di Carlo Musilli

“Uno shock che metterebbe in pericolo l'economia mondiale”. Così i ministri delle Finanze del G7 hanno definito la possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. L’obiettivo è fare pressione sugli elettori del Regno Unito, che il 23 giugno si esprimeranno sulla Brexit via referendum, ma anche prendere atto di un quadro globale in cui i rischi si sono moltiplicati rispetto a pochi mesi fa. "Le incertezze sono aumentate - scrivono i ministri nel documento finale della riunione di due giorni in Giappone - mentre i conflitti geopolitici, il terrorismo, il flusso di rifugiati e lo shock di un’eventuale uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea complicano il clima economico globale”.

I grandi della Terra sposano perciò in massa la causa del No alla Brexit, sostenuta in primo luogo dal governo Cameron: “Se usciamo dall’Unione europea - ha detto George Osborne, cancelliere dello Scacchiere, intervistato dalla Bbc in Giappone - ci sarà un immediato shock economico per i mercati finanziari. La gente non saprà cosa riserva il futuro e nel lungo termine tutti saranno più poveri. Ciò colpirà negativamente il valore delle abitazioni e al tempo stesso chi comprerà la prima casa dovrà far fronte a tassi dei mutui in salita, senza contare che ottenere un mutuo sarà più difficile. È una situazione in cui tutti perdono”.

Domenica David Cameron ha rincarato la dose. In un’intervista al Sun on Sunday, il Premier britannico ha detto che, in caso di divorzio da Bruxelles, il costo della spesa settimanale aumenterebbe del 3%, pari a una media di oltre 120 sterline l'anno, mentre i prezzi del vestiario salirebbero del 5% e la crescita degli stipendi rallenterebbe bruscamente.

Ma come si arriverebbe a tutto questo? In realtà, nessuno può sapere con certezza e nel dettaglio cosa accadrebbe in caso di Brexit, soprattutto sul lungo periodo , ma la maggior parte dei tecnici concorda nel prevedere conseguenze fosche, quando non apocalittiche. I punti di vista principali da cui affrontare l’argomento sono quattro: commerciale, finanziario, monetario e politico.

Il primo punto è quello su cui più si concentrano i favorevoli all’uscita. I principali argomenti di chi sostiene il Sì, infatti, sono due: la Gran Bretagna farebbe fortuna fuori dall’Ue perché risparmierebbe miliardi di sterline diretti ogni anno alle casse di Bruxelles e soprattutto perché sarebbe libera di siglare i propri accordi commerciali con il resto del mondo.

Quest’ultima affermazione è perlomeno azzardata, perché il resto del mondo eviterà d’incentivare la dissoluzione dell’Ue: cinesi e americani, ad esempio, hanno già escluso la possibilità di siglare con Londra patti commerciali di maggior favore per i britannici dopo l’eventuale addio all’Unione. Ancora più netto il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble: “Non devono sperare che un voto per uscire dall'Ue possa significare l'avvio di nuovi negoziati sullo status della Gran Bretagna”.

Veniamo al secondo punto, la finanza. Londra è il principale centro finanziario d’Europa e per molte banche internazionali è la base da cui operare nel nostro continente. Per risparmiare sui costi e costruire economie di scala i grandi gruppi hanno concentrato buona parte delle loro operazioni europee in Inghilterra, contando sulla possibilità di vendere in 28 stati senza l’obbligo di ottenere autorizzazioni dalla autorità di ogni singolo Paese. Con la Brexit questa organizzazione rischia di implodere e il contraccolpo per Londra sarebbe davvero pesante.

Nella City operano 250 banche mondiali, l’industria finanziaria dà lavoro a 1 milione e 400mila persone e versa ogni anno tasse per 28 miliardi di sterline, il 12% delle entrate fiscali del Regno Unito. Ora, in caso di Brexit, è evidente che nessun grande istituto rimarrà a guardare. Secondo il Financial Times, Deutsche Bank (che a Londra ha novemila dipendenti) ha istituito un gruppo di lavoro per valutare i rischi della rottura Uk-Ue e per ipotizzare il trasloco fuori dalla capitale inglese. Si è schierata apertamente per il No alla Brexit anche Hsbc, primo istituto del credito britannico con 51 milioni di clienti nel mondo, mentre i colossi americani Citigroup e Morgan Stanley hanno già indicato in Dublino l’alternativa a Londra.

Del resto, sempre Osborne aveva già avvertito che, secondo i calcoli del Tesoro britannico, 285mila posti di lavoro in Gran Bretagna sono direttamente collegati all’export di servizi finanziari verso la Ue: uscire sarebbe perciò “catastrofico per l’occupazione e per gli stipendi”.

Per quanto riguarda le conseguenze monetarie, l’allarme Brexit è arrivato dallo stesso governatore della Banca d'Inghilterra, Mark Carney: in caso di uscita dall’Ue “la sterlina si svaluterebbe ulteriormente, anche in modo violento - ha detto - spingendo l'inflazione oltre gli obbiettivi. La domanda aggregata calerebbe, rispetto alle nostre previsioni, a causa della stretta finanziaria, della riduzione di valore degli asset e dell'incertezza sui rapporti commerciali del Regno Unito. Le famiglie frenerebbero i consumi e le imprese gli investimenti. Anche le condizioni finanziarie globali potrebbero mutare, con ripercussioni sulle esportazioni. In un quadro di questo genere, il Comitato di politica monetaria dovrebbe misurarsi con una scelta difficile, stretto fra l'esigenza di stabilizzare l'inflazione e quella di tutelare produzione e occupazione”.

In altre parole, la Banca d’Inghilterra si ritroverebbe a un bivio davvero scomodo: alzare i tassi per frenare l’inflazione (che ha un costo immediato per famiglie e imprese) o tenerli bassi per non affossare il Pil e il mercato del lavoro. “Lasciare l'Unione europea ci costringerebbe quindi a dovere scegliere fra due sconfitte”, riassume Osborne.

Un po’ di numeri: secondo un rapporto del National Institute of Economic and Social Research (Niesr), dopo l’eventuale vittoria del Sì, la sterlina perderebbe immediatamente il 20%, mentre il Pil britannico subirebbe una contrazione dell’1% nel 2017 e del 2,3% nel 2018, ma potrebbe calare anche del 3,7% entro il 2030.

Se invece gli elettori decideranno di restare nell’Unione, lo studio sostiene che il Pil aumenterà del 2% nel 2016 e del 2,7% l’anno prossimo. Stando all’Ocse, invece, l’addio a Bruxelles farebbe calare il Pil britannico di 3 punti percentuali entro il 2020 (pari a un costo per famiglia di 2.200 sterline ai prezzi attuali), mentre da qui al 2030 la riduzione sarebbe di 5 punti in uno scenario intermedio.

Infine, la politica. L’uscita volontaria dall’Ue non ha precedenti, perciò, se si realizzasse, aprirebbe una via che in molti vorrebbero seguire. I movimenti antieuropeisti che già prosperano in tutto il continente ne uscirebbero ulteriormente rafforzati, mentre i mercati ricomincerebbero a scommettere su quale sarebbe il prossimo membro dell’Unione ad abbandonare la nave. E, come ai tempi del rischio Grexit, non è difficile immaginare quali Paesi saranno in cima alla lista dei bookmakers.

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