di Carlo Musilli

Nessuno ne sentiva la mancanza, ma il 27 febbraio la Troika farà ritorno in Grecia. Ancora. I rappresentanti dei creditori internazionali (Ue, Bce e Fmi) si incontreranno per decidere quali nuove riforme imporre ad Atene in cambio della seconda tranche del prestito da 85 miliardi sottoscritto nell’agosto del 2015. Soldi con cui la Grecia potrà rimborsare un debito di 7,2 miliardi di crediti in scadenza a luglio ed evitare così la bancarotta. Ancora.

Tutto come da copione? No, almeno secondo Jeroen Dijsselbloem. Il Presidente dente dell’Eurogruppo assicura che stavolta la Troika e il governo greco “lavoreranno su un ulteriore pacchetto di misure adottando un cambiamento di politica economica, con una minore enfasi sull’austerità di bilancio e una maggiore attenzione su profonde riforme economiche”.

Il tono suona amichevole, ma è interessato e falso. Interessato perché quest’anno nell’agenda dell'Ue ci sono elezioni importantissime e le polemiche sulla Grecia rischiano di favorire gli euroscettici. Naturalmente Dijsselbloem assicura che è tutto “completamente indipendente dal ciclo elettorale”, del resto “vi sono sempre elezioni da qualche parte in Europa”. Il buon Jeroen dimentica però di precisare che nei prossimi mesi si voterà nella sua Olanda (a marzo), in Francia (aprile-maggio) e in Germania (settembre). Non proprio le repubbliche baltiche.

Fin qui l’interesse. Passiamo alla falsità. Dijsselbloem favoleggia di “minore enfasi sull’austerità”, ma nella sostanza è proprio di austerità che si continua a parlare. I componenti della Troika hanno già concordato di chiedere alla Grecia, in cambio degli aiuti, misure restrittive per altri 3,6 miliardi, il 2% del Pil. Le clausole di salvaguardia scatterebbero se non venisse centrato l’obiettivo dell’avanzo primario al 3,5% del Pil (una meta praticamente irraggiungibile) e prevedono i soliti tagli alle pensioni oltre a misure per ampliare la base imponibile.

Con questi interventi – che per ora il governo Tsipras non ha adottato – i creditori europei vogliono in primo luogo convincere l’Fmi a rientrare nella partita. L’anno scorso, infatti, il Fondo monetario ha smesso di pagare aiuti ad Atene perché non riteneva sostenibile un programma che potrebbe far lievitare il debito pubblico ellenico dall’attuale 180 al 275% del Pil entro il 2060.

Su questo punto l’Fmi ha ragione da vendere. Per avere un’idea di quanto sia non solo inutile ma perfino dannosa la medicina dell’austerità basta dare uno sguardo alla macelleria sociale prodotta in Grecia negli ultimi otto anni. Qualche numero: il Pil è crollato del 25%, la pressione fiscale è aumentata dal 38 al 52%, il tasso di disoccupazione è al 27% e sale al 60% fra i giovani, il Pil pro capite (calcolato dallo stesso Fmi) è crollato del 56%, passando dai 32.198 dollari del 2008 ai 18.078 dollari del 2016.

E ancora: il 50% della popolazione vive di sole rendite previdenziali, il 43% dei pensionati riceve meno di 660 euro al mese (dal 2010 le pensioni sono state tagliate 11 volte), il 15% dei greci (1,6 milioni di persone) vive sotto la soglia di povertà con un reddito inferiore a 180 euro al mese, cioè 6 euro al giorno. Ma ancora non basta. Dopo aver ridotto la Grecia in questo stato la Troika pretende d’imporle nuove misure di austerità. Vuole continuare su questa strada distruttiva a ogni costo, contro ogni evidenza, difendendo l’indifendibile.

Il fallimento è totale. L’austerità non ha aiutato il Pil greco, gli ha dato il colpo di grazia. Non ha nemmeno migliorato i conti pubblici: li ha affossati. Ed è proprio per questo che Atene non sarà mai in grado di produrre il surplus di bilancio che servirebbe a ripagare i suoi debiti. Il gioco perverso è sempre lo stesso: la Grecia non si risolleva a causa dell’austerità e, siccome non si risolleva, la Troika le impone nuova austerità.

Finché si continua su questa strada è assurdo immaginare che un giorno Atene riuscirà a tornare sul mercato, finanziare da sola tutto il proprio debito pubblico e ripagare per intero i prestiti ricevuti. In realtà – come lo stesso Fmi sostiene da tempo – l’unica soluzione sarebbe abbattere il debito ellenico. I creditori europei lo sanno da anni, ma continuano con questo schema Ponzi (debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi) che tiene artificialmente in vita i conti di Atene ma intanto uccide il Paese. Tutti gli anni è sempre la stessa storia. E pensiamo davvero che possa finire oggi, a pochi mesi dalle elezioni in Germania?

di Antonio Rei

Sulle spese per l’emergenza terremoto i conti non tornano. La questione è tornata d’attualità  con la lettera che il Tesoro ha inviato la settimana scorsa alla Commissione europea per indicare le misure con cui l’Italia intende operare la correzione dei conti pubblici da 3,4 miliardi chiesta da Bruxelles.

A proposito delle risorse da investire per la ricostruzione post-sisma, il ministro dell’Economia si mostra prudente: “Allo stato attuale non possiamo determinare con certezza l’impatto dei recenti eventi sismici sulle finanze pubbliche – scrive Pier Carlo Padoan – ma è probabile che i costi andranno ben oltre un miliardo di euro già nel 2017. Per mobilitare le risorse destinate a questo scopo sarà istituito un Fondo apposito”.

La cautela del ministro sembra più che ragionevole, ma non basta a fugare ogni dubbio sulla gestione dei fondi per il terremoto. Il problema nasce dal fatto che lo scorso ottobre, in un’altra lettera alla Commissione europea, il Governo aveva quantificato in 3,4 miliardi di euro le risorse aggiuntive da impiegare nel 2017 per far fronte all’emergenza sisma (curiosamente, la somma coincide con quella chiesta da Bruxelles a correzione dei conti di quest’anno). Si tratta di un ulteriore margine di flessibilità che l’Italia ha ottenuto dall’Europa, perché quei soldi non saranno conteggiati ai fini del Patto di stabilità e crescita.

Sennonché, di quei 3,4 miliardi si trova ben poco nella legge di Bilancio approvata a dicembre: appena 600 milioni. Nel dettaglio, la spesa si articola in questo modo: 100 milioni “per la concessione del credito d'imposta maturato in relazione all'accesso ai finanziamenti agevolati, di durata venticinquennale, per la ricostruzione privata”; 200 milioni “per la concessione dei contributi per la ricostruzione pubblica” e 300 milioni di cofinanziamento regionale di fondi strutturali.

I tecnici obiettano che molti soldi destinati al terremoto figurano in forma aggregata nei fondi dei singoli ministeri, ma la sproporzione fra 3,4 miliardi e 600 milioni è davvero eccessiva perché questa spiegazione appaia sufficiente. In seguito, il Tesoro ha precisato che “un altro miliardo arriverà dal Fondo per lo sviluppo degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale istituito dall'articolo 21 della Legge di bilancio”.

Il sito del Senato conferma che “l’articolo 21 istituisce un Fondo per il finanziamento di investimenti in materia di infrastrutture e trasporti, difesa del suolo e dissesto idrogeologico, ricerca, prevenzione del rischio sismico, attività industriali ad alta tecnologia e sostegno alle esportazioni, nonché edilizia pubblica”.

Non è chiaro se questo Fondo sia lo stesso di cui parla Padoan nella sua ultima lettera a Bruxelles. Se così fosse – come pare probabile – vorrebbe dire che il totale dei soldi stanziati esplicitamente dall’Italia per l’emergenza terremoto arriverebbe ad appena 1,6 miliardi di euro nel 2017, cioè meno della metà dei 3,4 miliardi chiesti a ottobre. In caso contrario, la differenza sarebbe meno ampia ma i conti non tornerebbero comunque.

Insomma, il quadro non è abbastanza chiaro per muovere accuse e vogliamo pensare che esista una soluzione rassicurante a questo problema di ragioneria. L’unica certezza è che, su un tema così delicato, sarebbe il caso di muoversi con più trasparenza.

di Carlo Musilli

Il vulcano Krakatoa in giacca e cravatta. Pur senza abdicare al suo aplomb da professore, mercoledì Pier Carlo Padoan ha scagliato una pioggia di lapilli infuocati contro la politica economica e sociale dell’Europa a trazione tedesca. E lo ha fatto nella sede più istituzionale possibile: il World Economic Forum di Davos, in Svizzera, uno dei palcoscenici preferiti dall’establishment neoliberista.

“Il problema dell’Europa è l’Europa – ha detto il ministro dell’Economia di fronte a un’incredula Christine Lagarde – I nostri problemi nascono a Bruxelles e, talvolta, a Francoforte. È necessario un ripensamento della leadership. Dobbiamo rovesciare completamente le nostre politiche, perché ora stiamo dando i giusti argomenti per convincere che il populismo abbia ragione”.

E ancora: la classe media è “disillusa e delusa dalle prospettive per il futuro”, oltre che dalle condizioni del lavoro, “ed esprime questa delusione dicendo no a tutto quello che dicono i politici”. Per questo, secondo Padoan, “dobbiamo prendere il populismo seriamente, anche perché quelli che lo votano, in molti casi, sono brave persone, persone che sono preoccupate per il futuro dei propri ragazzi, per la loro educazione, per la sicurezza del welfare”.

E a monte di tutto questo, ha continuato il numero uno del Tesoro, c’è l’incapacità dell’Ue di dare risposte credibili ai cittadini, che vogliono benefici “visibili”, mentre oggi l’Europa “non reagisce ai problemi, guarda a se stessa e non affronta le grandi emergenze come i flussi migratori”.

Si fa presto a derubricare queste parole di Padoan come una reazione all’ennesimo affondo della Commissione europea, che – anche per assecondare esigenze interne della Germania, già in clima elettorale – martedì ha chiesto una correzione dei conti pubblici italiani da 3,4 miliardi di euro. La lettera ricevuta da Bruxelles forse ha fatto traboccare il vaso, ma il discorso del ministro, più che uno sfogo, è un’analisi delle dinamiche socio-economiche in atto davvero difficile da contraddire.

Basta ripensare a quello che è successo nel 2016: il voto a favore della Brexit, l’elezione di Donald Trump, la bocciatura della riforma costituzionale italiana. Ogni volta che ha potuto, l’elettorato ha votato contro le forze di establishment. Anche alla cieca, anche turandosi il naso, tutto pur di lanciare un grido di protesta. E dietro a un rigetto così violento c’è ovviamente una gigantesca crisi di rappresentanza: la maggioranza degli elettori non crede che i partiti politici tradizionali siano in grado di dare risposte a problemi di fondo come la mancanza di lavoro e l’impoverimento della classe media, con il conseguente aumento della sperequazione rispetto alle fasce sociali più alte.

Il ragionamento, fin qui, può sembrare scontato. Ma proprio la banalità del problema costituisce un’aggravante. Di fronte a un quadro apparentemente così semplice da interpretare, l’Europa non ha saputo proporre alcuna soluzione. Anzi, ha continuato a propinare le stesse ricette che ormai da anni si dimostrano non solo inefficaci, ma perfino dannose.

È vero, il discorso di Padoan si ferma alla pars destruens, non arriva a proporre la svolta radicale nelle politiche fiscali chiesta a gran voce da milioni di persone. Eppure, il ministro pone l’accento su un punto fondamentale: la politica economica europea non sembra mossa da alcun progetto sociale, mentre quella dei populisti sì. Giuste o sbagliate che siano, a ogni latitudine le proposte delle forze anti-sistema sono più vicine alle esigenze di chi dalla crisi non si è più ripreso. E non parliamo di sobillatori ai margini della società, massimalisti di destra o di sinistra, ma della gente comune, le “persone per bene” di Padoan.

Per questo è un suicidio politico valutare il populismo in base alle categorie ereditate dal Novecento: non è più un fenomeno minoritario e non basterà aspettare che si sgonfi. Al contrario, proprio la supponenza di chi della politica si ritiene esperto rischia d’ingrossarne ancora le fila. Un po’ come in Italia i fondamentalisti del Pd, che, dando del “grillino” a chiunque fosse in disaccordo con loro, hanno ottenuto un solo risultato: farcelo diventare.

L’eruzione vulcanica di Padoan è sorprendente proprio perché finalmente getta una luce su molti di questi temi finora lasciati colpevolmente nell’ombra. E sembra che anche Christine Lagarde, ascoltando il ministro italiano, sia stata colta da un’illuminazione: “La protesta della classe media – ha detto – significa probabilmente che ci vuole una maggiore redistribuzione dei redditi di quella che abbiamo oggi”. Già, Christine. Probabilmente significa questo.

di Carlo Musilli

Chi è Dbrs? Il nome dice poco alla maggior parte degli italiani, ma per il nostro Paese ha una certa importanza. Si tratta di un’agenzia di raintg canadese, la quarta al mondo dopo la trinità di S&P-Moody’s-Fitch, e sabato scorso ha abbassato il giudizio sull’Italia da “A-low” a “BBB-high”. In questo modo abbiamo perso anche l’ultima A sulla pagella del nostro debito pubblico, visto che le altre tre sorelle ci avevano già da tempo retrocesso in Serie B.

In pochi perderanno il sonno per il rammarico di questo downgrade, benché comporti almeno una conseguenza di rilievo. La questione è tecnica. Quando le banche chiedono liquidità alla Bce possono dare in garanzia i titoli di Stato, che però non sono tutti uguali.

L’Eurotower attribuisce loro un valore prendendo come riferimento il rating più alto fra quelli emessi dalle quattro principali agenzie. Perciò, ora che l’Italia non ha più nemmeno una A, i Bot e i Btp valgono meno agli occhi della Bce e le banche, per ottenere denaro, dovranno dare in pegno garanzie più costose.

Non è una tragedia, affatto. Almeno per tre motivi. Primo: i problemi delle banche non hanno nulla a che vedere con la liquidità, che è perfino troppa. Secondo: i titoli di Stato italiani sono solo una voce nella lunga lista di strumenti finanziari accettati come garanzia dalla Bce. Terzo: sui mercati l’Italia è già percepita da anni come un paese di categoria B e il giudizio di Dbrs non sconvolge nessuno.

Ora, piuttosto che prestare orecchio alla lezioncina dei canadesi – che hanno motivato la loro decisione parlando di “incertezza politica” e “debolezza del sistema bancario”, sai che novità – vale la pena di porsi un paio d’interrogativi: chi sono e che lavoro svolgono le agenzie di rating? Su quale pulpito siedono mentre ci deliziano con i loro voti da abecedario?

Per rispondere a queste domande basta ricordare in che modo è nata la truffa del secolo, quella dei mutui subprime, da cui nel 2008 è esplosa la crisi finanziaria che ha colpito mezzo mondo (trasformandosi poi nella crisi dei debiti sovrani europei). E, nemmeno a farlo apposta, sempre lo scorso fine settimana Moody’s ha patteggiato con le autorità americane una multa da 864 milioni di dollari. Non sono stati condannati: hanno accettato di pagarla per evitare guai peggiori. Del resto, per le stesse colpe un anno fa Standard & Poor’s fu costretta a sborsare un miliardo e mezzo.

Il loro peccato originale è noto: un gigantesco conflitto d'interessi. Le agenzie di rating dovrebbero valutare l'affidabilità e il valore dei titoli, un compito diventato sempre più importante con il progressivo scollamento della finanza dall’economia reale (certi derivati sono talmente complessi e rarefatti che quasi nessuno è in grado di comprenderli con le proprie forze). Il servizio, in teoria, è a favore degli investitori, peccato che le agenzie vengano pagate dalle banche. Ossia da chi emette i titoli, non da chi li compra.

Risultato: le banche di Wall Street producevano e vendevano titoli rischiosissimi legati ai subrime (cioè mutui che non sarebbero stati ripagati), mentre Standard & Poor's, Moody's e Fitch fregiavano quegli stessi titoli della tanto celebrata tripla A, il giudizio di affidabilità più alto in assoluto. Le banche innescavano la bomba e le agenzie di rating la camuffavano da pacco regalo.

Moody’s ha riconosciuto queste colpe solo in parte e oggi se la cava con una multa che può sembrare salata, ma che in realtà rappresenta appena un terzo dei 2,5 miliardi di dollari guadagnati dall'agenzia negli anni prima della crisi. E noi, che da quella crisi non ci siamo più ripresi, come suprema beffa dobbiamo continuare a sorbirci le analisi delle agenzie di rating, i loro consigli. Le loro A e le loro B.

di Carlo Musilli

Ancora non ha messo piede nella Casa Bianca, ma ha già indotto il Messico alla guerra valutaria e rischia di fare altrettanto con la Cina. Che Donald Trump non conosca il significato della parola “diplomazia” è chiaro a tutti perlomeno dal 25 novembre, quando festeggiò la morte di Fidel Castro insultandolo. Purtroppo, da allora il neopresidente Usa non ha ammorbidito granché il suo piglio da cowboy di Manhattan e oggi, accecato da una sorta di machismo protezionista, rischia di danneggiare non soltanto l’economia degli Stati Uniti.

Nei giorni scorsi Trump si è scagliato via Twitter contro i costruttori di automobili che fabbricano vetture in Messico per poi venderle negli Usa, minacciandoli d’introdurre “dazi altissimi” alla dogana. L’anatema ha già prodotto un risultato importante: subito dopo le parole di Trump, la Ford ha cancellato un investimento da 1,6 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova fabbrica nel Paese centramericano. Naturalmente, l’azienda sostiene che la decisione sia dovuta a un normale cambiamento nelle “scelte di mercato”, non alla paura di ritorsioni governative.

Eppure, solo il mese scorso l’amministratore delegato Mark Fields aveva detto che ormai era troppo tardi per tornare indietro. Si sbagliava di grosso: in un batter d’occhio Ford ha addirittura reindirizzato parte dei soldi destinati al Messico, circa 700 milioni, all’ampliamento della fabbrica americana di Flat Rock. E il buon Donald non ha perso l’occasione per marcare il territorio con il solito tweet: “Ford cancella fabbrica in Messico e investe in Michigan grazie alle politiche di Trump”.

Quanto agli altri due colossi destinatari delle minacce, General Motors e Toyota, hanno avuto la dignità di non inginocchiarsi subito ai piedi del grande capo, ma difficilmente sfideranno la Casa Bianca negli anni a venire pur di rimanere fedeli ai propri piani industriali. Secondo Carlos Ghosn, numero uno di Renault-Nissan, i costruttori di auto “sono pragmatici e si adegueranno” alle nuove regole dell'amministrazione Trump, “a patto che siano uguali per tutti”. E fra le aziende coinvolte rientra anche Fca, che possiede in Messico nove impianti di produzione e assemblaggio con oltre 10mila addetti totali.

Non a caso, ieri Fiat Chrysler ha giocato d'anticipo annunciando a sorpresa un investimento da un miliardo di dollari per la produzione di tre nuovi modelli Jeep (Wagoneer, Grand Wagoneer e un nuovo pick up) negli stabilimenti di Warren (Michigan) e Toledo (Ohio), con la creazione di 2mila nuovi posti di lavoro. Non solo: "L'investimento a Warren permetterà alla fabbrica di produrre il furgone scoperto Ram Heavy Duty, attualmente prodotto in Messico", precisa il gruppo.

D’altra parte, i siparietti sulle automobili non sono affatto un caso isolato. Ancor prima delle presidenziali Usa, gli sproloqui di Trump sul muro anti-immigrati da costruire lungo la frontiera meridionale (una promessa che continua a eccitare l'anima razzista dell'America profonda) era bastata ad affossare il valore del peso. 

Ora, forse Trump non ci aveva pensato, ma dopo tante provocazioni c’era da aspettarsi una reazione del Messico, che puntualmente è arrivata: la settimana scorsa la Banca centrale messicana ha venduto in una sola mattina almeno un miliardo di dollari in valuta Usa, risollevando in parte le quotazioni del Peso messicano. Il direttore delle operazioni nazionali dell’istituto, Juan Garcia, ha confermato le vendite e ha aggiunto che sarebbero continuate nel corso della giornata, senza però specificare l’importo.

Inizia così un gioco pericoloso, fatto di attacchi e ritorsioni su dazi e tassi di cambio. Spesso Trump viene accostato a Reagan in quanto outsider arrivato a sorpresa alla Casa Bianca, ma proprio il confronto fra questi due presidenti dà la misura della distanza che separa la destra americana di oggi da quella dei decenni scorsi: dal turbo-liberismo al cieco protezionismo, la parabola ormai è completa. Gli esiti della prima impostazione ideologica si sono rivelati disastrosi, come abbiamo imparato dalla crisi del 2008 in poi. Quelli della seconda, nell’economia globalizzata, sono ancora un mistero, ma le premesse non fanno ben sperare.

In questo scenario, infatti, non è certo il Messico a destare le maggiori preoccupazioni. La domanda che circola con più insistenza fra analisti e commentatori è un’altra: cosa succederebbe se la Cina, altro obiettivo degli attacchi di Trump, seguisse l’esempio della Banca del Messico? Secondo Martin Wolf, chief economist del Financial Times, la leadership occidentale nell’economia globale potrebbe volgere al termine.

Ma i britannici, si sa, hanno il gusto delle previsioni apocalittiche (indimenticabile la panzana sulle 8 banche italiane che sarebbero fallite in caso di vittoria del No al referendum costituzionale). E in fin dei conti, magari nei prossimi mesi Trump capirà che la campagna elettorale è finita e che dovrebbe iniziare a comportarsi da presidente. O, perlomeno, qualcuno potrebbe spiegarglielo.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy