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di Carlo Musilli
Chi è Dbrs? Il nome dice poco alla maggior parte degli italiani, ma per il nostro Paese ha una certa importanza. Si tratta di un’agenzia di raintg canadese, la quarta al mondo dopo la trinità di S&P-Moody’s-Fitch, e sabato scorso ha abbassato il giudizio sull’Italia da “A-low” a “BBB-high”. In questo modo abbiamo perso anche l’ultima A sulla pagella del nostro debito pubblico, visto che le altre tre sorelle ci avevano già da tempo retrocesso in Serie B.
In pochi perderanno il sonno per il rammarico di questo downgrade, benché comporti almeno una conseguenza di rilievo. La questione è tecnica. Quando le banche chiedono liquidità alla Bce possono dare in garanzia i titoli di Stato, che però non sono tutti uguali.
L’Eurotower attribuisce loro un valore prendendo come riferimento il rating più alto fra quelli emessi dalle quattro principali agenzie. Perciò, ora che l’Italia non ha più nemmeno una A, i Bot e i Btp valgono meno agli occhi della Bce e le banche, per ottenere denaro, dovranno dare in pegno garanzie più costose.
Non è una tragedia, affatto. Almeno per tre motivi. Primo: i problemi delle banche non hanno nulla a che vedere con la liquidità, che è perfino troppa. Secondo: i titoli di Stato italiani sono solo una voce nella lunga lista di strumenti finanziari accettati come garanzia dalla Bce. Terzo: sui mercati l’Italia è già percepita da anni come un paese di categoria B e il giudizio di Dbrs non sconvolge nessuno.
Ora, piuttosto che prestare orecchio alla lezioncina dei canadesi – che hanno motivato la loro decisione parlando di “incertezza politica” e “debolezza del sistema bancario”, sai che novità – vale la pena di porsi un paio d’interrogativi: chi sono e che lavoro svolgono le agenzie di rating? Su quale pulpito siedono mentre ci deliziano con i loro voti da abecedario?
Per rispondere a queste domande basta ricordare in che modo è nata la truffa del secolo, quella dei mutui subprime, da cui nel 2008 è esplosa la crisi finanziaria che ha colpito mezzo mondo (trasformandosi poi nella crisi dei debiti sovrani europei). E, nemmeno a farlo apposta, sempre lo scorso fine settimana Moody’s ha patteggiato con le autorità americane una multa da 864 milioni di dollari. Non sono stati condannati: hanno accettato di pagarla per evitare guai peggiori. Del resto, per le stesse colpe un anno fa Standard & Poor’s fu costretta a sborsare un miliardo e mezzo.
Il loro peccato originale è noto: un gigantesco conflitto d'interessi. Le agenzie di rating dovrebbero valutare l'affidabilità e il valore dei titoli, un compito diventato sempre più importante con il progressivo scollamento della finanza dall’economia reale (certi derivati sono talmente complessi e rarefatti che quasi nessuno è in grado di comprenderli con le proprie forze). Il servizio, in teoria, è a favore degli investitori, peccato che le agenzie vengano pagate dalle banche. Ossia da chi emette i titoli, non da chi li compra.
Risultato: le banche di Wall Street producevano e vendevano titoli rischiosissimi legati ai subrime (cioè mutui che non sarebbero stati ripagati), mentre Standard & Poor's, Moody's e Fitch fregiavano quegli stessi titoli della tanto celebrata tripla A, il giudizio di affidabilità più alto in assoluto. Le banche innescavano la bomba e le agenzie di rating la camuffavano da pacco regalo.
Moody’s ha riconosciuto queste colpe solo in parte e oggi se la cava con una multa che può sembrare salata, ma che in realtà rappresenta appena un terzo dei 2,5 miliardi di dollari guadagnati dall'agenzia negli anni prima della crisi. E noi, che da quella crisi non ci siamo più ripresi, come suprema beffa dobbiamo continuare a sorbirci le analisi delle agenzie di rating, i loro consigli. Le loro A e le loro B.
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di Carlo Musilli
Ancora non ha messo piede nella Casa Bianca, ma ha già indotto il Messico alla guerra valutaria e rischia di fare altrettanto con la Cina. Che Donald Trump non conosca il significato della parola “diplomazia” è chiaro a tutti perlomeno dal 25 novembre, quando festeggiò la morte di Fidel Castro insultandolo. Purtroppo, da allora il neopresidente Usa non ha ammorbidito granché il suo piglio da cowboy di Manhattan e oggi, accecato da una sorta di machismo protezionista, rischia di danneggiare non soltanto l’economia degli Stati Uniti.
Nei giorni scorsi Trump si è scagliato via Twitter contro i costruttori di automobili che fabbricano vetture in Messico per poi venderle negli Usa, minacciandoli d’introdurre “dazi altissimi” alla dogana. L’anatema ha già prodotto un risultato importante: subito dopo le parole di Trump, la Ford ha cancellato un investimento da 1,6 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova fabbrica nel Paese centramericano. Naturalmente, l’azienda sostiene che la decisione sia dovuta a un normale cambiamento nelle “scelte di mercato”, non alla paura di ritorsioni governative.
Eppure, solo il mese scorso l’amministratore delegato Mark Fields aveva detto che ormai era troppo tardi per tornare indietro. Si sbagliava di grosso: in un batter d’occhio Ford ha addirittura reindirizzato parte dei soldi destinati al Messico, circa 700 milioni, all’ampliamento della fabbrica americana di Flat Rock. E il buon Donald non ha perso l’occasione per marcare il territorio con il solito tweet: “Ford cancella fabbrica in Messico e investe in Michigan grazie alle politiche di Trump”.
Quanto agli altri due colossi destinatari delle minacce, General Motors e Toyota, hanno avuto la dignità di non inginocchiarsi subito ai piedi del grande capo, ma difficilmente sfideranno la Casa Bianca negli anni a venire pur di rimanere fedeli ai propri piani industriali. Secondo Carlos Ghosn, numero uno di Renault-Nissan, i costruttori di auto “sono pragmatici e si adegueranno” alle nuove regole dell'amministrazione Trump, “a patto che siano uguali per tutti”. E fra le aziende coinvolte rientra anche Fca, che possiede in Messico nove impianti di produzione e assemblaggio con oltre 10mila addetti totali.
Non a caso, ieri Fiat Chrysler ha giocato d'anticipo annunciando a sorpresa un investimento da un miliardo di dollari per la produzione di tre nuovi modelli Jeep (Wagoneer, Grand Wagoneer e un nuovo pick up) negli stabilimenti di Warren (Michigan) e Toledo (Ohio), con la creazione di 2mila nuovi posti di lavoro. Non solo: "L'investimento a Warren permetterà alla fabbrica di produrre il furgone scoperto Ram Heavy Duty, attualmente prodotto in Messico", precisa il gruppo.
D’altra parte, i siparietti sulle automobili non sono affatto un caso isolato. Ancor prima delle presidenziali Usa, gli sproloqui di Trump sul muro anti-immigrati da costruire lungo la frontiera meridionale (una promessa che continua a eccitare l'anima razzista dell'America profonda) era bastata ad affossare il valore del peso.
Ora, forse Trump non ci aveva pensato, ma dopo tante provocazioni c’era da aspettarsi una reazione del Messico, che puntualmente è arrivata: la settimana scorsa la Banca centrale messicana ha venduto in una sola mattina almeno un miliardo di dollari in valuta Usa, risollevando in parte le quotazioni del Peso messicano. Il direttore delle operazioni nazionali dell’istituto, Juan Garcia, ha confermato le vendite e ha aggiunto che sarebbero continuate nel corso della giornata, senza però specificare l’importo.
Inizia così un gioco pericoloso, fatto di attacchi e ritorsioni su dazi e tassi di cambio. Spesso Trump viene accostato a Reagan in quanto outsider arrivato a sorpresa alla Casa Bianca, ma proprio il confronto fra questi due presidenti dà la misura della distanza che separa la destra americana di oggi da quella dei decenni scorsi: dal turbo-liberismo al cieco protezionismo, la parabola ormai è completa. Gli esiti della prima impostazione ideologica si sono rivelati disastrosi, come abbiamo imparato dalla crisi del 2008 in poi. Quelli della seconda, nell’economia globalizzata, sono ancora un mistero, ma le premesse non fanno ben sperare.
In questo scenario, infatti, non è certo il Messico a destare le maggiori preoccupazioni. La domanda che circola con più insistenza fra analisti e commentatori è un’altra: cosa succederebbe se la Cina, altro obiettivo degli attacchi di Trump, seguisse l’esempio della Banca del Messico? Secondo Martin Wolf, chief economist del Financial Times, la leadership occidentale nell’economia globale potrebbe volgere al termine.
Ma i britannici, si sa, hanno il gusto delle previsioni apocalittiche (indimenticabile la panzana sulle 8 banche italiane che sarebbero fallite in caso di vittoria del No al referendum costituzionale). E in fin dei conti, magari nei prossimi mesi Trump capirà che la campagna elettorale è finita e che dovrebbe iniziare a comportarsi da presidente. O, perlomeno, qualcuno potrebbe spiegarglielo.
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di Carlo Musilli
Dopo il prevedibile flop dell’aumento di capitale sul mercato, per il Monte dei Paschi si spalancano le porte della nazionalizzazione. Quasi nessuno usa questa parola, forse perché evoca spettri sovietici, ma è esattamente di questo che si tratta.
Con il decreto salva-banche varato fulmineamente la settimana scorsa, il governo mette sul piatto l’equivalente di una manovra finanziaria: 20 miliardi di euro per salvare non solo Mps, ma anche le due malandate banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) e i quattro istituti nati dalla risoluzione di CariChieti, CariFe, Banca Etruria e Banca Marche.
Insomma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, questo provvedimento dimostra che quando si vuole il denaro si trova, il debito pubblico si fa salire senza troppe remore e le leggi si approvano in giornata nonostante il demoniaco bicameralismo perfetto.
Ma torniamo ai fatti. Solo per acquisire la maggioranza assoluta nel capitale dell’istituto senese lo Stato potrebbe sborsare fino a 7 miliardi, mentre il conto dell’intervento complessivo non dovrebbe superare quota 15 miliardi. In questo modo rimarrebbero in cassa le risorse per fronteggiare eventuali nuove crisi.
Prima di tutto, però, c’è da affrontare Bruxelles. La Commissione europea ha dato un via libera di massima al salvataggio pubblico delle banche italiane, ma, prima di approvare in via definitiva il piano di Roma, verificherà che la procedura rispetti le condizioni imposte dalle regole comunitarie.
La più pesante è quella che impone di accompagnare l’aiuto dello Stato con la cosiddetta “burden sharing”. In sostanza, al costo del salvataggio dovranno partecipare anche gli azionisti e i titolari di bond subordinati. Fra questi ultimi, però, saranno solo gli investitori istituzionali a subire delle perdite, a causa della conversione dei bond in azioni pari al 75% del valore nominale delle obbligazioni.
Ai piccoli risparmiatori, invece, saranno distribuite obbligazioni ordinarie (assai più sicure) per lo stesso ammontare dei titoli subordinati in portafoglio. Questa forma di tutela si basa però su un presupposto: Montepaschi dovrebbe ammettere di aver ingannato circa 40mila dei suoi clienti, vendendo loro bond per 2,1 miliardi di euro senza averli informati adeguatamente dei rischi.
Dopodiché lo Stato dovrà avviare il risanamento della Banca, un percorso lungo e pieno di insidie. Di sicuro non arriveranno sconti da Bruxelles, su cui si mantiene alto il pressing di Wolfgang Schaeuble, ministro tedesco delle Finanze, e del suo fido vassallo Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo. I due, forse ormai per abitudine, sfogano tutta la loro ferocia repressa su noi spreconi euromeridionali. Basti pensare all’ennesimo colpo inferto pochi giorni fa alla Grecia, che si è vista bloccare gli aiuti solo perché Tsipras si era permesso di distribuire parte del surplus di bilancio alle pensioni minime e alle isole travolte dalla crisi dei migranti.
E se Atene piange, Siena probabilmente non riderà. Christoph Schmidt, uno dei consiglieri economici della cancelliera Angela Merkel, ha già lanciato i suoi anatemi contro il salvataggio di Mps, cui non dovrebbero partecipare “i contribuenti”.
Peccato che Schmidt eviti di ricordare il caso della banca tedesca Hsh Nordbank, che si appresta a ricevere un’iniezione di denaro pubblico da circa 10 miliardi di euro (il doppio dell’aumento di capitale tentato da Montepaschi) per evitare il collasso a causa dei prestiti deteriorati legati al settore navale.
La sola differenza con la vicenda Mps è che il salvataggio di Nordbank è stato approvato dalla Germania prima che entrassero in vigore le nuove regole europee sulle risoluzioni bancarie. Alla fine è questione di stereotipi: i tedeschi arrivano puntuali. Noi, invece, sempre in ritardo.
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di Carlo Musilli
Scalata ostile o mossa strategica? L’operazione di Vivendi nel capitale di Mediaset ha generato un fiume di sospetti, accuse e dietrologie. L’impressione è che a Piazza Affari stia andando in scena una partita a scacchi dai contorni ancora poco chiari, ma è proprio questo alone di mistero a suscitare interesse intorno al caso, capace di oscurare per qualche giorno perfino il dossier Mps.
Partiamo dai fatti. In pochi giorni il colosso francese delle telecomunicazioni guidato da Vincent Bolloré ha acquisito il 20% del Biscione. Fininvest, azionista di maggioranza di Mediaset, ha risposto aumentando la propria quota fino alle soglie del 40%, cui va aggiunto il 3,79% di azioni proprie in pancia al gruppo televisivo, che in teoria potrebbe salire fino al 10%.
Vivendi sostiene ufficialmente che l’operazione non sia un atto ostile: dice di voler rafforzare la propria posizione nell’Europa meridionale, un’area che considera strategica. Fininvest però ha denunciato il gruppo francese, accusandolo di aver speculato sul titolo Mediaset per tentare una scalata, e la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per manipolazione di mercato.
Ora, considerati i valori in campo, sembra quantomeno improbabile che in futuro Vivendi possa davvero acquisire il controllo del Biscione. Ma allora come si spiega tanta irruenza? Per avere le idee più chiare bisogna tenere presente l’affaire Premium. Lo scorso 8 aprile i francesi avevano sottoscritto un accordo vincolante per acquisire la pay-tv di Mediaset. A luglio però ci hanno ripensato, affermando di aver trovato nei conti di Premium “significative differenze” rispetto alla valutazione iniziale.
Il mese successivo Mediaset e Fininvest hanno fatto causa al gruppo di Bolloré, chiedendo l’esecuzione forzata del contratto, oltre a un risarcimento monstre. Nel frattempo il titolo in Borsa del Biscione è caduto a picco, perciò ora il gruppo di Cologno Monzese accusa Vivendi di aver ordito fin dall’inizio un piano machiavellico, facendo crollare di proposito il valore delle azioni Mediaset in preparazione al tentativo di scalata.
E adesso? Secondo il mercato, lo scenario più verosimile è quello della pax armata. Gli analisti di Icbpi fanno notare che, dopo gli ultimi acquisti, “la società francese si approssima a rappresentare una minoranza di blocco in assemblea straordinaria e quindi ad avere maggior potere negoziale con Fininvest”. In questo modo potrebbe avviare una nuova trattativa per creare un gruppo media dominante nel Sud Europa. Del resto, Vivendi è già azionista di maggioranza di Telecom Italia, mentre Mediaset controlla il 55% del mercato pubblicitario televisivo in Italia e il 40% in Spagna.
Ma a prescindere dall’esito della partita, lo scontro Bolloré-Berlusconi ha già prodotto un effetto culturale, restituendo attualità al vecchio dibattito sulla colonizzazione estera delle imprese italiane. La dottrina vuole che si possano cedere senza troppi patemi gli asset non strategici, mentre si debba tutelare l’italianità di quelli strategici (cioè fondamentali per l’economia e non replicabili).
In linea con questo principio, un esercito di realtà del made in taly ha già attraversato le Alpi: oltre a Telecom anche Parmalat, Edison, Bulgari, Gucci, Loro Piana, Fendi, Bottega Veneta, Bnl e Cariparma sono oggi controllate da gruppi francesi. Nessuna di loro si può definire strategica e, onestamente, non lo è nemmeno Mediaset. Lo stesso discorso vale per l’ultima della lista, Pioneer, che di recente Amundi ha acquistato da Unicredit.
Già, Unicredit. Pochi giorni fa la seconda banca del Paese ha annunciato un aumento di capitale titanico (13 miliardi) che potrebbe cambiare radicalmente il suo azionariato. Viene da chiedersi chi saranno i nuovi padroni a operazione conclusa, visto che l’istituto in questione finanzia l’economia reale, ha in pancia un oceano di titoli di Stato e custodisce i risparmi di milioni di italiani. In altri termini, forse stiamo indirizzando le nostre angosce sull’obiettivo sbagliato: Mediaset non è strategica, ma Unicredit sì.
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di Antonio Rei
Ci avevano raccontato che, con la vittoria del NO, sui mercati finanziari sarebbero arrivati i Cavalieri dell’Apocalisse. Ma a quanto pare i Cavalieri avevano di meglio da fare, visto che ieri Piazza Affari ha chiuso in rialzo del 4,15%, ai massimi dal 24 giugno, ovvero il giorno successivo al referendum sulla Brexit. Una delle migliori performance dell’anno.
La sconfitta al referendum costituzionale è stata talmente pesante da imporre le dimissioni a Matteo Renzi, eppure gli investitori non si sono affatto strappati i capelli. Forse non sarà proprio come l’elezione di Donal Trump negli Usa, che per settimane - nello sconcerto degli analisti - ha addirittura galvanizzato Wall Street, ma la caduta del Premier italiano si è rivelata perlomeno indolore. In altri termini, lo hanno ignorato.
La pioggia di acquisti andata in scena ieri, infatti, non va interpretata come un segno di esultanza dei mercati: sono pure e semplici ricoperture tecniche. Significa che gli operatori di Borsa hanno ricomprato titoli italiani perché questi, dopo tante vendite, erano arrivati a costare troppo poco, tornando quindi a risultare convenienti. È un andamento normale dopo fasi negative come quella che abbiamo appena attraversato, durante la quale i mercati hanno scontato la prevedibilissima vittoria del NO. Se lo aspettavano, quindi hanno venduto prima che accadesse. E ieri è arrivato il grande rimbalzo.
A determinare le sorti della nostra Borsa, nel bene e nel male, sono sempre i titoli bancari, che infatti ieri hanno messo a segno una serie di rialzi spettacolari: Unicredit +12,81%, Mediobanca +9,94%, Ubi Banca +9,70%, Intesa San Paolo +8,16%, Banco Popolare +9,02%, Bpm +9,03% e Bper +7%. Fuori dal listino principale, Banca Generali +13,54%.
Come al solito, il Monte dei Paschi ha fatto storia a sé, con il titolo che ieri ha guadagnato solamente l’1,1%. La cautela degli investitori è legata al traballante piano di salvataggio dell’istituto senese, di fatto l’unica vera vittima finanziaria del referendum di domenica. Dopo la vittoria del NO, le banche del consorzio di garanzia, che avrebbero dovuto valutare il risultato dell’operazione di conversione dei bond subordinati e decidere se procedere o meno con l’aumento di capitale dell'istituto, hanno rinviato il verdetto di qualche giorno.
La speranza (ormai ridotta al lumicino) è che all’orizzonte si stagli all’improvviso la figura eroica del cosiddetto “anchor investor” - il quale nella fattispecie avrebbe le sembianze di un emiro del Qatar - pronto a mettere un miliardo sul tavolo per risolvere la situazione come un vero deus ex machina.
Purtroppo, però, sembra ormai scontato che la soluzione di mercato sarà impossibile e che quindi non si potrà evitare il coinvolgimento diretto dello Stato (oggi primo socio di Siena al 4%). Già, ma in che modo? Le ipotesi in campo sono diverse: una garanzia pubblica a termine, una possibile emissione di CoCo bond oppure la nazionalizzazione della Banca mediante la burden sharing prevista dalle norme Ue.
Quest’ultima strada sarebbe dolorosa per chi in Mps ha investito, dal momento che implicherebbe la riduzione del valore di azioni ed obbligazioni (potrebbero essere risparmiati solo le obbligazioni fino a 100 mila euro, sui 2 miliardi del bond distribuito presso il largo pubblico).
Ma in teoria lo Stato potrebbe anche rafforzare la propria quota minoritaria in Mps: la Ue non lo considererebbe aiuto di Stato, purché il Tesoro compia questa operazione alle condizioni degli altri investitori, senza colpi di scure sui creditori. Traduzione: i contribuenti pagano e gli azionisti si salvano.