di Carlo Musilli

Parole altisonanti, risultati irrilevanti. Il G7 giapponese si è chiuso con le solite dichiarazioni magniloquenti, ma non è riuscito a indicare una strada plausibile per raggiungere gli obiettivi fissati. Nel documento finale della riunione fra i 7 capi di Stato e di governo - una volta erano 8, ma ormai la Russia è fuori dal tavolo per motivi politici - si legge che “la crescita globale” è “una priorità urgente”.

La preoccupazione è ovvia, visto che le economie avanzate invece di accelerare sul cammino della ripresa rallentano, mentre le emergenti nel migliore dei casi perdono abbrivio (vedi la Cina) e nel peggiore entrano nel tunnel della contrazione (vedi il Brasile e l’ostracizzata Russia).

Ora, per rilanciare la crescita potenziale, in teoria, bisogna dosare tre strumenti: politica fiscale, politica monetaria e riforme strutturali. Il problema è che, come in varie riunioni precedenti, neanche stavolta i convitati del G7 sono riusciti a ricomporre la loro divisione di fondo.

Da una parte ci sono i sostenitori di politiche fiscali più accomodanti, con in prima fila il Premier giapponese Shinzo Abe (che deve fronteggiare, oltre alla mancata crescita, anche gli spauracchi decennali della deflazione e del debito pubblico lunare), dall’altra la solita Germania, che in ogni sede continua a opporsi strenuamente a qualsiasi utilizzo della leva fiscale. Del resto, l’economia tedesca è l’unica capace di trarre profitto dall’austerità altrui - che innesca la guerra delle esportazioni, in cui la vittoria teutonica è scontata, almeno al momento - per cui è comprensibile che a ogni longitudine del globo Berlino continui a contraddire chi cerca di convincerla a sterzare sulla strada dello sviluppo.

Di fronte a una contrapposizione così macroscopica, il G7 non è riuscito ad andare oltre il solito compromesso già affermato in vari comunicati del G20. Con l’obiettivo chimerico di una crescita non meglio precisata, tutti i membri del gruppo sono invitati a utilizzare le leve di politica economica a loro disposizione, ma senza che ciò comprometta la sostenibilità fiscale di ciascuno. In termini pratici, questo significa che, rispetto a ieri, non cambia assolutamente nulla.

Dal punto di vista politico, invece, un seppur minimo risultato è stato raggiunto. In sostanza, il G-7 è riuscito a restringere il perimetro del prossimo G20, che si terrà a settembre sotto la presidenza cinese, imponendo in agenda una serie di temi, come l’importanza degli investimenti infrastrutturali pubblici. Secondo il Fondo monetario internazionale, è da questa via che passa la soluzione del conflitto fra chi vorrebbe sostenere la domanda aggregata e chi preferisce intervenire sull’offerta tramite riforme strutturali. Potrebbe essere questo un modo per uscire dallo stallo, anche perché i recenti risultati delle presidenziali austriache hanno ricordato a tutti quanto l’inerzia in tema di politica economica stia giovando ai populismi di ogni Paese.

Finora, però, l’unica certezza è che le sole istituzioni delle economie avanzate ad adoperarsi più o meno all’unisono per incentivare la ripresa sono le banche centrali (anche se la Fed, che ha iniziato la politica espansiva ben prima della Bce, sta imboccando ora la strada del riassestamento dei tassi verso l’alto). I rendimenti a zero, se non negativi, e i programmi di acquisto bond non sono però sufficienti da soli a invertire il trend del rallentamento planetario.

Intanto, Abe ha ricorda ai suoi colleghi che il crollo del 55% del prezzo delle materie prime dal 2014 a oggi è analogo per entità a quello registrato prima del disastro di Lehman Brothers. La campana suona, ma le contromisure non arrivano. Quello che servirebbe, oltre all’intervento dei banchieri centrali, è una chiara strategia di politica economica espansiva da parte di chi detiene il potere esecutivo. E l’ultimo G7, come i precedenti, ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo lontani dalla meta.

di Carlo Musilli

“Uno shock che metterebbe in pericolo l'economia mondiale”. Così i ministri delle Finanze del G7 hanno definito la possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. L’obiettivo è fare pressione sugli elettori del Regno Unito, che il 23 giugno si esprimeranno sulla Brexit via referendum, ma anche prendere atto di un quadro globale in cui i rischi si sono moltiplicati rispetto a pochi mesi fa. "Le incertezze sono aumentate - scrivono i ministri nel documento finale della riunione di due giorni in Giappone - mentre i conflitti geopolitici, il terrorismo, il flusso di rifugiati e lo shock di un’eventuale uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea complicano il clima economico globale”.

I grandi della Terra sposano perciò in massa la causa del No alla Brexit, sostenuta in primo luogo dal governo Cameron: “Se usciamo dall’Unione europea - ha detto George Osborne, cancelliere dello Scacchiere, intervistato dalla Bbc in Giappone - ci sarà un immediato shock economico per i mercati finanziari. La gente non saprà cosa riserva il futuro e nel lungo termine tutti saranno più poveri. Ciò colpirà negativamente il valore delle abitazioni e al tempo stesso chi comprerà la prima casa dovrà far fronte a tassi dei mutui in salita, senza contare che ottenere un mutuo sarà più difficile. È una situazione in cui tutti perdono”.

Domenica David Cameron ha rincarato la dose. In un’intervista al Sun on Sunday, il Premier britannico ha detto che, in caso di divorzio da Bruxelles, il costo della spesa settimanale aumenterebbe del 3%, pari a una media di oltre 120 sterline l'anno, mentre i prezzi del vestiario salirebbero del 5% e la crescita degli stipendi rallenterebbe bruscamente.

Ma come si arriverebbe a tutto questo? In realtà, nessuno può sapere con certezza e nel dettaglio cosa accadrebbe in caso di Brexit, soprattutto sul lungo periodo , ma la maggior parte dei tecnici concorda nel prevedere conseguenze fosche, quando non apocalittiche. I punti di vista principali da cui affrontare l’argomento sono quattro: commerciale, finanziario, monetario e politico.

Il primo punto è quello su cui più si concentrano i favorevoli all’uscita. I principali argomenti di chi sostiene il Sì, infatti, sono due: la Gran Bretagna farebbe fortuna fuori dall’Ue perché risparmierebbe miliardi di sterline diretti ogni anno alle casse di Bruxelles e soprattutto perché sarebbe libera di siglare i propri accordi commerciali con il resto del mondo.

Quest’ultima affermazione è perlomeno azzardata, perché il resto del mondo eviterà d’incentivare la dissoluzione dell’Ue: cinesi e americani, ad esempio, hanno già escluso la possibilità di siglare con Londra patti commerciali di maggior favore per i britannici dopo l’eventuale addio all’Unione. Ancora più netto il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble: “Non devono sperare che un voto per uscire dall'Ue possa significare l'avvio di nuovi negoziati sullo status della Gran Bretagna”.

Veniamo al secondo punto, la finanza. Londra è il principale centro finanziario d’Europa e per molte banche internazionali è la base da cui operare nel nostro continente. Per risparmiare sui costi e costruire economie di scala i grandi gruppi hanno concentrato buona parte delle loro operazioni europee in Inghilterra, contando sulla possibilità di vendere in 28 stati senza l’obbligo di ottenere autorizzazioni dalla autorità di ogni singolo Paese. Con la Brexit questa organizzazione rischia di implodere e il contraccolpo per Londra sarebbe davvero pesante.

Nella City operano 250 banche mondiali, l’industria finanziaria dà lavoro a 1 milione e 400mila persone e versa ogni anno tasse per 28 miliardi di sterline, il 12% delle entrate fiscali del Regno Unito. Ora, in caso di Brexit, è evidente che nessun grande istituto rimarrà a guardare. Secondo il Financial Times, Deutsche Bank (che a Londra ha novemila dipendenti) ha istituito un gruppo di lavoro per valutare i rischi della rottura Uk-Ue e per ipotizzare il trasloco fuori dalla capitale inglese. Si è schierata apertamente per il No alla Brexit anche Hsbc, primo istituto del credito britannico con 51 milioni di clienti nel mondo, mentre i colossi americani Citigroup e Morgan Stanley hanno già indicato in Dublino l’alternativa a Londra.

Del resto, sempre Osborne aveva già avvertito che, secondo i calcoli del Tesoro britannico, 285mila posti di lavoro in Gran Bretagna sono direttamente collegati all’export di servizi finanziari verso la Ue: uscire sarebbe perciò “catastrofico per l’occupazione e per gli stipendi”.

Per quanto riguarda le conseguenze monetarie, l’allarme Brexit è arrivato dallo stesso governatore della Banca d'Inghilterra, Mark Carney: in caso di uscita dall’Ue “la sterlina si svaluterebbe ulteriormente, anche in modo violento - ha detto - spingendo l'inflazione oltre gli obbiettivi. La domanda aggregata calerebbe, rispetto alle nostre previsioni, a causa della stretta finanziaria, della riduzione di valore degli asset e dell'incertezza sui rapporti commerciali del Regno Unito. Le famiglie frenerebbero i consumi e le imprese gli investimenti. Anche le condizioni finanziarie globali potrebbero mutare, con ripercussioni sulle esportazioni. In un quadro di questo genere, il Comitato di politica monetaria dovrebbe misurarsi con una scelta difficile, stretto fra l'esigenza di stabilizzare l'inflazione e quella di tutelare produzione e occupazione”.

In altre parole, la Banca d’Inghilterra si ritroverebbe a un bivio davvero scomodo: alzare i tassi per frenare l’inflazione (che ha un costo immediato per famiglie e imprese) o tenerli bassi per non affossare il Pil e il mercato del lavoro. “Lasciare l'Unione europea ci costringerebbe quindi a dovere scegliere fra due sconfitte”, riassume Osborne.

Un po’ di numeri: secondo un rapporto del National Institute of Economic and Social Research (Niesr), dopo l’eventuale vittoria del Sì, la sterlina perderebbe immediatamente il 20%, mentre il Pil britannico subirebbe una contrazione dell’1% nel 2017 e del 2,3% nel 2018, ma potrebbe calare anche del 3,7% entro il 2030.

Se invece gli elettori decideranno di restare nell’Unione, lo studio sostiene che il Pil aumenterà del 2% nel 2016 e del 2,7% l’anno prossimo. Stando all’Ocse, invece, l’addio a Bruxelles farebbe calare il Pil britannico di 3 punti percentuali entro il 2020 (pari a un costo per famiglia di 2.200 sterline ai prezzi attuali), mentre da qui al 2030 la riduzione sarebbe di 5 punti in uno scenario intermedio.

Infine, la politica. L’uscita volontaria dall’Ue non ha precedenti, perciò, se si realizzasse, aprirebbe una via che in molti vorrebbero seguire. I movimenti antieuropeisti che già prosperano in tutto il continente ne uscirebbero ulteriormente rafforzati, mentre i mercati ricomincerebbero a scommettere su quale sarebbe il prossimo membro dell’Unione ad abbandonare la nave. E, come ai tempi del rischio Grexit, non è difficile immaginare quali Paesi saranno in cima alla lista dei bookmakers.

di Carlo Musilli

Come ogni anno, Germania e Fondo monetario internazionale fanno ripartire la giostra dei ricatti alla Grecia. Lo schema è sempre lo stesso: per non collassare Atene ha bisogno di fondi internazionali, ma la Troika (Ue, Bce e Fmi) pretende l’ennesimo aggravio di austerità per sbloccare la nuova tranche di aiuti, che stavolta fa riferimento al piano di salvataggio da 86 miliardi concordato solo l’estate scorsa.

Il premier greco Alexis Tsipras aveva chiesto di convocare un vertice dei leader dell’Unione per uscire dal vicolo cieco, ma il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk si era detto scettico e il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha chiuso la discussione con due parole: “Sono contrario”. L’Eurogruppo straordinario che doveva tenersi oggi, invece, è stato rinviato alla settimana prossima, “o al più tardi alla successiva”, ha fatto sapere ieri sera il presidente Jeroen Dijsselbloem.

La trattativa si annuncia ancora una volta estenuante e, se possibile, quest’anno l’ingiustizia di cui è vittima la Grecia risulta ancora più evidente che in passato. La nuova contesa è figlia dell’improvviso irrigidimento di Fmi e Germania, convinti che i nuovi tagli da 3 miliardi approvati dal governo ellenico con le riforme di fisco e pensioni non siano sufficienti a rispettare gli obiettivi contenuti nel piano di salvataggio, che impone ad Atene di ottenere un avanzo primario pari al 3,5% nel 2018.

Per questa ragione Washington e Berlino vogliono costringere la Grecia a varare nuove misure di austerità non previste dagli accordi della scorsa estate. In sintesi, si chiede ora al Parlamento ellenico di approvare interventi per altri 3 miliardi di euro (pari al 2% del Pil) che scatterebbero automaticamente nel caso in cui Atene mancasse l’obiettivo fissato per il 2018.

Peccato che la Costituzione greca impedisca di votare una clausola di salvaguardia di questo tipo. Lo ha fatto notare il ministro delle finanze Euclis Tsakalotos, che ha proposto in alternativa l’impegno del suo Paese a operare tagli automatici nel momento in cui l’Eurostat certificasse scostamenti significativi dagli obiettivi. I creditori hanno rifiutato ed ecco spiegato il nuovo stallo.

Il copione recitato dalla Troika è ben riassunto in un’intercettazione svelata da Wikileaks: “Bisogna portare la Grecia sull’orlo del baratro allungando i negoziati fino a luglio (quando Atene dovrà pagare 3,5 miliardi alla Bce, ndr), perché solo quando sono con le spalle al muro fanno concessioni”. Queste amenità sono uscite dalla bocca del danese Poul Thomsen, attuale responsabile europeo dell’Fmi ed ex capo della Troika in Grecia.

Quando ricopriva quest’ultimo incarico, Thomsen si produsse in una confessione che non viene mai ricordata abbastanza: “Scusate, - disse - i nostri calcoli erano sbagliati. Abbiamo usato moltiplicatori scorretti. Non avevamo previsto che l’austerità avrebbe abbattuto i consumi e mandato a picco il Pil. E avremmo dovuto ristrutturare i debiti molto prima”. Come premio per il gran lavoro svolto ottenne la nomina al vertice europeo del Fondo.

Eppure, in quel breve momento di sincerità, Thomsen rivelò il più grande segreto di Pulcinella che la storia economica dell’Ue ricordi. L’austerità non ha aiutato il Pil greco a ripartire: anzi, gli ha dato il colpo di grazia. Non ha nemmeno migliorato i conti pubblici ellenici: al contrario, li ha affossati. Ed è per questo che Atene non sarà mai in grado di produrre il surplus di bilancio che servirebbe a ripagare i debiti. In altre parole, la Grecia non si risolleva a causa dell’austerità, e siccome non si risolleva la Troika le impone nuova austerità.

La demenzialità di questo circolo vizioso è manifesta e finché si continua su questa strada è assurdo immaginare che un giorno Atene riuscirà a tornare sul mercato, finanziare da sola tutto il proprio debito pubblico e ripagare per intero i prestiti ricevuti.

In realtà - come lo stesso Fmi sostiene da tempo - l’unica soluzione concepibile è abbattere il debito pubblico ellenico. Lo sanno tutti, eppure la Germania e i suoi sherpa impongono di continuare con il perverso schema Ponzi che tiene artificialmente in vita i conti di Atene (e uccide il Paese): debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi.

Come si spiega tanta ottusità? I problemi delle banche private sono ormai risolti: la loro esposizione in Grecia è stata scaricata sulle spalle dei contribuenti europei tramite i precedenti piani di salvataggio, i cui fondi sono stati usati in massima parte per ripagare i crediti degli istituti francesi e tedeschi, e non per aiutare l’economia ellenica. Ma adesso, perché continuare?

La risposta a questa domanda emerge in parte da uno studio del centro tedesco di ricerca economica Iwh. Secondo le simulazioni dell’istituto, pubblicate l’estate scorsa, da quando è iniziato il calvario ellenico sui mercati allo scorso agosto Berlino ha risparmiato circa 100 miliardi di euro in termini d'interessi sul debito pubblico, perché i tassi sui titoli di Stato tedeschi (considerati un bene rifugio) calano ogni volta che arriva una brutta notizia sulla Grecia. E ogni anno, per fortuna del Bund, riparte la giostra.

di Antonio Rei

Nuovo Def, nuovo pasticcio. A dimostrazione dell’assunto secondo cui le stime macroeconomiche servono principalmente a rivalutare gli astrologi, nel nuovo Documento di Economia e Finanza il governo riversa una pioggia di bianchetto sulle vecchie stime relative all’andamento dei conti pubblici italiani.

Adesso il Pil 2016 è visto in crescita dell'1,2% (contro il +1,6% stimato lo scorso settembre), mentre per il 2017 si indica ora un +1,4% (dall'1,6%). Per il 2018 le previsioni parlano di un +1,5%, ma il termine è davvero troppo lontano per attribuire a questo dato una qualche credibilità, considerando la rapidità e la facilità con cui cambiano questi numeri.

È vero, il rallentamento della crescita è un fenomeno globale, non solo italiano, ma la congiuntura internazionale non basta a spiegare il flop della politica economica renziana. L’ultima legge di Stabilità era un coacervo di mance e favori che ha drogato i numeri dell’occupazione senza porre affatto basi solide per la ripresa dei consumi e degli investimenti, come vorrebbe far credere il ministro Padoan.

Per citare alcuni numeri, il 5 aprile l’Istat ha scritto che nel quarto trimestre dell'anno scorso il potere di acquisto delle famiglie (al netto dell'inflazione) è sceso dello 0,7%: i consumi sono comunque cresciuti dello 0,4%, ma solo grazie a un ribasso della propensione al risparmio. A gennaio 2016, invece, le vendite al dettaglio in volume sono rimaste invariate rispetto al mese precedente, mentre sono risultate negative per il terzo mese consecutivo su base tendenziale (-1,6%). Come prevedibile, infine, una volta archiviato il maxi-sconto per le assunzioni lo scenario nel mondo del lavoro è tornato a peggiorare, con il tasso di disoccupazione salito all'11,7% a febbraio.

In questo contesto, mentre continua a combattere con Bruxelles sugli aggiustamenti e le limature del deficit e del debito, il governo prepara anche un nuovo pacco regalo per le imprese. A maggio dovrebbero arrivare l'azzeramento della tassa sui capital gain, interventi a sostegno degli investimenti nelle aziende non quotate e sgravi sugli utili reinvestiti. Secondo il Tesoro, il nuovo provvedimento dovrebbe valere un +0,2% di Pil.

Viene da chiedersi dove l’Esecutivo immagini di trovare i soldi per finanziare queste misure, visto che nel frattempo deve disinnescare l’aumento automatico dell’Iva (servono 15 miliardi) e evitare una manovra monstre. Rinviare il pareggio di bilancio al 2019 e chiedere alla Ue di incrementare di altri 11 miliardi il deficit nel 2016 non è sufficiente, perciò nel Def rispunta il taglio delle cosiddette tax expenditures, la selva di deduzioni, detrazioni ed esenzioni fiscali che secondo la Corte dei Conti ogni anno sottrae all’Erario 313 miliardi di euro. Lo scorso 15 ottobre 2015, presentando l’ultima manovra, Renzi aveva orgogliosamente rivendicato la scelta “politica” di non tagliare gli sconti fiscali, perché “significa aumentare le tasse”. Curioso che ci abbia ripensato proprio mentre cucina l’ennesimo cioccolatino per gli imprenditori.

Intendiamoci, le misure in favore delle aziende non sono di per sé negative (anzi), così come non lo era il bonus Irpef da 80 euro al mese né la cancellazione della Tasi sulla prima casa. Il problema è che interventi di questo tipo dimostrano quanto sia ancora lontana la cura shock di cui l’economia italiana avrebbe davvero bisogno per avviare una ripresa credibile. La sterzata potrebbe arrivare con un piano serio (no, non il piano Juncker) per il rilancio degli investimenti pubblici e con l’abbattimento delle tasse sul lavoro.

Purtroppo, si tratta di due chimere: nel primo caso perché non lo consentono le regole europee (ci ritroviamo a pietire uno 0,1% di disavanzo in più pressoché inutile, figurarsi a quanti anni luce di distanza siamo da un piano d’investimenti), nel secondo perché non interessa al governo.

Le scelte dell’Esecutivo, quando non rispondono agli interessi dei lobbisti, sono sempre elettorali. Gli 80 euro sono un regalo circoscritto alla classe media e l’abolizione della tassa sulla prima casa è una misura socialmente iniqua, perché avvantaggia di più chi più ha ed è sostanzialmente irrilevante per i poveri.

Qualsiasi studente di economia sa benissimo che l’effetto sul Pil è molto maggiore quando si abbassano le tasse sul reddito piuttosto che quelle sulla proprietà, ma i politici sanno ancor meglio che l’intervento sul fisco immobiliare porta con sé un dividendo superiore in termini di consenso. Ma poi, alla fine, anche se qualche calcolo si rivela sbagliato che importa? Tra sei mesi arriverà un altro Def.

di Carlo Musilli

Il modello di sviluppo della Germania è controproducente non solo per le altre economie europee, soffocate dalla corsa all'export che l'austerità impone, ma anche per lo stesso Pil tedesco, che tra il 1990 e il 2010 ha lasciato per strada il 6% di crescita potenziale a causa delle eccessive disuguaglianze fra ricchi e poveri. Lo sostiene l'economista tedesco Marcel Fratzscher nel suo ultimo libro, La battaglia dell'equità, dimostrando la tesi sulla base di dati Ocse.

Fratzscher è uno studioso molto noto in patria, se non altro per le sue posizioni eterodosse rispetto al pensiero economico dominante. Nemico dell'austerity, sostiene da anni che la Germania dovrebbe rilanciare gli investimenti e dare ossigeno alla domanda interna, messa in crisi dalle politiche di rigore. Non sorprende quindi che i centri di ricerca più influenti del Paese si siano messi in fila per confutare anche la sua ultima teoria.

Il più prestigioso è l'istituto IW di Colonia, che ha prodotto un contro-studio in cui sostiene che le disuguaglianze pesano sul Pil solo se i redditi medi sono inferiori ai 9mila dollari l'anno e se la distanza fra ricchi e poveri è già ampia in partenza, ovvero quando il coefficiente di Gini è superiore a 0,35 (dove zero indica la massima equità possibile e 1 il massimo squilibrio, come se una sola persona avesse in mano tutta la ricchezza di una Paese). Naturalmente, la Germania è sotto questa soglia.

L'IW accusa inoltre Fratzscher e l'Ocse di non valutare adeguatamente parametri come la mobilità sociale, l'istruzione, la politica interna e il livello di industrializzazione. A conti fatti, perciò, l'istituto di Colonia arriva a sostenere che tra il 1990 e il 2010 le disuguaglianze hanno assicurato al Pil tedesco una crescita aggiuntiva del 2,3%.

Da questa prospettiva, sembra quasi che i tedeschi debbano rallegrarsi del fatto che la forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi. Uno studio della Bundesbank - non proprio un covo di keynesiani - dimostra che oggi in Germania il 10% dei cittadini detiene il 59,8% della ricchezza, contro il 45,1% di appena 15 anni fa. Il 50% più povero, invece, deve accontentarsi di appena il 2,5% della ricchezza nazionale.

Tobias Schmidt, uno degli esperti della Banca centrale tedesca, afferma che negli ultimi anni i ricchi hanno fatto fortuna grazie agli investimenti nel mattone, favoriti dai tassi d'interesse bassissimi. “C'è un forte legame tra il possesso di immobili e la ricchezza”, spiega Schmidt, sottolineando che “l'aumento del prezzo delle case va a vantaggio soprattutto dei più abbienti”. In Germania, tra il 2010 e il 2014, la metà dei proprietari di immobili ha visto il valore dei propri beni crescere mediamente di circa 33mila euro. Chi invece vive in affitto si è arricchito soltanto di mille euro.

Altri dati, stavolta della fondazione Ebert, rivelano che sta tornando ad allargarsi anche la forbice fra la parte orientale e quella occidentale della Germania: all'inizio dell'ultima crisi, tra il 2009 e il 2012, la differenza del Pil pro capite tra Est e Ovest è salita al 26,6%.

Insomma, un progresso invidiabile? In realtà no, e non solo per ragioni morali. Che l'aumento dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza rallenti la crescita non è affatto un argomento nuovo: tornata al centro del dibattito accademico dopo lo scoppio della crisi nel 2008, la tesi è sostenuta oggi da moltissimi studiosi (non solo keynesiani), guidati dai premi Nobel statunitensi Paul Krugman e Joseph Stiglitz, ma anche da una stella emergente come il francese Thomas Piketty. A ben vedere, nemmeno l'istituto IW contesta l'assunto di fondo, limitandosi a criticare la metodologia usata da Fratzscher.

La novità, semmai, è nel fatto che oggi per la prima volta l'obiettivo si restringe al Paese che ha imposto a tutto il continente il proprio modello, spacciando una politica economica egoista e miope come una rivelazione divina indiscutibile e immodificabile. Sulla base di questo inganno originario è evidente che ogni critica, anche se fondata su dati Ocse, ha il sapore di un'eresia.


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