di Carlo Musilli

Anche la locomotiva più veloce, prima o poi, deve rallentare. E’ quanto sta accadendo alla Germania, che fatica a trascinare fuori dalle sabbie mobili i suoi diamanti più preziosi, i due gruppi sfoggiati per anni nel mondo come modello di gestione illuminata e profittevole: Volkswagen e Deutsche Bank. Il colosso automobilistico sconta in tutto il mondo gli effetti del Dieselgate, lo scandalo delle emissioni truccate (recentemente arrivato a toccare anche Mercedes, contro cui è stata intentata una class action negli Stati Uniti).

Secondo l’agenzia tedesca Adp, la casa di Wolfsburg ha pronto un piano di esuberi che coinvolgerà 3mila dipendenti del settore amministrativo. Non si tratterebbe di licenziamenti, ma di prepensionamenti, trasferimenti e mancati rinnovi di contratti a tempo determinato. Lo scopo è quello di un’azienda qualsiasi in tempo di crisi: ridurre i costi.

Il mercato, nel frattempo, non aiuta: a febbraio le vendite del gruppo sono scese dell’1,2% su base annua, passando da 701.500 a 693.300 unità, a causa della contrazione del giro d’affari nei paesi emergenti e negli Stati Uniti. Il legame fra questa flessione e il Dieselgate è abbastanza evidente, visto che le immatricolazioni del solo marchio Volkswagen sono scese di ben il 4,7%, a 394.400 unità, compensate solo dai risultati degli altri brand della scuderia (Audi, Skoda, Seat e Porsche).

Ma non è finita. Michael Horn, amministratore delegato e direttore generale della divisione americana della casa automobilistica tedesca, si è dimesso mercoledì. Il top manager era stato tra i principali volti pubblici nella gestione dello scandalo sulle emissioni: si era scusato a nome dell’azienda davanti al Congresso Usa, assumendosi la responsabilità per la vicenda e impegnandosi a rimediare.

Intanto, gli Stati Uniti hanno avviato una nuova vertenza giudiziaria chiedendo a Volkswagen informazioni su diverse questioni aperte, per scoprire se il colosso tedesco abbia violato anche alcune leggi contro le frodi bancarie.

Sul gruppo pende già una causa per violazione delle normative ambientali del valore di circa 46 miliardi di dollari. Come se non bastasse, secondo la Sueddeutsche Zeitung, le manipolazioni ai motori diesel di Volkswagen sarebbero più ampie del previsto e sarebbero aumentate mentre gli inquirenti Usa già svolgevano la loro inchiesta.

Quanto a Deutsche Bank, la banca tedesca ha registrato nel 2015 una maxi-perdita da 6,8 miliardi di euro, ma non ha ritenuto opportuno cancellare i bonus del 2015. Li ha semplicemente ridotti del 17%, a 2,4 miliardi di euro, spiegando però che “gli utili, così come i risultati negativi 2015, sono condizionati soprattutto da effetti straordinari”. Insomma, meriti o colpe non c'entrano: è tutto in mano al caso.

Questa scusa però non vale per i vertici dell'istituto: il consiglio di sorveglianza ha inviato un segnale cancellando per intero (almeno) i premi destinati ai membri del consiglio di gestione, che lo scorso anno avevano incassato 15,7 milioni (3,7 milioni a testa ai due co-Ceo, Anshu Jain e Jurgen Fitschen). Per quest'anno il board deve accontentarsi di 22,7 milioni di stipendi fissi. Si consoleranno pensando che è andata assai peggio agli azionisti della Banca, visto che in un anno il titolo in Borsa ha perso circa il 40%.

A ben guardare, le sorti di Volkswagen e di Deutsche Bank hanno qualcosa in comune. In primo luogo, entrambe le società devono risollevarsi da scandali memorabili. Ma se per il gruppo automobilistico il caso da fronteggiare è uno solo, il Dieselgate, negli ultimi anni il colosso bancario è finito sotto inchiesta ai quattro angoli del pianeta per truffe e operazioni illegali di ogni sorta. Ad esempio, ha manipolato insieme ad altri istituti il Libor e l'Euribor, i tassi di riferimento a cui le banche si prestano denaro fra loro, e per questa ragione ha già ricevuto multe per oltre 3,5 miliardi dalla Commissione europea e delle autorità di vigilanza britanniche e americane.

In Svizzera, invece, la Banca è accusata di aver distorto il mercato dell'oro e dell'argento, mentre negli Stati Uniti potrebbe ricevere sanzioni per non aver rispettato in passato l'embargo sull'Iran. A chiusura di questa carrellata (tutt'altro che esaustiva), non si può dimenticare il ruolo svolto da Deutsche nella grande crisi del 2008: in un'inchiesta del Senato Usa, si legge che la Banca tedesca è stata, insieme a Goldman Sachs, quella che più di ogni altra ha costruito i titoli tossici all'origine del collasso finanziario globale.

Ed è qui che si innesta il secondo motivo di analogia con Volkswagen. Come il gruppo automobilistico, che ha peccato di arroganza nel tentativo di vincere la corsa contro Toyota per il primato mondiale, Deutsche Bank ha cercato invano di trasformarsi in un gigante capace di rivaleggiare con i padroni di Wall Street e, per colmare il gap, si è gettata con tanto ardire nella speculazione forsennata che ancora oggi un terzo del bilancio è infettato da prodotti poco trasparenti, derivati in primis.

Di fronte a un quadro simile, anche un vecchio alleato come Stoccolma, uno degli sherpa dell'asse del Nord, si sente in diritto di alzare la voce. La Svezia ha minacciato di portare il governo di Angela Merkel di fronte alla Corte di giustizia europea se Berlino non rispetterà il regolamento di Dublino riammettendo i migranti che, pur essendosi registrati in terra tedesca, sono passati oltreconfine e hanno fatto richiesta di asilo nel Paese scandinavo.

Intanto, si fa strada l'ipotesi che l'Europa proceda finalmente contro la Germania per il suo surplus commerciale eccessivo, visto che ormai da nove anni consecutivi i tedeschi - mentre minacciano procedure d'infrazione a danno degli altri Paesi - violano le regole comunitarie superando la soglia delle esportazioni consentita dall’Unione Europea e danneggiando così l’intera Eurozona. Se un provvedimento arriverà, sarà la dimostrazione di una legge non scritta: quando il potere economico si appanna, il privilegio politico ne risente.

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