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di Carlo Musilli
Come ogni anno, Germania e Fondo monetario internazionale fanno ripartire la giostra dei ricatti alla Grecia. Lo schema è sempre lo stesso: per non collassare Atene ha bisogno di fondi internazionali, ma la Troika (Ue, Bce e Fmi) pretende l’ennesimo aggravio di austerità per sbloccare la nuova tranche di aiuti, che stavolta fa riferimento al piano di salvataggio da 86 miliardi concordato solo l’estate scorsa.
Il premier greco Alexis Tsipras aveva chiesto di convocare un vertice dei leader dell’Unione per uscire dal vicolo cieco, ma il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk si era detto scettico e il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha chiuso la discussione con due parole: “Sono contrario”. L’Eurogruppo straordinario che doveva tenersi oggi, invece, è stato rinviato alla settimana prossima, “o al più tardi alla successiva”, ha fatto sapere ieri sera il presidente Jeroen Dijsselbloem.
La trattativa si annuncia ancora una volta estenuante e, se possibile, quest’anno l’ingiustizia di cui è vittima la Grecia risulta ancora più evidente che in passato. La nuova contesa è figlia dell’improvviso irrigidimento di Fmi e Germania, convinti che i nuovi tagli da 3 miliardi approvati dal governo ellenico con le riforme di fisco e pensioni non siano sufficienti a rispettare gli obiettivi contenuti nel piano di salvataggio, che impone ad Atene di ottenere un avanzo primario pari al 3,5% nel 2018.
Per questa ragione Washington e Berlino vogliono costringere la Grecia a varare nuove misure di austerità non previste dagli accordi della scorsa estate. In sintesi, si chiede ora al Parlamento ellenico di approvare interventi per altri 3 miliardi di euro (pari al 2% del Pil) che scatterebbero automaticamente nel caso in cui Atene mancasse l’obiettivo fissato per il 2018.
Peccato che la Costituzione greca impedisca di votare una clausola di salvaguardia di questo tipo. Lo ha fatto notare il ministro delle finanze Euclis Tsakalotos, che ha proposto in alternativa l’impegno del suo Paese a operare tagli automatici nel momento in cui l’Eurostat certificasse scostamenti significativi dagli obiettivi. I creditori hanno rifiutato ed ecco spiegato il nuovo stallo.
Il copione recitato dalla Troika è ben riassunto in un’intercettazione svelata da Wikileaks: “Bisogna portare la Grecia sull’orlo del baratro allungando i negoziati fino a luglio (quando Atene dovrà pagare 3,5 miliardi alla Bce, ndr), perché solo quando sono con le spalle al muro fanno concessioni”. Queste amenità sono uscite dalla bocca del danese Poul Thomsen, attuale responsabile europeo dell’Fmi ed ex capo della Troika in Grecia.
Quando ricopriva quest’ultimo incarico, Thomsen si produsse in una confessione che non viene mai ricordata abbastanza: “Scusate, - disse - i nostri calcoli erano sbagliati. Abbiamo usato moltiplicatori scorretti. Non avevamo previsto che l’austerità avrebbe abbattuto i consumi e mandato a picco il Pil. E avremmo dovuto ristrutturare i debiti molto prima”. Come premio per il gran lavoro svolto ottenne la nomina al vertice europeo del Fondo.
Eppure, in quel breve momento di sincerità, Thomsen rivelò il più grande segreto di Pulcinella che la storia economica dell’Ue ricordi. L’austerità non ha aiutato il Pil greco a ripartire: anzi, gli ha dato il colpo di grazia. Non ha nemmeno migliorato i conti pubblici ellenici: al contrario, li ha affossati. Ed è per questo che Atene non sarà mai in grado di produrre il surplus di bilancio che servirebbe a ripagare i debiti. In altre parole, la Grecia non si risolleva a causa dell’austerità, e siccome non si risolleva la Troika le impone nuova austerità.
La demenzialità di questo circolo vizioso è manifesta e finché si continua su questa strada è assurdo immaginare che un giorno Atene riuscirà a tornare sul mercato, finanziare da sola tutto il proprio debito pubblico e ripagare per intero i prestiti ricevuti.
In realtà - come lo stesso Fmi sostiene da tempo - l’unica soluzione concepibile è abbattere il debito pubblico ellenico. Lo sanno tutti, eppure la Germania e i suoi sherpa impongono di continuare con il perverso schema Ponzi che tiene artificialmente in vita i conti di Atene (e uccide il Paese): debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi.
Come si spiega tanta ottusità? I problemi delle banche private sono ormai risolti: la loro esposizione in Grecia è stata scaricata sulle spalle dei contribuenti europei tramite i precedenti piani di salvataggio, i cui fondi sono stati usati in massima parte per ripagare i crediti degli istituti francesi e tedeschi, e non per aiutare l’economia ellenica. Ma adesso, perché continuare?
La risposta a questa domanda emerge in parte da uno studio del centro tedesco di ricerca economica Iwh. Secondo le simulazioni dell’istituto, pubblicate l’estate scorsa, da quando è iniziato il calvario ellenico sui mercati allo scorso agosto Berlino ha risparmiato circa 100 miliardi di euro in termini d'interessi sul debito pubblico, perché i tassi sui titoli di Stato tedeschi (considerati un bene rifugio) calano ogni volta che arriva una brutta notizia sulla Grecia. E ogni anno, per fortuna del Bund, riparte la giostra.
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di Antonio Rei
Nuovo Def, nuovo pasticcio. A dimostrazione dell’assunto secondo cui le stime macroeconomiche servono principalmente a rivalutare gli astrologi, nel nuovo Documento di Economia e Finanza il governo riversa una pioggia di bianchetto sulle vecchie stime relative all’andamento dei conti pubblici italiani.
Adesso il Pil 2016 è visto in crescita dell'1,2% (contro il +1,6% stimato lo scorso settembre), mentre per il 2017 si indica ora un +1,4% (dall'1,6%). Per il 2018 le previsioni parlano di un +1,5%, ma il termine è davvero troppo lontano per attribuire a questo dato una qualche credibilità, considerando la rapidità e la facilità con cui cambiano questi numeri.
È vero, il rallentamento della crescita è un fenomeno globale, non solo italiano, ma la congiuntura internazionale non basta a spiegare il flop della politica economica renziana. L’ultima legge di Stabilità era un coacervo di mance e favori che ha drogato i numeri dell’occupazione senza porre affatto basi solide per la ripresa dei consumi e degli investimenti, come vorrebbe far credere il ministro Padoan.
Per citare alcuni numeri, il 5 aprile l’Istat ha scritto che nel quarto trimestre dell'anno scorso il potere di acquisto delle famiglie (al netto dell'inflazione) è sceso dello 0,7%: i consumi sono comunque cresciuti dello 0,4%, ma solo grazie a un ribasso della propensione al risparmio. A gennaio 2016, invece, le vendite al dettaglio in volume sono rimaste invariate rispetto al mese precedente, mentre sono risultate negative per il terzo mese consecutivo su base tendenziale (-1,6%). Come prevedibile, infine, una volta archiviato il maxi-sconto per le assunzioni lo scenario nel mondo del lavoro è tornato a peggiorare, con il tasso di disoccupazione salito all'11,7% a febbraio.
In questo contesto, mentre continua a combattere con Bruxelles sugli aggiustamenti e le limature del deficit e del debito, il governo prepara anche un nuovo pacco regalo per le imprese. A maggio dovrebbero arrivare l'azzeramento della tassa sui capital gain, interventi a sostegno degli investimenti nelle aziende non quotate e sgravi sugli utili reinvestiti. Secondo il Tesoro, il nuovo provvedimento dovrebbe valere un +0,2% di Pil.
Viene da chiedersi dove l’Esecutivo immagini di trovare i soldi per finanziare queste misure, visto che nel frattempo deve disinnescare l’aumento automatico dell’Iva (servono 15 miliardi) e evitare una manovra monstre. Rinviare il pareggio di bilancio al 2019 e chiedere alla Ue di incrementare di altri 11 miliardi il deficit nel 2016 non è sufficiente, perciò nel Def rispunta il taglio delle cosiddette tax expenditures, la selva di deduzioni, detrazioni ed esenzioni fiscali che secondo la Corte dei Conti ogni anno sottrae all’Erario 313 miliardi di euro. Lo scorso 15 ottobre 2015, presentando l’ultima manovra, Renzi aveva orgogliosamente rivendicato la scelta “politica” di non tagliare gli sconti fiscali, perché “significa aumentare le tasse”. Curioso che ci abbia ripensato proprio mentre cucina l’ennesimo cioccolatino per gli imprenditori.
Intendiamoci, le misure in favore delle aziende non sono di per sé negative (anzi), così come non lo era il bonus Irpef da 80 euro al mese né la cancellazione della Tasi sulla prima casa. Il problema è che interventi di questo tipo dimostrano quanto sia ancora lontana la cura shock di cui l’economia italiana avrebbe davvero bisogno per avviare una ripresa credibile. La sterzata potrebbe arrivare con un piano serio (no, non il piano Juncker) per il rilancio degli investimenti pubblici e con l’abbattimento delle tasse sul lavoro.
Purtroppo, si tratta di due chimere: nel primo caso perché non lo consentono le regole europee (ci ritroviamo a pietire uno 0,1% di disavanzo in più pressoché inutile, figurarsi a quanti anni luce di distanza siamo da un piano d’investimenti), nel secondo perché non interessa al governo.
Le scelte dell’Esecutivo, quando non rispondono agli interessi dei lobbisti, sono sempre elettorali. Gli 80 euro sono un regalo circoscritto alla classe media e l’abolizione della tassa sulla prima casa è una misura socialmente iniqua, perché avvantaggia di più chi più ha ed è sostanzialmente irrilevante per i poveri.
Qualsiasi studente di economia sa benissimo che l’effetto sul Pil è molto maggiore quando si abbassano le tasse sul reddito piuttosto che quelle sulla proprietà, ma i politici sanno ancor meglio che l’intervento sul fisco immobiliare porta con sé un dividendo superiore in termini di consenso. Ma poi, alla fine, anche se qualche calcolo si rivela sbagliato che importa? Tra sei mesi arriverà un altro Def.
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di Carlo Musilli
Il modello di sviluppo della Germania è controproducente non solo per le altre economie europee, soffocate dalla corsa all'export che l'austerità impone, ma anche per lo stesso Pil tedesco, che tra il 1990 e il 2010 ha lasciato per strada il 6% di crescita potenziale a causa delle eccessive disuguaglianze fra ricchi e poveri. Lo sostiene l'economista tedesco Marcel Fratzscher nel suo ultimo libro, La battaglia dell'equità, dimostrando la tesi sulla base di dati Ocse.
Fratzscher è uno studioso molto noto in patria, se non altro per le sue posizioni eterodosse rispetto al pensiero economico dominante. Nemico dell'austerity, sostiene da anni che la Germania dovrebbe rilanciare gli investimenti e dare ossigeno alla domanda interna, messa in crisi dalle politiche di rigore. Non sorprende quindi che i centri di ricerca più influenti del Paese si siano messi in fila per confutare anche la sua ultima teoria.
Il più prestigioso è l'istituto IW di Colonia, che ha prodotto un contro-studio in cui sostiene che le disuguaglianze pesano sul Pil solo se i redditi medi sono inferiori ai 9mila dollari l'anno e se la distanza fra ricchi e poveri è già ampia in partenza, ovvero quando il coefficiente di Gini è superiore a 0,35 (dove zero indica la massima equità possibile e 1 il massimo squilibrio, come se una sola persona avesse in mano tutta la ricchezza di una Paese). Naturalmente, la Germania è sotto questa soglia.
L'IW accusa inoltre Fratzscher e l'Ocse di non valutare adeguatamente parametri come la mobilità sociale, l'istruzione, la politica interna e il livello di industrializzazione. A conti fatti, perciò, l'istituto di Colonia arriva a sostenere che tra il 1990 e il 2010 le disuguaglianze hanno assicurato al Pil tedesco una crescita aggiuntiva del 2,3%.
Da questa prospettiva, sembra quasi che i tedeschi debbano rallegrarsi del fatto che la forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi. Uno studio della Bundesbank - non proprio un covo di keynesiani - dimostra che oggi in Germania il 10% dei cittadini detiene il 59,8% della ricchezza, contro il 45,1% di appena 15 anni fa. Il 50% più povero, invece, deve accontentarsi di appena il 2,5% della ricchezza nazionale.
Tobias Schmidt, uno degli esperti della Banca centrale tedesca, afferma che negli ultimi anni i ricchi hanno fatto fortuna grazie agli investimenti nel mattone, favoriti dai tassi d'interesse bassissimi. “C'è un forte legame tra il possesso di immobili e la ricchezza”, spiega Schmidt, sottolineando che “l'aumento del prezzo delle case va a vantaggio soprattutto dei più abbienti”. In Germania, tra il 2010 e il 2014, la metà dei proprietari di immobili ha visto il valore dei propri beni crescere mediamente di circa 33mila euro. Chi invece vive in affitto si è arricchito soltanto di mille euro.
Altri dati, stavolta della fondazione Ebert, rivelano che sta tornando ad allargarsi anche la forbice fra la parte orientale e quella occidentale della Germania: all'inizio dell'ultima crisi, tra il 2009 e il 2012, la differenza del Pil pro capite tra Est e Ovest è salita al 26,6%.
Insomma, un progresso invidiabile? In realtà no, e non solo per ragioni morali. Che l'aumento dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza rallenti la crescita non è affatto un argomento nuovo: tornata al centro del dibattito accademico dopo lo scoppio della crisi nel 2008, la tesi è sostenuta oggi da moltissimi studiosi (non solo keynesiani), guidati dai premi Nobel statunitensi Paul Krugman e Joseph Stiglitz, ma anche da una stella emergente come il francese Thomas Piketty. A ben vedere, nemmeno l'istituto IW contesta l'assunto di fondo, limitandosi a criticare la metodologia usata da Fratzscher.
La novità, semmai, è nel fatto che oggi per la prima volta l'obiettivo si restringe al Paese che ha imposto a tutto il continente il proprio modello, spacciando una politica economica egoista e miope come una rivelazione divina indiscutibile e immodificabile. Sulla base di questo inganno originario è evidente che ogni critica, anche se fondata su dati Ocse, ha il sapore di un'eresia.
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di Carlo Musilli
La Bce mette a rischio la fusione tra Bpm e Banco Popolare, costringendo il governo italiano a scendere in campo per sbloccare la situazione. In gioco c’è la nascita del terzo gruppo bancario del Paese, l’aggregazione più importante dopo quelle che 10 anni fa diedero vita a Intesa Sanpaolo e a Unicredit.
Proprio la storia delle prime due banche italiane fornisce una chiave di lettura per le vicende di oggi: le fusioni Banca Intesa-Sanpaolo Imi e Unicredito-Capitalia furono pilotate tra 2006 e 2007 da Mario Draghi, allora governatore di Bankitalia. La volontà di ostacolare il nuovo matrimonio non va ascritta perciò all’attuale presidente della Bce - da sempre favorevole al consolidamento del sistema creditizio italiano - quanto alla componente franco-tedesca che gestisce l’area tecnica dell’Eurotower, cui non va a genio la nascita di un nuovo importante polo bancario nel nostro Paese.
Difficile spiegare altrimenti l’incoerenza dimostrata dalla Banca centrale europea. Lo scorso novembre tutti i più grandi istituti italiani hanno superato l’indagine Srep (Supervisory review and evaluation process), ovvero il test della Bce su capitale, liquidità, governance e modello di business: in particolare, la Banca Popolare di Milano si è piazzata in seconda categoria, mentre Banco Popolare in terza.
Oggi, tuttavia, per dare il via libera alla fusione fra le due banche, l’Eurotower pone condizioni stringenti sulla governance e soprattutto sullo smaltimento dei crediti deteriorati, che richiederebbe quasi certamente un aumento di capitale. In altri termini, da soli i due istituti vanno bene così, ma se vogliono unirsi devono mettere mano al portafoglio.
La Bce ha fatto anche altre richieste (ad esempio, entro un mese vuole un piano industriale pluriennale e una bozza dello statuto della società che nascerebbe dalla fusione), ma quella della ricapitalizzazione è la più grave e la meno comprensibile, di sicuro l’unica in grado di far saltare l’operazione.
Per scongiurare questo rischio è intervenuto il governo. Venerdì 18 marzo, poche ore dopo che i due istituti avevano reso note le condizioni poste dalla Bce, il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha pubblicato una nota in cui dichiara di “apprezzare questa operazione dalla quale nascerà una banca più grande e più forte, in grado di affrontare il mercato nel quadro delle nuove norme europee di settore e quindi capace di erogare più risorse alle imprese, in una stagione in cui il finanziamento degli investimenti è cruciale per il rilancio dell’economia”.
Ma i primi destinatari delle parole di Padoan non sono i tecnici della Bce, bensì i vertici dei due istituti, implicitamente esortati a proseguire con la fusione malgrado le condizioni siano più pesanti di quelle previste dai due amministratori delegati (Pier Francesco Saviotti del Banco Popolare e Giuseppe Castagna della Popolare di Milano).
Il ministro “è informato della determinazione del management” delle due banche “a procedere nell’operazione di fusione - prosegue la nota - con il soddisfacimento di tutti i requisiti indicati dalla Bce per il via libera. Un’operazione che viene recepita con favore da tutti gli stakeholder e degli investitori”. E ancora: “Si tratta della prima operazione di fusione nel segmento delle banche popolari dopo il varo del decreto legge che ha già avuto come effetto alcune operazioni di trasformazione in società per azioni e l’avvio del processo di quotazione di alcuni istituti”.
Peccato che sabato, durante l’assemblea del Banco che ha approvato i conti del 2015, Saviotti sia stato meno deciso del ministro: “Il progetto ha qualche difficoltà - ha ammesso l’Ad - qualche ostacolo per l'approccio non facilmente comprensibile della vigilanza europea. Il buon esito non è ancora scontato… Se son rose fioriranno e mi auguro che questa fioritura possa avvenire in tempi ragionevolmente brevi”. I consigli d'amministrazione delle due banche dovrebbero riunirsi entro martedì.
Sul tema è intervenuto anche Matteo Renzi: “Vanno aiutati i processi di integrazione e fusione - ha detto venerdì il Premier al termine del Vertice Ue sui migranti -, tutto ciò che va nella direzione della riforma delle banche popolari per noi è positivo e incoraggiante. Il 2016 è l’anno in cui l’Italia deve sistemare definitivamente la propria questione bancaria, che non è grave come in altri Paesi ma ha dei margini e dei profili di problematicità per cui stiamo lavorando, anche quando voi non ve ne accorgete. Stiamo lavorando pancia a terra tutti i santi giorni per avere una soluzione compatibile con le regole e che dia tranquillità ai correntisti e garanzie agli istituti di credito”.
Molti hanno letto in queste parole un riferimento alla questione Mps, visto che la settimana scorsa alcune indiscrezioni (poi smentite) parlavano di pressioni da Palazzo Chigi per una soluzione che coinvolgesse Intesa o la Cdp. Fonti di Governo hanno quindi precisato che “quando Renzi sulle banche ha parlato di soluzione intendeva tutta una serie di provvedimenti e di iniziative che sono già in campo e che daranno i loro frutti”. E se è così problematica la fusione Bpm-Banco Popolare, viene da chiedersi in che modo si potrà mai archiviare il dossier Montepaschi.
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di Carlo Musilli
Anche la locomotiva più veloce, prima o poi, deve rallentare. E’ quanto sta accadendo alla Germania, che fatica a trascinare fuori dalle sabbie mobili i suoi diamanti più preziosi, i due gruppi sfoggiati per anni nel mondo come modello di gestione illuminata e profittevole: Volkswagen e Deutsche Bank. Il colosso automobilistico sconta in tutto il mondo gli effetti del Dieselgate, lo scandalo delle emissioni truccate (recentemente arrivato a toccare anche Mercedes, contro cui è stata intentata una class action negli Stati Uniti).
Secondo l’agenzia tedesca Adp, la casa di Wolfsburg ha pronto un piano di esuberi che coinvolgerà 3mila dipendenti del settore amministrativo. Non si tratterebbe di licenziamenti, ma di prepensionamenti, trasferimenti e mancati rinnovi di contratti a tempo determinato. Lo scopo è quello di un’azienda qualsiasi in tempo di crisi: ridurre i costi.
Il mercato, nel frattempo, non aiuta: a febbraio le vendite del gruppo sono scese dell’1,2% su base annua, passando da 701.500 a 693.300 unità, a causa della contrazione del giro d’affari nei paesi emergenti e negli Stati Uniti. Il legame fra questa flessione e il Dieselgate è abbastanza evidente, visto che le immatricolazioni del solo marchio Volkswagen sono scese di ben il 4,7%, a 394.400 unità, compensate solo dai risultati degli altri brand della scuderia (Audi, Skoda, Seat e Porsche).
Ma non è finita. Michael Horn, amministratore delegato e direttore generale della divisione americana della casa automobilistica tedesca, si è dimesso mercoledì. Il top manager era stato tra i principali volti pubblici nella gestione dello scandalo sulle emissioni: si era scusato a nome dell’azienda davanti al Congresso Usa, assumendosi la responsabilità per la vicenda e impegnandosi a rimediare.
Intanto, gli Stati Uniti hanno avviato una nuova vertenza giudiziaria chiedendo a Volkswagen informazioni su diverse questioni aperte, per scoprire se il colosso tedesco abbia violato anche alcune leggi contro le frodi bancarie.
Sul gruppo pende già una causa per violazione delle normative ambientali del valore di circa 46 miliardi di dollari. Come se non bastasse, secondo la Sueddeutsche Zeitung, le manipolazioni ai motori diesel di Volkswagen sarebbero più ampie del previsto e sarebbero aumentate mentre gli inquirenti Usa già svolgevano la loro inchiesta.
Quanto a Deutsche Bank, la banca tedesca ha registrato nel 2015 una maxi-perdita da 6,8 miliardi di euro, ma non ha ritenuto opportuno cancellare i bonus del 2015. Li ha semplicemente ridotti del 17%, a 2,4 miliardi di euro, spiegando però che “gli utili, così come i risultati negativi 2015, sono condizionati soprattutto da effetti straordinari”. Insomma, meriti o colpe non c'entrano: è tutto in mano al caso.
Questa scusa però non vale per i vertici dell'istituto: il consiglio di sorveglianza ha inviato un segnale cancellando per intero (almeno) i premi destinati ai membri del consiglio di gestione, che lo scorso anno avevano incassato 15,7 milioni (3,7 milioni a testa ai due co-Ceo, Anshu Jain e Jurgen Fitschen). Per quest'anno il board deve accontentarsi di 22,7 milioni di stipendi fissi. Si consoleranno pensando che è andata assai peggio agli azionisti della Banca, visto che in un anno il titolo in Borsa ha perso circa il 40%.
A ben guardare, le sorti di Volkswagen e di Deutsche Bank hanno qualcosa in comune. In primo luogo, entrambe le società devono risollevarsi da scandali memorabili. Ma se per il gruppo automobilistico il caso da fronteggiare è uno solo, il Dieselgate, negli ultimi anni il colosso bancario è finito sotto inchiesta ai quattro angoli del pianeta per truffe e operazioni illegali di ogni sorta. Ad esempio, ha manipolato insieme ad altri istituti il Libor e l'Euribor, i tassi di riferimento a cui le banche si prestano denaro fra loro, e per questa ragione ha già ricevuto multe per oltre 3,5 miliardi dalla Commissione europea e delle autorità di vigilanza britanniche e americane.
In Svizzera, invece, la Banca è accusata di aver distorto il mercato dell'oro e dell'argento, mentre negli Stati Uniti potrebbe ricevere sanzioni per non aver rispettato in passato l'embargo sull'Iran. A chiusura di questa carrellata (tutt'altro che esaustiva), non si può dimenticare il ruolo svolto da Deutsche nella grande crisi del 2008: in un'inchiesta del Senato Usa, si legge che la Banca tedesca è stata, insieme a Goldman Sachs, quella che più di ogni altra ha costruito i titoli tossici all'origine del collasso finanziario globale.
Ed è qui che si innesta il secondo motivo di analogia con Volkswagen. Come il gruppo automobilistico, che ha peccato di arroganza nel tentativo di vincere la corsa contro Toyota per il primato mondiale, Deutsche Bank ha cercato invano di trasformarsi in un gigante capace di rivaleggiare con i padroni di Wall Street e, per colmare il gap, si è gettata con tanto ardire nella speculazione forsennata che ancora oggi un terzo del bilancio è infettato da prodotti poco trasparenti, derivati in primis.
Di fronte a un quadro simile, anche un vecchio alleato come Stoccolma, uno degli sherpa dell'asse del Nord, si sente in diritto di alzare la voce. La Svezia ha minacciato di portare il governo di Angela Merkel di fronte alla Corte di giustizia europea se Berlino non rispetterà il regolamento di Dublino riammettendo i migranti che, pur essendosi registrati in terra tedesca, sono passati oltreconfine e hanno fatto richiesta di asilo nel Paese scandinavo.
Intanto, si fa strada l'ipotesi che l'Europa proceda finalmente contro la Germania per il suo surplus commerciale eccessivo, visto che ormai da nove anni consecutivi i tedeschi - mentre minacciano procedure d'infrazione a danno degli altri Paesi - violano le regole comunitarie superando la soglia delle esportazioni consentita dall’Unione Europea e danneggiando così l’intera Eurozona. Se un provvedimento arriverà, sarà la dimostrazione di una legge non scritta: quando il potere economico si appanna, il privilegio politico ne risente.