di Carlo Musilli

Scalata ostile o mossa strategica? L’operazione di Vivendi nel capitale di Mediaset ha generato un fiume di sospetti, accuse e dietrologie. L’impressione è che a Piazza Affari stia andando in scena una partita a scacchi dai contorni ancora poco chiari, ma è proprio questo alone di mistero a suscitare interesse intorno al caso, capace di oscurare per qualche giorno perfino il dossier Mps.

Partiamo dai fatti. In pochi giorni il colosso francese delle telecomunicazioni guidato da Vincent Bolloré ha acquisito il 20% del Biscione. Fininvest, azionista di maggioranza di Mediaset, ha risposto aumentando la propria quota fino alle soglie del 40%, cui va aggiunto il 3,79% di azioni proprie in pancia al gruppo televisivo, che in teoria potrebbe salire fino al 10%.

Vivendi sostiene ufficialmente che l’operazione non sia un atto ostile: dice di voler rafforzare la propria posizione nell’Europa meridionale, un’area che considera strategica. Fininvest però ha denunciato il gruppo francese, accusandolo di aver speculato sul titolo Mediaset per tentare una scalata, e la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per manipolazione di mercato.

Ora, considerati i valori in campo, sembra quantomeno improbabile che in futuro Vivendi possa davvero acquisire il controllo del Biscione. Ma allora come si spiega tanta irruenza? Per avere le idee più chiare bisogna tenere presente l’affaire Premium. Lo scorso 8 aprile i francesi avevano sottoscritto un accordo vincolante per acquisire la pay-tv di Mediaset. A luglio però ci hanno ripensato, affermando di aver trovato nei conti di Premium “significative differenze” rispetto alla valutazione iniziale.

Il mese successivo Mediaset e Fininvest hanno fatto causa al gruppo di Bolloré, chiedendo l’esecuzione forzata del contratto, oltre a un risarcimento monstre. Nel frattempo il titolo in Borsa del Biscione è caduto a picco, perciò ora il gruppo di Cologno Monzese accusa Vivendi di aver ordito fin dall’inizio un piano machiavellico, facendo crollare di proposito il valore delle azioni Mediaset in preparazione al tentativo di scalata.

E adesso? Secondo il mercato, lo scenario più verosimile è quello della pax armata. Gli analisti di Icbpi fanno notare che, dopo gli ultimi acquisti, “la società francese si approssima a rappresentare una minoranza di blocco in assemblea straordinaria e quindi ad avere maggior potere negoziale con Fininvest”. In questo modo potrebbe avviare una nuova trattativa per creare un gruppo media dominante nel Sud Europa. Del resto, Vivendi è già azionista di maggioranza di Telecom Italia, mentre Mediaset controlla il 55% del mercato pubblicitario televisivo in Italia e il 40% in Spagna.

Ma a prescindere dall’esito della partita, lo scontro Bolloré-Berlusconi ha già prodotto un effetto culturale, restituendo attualità al vecchio dibattito sulla colonizzazione estera delle imprese italiane. La dottrina vuole che si possano cedere senza troppi patemi gli asset non strategici, mentre si debba tutelare l’italianità di quelli strategici (cioè fondamentali per l’economia e non replicabili).

In linea con questo principio, un esercito di realtà del made in taly ha già attraversato le Alpi: oltre a Telecom anche Parmalat, Edison, Bulgari, Gucci, Loro Piana, Fendi, Bottega Veneta, Bnl e Cariparma sono oggi controllate da gruppi francesi. Nessuna di loro si può definire strategica e, onestamente, non lo è nemmeno Mediaset. Lo stesso discorso vale per l’ultima della lista, Pioneer, che di recente Amundi ha acquistato da Unicredit.

Già, Unicredit. Pochi giorni fa la seconda banca del Paese ha annunciato un aumento di capitale titanico (13 miliardi) che potrebbe cambiare radicalmente il suo azionariato. Viene da chiedersi chi saranno i nuovi padroni a operazione conclusa, visto che l’istituto in questione finanzia l’economia reale, ha in pancia un oceano di titoli di Stato e custodisce i risparmi di milioni di italiani. In altri termini, forse stiamo indirizzando le nostre angosce sull’obiettivo sbagliato: Mediaset non è strategica, ma Unicredit sì.

di Antonio Rei

Ci avevano raccontato che, con la vittoria del NO, sui mercati finanziari sarebbero arrivati i Cavalieri dell’Apocalisse. Ma a quanto pare i Cavalieri avevano di meglio da fare, visto che ieri Piazza Affari ha chiuso in rialzo del 4,15%, ai massimi dal 24 giugno, ovvero il giorno successivo al referendum sulla Brexit. Una delle migliori performance dell’anno.

La sconfitta al referendum costituzionale è stata talmente pesante da imporre le dimissioni a Matteo Renzi, eppure gli investitori non si sono affatto strappati i capelli. Forse non sarà proprio come l’elezione di Donal Trump negli Usa, che per settimane - nello sconcerto degli analisti - ha addirittura galvanizzato Wall Street, ma la caduta del Premier italiano si è rivelata perlomeno indolore. In altri termini, lo hanno ignorato.

La pioggia di acquisti andata in scena ieri, infatti, non va interpretata come un segno di esultanza dei mercati: sono pure e semplici ricoperture tecniche. Significa che gli operatori di Borsa hanno ricomprato titoli italiani perché questi, dopo tante vendite, erano arrivati a costare troppo poco, tornando quindi a risultare convenienti. È un andamento normale dopo fasi negative come quella che abbiamo appena attraversato, durante la quale i mercati hanno scontato la prevedibilissima vittoria del NO. Se lo aspettavano, quindi hanno venduto prima che accadesse. E ieri è arrivato il grande rimbalzo.

A determinare le sorti della nostra Borsa, nel bene e nel male, sono sempre i titoli bancari, che infatti ieri hanno messo a segno una serie di rialzi spettacolari: Unicredit +12,81%, Mediobanca +9,94%, Ubi Banca +9,70%, Intesa San Paolo +8,16%, Banco Popolare +9,02%, Bpm +9,03% e Bper +7%. Fuori dal listino principale, Banca Generali +13,54%.

Come al solito, il Monte dei Paschi ha fatto storia a sé, con il titolo che ieri ha guadagnato solamente l’1,1%. La cautela degli investitori è legata al traballante piano di salvataggio dell’istituto senese, di fatto l’unica vera vittima finanziaria del referendum di domenica. Dopo la vittoria del NO, le banche del consorzio di garanzia, che avrebbero dovuto valutare il risultato dell’operazione di conversione dei bond subordinati e decidere se procedere o meno con l’aumento di capitale dell'istituto, hanno rinviato il verdetto di qualche giorno.

La speranza (ormai ridotta al lumicino) è che all’orizzonte si stagli all’improvviso la figura eroica del cosiddetto “anchor investor” - il quale nella fattispecie avrebbe le sembianze di un emiro del Qatar - pronto a mettere un miliardo sul tavolo per risolvere la situazione come un vero deus ex machina.

Purtroppo, però, sembra ormai scontato che la soluzione di mercato sarà impossibile e che quindi non si potrà evitare il coinvolgimento diretto dello Stato (oggi primo socio di Siena al 4%). Già, ma in che modo? Le ipotesi in campo sono diverse: una garanzia pubblica a termine, una possibile emissione di CoCo bond oppure la nazionalizzazione della Banca mediante la burden sharing prevista dalle norme Ue.

Quest’ultima strada sarebbe dolorosa per chi in Mps ha investito, dal momento che implicherebbe la riduzione del valore di azioni ed obbligazioni (potrebbero essere risparmiati solo le obbligazioni fino a 100 mila euro, sui 2 miliardi del bond distribuito presso il largo pubblico).

Ma in teoria lo Stato potrebbe anche rafforzare la propria quota minoritaria in Mps: la Ue non lo considererebbe aiuto di Stato, purché il Tesoro compia questa operazione alle condizioni degli altri investitori, senza colpi di scure sui creditori. Traduzione: i contribuenti pagano e gli azionisti si salvano.


di Carlo Musilli

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla convenienza dell’Ape, ora gli elementi per giudicare ci sono tutti. Alla fine della scorsa settimana il Governo ha chiarito che il nuovo anticipo pensionistico non prevede il pagamento della tredicesima. Le rate da versare per il successivo rimborso, invece, saranno 13 l’anno, come le mensilità dell’assegno previdenziale. Il motivo? “L’Ape è un prestito - spiegano da Palazzo Chigi - non una pensione”.


A voler essere precisi, l’Ape è un prestito bancario assicurato. Questo significa che, quando scatta la pensione effettiva, si è chiamati a restituire non solo il capitale, ma anche gli interessi bancari e il premio assicurativo. Il Governo sostiene che si tratti comunque di un credito più vantaggioso di quelli proposti dal mercato, dal momento che il 50% dell'assicurazione e degli interessi è a carico dello Stato.

Questa considerazione sarebbe valida se usassimo quei soldi per comprarci un’automobile. Se invece parliamo della vita dei pensionati, l’Ape è quanto di meno conveniente si possa immaginare. Anzi, ha un costo davvero alto, che può mettere a rischio la stabilità finanziaria di molte persone.

Per rendersene conto è sufficiente dare un’occhiata alle slide pubblicate sul sito del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini. In queste schede, infatti, la squadra economica del Governo propone un esempio piuttosto allarmante, cadendo anche in contraddizione.

Poniamo che Martina (la chiamano così) abbia diritto a una pensione media netta certificata dall’Inps di 1.286 euro al mese; un trattamento che equivale a 16.718 euro l’anno, visto che la pensione effettiva prevede 13 mensilità.

Ora, sempre da Palazzo Chigi fanno sapere che nel decreto del Presidente del Consiglio in arrivo a gennaio sarà stabilito un importo massimo per l’Ape pari al 95% della pensione certificata mensile per un anno di anticipo, al 90% per due anni e all'85% per tre.

Questo significa che se Martina accede all’Ape per andare in pensione tre anni prima del previsto, fino alla data del pensionamento effettivo non potrà ricevere più di 1.093 euro, cioè l’85% di 1.286 euro. Ma, come abbiamo detto, l’Ape viene versata solo per 12 mensilità, per cui alla fine Martina incasserà per ciascuno dei tre anni di anticipo 13.116 euro, pari non all’85%, bensì al 78,45% della pensione cui avrebbe diritto (16.718 euro).

“Poco male - dirà Martina - tre anni di sacrifici mai poi, con la pensione, sono tranquilla”. Invece no: tutto il contrario. È proprio quando finisce l’Ape e scatta il pensionamento che iniziano i veri guai. Da quel momento e per i successivi 20 anni, Martina deve restituire il prestito ottenuto per l’Ape, che, come abbiamo detto, comprende anche interessi bancari e premio assicurativo.

Quanto le costerà? Su questo punto la vicenda diventa fumosa. Sulla slide numero 8 di Nannicini si legge che “chi accede volontariamente all’anticipo avrà un costo contenuto anche grazie alla detrazione fiscale (circa 4,6%-4,7% per anno d’anticipo)”. A guardare i numeri della tabella successiva, però, i conti non tornano.

Sempre secondo i calcoli del Governo, la rata a carico di Martina ammonta a 258 euro (pari addirittura al 20% della pensione di partenza), su cui però si applica una detrazione che riduce il conto a 208 euro (il 16,2% della pensione). In altri termini, per ogni anno di anticipo Martina si vede ridurre la pensione del 5,4% e alla fine l’assegno scende da 1.286 a 1.078 euro al mese: ancora meno di quanto percepiva durante i tre anni di Ape.

Insomma, quel 4,6%-4,7% è solo una media, che per Martina - non certo una pensionata ricca - si trasforma in 5,4%. Alla fine, per andare in pensione tre anni prima del previsto e vivere il resto della propria esistenza con poco più di mille euro al mese, nell’arco di 20 anni Martina dovrà restituire/pagare in tutto 54.080 euro. A questo punto la domanda è una sola: cara Martina, ma chi te lo fa fare?

di Antonio Rei

Non è solo scorretta, è anche triste. L’ultima uscita di Pier Carlo Padoan sullo spread è come un canto del cigno, l’ultimo addio alla credibilità dell’ex capo economista dell’Ocse. Inserito e normalizzato nel mondo renziano, anche lo stimato accademico, oggi ministro del Tesoro, si lascia sedurre dalle sirene della propaganda di basso livello.

In audizione alla Camera sulla legge di Bilancio, Padoan ha detto che il differenziale fra BTp e Bund, dopo esser sceso negli ultimi 30 mesi, ora sta salendo, perché “sul mercato ci sono timori che l'azione di politica economica del governo si interrompa”. Traduzione: gli investitori hanno paura che al referendum costituzionale vinca il No.

In effetti, venerdì scorso lo spread sulla scadenza decennale si è spinto fino a 153 punti base, la quota più alta da fine giugno. Ma non è affatto un livello allarmante e non presagisce alcuna tempesta perfetta sul mercato del debito. Per un semplice motivo: la Banca centrale europea ha acquistato, sta acquistando e continuerà ad acquistare una montagna di titoli di Stato (anche italiani) sul mercato secondario. Sono operazioni che rientrano nel famoso quantitative easing, l’allentamento monetario portato avanti dalla Bce in funzione anti-crisi.

Ora, è chiaro che il Qe non potrà durare per sempre, ma di recente il numero uno dell’Eurotower, Mario Draghi, ha lasciato intendere che con ogni probabilità sarà esteso oltre la scadenza, fissata inizialmente a marzo del 2017. In ogni caso, dopo il Qe cosa succederà? Rischieremo di subire un nuovo attacco speculativo sul nostro debito pubblico? No. È semplicemente impossibile che accada.

In pochi lo ricordano, ma nel settembre del 2012, al picco della crisi dei debiti sovrani, la Bce di Draghi varò le Outright Monetary Transactions (Omt), operazioni monetarie che consentono all’istituto centrale europeo di acquistare i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, in modo da raffreddare gli spread. Il programma Omt non fu mai attivato: bastò il solo effetto annuncio a spegnere l'incendio sui mercati.

Gli speculatori si ritrovarono in mano un'arma scarica. Chi aveva scommesso contro Paesi come Italia e Spagna, puntando sui rialzi dello spread, all’improvviso capì che la festa era finita, perché la potenza di fuoco della Bce era (ed è) insuperabile. Furono le Omt di Draghi a salvarci dall’attacco speculativo sul debito pubblico, non le riforme nefaste di Mario Monti.

Tutto questo per dire che né ora né in futuro è possibile che il nostro spread torni a essere una seria preoccupazione. Padoan lo sa benissimo, ma sceglie di non ricordarlo nel suo discorso ai deputati. Preferisce agitare lo spauracchio del differenziale per tirare acqua al mulino del SÌ. C’è da capirlo: è una soluzione così comoda, anche se in mala fede.

Eppure, si dirà, un rialzo dei rendimenti c’è comunque stato. È innegabile. Forse, però, se avesse parlato da economista invece che da ministro renziano, Padoan avrebbe ammesso che i mercati hanno anche un’altra fonte di preoccupazione in merito all’Italia: ovvero proprio quella legge di Bilancio che il ministro aveva il compito di spiegare a Montecitorio.

Quella che hanno messo in cantiere è una manovra faraonica, per larga parte finanziata in deficit - con ovvie conseguenze sul debito pubblico - senza che questo porti a una vera ripresa del Pil. Solo il governo crede, o finge di credere, che una finanziaria simile porterà l’Italia a crescere dell’1% l’anno prossimo. L’ufficio parlamentare di bilancio ha smentito questa previsione e nemmeno Bruxelles la ritiene attendibile.

Com’è ovvio, questo non interessa al Governo, che ha infarcito la legge di Bilancio con le solite mance e mancette sparpagliate a caso con lo stesso obbiettivo di sempre: indurre gli italiani a votare Sì al referendum costituzionale.

Ma proviamo un attimo a ipotizzare che tutto questo non sia vero. Ragioniamo per assurdo, e ammettiamo che la finanza internazionale scatenerà chissà quale inferno in Terra se la riforma Boschi sarà bocciata. Noi italiani dovremmo accettare di stravolgere la nostra Costituzione per non far cadere il governo Renzi, altrimenti i mercati si angosciano? La risposta, tanto per cambiare, è No.

di Carlo Musilli

I timori per le conseguenze della Brexit non erano eccessivi. Chi lo ha pensato la scorsa estate deve iniziare a ricredersi. È vero, le Borse hanno retto e nessuna piaga biblica si è abbattuta sul Regno Unito. Ma i guai stanno arrivando, a tutti i livelli. La notizia del giorno è che i colossi bancari preparano le valige per abbandonare la City e spostare le attività in un’altra capitale europea (forse Dublino o magari Parigi).

Il trasloco dei giganti dovrebbe avvenire nei primi mesi del 2017, mentre gli istituti più piccoli potrebbero salutare Londra entro Natale. Lo ha scritto sull’Observer Anthony Browne, presidente e amministratore delegato della British Bankers’ Association. Non proprio l’ultimo dei commentatori.

In sostanza, le banche non si fidano della premier Theresa May, che da marzo condurrà le trattative con Bruxelles per l’uscita dall’Ue. A preoccupare è soprattutto la prospettiva di una “hard Brexit”, ovvero la possibilità che il Paese esca completamente non solo dall’Unione, ma anche dal mercato unico europeo.

Se così fosse, le banche perderebbero il diritto di vendere liberamente servizi e prodotti finanziari da Londra in tutti i 28 Stati comunitari. Per continuare questo business, che rappresenta circa il 20% del fatturato della City, dovrebbero pagare dazi e tariffe doganali, oltre a chiedere valanghe di autorizzazioni alle autorità di ogni singolo Paese. Ecco spiegati i progetti di esodo.

Il problema è serio e riguarda tutto il Paese. A Londra operano 250 banche mondiali, l’industria finanziaria impiega 1 milione e 400mila persone e versa ogni anno tasse per 28 miliardi di sterline, il 12% delle entrate fiscali del Regno Unito. Ora questa struttura rischia di collassare, cancellando di colpo almeno 70mila posti di lavoro solo nella City, senza contare l’indotto.

Certo, la “hard Brexit” non è l’unica soluzione possibile. Si potrebbe negoziare un accordo che permetta ad alcuni settori dell’economia britannica, primo fra tutti quello finanziario, di continuare a operare nel mercato unico. Ma per concedere un simile vantaggio, Bruxelles pretende che la Gran Bretagna non ostacoli la libera circolazione di merci e persone.

Su questo punto May non sembra voler cedere, perché la maggior parte dei britannici ha votato in favore della Brexit proprio per ostilità nei confronti degli immigrati. Ma a giudicare dal modo in cui è stata trattata durante il suo primo summit europeo, non sembra proprio che la premier possa aspettarsi collaborazione dall’Ue.

Intanto, prosegue la caduta libera della sterlina. Sotto i colpi dell'attacco speculativo più violento dal 1992, la moneta britannica ha perso un quinto del suo valore in poco meno di un anno e viaggia sui minimi da più di 30 anni contro il dollaro. Secondo il Financial Times, in termini reali il valore del pound è al livello più basso degli ultimi 168 anni. La svalutazione, naturalmente, è favorevole alle aziende che esportano, ma al contempo danneggia le importazioni e fa alzare i prezzi, pesando sui bilanci di famiglie e imprese, che ridurranno consumi e investimenti.

Per i più scettici è finalmente arrivato un esempio pratico. Tesco, la più importante catena di supermercati inglesi, ha annunciato che vari prodotti alimentari molto popolari (fra cui il tè Lipton, le minestre Knorr e i gelati Magnum) potrebbero scomparire dalle tavole dell’UK. Il motivo? Unilever, la società che importa questi prodotti, vuole aumentare i prezzi a causa del calo della sterlina. Se lo facesse, Tesco dovrebbe scaricare a sua volta il rincaro sui consumatori. Non c’è una terza opzione: o si paga di più o si sta a dieta.

Se ancora non bastasse, a inizio mese gli inglesi hanno sperimentato un’altra esperienza inedita. Con la sterlina appena sopra la parità con l’euro, turisti e uomini d’affari in giro per l’Eurozona hanno avuto una bella sorpresa dai cambiavalute. Una volta applicata la commissione, infatti, il cambio è diventato per loro sfavorevole. E chi dava 100 pound si vedeva restituire 97 euro, se non meno. Chissà se adesso qualcuno dei “Brexiters” comincerà a farsi venire dei dubbi.


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