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di Carlo Musilli
Nemmeno negli incubi più foschi aveva immaginato di ricevere un colpo del genere. Eppure è arrivato: la settimana scorsa Deutsche Bank si è vista chiedere dal governo americano ben 14 miliardi di dollari. La colpa da espiare è la più grave, perché ha a che vedere con i derivati legati ai mutui subprime, la truffa da cui nel 2008 è nata la crisi finanziaria che ha messo in ginocchio mezzo mondo.
Eppure, la cifra chiesta dagli Usa è comunque altissima. Le aspettative erano ben altre: per intenderci, il colosso bancario tedesco aveva previsto che la multa sarebbe stata di circa 2,4 miliardi di dollari. Quasi un sesto del conto che poi è effettivamente arrivato da Washington. Naturalmente, non appena il Wall Street Journal ha scritto “$14 Billion”, il titolo di Deutche è caduto a picco in Borsa.
Il sospetto è che la stangata contro la Banca di Francoforte sia una ritorsione degli Stati Uniti al caso Apple, cui la Ue ha chiesto di pagare 14,5 miliardi di euro come risarcimento per le tasse non versate all’erario irlandese. Guarda caso, la cifra in gioco è quasi la stessa.
Ma quale che sia il movente della sberla arrivata dagli Usa, Deutsche Bank ha già fatto sapere che “non intende accordarsi su cifre neppure lontanamente vicine a quella citata”. I negoziati “sono agli inizi - hanno aggiunto i vertici della Banca tedesca - e ci aspettiamo un risultato simile a quello ottenuto da banche nostre pari, che hanno concordato un ammontare materialmente inferiore”.
Su questo punto, purtroppo, i tedeschi hanno ragione. A Goldman Sachs, ad esempio, erano stati chiesti inizialmente 15 miliardi, ma alla fine il gruppo ne ha pagati solo 5,1. JP Morgan, invece, è riuscita a far calare l’asticella da 20 a 13 miliardi.
Deutsche, per di più, può usare come argomento difensivo il fatto che i suoi volumi di business erano largamente inferiori a quelli dei colossi americani. Negli anni in cui si sono svolte le attività oggi sotto accusa (2005-2007), la Banca tedesca ha trattato titoli garantiti dai subprime pari a circa un terzo di quelli gestiti da Goldman e addirittura a un 13esimo di quelli in mano a Bank of America, l’istituto che finora ha ricevuto la sanzione più alta (16,6 miliardi).
L’entità finale del risarcimento che Deutsche sarà effettivamente costretta a pagare, perciò, è ancora difficile da prevedere. Le prime schermaglie andate in scena la settimana scorsa sono solo il primo atto di una tragicommedia negoziale che andrà avanti per mesi.
Secondo alcuni, però, questa trattativa potrebbe concludersi più rapidamente delle precedenti, addirittura entro l’anno, perché il Dipartimento di Giustizia americano - giunto ormai alla fine dell’amministrazione Obama - avrebbe interesse ad archiviare il più rapidamente possibile gli strascichi dello scandalo subprime, che fin qui ha prodotto molti risarcimenti e pochissime condanne.
Ma qual è stata la truffa a monte di tutto? Ricapitoliamo in sintesi i passaggi fondamentali. Tutto parte dall’economia reale, per poi spostarsi nella nube della finanza. In sostanza, le banche spingevano i loro clienti a usare le case come bancomat, accendendo mutui immobiliari in serie: i nuovi prestiti servivano a estinguere i precedenti ed essendo d'importo superiore (perché nel frattempo il prezzo delle case era salito) permettevano alle famiglie d'intascare la differenza.
Quando il prezzo delle case ha smesso di salire e gli americani non hanno più potuto rinegoziare i mutui (cioè quando la bolla speculativa è scoppiata), milioni di famiglie si sono ritrovate con debiti impossibili da ripagare. A quel punto le banche si sono prese le case.Il problema per il resto del mondo è nato dal fatto che, mentre rifilavano i mutui subprime, gli istituti emettevano titoli derivati garantiti proprio da quei prestiti, prodotti finanziari che poi vendevano con l'inganno: sapevano di smerciare carta straccia ad altissimo rischio, ma facevano credere agli investitori che si trattasse di un affare più che sicuro.
Il tutto con la fondamentale complicità delle agenzie di rating, che assegnavano a quei titoli la tripla A, ovvero il giudizio d'affidabilità più alto. Del resto, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch venivano pagate dalle banche stesse, non dagli investitori (cioè da chi emetteva i titoli, non da chi li comprava), perciò operavano in palese conflitto d'interessi.
Da allora, la giustizia Usa non ha riformato il mercato, né ha messo in galera i principali responsabili della crisi. È riuscita soltanto a contrattare multe, ma sempre seguendo la strada del patteggiamento: i colossi di Wall Street hanno accettato di pagare pur di chiudere la vicenda e ciò induce a pensare che le reali dimensioni delle loro colpe rimarranno per sempre un mistero. Purtroppo, accadrà lo stesso anche con Deutsche Bank. E nessuno può garantire che quanto avvenuto prima del 2008 non si ripeterà in futuro.
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di Carlo Musilli
È come se Biancaneve si trovasse a scegliere fra due opzioni: continuare a mangiare ogni anno la mela della strega cattiva e vivere per sempre felice e contenta; oppure farsi salvare dal principe, incassare subito un tesoro ma abbandonare ogni certezza sul futuro. Di fronte a un paradosso simile, l’Irlanda ha scelto di stare dalla parte della strega.
Il governo di Dublino farà ricorso contro l’ingiunzione della Commissione europea che obbliga il Paese a riscuotere da Apple 13 miliardi di euro di tasse non versate, più 4,8 miliardi d’interessi. È stata una decisione tribolata, poiché quello di Enda Kenny è un governo di minoranza e inizialmente i ministri indipendenti non erano d’accordo con l’appello.
Alla fine però si sono lasciati convincere dalla promessa del Premier di avviare una revisione indipendente per stabilire “quanto le multinazionali paghino oggi di tasse e quanto dovrebbero pagare”. Mercoledì il Parlamento darà il via libera all’azione legale.
La preoccupazione principale del governo è fare in modo che l’Irlanda rimanga la sede fiscale più gettonata in Europa fra i colossi industriali americani, uno status che negli ultimi anni ha consentito al Paese di uscire in fretta dalla crisi e di prosperare. Il ministro delle Finanze irlandese, Michael Noonan, ha ammesso candidamente che l’esecutivo è spinto dal timore di perdere questo privilegio.
Ma quali sono, di preciso, le accuse mosse da Bruxelles? Nel mirino della Commissione ci sono due accordi fiscali sugli utili imponibili di due società di diritto irlandese controllate dal gruppo di Cupertino (Apple Sales International e Apple Operations Europe), cui facevano capo tutti i profitti generati dalla multinazionale in Europa.
In sostanza, grazie a queste intese, solo una minima parte degli utili europei di Apple veniva tassata (peraltro con un’aliquota del 12,5%, la più bassa dell’Ue), mentre la stragrande maggioranza dei profitti era di fatto esentasse, poiché veniva attribuita a una “sede centrale” che esisteva solo sulla carta. Con questo stratagemma, possibile grazie a norme del diritto tributario irlandese oggi non più in vigore, Apple ha pagato le imposte con un’aliquota che dall'1% del 2003 è scesa progressivamente fino allo 0,005% del 2014.
Com’è ovvio, tanta generosità fiscale prevede una contropartita. In tutto il Paese, solo Apple ha ben 5.500 dipendenti e, secondo i calcoli dell’Agenzia irlandese per gli investimenti, il 20% dei lavoratori è impiegato in una multinazionale. Senza queste risorse l’Irlanda non si sarebbe mai ripresa dalla crisi, con buona pace delle anime belle che ancora credono alla favola dell’economia ripartita grazie all’austerity.
Il sistema fiscale selvaggio made in Ireland è da sempre un’assurdità all’interno dell’Ue, perché aiuta i colossi industriali a danno degli altri Paesi dell’Unione. Eppure i vantaggi sono tali per Dublino che il governo ha deciso di combattere contro Bruxelles pur di non incassare da Apple quasi 18 miliardi. Per avere un termine di paragone basti pensare che, senza considerare gli interessi, soltanto i 13 miliardi di tasse non pagate da Apple equivalgono al budget sanitario irlandese dell’anno scorso.Certo, non sarebbero comunque risorse che il governo di Dublino potrebbe spendere a beneficio dell’elettorato, perché le regole europee impongono d’impiegarle per abbattere il debito pubblico. D’altra parte, se alla fine il ricorso fallisse (lo sapremo fra qualche anno) e l’Irlanda rifiutasse comunque d’incassare gli arretrati, rischierebbe una procedura d’infrazione per aiuti di Stato che potrebbe culminare in una sanzione.
La questione però va ben oltre i rapporti Dublino-Bruxelles. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha già lanciato vari avvertimenti all’indirizzo della Commissione europea, affermando che le sue azioni “potrebbero minacciare gli investimenti stranieri, il clima degli affari in Europa e l'importante spirito della partnership economica tra Usa e Ue”.
Dalla Casa Bianca hanno fatto sapere che il presidente Barack Obama porterà il tema generale dell’elusione fiscale al G20 di Hangzhou. Il tutto in un clima già infuocato dalle trattative per il TTIP, l’accordo di libero scambio fra Stati Uniti ed Europa tanto caro all’amministrazione Obama, su cui di recente Francia e Germania sembrano aver posto una pietra tombale.
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di Carlo Musilli
L’accusa è pesante e la fonte autorevole. Secondo il Financial Times, il governo di Parigi avrebbe cercato di coprire dati scomodi sull’inquinamento prodotto da alcuni modelli Renault, casa automobilistica di cui lo Stato francese è azionista al 20 percento. In particolare, sarebbero state riscontrate “significative omissioni” sul modo in cui l’azienda avrebbe ridotto le emissioni dei gas delle sue auto diesel nei test ufficiali.
Il quotidiano britannico fa riferimento al report realizzato da una commissione indipendente sulle prestazioni di diversi modelli. L’analisi era stata richiesta dall’esecutivo di Manuel Valls dopo lo scoppio dello scandalo Dieselgate che l’anno scorso ha travolto Volkswagen, colpevole di aver alterato per anni i test sull’inquinamento causato da alcune delle sue auto a gasolio.
Dalle conclusioni del rapporto francese, pubblicate lo scorso luglio, emerge che alcuni modelli Renault avrebbero emesso ossidi di azoto (NOx, gas che causano malattie respiratorie) in quantità fra le nove e le 11 volte superiori ai limiti imposti dalle leggi dell’Unione Europea.
Il report evita però di specificare che nel modello Captur della Renault il dispositivo NOx trap (che intrappola gli ossidi di azoto) sarebbe andato in sovraffaticamento nel corso dei test per l’omologazione, ma non su strada. La discrepanza fa sorgere il sospetto che la casa automobilistica possa aver alterato il risultato dei test, facendo in modo che le emissioni risultassero inferiori a quelle normalmente prodotte dai veicoli.
Il Financial Times cita come fonti tre dei 17 membri della commissione nominata dal governo. Nessuno di loro accusa Renault di aver usato dispositivi illegali per truccare le emissioni, perché non esistono prove in questo senso, ma tutti e tre ritengono che sarebbero necessari ulteriori approfondimenti per capire come mai le auto riuscissero a ottenere risultati nella norma sui rulli, per poi fallire le prove in condizioni di guida normali.
“Non possiamo essere sicuri che il software Renault riconosca la procedura di test - ha detto un membro della commissione - ma sembra che il filtro anti-NOx sia stato progettato per soddisfare questa condizione operativa altamente specifica”. Del resto, il quotidiano ricorda che fu proprio il disallineamento fra i risultati dei test in strada e in laboratorio a mettere in allerta gli investigatori Usa sul fatto che Volkswagen aveva installato meccanismi per manipolare le emissioni durante i test.
Quanto agli omissis del rapporto francese, una fonte governativa sentita dal giornale britannico ha ammesso che l’esecutivo di Parigi “è sensibile alla all’immagine delle aziende in cui ha investito”. Il conflitto d’interessi è perciò evidente e il sospetto è che alcuni membri della commissione siano stati magnanimi nei confronti della Renault su richiesta del governo, per non danneggiare il brand di un’azienda partecipata dallo Stato.Il ministero dell’Ambiente francese, guidato da Ségolène Royal, ha però respinto le accuse, sottolineando che il report tiene conto delle opinioni di tutti i membri della commissione. Anche la casa automobilistica si è difesa, negando di aver utilizzato software per alterare i risultati dei test sulle emissioni e sostenendo che “i modelli sono conformi alle leggi e alle norme di ciascun mercato nel quale sono venduti”.
Eppure, l’ambiguità del rapporto Stato-impresa rimane. Charlotte Lepitre, membro della commissione e dirigente di France Nature Environnement (che raccoglie tutte le associazioni ambientaliste francesi), ha detto senza mezzi termini che “il report è stato fondamentalmente scritto dallo Stato, che ha poi deciso cosa sarebbe dovuto rimanere confidenziale”. A questo punto spetta al governo Valls chiarire la vicenda. Magari commissionando un report sul report.
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di Fabrizio Casari
Non fossero stati sufficientemente chiari i dati diffusi la settimana scorsa sul crollo della produzione industriale, sul calo dell’export e sull’aumento della deflazione, arriva ora il report dell’Istat che analizza il trimestre dell’economia italiana. Le conclusioni sono nette: crescita zero della nostra economia, come non si registrava dal 2014. A fornire un ulteriore motivo d’inquietudine arriva poi l’aumento del deficit e del debito pubblico, logica conseguenza della contrazione del PIL. Il che, com’è ovvio, non favorisce certo la trattativa sulla possibilità di sforare il differenziale massimo del 3% tra deficit e PIL, previsto da Maastricht.
Per quanto la propaganda di Palazzo Chigi abbia cercato di spiegare i dati della produzione industriale come elementi congiunturali, la condizione generale dell’economia italiana riassunta nell’elaborazione del trimestre di riferimento propone un quadro generale tutt'altro che lusinghiero. L’analisi sui nostri conti è poi anor più preoccupante se misurata con quella registrata nell’eurozona, dove il segno della crescita, pur non impetuosa, appare però consolidato da due anni.
La battaglia in sede europea si complica. Non è questione di decimali: indipendentemente dall’urgenza di proporre un’attenuazione decisa del rigorismo monetarista da parte di Bruxelles, ad oggi, per quanto riguarda i conti italiani, la trattativa è in salita. Diventa agevole, per gli euroburocrati, sostenere che non vi sono le condizioni per ritenere che una maggiore flessibilità sui bilanci (pure indispensabile) possa favorire, di per sé stessa, un sensibile miglioramento della condizione generale di una economia come quell italiana, privata di interventi strutturali.
Ora, a meno di non voler considerare anche i numeri come gufi antigovernativi, si può serenamente affermare che i dati diffusi in questi giorni indicano una oggettiva difficoltà per la sempre ipotizzata e mai avvenuta ripresa economica italiana. Emerge semmai, con evidenza difficile da contestare, proprio l’assenza di una strategia per le politiche economiche e sociali finalizzata alla ripresa.
Nessuna politica industriale degna di tal nome è stata implementata, solo atteggiamenti punitivi per lavoratori e sindacati; nessun ragionamento sulla razionalizzazione della spesa, solo interventi di contrazione della stessa con riduzione delle prestazioni ed aumento degli oneri. Nessuna politica di aggressione alla povertà ed al disagio sociale, nessun intervento teso a ripristinare un quadro pensionistico certo e in linea con le attese; meno che mai iniziative sul tema salariale, ormai di drammatica rilevanza. E' assente un'idea generale dell'Italia, dei suoi problemi e delle sue risorse.
Ci sono stati solo interventi di tipo elettoralistico, come quello sul Jobs Act, gli 80 Euro o l’abolizione delle imposte sulla prima casa, che sono apparsi come provvedimenti non solo congiunturali ma sbagliati. Perché destinati alla porzione di popolazione che meno ne necessitava, a fronte dell’immobilismo assoluto verso la fasce più deboli, rimaste così estranee alla ripresa dei consumi. Il che non ha certo aiutato la domanda interna, rimandando sine die l’appuntamento con l’innesco di un ciclo virtuoso che può riaprirsi solo con un intervento strutturale sulle grandi leve economiche e sociali del Paese.
Le misure del governo Renzi hanno invece evidenziato l’incongruenza con le politiche espansive che andrebbero destinate alla ripresa; l’abolizione della tassa sulla prima casa ha privato la fiscalità generale di circa 4 miliardi di Euro e i famigerati 80 euro hanno ulteriormente appesantito i conti pubblici senza che abbiano rappresentato un pur piccolo grimaldello per la spinta deflattiva, e non risulta che abbiano alterato in positivo le condizioni di chi li ha ricevuti.
Idem dicasi per il Jobs Act, che al netto della propaganda sul valore aggiunto che avrebbe rappresentato nella generazione di posti di lavoro, si è in realtà dimostrato strumento utile solo per ampliare i margini per le aziende e ridurre ulteriormente il valore del lavoro. Le aziende, peraltro, hanno avuto modo di ridurre il peso fiscale (ulteriore fardello per la fiscalità generale) attraverso ingegnerie furbe sulla pelle di chi si è visto fintamente licenziato e poi riassunto con contribuzione minore sugli oneri sociali e senza ricevere nessun beneficio sul piano salariale, nè maggiori garanzie sul tempo indeterminato.Che una politica da guitti non fornisse garanzie nemmeno sul breve termine era scontato. E non è un caso che le ipotesi di crescita fornite dai diversi centri studi economici e dallo stesso governo si attendessero una crescita modesta, non oltre lo 0,6 per cento, in linea con quanto atteso in Europa. Solo che la crescita media dell’Eurozona, attesa intorno all’ 1,6%, è stata in qualche modo confermata dal dato trimestrale, che parla di un aumento del PIL pari allo 0,3% sul trimestre. A crescita zero ci siamo solo noi.
L’Italia, come già negli anni scorsi, non riesce ad agganciare il pur lento trenino della ripresa. Il fatto che nemmeno questa misera elevazione in decimali sul trimestre abbia avuto luogo, che le previsioni di crescita diffuse dal Ministero dell’Economia e Finanza si sia ora riassestata per l’anno in corso su un auspicabile 0,6 per cento e che la stagnazione sia l’unica certezza sul breve-medio termine, non fa che ribadire come nemmeno le più modeste previsioni di crescita italiana siano corroborate da una lettura incontrovertibile delle politiche governative.
Il bilancio del governo Renzi è uno dei più fallimentari degli ultimi dieci anni. Riforme costituzionali che portano dritta l’Italia verso una svolta autoritaria, politiche economiche che la spingono nel baratro e politiche sociali che vagano nel nulla, sono il triste e preoccupante esito di un governo incompetente ed arrogante, mai scelto dagli elettori e mai considerato in Europa.
La versione renziana della realtà italiana, costruita su un apparato di propaganda onnivoro e violento, ma completamente indifferente ai dati reali, ben rappresenta i fari del famoso Tir che indica la luce in fondo al tunnel. Per avere una economia serve una politica economica. Per avere una politica economica serve un governo che sappia concepirla. Per poterla concepire serve una cultura di governo e uomini e donne all'altezza del ruolo. Non una brigata di incompetenti a caccia di gloria e di potere.
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di Antonio Rei
Continua a ripetere che l’Italia finalmente riparte, che cambia verso, che è la volta buona e che chi non è d’accordo è un gufo. Finché si tratta di zittire rapaci notturni della risma di Cuperlo o Fassina la dialettica di Matteo Renzi è di straordinaria efficacia, ma ormai il Presidente del Consiglio deve accettare il fatto che contro di lui stanno gufando i numeri.
Gli ultimi in ordine di tempo sono quelli sulla produzione industriale, che a giugno - secondo l’Istat - è scesa dello 0,4% su mese e dell’1% su anno. Si tratta della seconda flessione consecutiva, nonché del dato peggiore dal gennaio 2015 (all’epoca la caduta era stata del 2,1%). Nella media del periodo aprile-giugno 2016 la produzione ha registrato un calo dello 0,4% rispetto al trimestre precedente.
Non solo. Nella nota mensile pubblicata la settimana scorsa dall’istituto di statistica si legge anche che, sempre a giugno, in Italia si è osservato “un aumento più marcato degli occupati dipendenti a termine (+2,6% rispetto al primo trimestre) e della componente indipendente (+1,1%) rispetto alla moderata crescita dei dipendenti permanenti (+0,2%)”.
In altri termini, nel mercato del lavoro i contratti a tempo determinato stanno velocemente riguadagnando terreno su quelli stabili, poiché quest’anno si sono dimezzati gli incentivi alle assunzioni che nel 2015 avevano dopato le statistiche. Ed è facile prevedere che, quando gli incentivi spariranno del tutto, l’Italia tornerà in men che non si dica ad essere il paradiso del precariato.
Tornando alla nota mensile dell’Istat, nel paragrafo dedicato alle prospettive di breve termine si legge anche che “l’indicatore composito anticipatore dell’economia italiana, ricalcolato sulla base degli indicatori mensili più recenti, ha evidenziato un ulteriore calo, seppur di intensità più contenuta rispetto alle flessioni degli ultimi mesi”.
Insomma, i dati raccontano una storia di segno opposto rispetto a quella propinata dal governo: l’Italia non sta affatto accelerando e non sta nemmeno ripartendo. Al contrario, dopo una breve fase d’espansione ciclica, la nostra economia è tornata a rallentare ed entro la fine dell’anno è pressoché certo un nuovo colpo di scure alle previsioni sul prodotto interno lordo.
Naturalmente su questa situazione ha pesato una serie di fattori internazionali: il prezzo del petrolio brutalizzato dall’Arabia Saudita, la riduzione delle importazioni da parte della Cina e il conseguente calo del commercio mondiale, il terrorismo e le crisi geopolitiche che hanno minato il clima di fiducia, la Brexit e le bufere sui mercati finanziari a causa delle banche.
È tutto vero, ma non basta ad assolvere chi avrebbe il compito di guidare il nostro Paese. Se l’Italia non riparte e non cambia verso lo deve soprattutto alla politica economica elettoralistica di questo governo, capace solamente di smistare mance e mancette, senza nemmeno la velleità di far ripartire consumi e investimenti pubblici e privati in una prospettiva di lungo termine.E se qualcuno ancora crede all’efficacia - o anche solo alla realtà - del taglio delle tasse, occorre fare presente che le facili previsioni delle cassandre si sono avverate. Quello che esce dalla porta, rientra dalla finestra: dal 2008 a oggi il costo della tassa sui rifiuti è raddoppiato, sostiene un‘indagine di Confesercenti, mentre Confcommercio calcola che fra il 2010 e il 2015 il rincaro sia stato del 55%, malgrado nello stesso periodo la produzione di spazzatura in Italia sia diminuita dell’11%.
E nel 2016 la Tari aumenterà ancora: secondo lo studio annuale dell’Osservatorio Nazionale della Federconsumatori sui costi relativi al mantenimento di una casa, il 2016 segnerà una variazione mensile rispetto allo scorso anno pari al +4%.
Non è chiaro se Renzi si renda conto di tutto questo o se ormai il narcisismo e l’autoesaltazione galoppante lo abbiano spinto troppo lontano dal campo gravitazionale terrestre. Purtroppo ha un referendum da vincere, perciò in ogni caso non può che andare avanti a negare l’evidenza, scollandosi dalla realtà in uno sdoppiamento alla Dostoevskij.
Il processo è ormai talmente avanzato che il nostro Premier, con tanto di magliettina tricolore, si è ritrovato a Rio De Janeiro a perorare la causa delle Olimpiadi a Roma. Il problema è che a Roma non ha vinto l’olimpionico Giachetti, ma l’agnostica Raggi, che ai Giochi non pensa proprio. Forse Renzi se n’è dimenticato, o forse semplicemente fa finta di nulla. Continua per la sua strada, ignorando i segnali che gli arrivano dal mondo esterno. In fondo, al referendum manca solo qualche mese: non è questo il momento di cambiare.