di Carlo Musilli

Parole altisonanti, risultati irrilevanti. Il G7 giapponese si è chiuso con le solite dichiarazioni magniloquenti, ma non è riuscito a indicare una strada plausibile per raggiungere gli obiettivi fissati. Nel documento finale della riunione fra i 7 capi di Stato e di governo - una volta erano 8, ma ormai la Russia è fuori dal tavolo per motivi politici - si legge che “la crescita globale” è “una priorità urgente”.

La preoccupazione è ovvia, visto che le economie avanzate invece di accelerare sul cammino della ripresa rallentano, mentre le emergenti nel migliore dei casi perdono abbrivio (vedi la Cina) e nel peggiore entrano nel tunnel della contrazione (vedi il Brasile e l’ostracizzata Russia).

Ora, per rilanciare la crescita potenziale, in teoria, bisogna dosare tre strumenti: politica fiscale, politica monetaria e riforme strutturali. Il problema è che, come in varie riunioni precedenti, neanche stavolta i convitati del G7 sono riusciti a ricomporre la loro divisione di fondo.

Da una parte ci sono i sostenitori di politiche fiscali più accomodanti, con in prima fila il Premier giapponese Shinzo Abe (che deve fronteggiare, oltre alla mancata crescita, anche gli spauracchi decennali della deflazione e del debito pubblico lunare), dall’altra la solita Germania, che in ogni sede continua a opporsi strenuamente a qualsiasi utilizzo della leva fiscale. Del resto, l’economia tedesca è l’unica capace di trarre profitto dall’austerità altrui - che innesca la guerra delle esportazioni, in cui la vittoria teutonica è scontata, almeno al momento - per cui è comprensibile che a ogni longitudine del globo Berlino continui a contraddire chi cerca di convincerla a sterzare sulla strada dello sviluppo.

Di fronte a una contrapposizione così macroscopica, il G7 non è riuscito ad andare oltre il solito compromesso già affermato in vari comunicati del G20. Con l’obiettivo chimerico di una crescita non meglio precisata, tutti i membri del gruppo sono invitati a utilizzare le leve di politica economica a loro disposizione, ma senza che ciò comprometta la sostenibilità fiscale di ciascuno. In termini pratici, questo significa che, rispetto a ieri, non cambia assolutamente nulla.

Dal punto di vista politico, invece, un seppur minimo risultato è stato raggiunto. In sostanza, il G-7 è riuscito a restringere il perimetro del prossimo G20, che si terrà a settembre sotto la presidenza cinese, imponendo in agenda una serie di temi, come l’importanza degli investimenti infrastrutturali pubblici. Secondo il Fondo monetario internazionale, è da questa via che passa la soluzione del conflitto fra chi vorrebbe sostenere la domanda aggregata e chi preferisce intervenire sull’offerta tramite riforme strutturali. Potrebbe essere questo un modo per uscire dallo stallo, anche perché i recenti risultati delle presidenziali austriache hanno ricordato a tutti quanto l’inerzia in tema di politica economica stia giovando ai populismi di ogni Paese.

Finora, però, l’unica certezza è che le sole istituzioni delle economie avanzate ad adoperarsi più o meno all’unisono per incentivare la ripresa sono le banche centrali (anche se la Fed, che ha iniziato la politica espansiva ben prima della Bce, sta imboccando ora la strada del riassestamento dei tassi verso l’alto). I rendimenti a zero, se non negativi, e i programmi di acquisto bond non sono però sufficienti da soli a invertire il trend del rallentamento planetario.

Intanto, Abe ha ricorda ai suoi colleghi che il crollo del 55% del prezzo delle materie prime dal 2014 a oggi è analogo per entità a quello registrato prima del disastro di Lehman Brothers. La campana suona, ma le contromisure non arrivano. Quello che servirebbe, oltre all’intervento dei banchieri centrali, è una chiara strategia di politica economica espansiva da parte di chi detiene il potere esecutivo. E l’ultimo G7, come i precedenti, ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo lontani dalla meta.

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