di Carlo Musilli

L’Ape deve ancora partire, ma sembra già uno scherzo. Per due ragioni. Prima di tutto perché malgrado il nome – l’acronimo sta per “anticipo pensionistico” – è già in ritardo. Dovrebbe partire il primo maggio, ma secondo La Repubblica la settimana scorsa mancavano ancora tre decreti attuativi, l'accordo quadro con banche e assicurazioni, il parere del Consiglio di Stato, la registrazione della Corte dei Conti e una o due circolari Inps. Difficile che si riesca a risolvere tutto per rimanere nei tempi stabiliti con l’ultima legge di bilancio.

Il secondo motivo è che l’Ape si chiama “anticipo”, ma non è un anticipo. Su questo punto è stata realizzata un’operazione di marketing governativo niente male. Si è detto a più riprese che la nuova misura serviva ad aumentare la flessibilità in uscita per correggere in parte la riforma Fornero del 2011, che ha alzato per tutti l’età pensionabile. Purtroppo non è così. Qualsiasi forma di pensione anticipata, per essere tale, deve prevedere un abbassamento dei requisiti anagrafici per l’accesso. E non è il caso dell’Ape, che non anticipa proprio nulla.

Dall’anno prossimo l’età minima per il pensionamento di vecchiaia salirà per tutti, uomini e donne, a 66 anni e sette mesi, e nel 2019 arriverà un nuovo incremento per adeguare il requisito alla nuova speranza di vita calcolata dall’Istat. L’Ape non abbassa queste soglie, ma dà ai lavoratori la possibilità di finanziarsi da soli una rendita-ponte per coprire l’ultimo lasso di tempo prima che scatti il vero trattamento previdenziale.

Come? Con un prestito bancario assicurato da restituire nei primi 20 anni di pensionamento effettivo con una decurtazione dell’assegno mensile Inps. L’assicurazione è obbligatoria e serve a tutelare la banca nel caso l’interessato muoia prima di aver rimborsato tutto il credito. Peraltro la quota di pensione che si può ottenere varia a seconda dell’anticipo: la forbice è compresa fra un massimo del 90% (per un anticipo fino a 12 mesi) e un minimo del 75% (per anticipi di almeno tre anni).

La vera assurdità è che non sono previste strade alternative per chi non abbia bisogno del prestito. Poniamo il caso di un lavoratore che abbia risparmiato tutta la vita e ora voglia investire parte del suo capitale per finanziarsi da solo l’Ape. Non può. Deve per forza chiedere un prestito ventennale, pagandoci sopra interessi bancari (al 2,75%) e premio assicurativo (il 29% dell'anticipo).

Secondo la società di consulenza Progetica, se un lavoratore con una futura pensione netta da 1.300 euro volesse andare in pensione con un anticipo di 3 anni e 7 mesi, al termine dell’Ape si ritroverebbe con un assegno Inps tagliato a 929 euro (anche tenuto conto della detrazione al 50% offerta dallo Stato su interessi e premio assicurativo). A conti fatti l’Ape costa intorno al 5% del trattamento per ogni anno di anticipo.

È evidente che il risultato finale può rivelarsi un flagello per molte pensione. Uscire dal lavoro prima del tempo non è affatto una prospettiva allettante se per i successivi 20 anni ci si ritrova con una pensione significativamente più bassa di quella a cui si ha diritto (che già di per sé, nella stragrande maggioranza dei casi, non è alta). A queste condizioni è davvero difficile che le domande possano arrivare ai numeri stimati dal governo Renzi, che aveva previsto 300 mila richieste di Ape quest'anno e 115 mila il prossimo.

Per quanto riguarda invece la versione “social” dell’Ape, cioè quella interamente a carico dello Stato, sarà riservata a poche persone: disoccupati, chi assiste un parente disabile, gli invalidi almeno al 74% (ma con 30 anni di contributi) e chi ha svolto un lavoro pesante almeno negli ultimi 6 anni in modo continuativo, ma solo se rientra in una di 11 categorie specifiche e ha almeno 36 anni di contributi.

Quest’ultimo criterio, secondo la Cgil, taglia fuori quasi tutti gli edili e i marittimi, che hanno carriere discontinue. Se vorranno l’Ape, dovranno accontentarsi anche loro della versione volontaria, a pagamento. Cioè l’anticipo senza anticipo.

di Carlo Musilli

Quello iniziato da Donald Trump è un gioco pericoloso. Dopo tante minacce, il presidente degli Stati Uniti ha dato sfogo alle sue ambizioni neo-protezioniste con due decreti. Il primo dispone un’indagine su larga scala per individuare le cause del deficit commerciale Usa e ogni forma di abuso da parte degli altri Stati (in 90 giorni sarà allestito un rapporto che analizzerà paese per paese). Il secondo punta a colpire i governi stranieri che sostengono con sussidi i propri prodotti in modo che possano essere venduti in America a un costo inferiore.

“Questi decreti inviano un messaggio forte e chiaro e pongono le basi per una rivitalizzazione della grande industria manifatturiera statunitense", ha detto Trump annunciando i due provvedimenti. "Il mio messaggio è chiaro: da oggi in poi chi viola le regole deve sapere che ne subirà le conseguenze. È finita l’era in cui c’è chi ruba la prosperità dell’America con le politiche commerciali”.

Insomma, la Casa Bianca sfida tutti i suoi principali partner: dall’Unione europea alla Cina, dal Messico alla Corea del Sud, passando per il Giappone. Secondo il Presidente americano, infatti, il super deficit commerciale degli Stati Uniti (che ammonta a 500 miliardi di dollari, di cui oltre 340 miliardi solo con la Cina) sarebbe frutto delle politiche di libero scambio messe in campo dalle amministrazioni precedenti. Su tutte, naturalmente, quella di Barack Obama.

In campagna elettorale Trump ha ripetuto fino alla noia che il principale nemico degli Usa sul versante commerciale è Pechino. Non a caso i due decreti arrivano a pochi giorni dalla visita in Florida del leader cinese Xi Jinping, che per la prima volta parlerà faccia a faccia con Trump. L’incontro sarà certamente molto teso, ma è improbabile che segni l’avvio di un duello fatto di dazi e contro-dazi.

Il gigante asiatico rappresenta per gli Usa un partner commerciale più importante dell’Europa e un eventuale braccio di ferro danneggerebbe pesantemente i consumatori americani, che vedrebbero lievitare i prezzi di molti prodotti ad alta frequenza d’acquisto. Per non parlare delle prevedibili ripercussioni negative su Wall Street, che proprio la settimana scorsa ha iniziato a rallentare dopo i primi tre mesi di luna di miele con il nuovo presidente.

Per questa ragione, se Trump vorrà dare corso a qualche provvedimento eclatante, lo farà verosimilmente a danno delle imprese europee. Sembrano andare in questa direzione le indiscrezioni lasciate trapelare sul Wall Street Journal a proposito di nuovi dazi del 100% su alcuni prodotti italiani e francesi come la Vespa Piaggio, il formaggio Roquefort o le acque minerali San Pellegrino e Perrier (che in realtà fanno capo al colosso svizzero Nestlé).

La giustificazione ufficiale è la disputa sulla carne agli ormoni, iniziata quasi vent’anni fa. Nel 2009 era stato raggiunto un accordo parziale con cui l’Ue aveva accettato di aprire il suo mercato alla carne americana, a patto che questa non fosse trattata con gli ormoni, considerati nocivi. Ai produttori Usa l’intesa non era parsa soddisfacente, perciò la Commissione europea aveva proposto di affrontare la questione nel Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che però è provvidenzialmente saltato proprio dopo l’elezione di Trump. Lo psicodramma della carne piena di ormoni, perciò, resta irrisolto.

Eppure, malgrado l’importanza del settore alimentare nel commercio Usa-Ue, la sensazione è che lo scoop del WSJ sia stato lanciato come esca, per vedere di nascosto l’effetto che fa. E l’effetto, fin qui, non è stato buono: le proteste non sono arrivate soltanto dai paesi europei, ma anche da molte aziende americane, terrorizzate dalle ripercussioni che una guerra dei dazi avrebbe sui loro fatturati. Ad esempio, la Harley-Davidson si è schierata contro le barriere agli scooter europei.

Domanda: è possibile che nessun tecnico a Washington si renda conto di quanto sarebbe folle e autolesionista ingaggiare davvero una battaglia commerciale con il resto del pianeta? No, non è possibile. Ma il punto è un altro: la Casa Bianca ha un disperato bisogno di dimostrare agli americani che le promesse di Trump non sono tutte bolle di sapone.

Perché a ben vedere, fin qui, il cambiamento di rotta annunciato dal tycoon si è tradotto in una serie di fallimenti: dal doppio bando degli immigrati musulmani, impallinato due volte dalle corti federali per incostituzionalità, all’abolizione dell’Obamacare, fallita a causa dell’insipienza politica di Trump, che non ha saputo raccogliere i voti del suo stesso partito. Per distogliere l’attenzione da questi insuccessi, il Presidente americano ha deciso di passare al capitolo del nazionalismo economico, sintetizzato nello slogan della campagna elettorale “America first”.

Missione compiuta: ora i media si concentrano sul protezionismo, non più sull’immigrazione né sul sistema sanitario. Ma se non manterrà le promesse nemmeno in questo ambito, Trump perderà un’altra fetta della (poca) credibilità di cui dispone, mettendo a rischio anche il suo provvedimento di punta, la riforma fiscale.

La speranza è che, dopo lo show di questi giorni, l’amministrazione americana si limiti a una serie di provvedimenti commerciali mirati, evitando di scatenare una corsa mondiale al protezionismo. E non per senso di responsabilità nei confronti del pianeta – figuriamoci – ma perché in un mondo pieno di dazi doganali tutti sarebbero più poveri. Anche le aziende e i consumatori americani.

di Michele Paris

La consueta lista annuale dei miliardari del pianeta, pubblicata recentemente dalla rivista Forbes, ha registrato un sensibile aumento dei membri di questa sorta di club super-esclusivo in concomitanza con l’accelerazione generalizzata di politiche di regressione sociale imposte a miliardi di persone che vedono sempre più come un miraggio anche solo la parvenza di una vita dignitosa.

A fronte delle promesse e degli impegni a redistribuire più equamente le ricchezze, pronunciati nei parlamenti, nelle sedi dei governi o nel corso dei vertici internazionali, dove sono protagonisti i rappresentanti politici dei super-ricchi elencati da Forbes se non, talvolta, direttamente questi ultimi, i numeri reali continuano a indicare una tendenza diametralmente opposta.

Forbes ha rilevato per il 2016 ben 233 nuovi miliardari che hanno fatto salire il numero complessivo nel mondo a 2.043. Per la prima volta in 31 anni, la lista stilata dalla rivista statunitense include in questa occasione un numero di miliardari superiore alle duemila unità.

L’ingresso di un numero così alto di super-ricchi nell’elenco di Forbes ha determinato anche un aumento delle ricchezze complessive dei miliardari di circa il 18% rispetto all’anno precedente, portandole alla cifra quasi inconcepibile di 7.670 miliardi di dollari. Questo dato è superiore al PIL di tutti i paesi del mondo, a esclusione di quelli di Stati Uniti, Unione Europea nel suo insieme e Cina.

La persona più ricca del mondo è ovviamente ancora una volta il fondatore di Microsoft, Bill Gates, il quale ha beneficiato di un aumento di 11 miliardi di dollari delle proprie fortune, giunte ora a 86 miliardi. A inseguire Gates c’è il re della speculazione globale, Warren Buffett, con i suoi 86 anni e 75,6 miliardi di dollari il più anziano tra i primi dieci miliardari planetari.

Al terzo posto si trova poi il fondatore e CEO di Amazon, Jeff Bezos, il quale ha fatto registrare l’aumento di ricchezza più consistente nel 2016, pari a 27,6 miliardi di dollari, e ora (relativamente) a un passo da Buffett con un totale di 72,8 miliardi.

A conferma del livello altissimo di competizione ai vertici più estremi del capitalismo globale, il messicano Carlos Slim si è visto scivolare indietro di due posizioni nella classifica di Forbes – dalla quarta alla sesta – nonostante nel 2016 abbia aggiunto al proprio patrimonio qualcosa come 4,5 miliardi di dollari.

Prima di Slim si sono piazzati lo spagnolo Amancio Ortega (71,3 miliardi di dollari), numero uno della multinazionale Inditex, proprietaria del marchio di abbigliamento Zara, anch’egli in discesa di due posizioni, e Mark Zuckerberg (56 miliardi) di Facebook. A chiudere la “top ten” del privilegio più inarrivabile sono infine Larry Ellison (52,2 miliardi) di Oracle, i fratelli Charles e David Koch (48,3 miliardi a testa) delle Koch Industries e l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg (47,5 miliardi).

I dieci individui più facoltosi del pianeta possiedono complessivamente più di 610 miliardi di dollari, cioè più del PIL dell’Argentina o della Nigeria, paesi che contano rispettivamente 43 e 188 milioni di abitanti. Da un altro punto di vista, i primi otto della lista si spartiscono una quantità di ricchezze pari a quelle detenute dalla metà più povera della popolazione del pianeta, ovvero 3,6 miliardi di persone.

Anche nel 2016, gli Stati Uniti hanno fornito il maggior numero di miliardari (565), tra cui il neo presidente Trump, al numero 544 della classifica con 3,4 miliardi di dollari, seguiti da Cina (319) e Germania (114). Al quarto posto si trova l’India con ben 101 miliardari, nonostante in questo paese lo stipendio medio giornaliero si aggiri attorno ai 4 euro.

La lista più recente dei miliardari di Forbes è probabilmente il più noto dei numerosi studi e accorpamenti di dati che indicano come la crisi finanziaria del 2008-2009 abbia accelerato il processo di concentrazione della ricchezza al vertice della piramide sociale.

Questo scenario, anche se caratterizzato da un aumento del numero totale degli individui che possono permettersi virtualmente qualsiasi bene o lusso, non è in nessun modo un sintomo di salute del capitalismo internazionale, ma è piuttosto il segnale della corsa verso il disastro di un sistema economico insostenibile da tutti i punti di vista.

A rafforzare questa tesi è anche il fatto che l’incremento delle ricchezze per pochissimi privilegiati deriva in larga misura non da attività produttive che contribuiscono al benessere generale, sia pure in maniera relativa e limitata, bensì da operazioni finanziarie speculative che per lo più sottraggono risorse preziose alla società per alimentare un’accumulazione senza senso da parte dei possessori di grandi patrimoni.

Non a caso lo sfondamento del muro dei duemila miliardari è arrivato dopo mesi di crescita record degli indici di borsa, soprattutto negli Stati Uniti, grazie dapprima alle artificiose politiche “espansive” delle banche centrali e in seguito, sempre per quanto riguarda la situazione americana, alle prospettive di deregulation selvaggia del business fatte intravedere dall’amministrazione Trump.

A questo quadro fa da contrappunto una stagnazione, nella migliore delle ipotesi, dell’economia reale, ma anche tassi di disoccupazione ostinatamente elevati e contrazione del potere d’acquisto di lavoratori e classi medie.

In definitiva, la ricchezza smisurata celebrata da Forbes è possibile solo grazie a processi, uguali in tutti i paesi, che producono devastazione sociale precisamente per spostare le risorse economiche dalle classi più deboli alle élites. Mentre Gates, Buffett, Bezos e qualche altro migliaio di super-ricchi ingigantiscono i loro patrimoni, centinaia di milioni o miliardi di persone sono private di servizi pubblici vitali, del lavoro, dell’accesso alla cultura e all’istruzione, quando non alla stessa sopravvivenza.

La giustificazione offerta dai governi di tutto il mondo per l’implementazione di misure di austerity che sembrano non avere fine è indistintamente quella della scarsità delle risorse o della necessità di vivere secondo i mezzi esistenti, cioè sempre più esigui.

Come dimostra anche la classifica di Forbes, al contrario, il pianeta dispone abbondantemente della ricchezza necessaria a soddisfare le necessità fondamentali di tutti i suoi abitanti e a garantire livelli di vita decenti e sostenibili. L’ostacolo, tuttavia, è rappresentato da una distribuzione irrazionale e da una tendenza alla concentrazione di beni nelle mani di pochi che, nel quadro dell’attuale sistema economico e politico, risulta di fatto impossibile da invertire.

di Carlo Musilli

Nessuno ne sentiva la mancanza, ma il 27 febbraio la Troika farà ritorno in Grecia. Ancora. I rappresentanti dei creditori internazionali (Ue, Bce e Fmi) si incontreranno per decidere quali nuove riforme imporre ad Atene in cambio della seconda tranche del prestito da 85 miliardi sottoscritto nell’agosto del 2015. Soldi con cui la Grecia potrà rimborsare un debito di 7,2 miliardi di crediti in scadenza a luglio ed evitare così la bancarotta. Ancora.

Tutto come da copione? No, almeno secondo Jeroen Dijsselbloem. Il Presidente dente dell’Eurogruppo assicura che stavolta la Troika e il governo greco “lavoreranno su un ulteriore pacchetto di misure adottando un cambiamento di politica economica, con una minore enfasi sull’austerità di bilancio e una maggiore attenzione su profonde riforme economiche”.

Il tono suona amichevole, ma è interessato e falso. Interessato perché quest’anno nell’agenda dell'Ue ci sono elezioni importantissime e le polemiche sulla Grecia rischiano di favorire gli euroscettici. Naturalmente Dijsselbloem assicura che è tutto “completamente indipendente dal ciclo elettorale”, del resto “vi sono sempre elezioni da qualche parte in Europa”. Il buon Jeroen dimentica però di precisare che nei prossimi mesi si voterà nella sua Olanda (a marzo), in Francia (aprile-maggio) e in Germania (settembre). Non proprio le repubbliche baltiche.

Fin qui l’interesse. Passiamo alla falsità. Dijsselbloem favoleggia di “minore enfasi sull’austerità”, ma nella sostanza è proprio di austerità che si continua a parlare. I componenti della Troika hanno già concordato di chiedere alla Grecia, in cambio degli aiuti, misure restrittive per altri 3,6 miliardi, il 2% del Pil. Le clausole di salvaguardia scatterebbero se non venisse centrato l’obiettivo dell’avanzo primario al 3,5% del Pil (una meta praticamente irraggiungibile) e prevedono i soliti tagli alle pensioni oltre a misure per ampliare la base imponibile.

Con questi interventi – che per ora il governo Tsipras non ha adottato – i creditori europei vogliono in primo luogo convincere l’Fmi a rientrare nella partita. L’anno scorso, infatti, il Fondo monetario ha smesso di pagare aiuti ad Atene perché non riteneva sostenibile un programma che potrebbe far lievitare il debito pubblico ellenico dall’attuale 180 al 275% del Pil entro il 2060.

Su questo punto l’Fmi ha ragione da vendere. Per avere un’idea di quanto sia non solo inutile ma perfino dannosa la medicina dell’austerità basta dare uno sguardo alla macelleria sociale prodotta in Grecia negli ultimi otto anni. Qualche numero: il Pil è crollato del 25%, la pressione fiscale è aumentata dal 38 al 52%, il tasso di disoccupazione è al 27% e sale al 60% fra i giovani, il Pil pro capite (calcolato dallo stesso Fmi) è crollato del 56%, passando dai 32.198 dollari del 2008 ai 18.078 dollari del 2016.

E ancora: il 50% della popolazione vive di sole rendite previdenziali, il 43% dei pensionati riceve meno di 660 euro al mese (dal 2010 le pensioni sono state tagliate 11 volte), il 15% dei greci (1,6 milioni di persone) vive sotto la soglia di povertà con un reddito inferiore a 180 euro al mese, cioè 6 euro al giorno. Ma ancora non basta. Dopo aver ridotto la Grecia in questo stato la Troika pretende d’imporle nuove misure di austerità. Vuole continuare su questa strada distruttiva a ogni costo, contro ogni evidenza, difendendo l’indifendibile.

Il fallimento è totale. L’austerità non ha aiutato il Pil greco, gli ha dato il colpo di grazia. Non ha nemmeno migliorato i conti pubblici: li ha affossati. Ed è proprio per questo che Atene non sarà mai in grado di produrre il surplus di bilancio che servirebbe a ripagare i suoi debiti. Il gioco perverso è sempre lo stesso: la Grecia non si risolleva a causa dell’austerità e, siccome non si risolleva, la Troika le impone nuova austerità.

Finché si continua su questa strada è assurdo immaginare che un giorno Atene riuscirà a tornare sul mercato, finanziare da sola tutto il proprio debito pubblico e ripagare per intero i prestiti ricevuti. In realtà – come lo stesso Fmi sostiene da tempo – l’unica soluzione sarebbe abbattere il debito ellenico. I creditori europei lo sanno da anni, ma continuano con questo schema Ponzi (debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi) che tiene artificialmente in vita i conti di Atene ma intanto uccide il Paese. Tutti gli anni è sempre la stessa storia. E pensiamo davvero che possa finire oggi, a pochi mesi dalle elezioni in Germania?

di Antonio Rei

Sulle spese per l’emergenza terremoto i conti non tornano. La questione è tornata d’attualità  con la lettera che il Tesoro ha inviato la settimana scorsa alla Commissione europea per indicare le misure con cui l’Italia intende operare la correzione dei conti pubblici da 3,4 miliardi chiesta da Bruxelles.

A proposito delle risorse da investire per la ricostruzione post-sisma, il ministro dell’Economia si mostra prudente: “Allo stato attuale non possiamo determinare con certezza l’impatto dei recenti eventi sismici sulle finanze pubbliche – scrive Pier Carlo Padoan – ma è probabile che i costi andranno ben oltre un miliardo di euro già nel 2017. Per mobilitare le risorse destinate a questo scopo sarà istituito un Fondo apposito”.

La cautela del ministro sembra più che ragionevole, ma non basta a fugare ogni dubbio sulla gestione dei fondi per il terremoto. Il problema nasce dal fatto che lo scorso ottobre, in un’altra lettera alla Commissione europea, il Governo aveva quantificato in 3,4 miliardi di euro le risorse aggiuntive da impiegare nel 2017 per far fronte all’emergenza sisma (curiosamente, la somma coincide con quella chiesta da Bruxelles a correzione dei conti di quest’anno). Si tratta di un ulteriore margine di flessibilità che l’Italia ha ottenuto dall’Europa, perché quei soldi non saranno conteggiati ai fini del Patto di stabilità e crescita.

Sennonché, di quei 3,4 miliardi si trova ben poco nella legge di Bilancio approvata a dicembre: appena 600 milioni. Nel dettaglio, la spesa si articola in questo modo: 100 milioni “per la concessione del credito d'imposta maturato in relazione all'accesso ai finanziamenti agevolati, di durata venticinquennale, per la ricostruzione privata”; 200 milioni “per la concessione dei contributi per la ricostruzione pubblica” e 300 milioni di cofinanziamento regionale di fondi strutturali.

I tecnici obiettano che molti soldi destinati al terremoto figurano in forma aggregata nei fondi dei singoli ministeri, ma la sproporzione fra 3,4 miliardi e 600 milioni è davvero eccessiva perché questa spiegazione appaia sufficiente. In seguito, il Tesoro ha precisato che “un altro miliardo arriverà dal Fondo per lo sviluppo degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale istituito dall'articolo 21 della Legge di bilancio”.

Il sito del Senato conferma che “l’articolo 21 istituisce un Fondo per il finanziamento di investimenti in materia di infrastrutture e trasporti, difesa del suolo e dissesto idrogeologico, ricerca, prevenzione del rischio sismico, attività industriali ad alta tecnologia e sostegno alle esportazioni, nonché edilizia pubblica”.

Non è chiaro se questo Fondo sia lo stesso di cui parla Padoan nella sua ultima lettera a Bruxelles. Se così fosse – come pare probabile – vorrebbe dire che il totale dei soldi stanziati esplicitamente dall’Italia per l’emergenza terremoto arriverebbe ad appena 1,6 miliardi di euro nel 2017, cioè meno della metà dei 3,4 miliardi chiesti a ottobre. In caso contrario, la differenza sarebbe meno ampia ma i conti non tornerebbero comunque.

Insomma, il quadro non è abbastanza chiaro per muovere accuse e vogliamo pensare che esista una soluzione rassicurante a questo problema di ragioneria. L’unica certezza è che, su un tema così delicato, sarebbe il caso di muoversi con più trasparenza.


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