo nei confronti della Repubblica islamica per aumentare il loro output fino a 4 milioni di barili al giorno “e ora si aspettano che l’Iran paghi il costo di un riequilibrio. Se ci chiedono di diminuire la nostra produzione, la risposta è no”.Subito dopo il ministro del petrolio iraniano Bijan Zanganeh, al termine di un incontro con i suoi omologhi di Iraq, Qatar e Venezuela, ha detto che Teheran “appoggia la decisione presa da membri Opec e paesi non-Opec di mantenere un tetto alla produzione per stabilizzare il mercato e i prezzi a beneficio dei produttori e dei consumatori”. Parole sibilline con cui il ministro è riuscito a confondere i mercati, provocando un immediato e inspiegabile rialzo delle quotazioni che è stato riassorbito nei giorni seguenti.
In realtà, la posizione dell’Iran è piuttosto chiara: se gli altri Paesi si sforzano di far risalire il prezzo del greggio ben venga, ma non si può pretendere che questo obiettivo sia raggiunto con la collaborazione di Teheran, che dal 2013 a causa degli embarghi internazionali ha perso qualcosa come 5 miliardi di dollari al mese. Insomma, la produzione globale aumenterà invece di diminuire o di stabilizzarsi. Del resto, con l’Arabia Saudita in difficoltà, come si può chiedere all’Iran di non picchiare sulla ferita?