di Fabrizio Casari

Non fossero stati sufficientemente chiari i dati diffusi la settimana scorsa sul crollo della produzione industriale, sul calo dell’export e sull’aumento della deflazione, arriva ora il report dell’Istat che analizza il trimestre dell’economia italiana. Le conclusioni sono nette: crescita zero della nostra economia, come non si registrava dal 2014. A fornire un ulteriore motivo d’inquietudine arriva poi l’aumento del deficit e del debito pubblico, logica conseguenza della contrazione del PIL. Il che, com’è ovvio, non favorisce certo la trattativa sulla possibilità di sforare il differenziale massimo del 3% tra deficit e PIL, previsto da Maastricht.

Per quanto la propaganda di Palazzo Chigi abbia cercato di spiegare i dati della produzione industriale come elementi congiunturali, la condizione generale dell’economia italiana riassunta nell’elaborazione del trimestre di riferimento propone un quadro generale tutt'altro che lusinghiero. L’analisi sui nostri conti è poi anor più preoccupante se misurata con quella registrata nell’eurozona, dove il segno della crescita, pur non impetuosa, appare però consolidato da due anni.

La battaglia in sede europea si complica. Non è questione di decimali: indipendentemente dall’urgenza di proporre un’attenuazione decisa del rigorismo monetarista da parte di Bruxelles, ad oggi, per quanto riguarda i conti italiani, la trattativa è in salita. Diventa agevole, per gli euroburocrati, sostenere che non vi sono le condizioni per ritenere che una maggiore flessibilità sui bilanci (pure indispensabile) possa favorire, di per sé stessa, un sensibile miglioramento della condizione generale di una economia come quell italiana, privata di interventi strutturali.

Ora, a meno di non voler considerare anche i numeri come gufi antigovernativi, si può serenamente affermare che i dati diffusi in questi giorni indicano una oggettiva difficoltà per la sempre ipotizzata e mai avvenuta ripresa economica italiana. Emerge semmai, con evidenza difficile da contestare, proprio l’assenza di una strategia per le politiche economiche e sociali finalizzata alla ripresa.

Nessuna politica industriale degna di tal nome è stata implementata, solo atteggiamenti punitivi per lavoratori e sindacati; nessun ragionamento sulla razionalizzazione della spesa, solo interventi di contrazione della stessa con riduzione delle prestazioni ed aumento degli oneri. Nessuna politica di aggressione alla povertà ed al disagio sociale, nessun intervento teso a ripristinare un quadro pensionistico certo e in linea con le attese; meno che mai iniziative sul tema salariale, ormai di drammatica rilevanza. E' assente un'idea generale dell'Italia, dei suoi problemi e delle sue risorse.

Ci sono stati solo interventi di tipo elettoralistico, come quello sul Jobs Act, gli 80 Euro o l’abolizione delle imposte sulla prima casa, che sono apparsi come provvedimenti non solo congiunturali ma sbagliati. Perché destinati alla porzione di popolazione che meno ne necessitava, a fronte dell’immobilismo assoluto verso la fasce più deboli, rimaste così estranee alla ripresa dei consumi. Il che non ha certo aiutato la domanda interna, rimandando sine die l’appuntamento con l’innesco di un ciclo virtuoso che può riaprirsi solo con un intervento strutturale sulle grandi leve economiche e sociali del Paese.

Le misure del governo Renzi hanno invece evidenziato l’incongruenza con le politiche espansive che andrebbero destinate alla ripresa; l’abolizione della tassa sulla prima casa ha privato la fiscalità generale di circa 4 miliardi di Euro e i famigerati 80 euro hanno ulteriormente appesantito i conti pubblici senza che abbiano rappresentato un pur piccolo grimaldello per la spinta deflattiva, e non risulta che abbiano alterato in positivo le condizioni di chi li ha ricevuti.

Idem dicasi per il Jobs Act, che al netto della propaganda sul valore aggiunto che avrebbe rappresentato nella generazione di posti di lavoro, si è in realtà dimostrato strumento utile solo per ampliare i margini per le aziende e ridurre ulteriormente il valore del lavoro. Le aziende, peraltro, hanno avuto modo di ridurre il peso fiscale (ulteriore fardello per la fiscalità generale) attraverso ingegnerie furbe sulla pelle di chi si è visto fintamente licenziato e poi riassunto con contribuzione minore sugli oneri sociali e senza ricevere nessun beneficio sul piano salariale, nè maggiori garanzie sul tempo indeterminato.

Che una politica da guitti non fornisse garanzie nemmeno sul breve termine era scontato. E non è un caso che le ipotesi di crescita fornite dai diversi centri studi economici e dallo stesso governo si attendessero una crescita modesta, non oltre lo 0,6 per cento, in linea con quanto atteso in Europa. Solo che la crescita media dell’Eurozona, attesa intorno all’ 1,6%, è stata in qualche modo confermata dal dato trimestrale, che parla di un aumento del PIL pari allo 0,3% sul trimestre. A crescita zero ci siamo solo noi.

L’Italia, come già negli anni scorsi, non riesce ad agganciare il pur lento trenino della ripresa. Il fatto che nemmeno questa misera elevazione in decimali sul trimestre abbia avuto luogo, che le previsioni di crescita diffuse dal Ministero dell’Economia e Finanza si sia ora riassestata per l’anno in corso su un auspicabile 0,6 per cento e che la stagnazione sia l’unica certezza sul breve-medio termine, non fa che ribadire come nemmeno le più modeste previsioni di crescita italiana siano corroborate da una lettura incontrovertibile delle politiche governative.

Il bilancio del governo Renzi è uno dei più fallimentari degli ultimi dieci anni. Riforme costituzionali che portano dritta l’Italia verso una svolta autoritaria, politiche economiche che la spingono nel baratro e politiche sociali che vagano nel nulla, sono il triste e preoccupante esito di un governo incompetente ed arrogante, mai scelto dagli elettori e mai considerato in Europa.

La versione renziana della realtà italiana, costruita su un apparato di propaganda onnivoro e violento, ma completamente indifferente ai dati reali, ben rappresenta i fari del famoso Tir che indica la luce in fondo al tunnel. Per avere una economia serve una politica economica. Per avere una politica economica serve un governo che sappia concepirla. Per poterla concepire serve una cultura di governo e uomini e donne all'altezza del ruolo. Non una brigata di incompetenti a caccia di gloria e di potere.


di Antonio Rei

Continua a ripetere che l’Italia finalmente riparte, che cambia verso, che è la volta buona e che chi non è d’accordo è un gufo. Finché si tratta di zittire rapaci notturni della risma di Cuperlo o Fassina la dialettica di Matteo Renzi è di straordinaria efficacia, ma ormai il Presidente del Consiglio deve accettare il fatto che contro di lui stanno gufando i numeri.

Gli ultimi in ordine di tempo sono quelli sulla produzione industriale, che a giugno - secondo l’Istat - è scesa dello 0,4% su mese e dell’1% su anno. Si tratta della seconda flessione consecutiva, nonché del dato peggiore dal gennaio 2015 (all’epoca la caduta era stata del 2,1%). Nella media del periodo aprile-giugno 2016 la produzione ha registrato un calo dello 0,4% rispetto al trimestre precedente.

Non solo. Nella nota mensile pubblicata la settimana scorsa dall’istituto di statistica si legge anche che, sempre a giugno, in Italia si è osservato “un aumento più marcato degli occupati dipendenti a termine (+2,6% rispetto al primo trimestre) e della componente indipendente (+1,1%) rispetto alla moderata crescita dei dipendenti permanenti (+0,2%)”.

In altri termini, nel mercato del lavoro i contratti a tempo determinato stanno velocemente riguadagnando terreno su quelli stabili, poiché quest’anno si sono dimezzati gli incentivi alle assunzioni che nel 2015 avevano dopato le statistiche. Ed è facile prevedere che, quando gli incentivi spariranno del tutto, l’Italia tornerà in men che non si dica ad essere il paradiso del precariato.

Tornando alla nota mensile dell’Istat, nel paragrafo dedicato alle prospettive di breve termine si legge anche che “l’indicatore composito anticipatore dell’economia italiana, ricalcolato sulla base degli indicatori mensili più recenti, ha evidenziato un ulteriore calo, seppur di intensità più contenuta rispetto alle flessioni degli ultimi mesi”.

Insomma, i dati raccontano una storia di segno opposto rispetto a quella propinata dal governo: l’Italia non sta affatto accelerando e non sta nemmeno ripartendo. Al contrario, dopo una breve fase d’espansione ciclica, la nostra economia è tornata a rallentare ed entro la fine dell’anno è pressoché certo un nuovo colpo di scure alle previsioni sul prodotto interno lordo.

Naturalmente su questa situazione ha pesato una serie di fattori internazionali: il prezzo del petrolio brutalizzato dall’Arabia Saudita, la riduzione delle importazioni da parte della Cina e il conseguente calo del commercio mondiale, il terrorismo e le crisi geopolitiche che hanno minato il clima di fiducia, la Brexit e le bufere sui mercati finanziari a causa delle banche.

È tutto vero, ma non basta ad assolvere chi avrebbe il compito di guidare il nostro Paese. Se l’Italia non riparte e non cambia verso lo deve soprattutto alla politica economica elettoralistica di questo governo, capace solamente di smistare mance e mancette, senza nemmeno la velleità di far ripartire consumi e investimenti pubblici e privati in una prospettiva di lungo termine.

E se qualcuno ancora crede all’efficacia - o anche solo alla realtà - del taglio delle tasse, occorre fare presente che le facili previsioni delle cassandre si sono avverate. Quello che esce dalla porta, rientra dalla finestra: dal 2008 a oggi il costo della tassa sui rifiuti è raddoppiato, sostiene un‘indagine di Confesercenti, mentre Confcommercio calcola che fra il 2010 e il 2015 il rincaro sia stato del 55%, malgrado nello stesso periodo la produzione di spazzatura in Italia sia diminuita dell’11%.

E nel 2016 la Tari aumenterà ancora: secondo lo studio annuale dell’Osservatorio Nazionale della Federconsumatori sui costi relativi al mantenimento di una casa, il 2016 segnerà una variazione mensile rispetto allo scorso anno pari al +4%.

Non è chiaro se Renzi si renda conto di tutto questo o se ormai il narcisismo e l’autoesaltazione galoppante lo abbiano spinto troppo lontano dal campo gravitazionale terrestre. Purtroppo ha un referendum da vincere, perciò in ogni caso non può che andare avanti a negare l’evidenza, scollandosi dalla realtà in uno sdoppiamento alla Dostoevskij.

Il processo è ormai talmente avanzato che il nostro Premier, con tanto di magliettina tricolore, si è ritrovato a Rio De Janeiro a perorare la causa delle Olimpiadi a Roma. Il problema è che a Roma non ha vinto l’olimpionico Giachetti, ma l’agnostica Raggi, che ai Giochi non pensa proprio. Forse Renzi se n’è dimenticato, o forse semplicemente fa finta di nulla. Continua per la sua strada, ignorando i segnali che gli arrivano dal mondo esterno. In fondo, al referendum manca solo qualche mese: non è questo il momento di cambiare.

di Antonio Rei

Quale storia raccontano gli ultimi numeri Istat sul mercato del lavoro italiano? A giugno la disoccupazione giovanile è calata dello 0,3%, al 36,5% (il livello più basso dall’ottobre del 2012), mentre quella generale è aumentate dello 0,1%, tornando all’11,6% (il numero di disoccupati è aumentato di 27mila unità, +0,9%). Il tasso di occupazione è salito invece dello 0,1% (+71 mila unità), arrivando al 57,3% (il massimo dal 2009), e gli inattivi - quelli che non hanno un lavoro e nemmeno lo cercano - sono diminuiti dello 0,1% (-51mila unità), al 35,1%. Bene: tutto ciò rappresenta un successo per il governo, o piuttosto un fallimento?

Se ci basassimo soltanto sulle reazioni politiche, dovremmo pensare che siano veri entrambi i punti di vista, a seconda che ci piaccia di più dare ragione alla maggioranza o all’opposizione. Peccato che i numeri diano torto a tutti.

In effetti alcune statistiche, per loro natura, hanno la tendenza a ingannare chi le legge. Quelle sul lavoro sono in cima a questa classifica, perché tratteggiano una realtà complicata e vanno lette, messe in relazione e interpretate nel loro insieme. Purtroppo la comunicazione di massa, soprattutto se istituzionale, non ha il tempo né l’interesse ad approfondire, per cui ogni mese ci tocca assistere al solito teatrino della bagarre fra entusiasti esaltati, come il premier Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, e cassandre catastrofiste come i vari esponenti forzaitalioti e pentastellati.

Iniziamo da questi ultimi. Il Movimento 5 Stelle accusa il Presidente del Consiglio di “esultare perché la disoccupazione è aumentata dello 0,1%”, ma non è così. Il tasso di disoccupazione calcolato dall'Istat corrisponde al rapporto fra i disoccupati e il totale della forza lavoro: se gli inattivi diminuiscono perché alcune persone iniziano a cercare un impiego - indipendentemente dal fatto che lo trovino o meno - la forza lavoro aumenta, perciò è più facile che il tasso di disoccupazione salga.

Allo stesso modo, il Premier forza la realtà dei numeri con i soliti proclami trionfalistici: “Fatti non parole. Da febbraio 2014 a oggi l’Istat certifica più di 599mila posti di lavoro. Sono storie, vite, persone. Questo è il #JobsAct”. In realtà no, questo non è il #JobsAct. È innegabile che negli ultimi mesi si siano verificate delle variazioni positive, soprattutto nel secondo trimestre di quest’anno, periodo durante il quale il tasso di occupazione è cresciuto dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e addirittura dell’1% su base annua.

Tuttavia, a ben vedere, i nuovi occupati tra maggio e giugno sono tutti autonomi, visto che quel saldo positivo di 71mila unità è dato dalla differenza fra i lavoratori indipendenti in più (78 mila) e i dipendenti in meno (esatto: sono diminuiti di 7 mila unità). Tra aprile e giugno, inoltre, i lavoratori con contratto a tempo determinato sono aumentati del 2,6% e quelli a tempo indeterminato solo dello 0,2%. I nuovi occupati, perciò, non sono affatto dipendenti che hanno conquistato finalmente il posto fisso, come recita la vulgata sul Jobs Act.

A chi invece si esalta per il calo della disoccupazione giovanile (che, ricordiamo, fa riferimento alla fascia d’età 15-24 anni, in cui il tasso di attività è assai più basso che nelle altre), bisogna far notare che l’incremento maggiore di occupati (+46mila) si è registrato fra gli over 50, mentre nella fascia fra i 25 e i 34 anni (quindi non più “giovani”, almeno in termini statistici), la disoccupazione è aumentata al 16,9% mentre la percentuale di inattivi è del 26,8%.

Non solo: con la riduzione degli incentivi per le assunzioni stabili (da gennaio lo sgravio è sceso a 3.250 euro l’anno per ogni neoassunto, dagli 8.060 euro del 2015), nell’ultimo trimestre le aziende hanno ricominciato ad assumere molto più con contratti precari (60mila) che a tutele crescenti (27mila). Quando gli incentivi scompariranno del tutto, è prevedibile che anche le tutele crescenti diventeranno un ricordo.

Insomma, se vogliamo tirare le somme con un minimo di onestà dobbiamo arrenderci al fatto che la realtà è grigia. Quando escono nuove statistiche si ha sempre la tentazione di scegliere una percentuale e aggrapparvisi per sostenere una visione bianca o nera, che però non corrisponde (quasi) mai a quella raccontata dai numeri. La verità, poco esaltante e probabilmente anche poco giornalistica, è che il mercato del lavoro italiano - una volta assorbito il doping degli incentivi 2015 - sta percorrendo una traiettoria positiva, ma il miglioramento non è né dell’entità né della qualità che racconta il governo.

Anzi, come fa notare Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera e esponente della minoranza Pd, se la tendenza del secondo trimestre “si dovesse confermare, diminuirebbe la qualità dell’occupazione e riprenderebbe vigore il lavoro precario”. Questo è il #JobsAct.

di Carlo Musilli

Si può lavorare per 10 anni da controllore e poi, con una piroetta degna del Bol'šoj, passare dalla parte del controllato? Sì, a quanto pare la legge lo consente. Perciò Josè Manuel Barroso, che dal 2004 al 2014 è stato presidente della Commissione europea, oggi è più che lieto di accettare l’offerta di lavoro arrivata da Goldman Sachs, di cui diventerà consulente per la gestione della Brexit e presidente non esecutivo della divisione con sede a Londra. Come biasimarlo? I Golia di Wall Street pagano meglio dei contribuenti.

Eppure, il caso ha suscitato un tale clamore che la settimana scorsa più di cinquanta deputati europei hanno sottoscritto una lettera indirizzata al mediatore europeo Emily O’Reilly per contestare la nomina accettata dal portoghese. “Considerando il ruolo centrale della Commissione nel gestire le conseguenze della crisi economica e finanziaria a livello europeo - si legge nel testo - chiediamo al Mediatore europeo di valutare se la nomina dell’ex Presidente della Commissione europea José Manuel Barroso a Presidente non esecutivo della Goldman Sachs International possa rappresentare una violazione del dovere di onestà e discrezione”.

In realtà, O’Reilly si era già espressa sulla questione il 12 luglio, chiedendo alla Commissione europea di rivedere il codice di condotta per specificare come debbano comportarsi gli ex commissari e introdurre delle sanzioni per chi viola le norme.

Ma non è finita: “Allo stesso tempo - prosegue la lettera - chiediamo di valutare se la risposta data dall’attuale Commissione a tale nomina possa costituire una violazione dell’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni)”. Fin a questo momento, infatti, l’Esecutivo comunitario (che insieme al Consiglio Ue è l’unica istituzione ad avere il potere di revocare la pensione europea a Barroso) si è limitato a prendere atto della scelta del portoghese. E l’attuale presidente ha detto, per bocca del suo portavoce, che non intende “né commentare, né dare giudizi”.

A Parigi, però, non la pensano allo stesso modo: “Barroso fa il gioco degli anti-europeisti - ha accusato il sottosegretario francese agli affari europei, Harlem Desir - lo invito solennemente a rinunciare a questo incarico, particolarmente scandaloso tenuto conto del ruolo avuto da questa banca nella crisi finanziaria del 2008, ma anche con riferimento ai conti truccati dei bilanci pubblici della Grecia. Moralmente, politicamente e deontologicamente sarebbe un errore da parte di Barroso, il peggiore servizio che un ex presidente di un’istituzione europea potrebbe rendere al progetto europeo, in un momento storico in cui, al contrario, esso ha bisogno di essere sostenuto, affiancato e rafforzato”.

Per essere più incisivo di O’Reilly, Desir ha chiesto esplicitamente a Bruxelles d’inasprire il codice di comportamento, in base al quale oggi gli ex commissari devono ottenere da Bruxelles un’autorizzazione per lavorare in gruppi privati nei 18 mesi successivi alla fine del loro mandato: “È necessario allungare la durata del divieto - ha tuonato il francese - ampliare le incompatibilità e rafforzare i controlli”.

Insomma, le reazioni di sdegno non sono mancate, ma in realtà il tuffo carpiato di Barroso non ha lasciato nessuno a bocca aperta. Gli incesti fra politica e finanza sono più comuni dei cavoletti a Bruxelles. Un’abitudine. D’altra parte, alzare le spalle e pensare “così va il mondo” è da sudditi rassegnati, ma anche dare giudizi morali risulta facile quanto inutile. Potrebbe forse essere più produttivo affrontare la questione delle porte girevoli in termini di credibilità.

Il ragionamento è semplice, lineare. Se per 10 anni sei stato a capo dell’istituzione che aveva il compito di far rispettare le regole, ma poi ti sposti in una banca che ha avuto un ruolo centrale nel causare la crisi del 2008 con la truffa dei subprime, fai nascere dei seri dubbi sul modo in cui hai svolto il tuo primo incarico. “Chissà con quale integrità e trasparenza avrà guidato la Commissione?”, ad esempio. Oppure: “Dopo lo scoppio della crisi, quanti sforzi avrà compiuto Barroso per aumentare i controlli sul sistema finanziario, riducendo i margini di manovra delle banche nell’interesse della giustizia sociale?”. Ecco, l’assunzione in Goldman Sachs suggerisce risposte abbastanza chiare.

Ma l’aspetto ancora più grave è che il triplo axel di Barroso getta discredito anche sull’istituzione che ha rappresentato, peraltro in uno dei momenti di massima impopolarità che l’Ue abbia mai conosciuto. Ne riduce ulteriormente la credibilità, appunto, mettendo a rischio la già scarsa fiducia di cui gli organismi comunitari ancora godono. Certo, non è che dopo di lui sia iniziata una festa: il successore di Barroso alla guida della Commissione è pur sempre Jean Claude Juncker, ex primo ministro del Lussemburgo negli anni in cui il suo Paese stringeva accordi fiscali segreti con centinaia di aziende europee. Chissà quale contratto stanno preparando per lui.

di Carlo Musilli

Due mostri si aggirano per il sistema finanziario europeo: gli Npl (non performing loans) e i derivati. I primi, meglio noti come crediti deteriorati, sono attività in cui i debitori non riescono più a ripagare i creditori (oggi rappresentano il principale problema delle banche italiane). I secondi, molto diffusi in nord Europa, sono essenzialmente rischi: a ogni titolo corrisponde un sottostante che, a seconda della struttura del derivato stesso, produrrà un guadagno o una perdita.

Npl e derivati sono perciò questioni molto diverse, eppure sono già aperte le scommesse su quale delle due sarà all’origine della prossima crisi finanziaria. L’Economist, come sempre, punta il dito contro le banche italiane, mentre il Fondo Monetario Internazionale ha scritto in un recente report sugli istituti tedeschi che Deutsche Bank è “una delle banche importanti a livello globale che più di tutte contribuisce ai rischi sistemici, seguita da Hsbc e da Credit Suisse”.

Ma andiamo con ordine, partendo dalla malattia degli Npl. Il nostro Paese è il primo in Europa per la mole dei crediti deteriorati, che dal 2008 a oggi è lievitata arrivando a circa 360 miliardi di euro. Secondo la European Banking Authority, per gli istituti italiani la percentuale di mancato recupero sul totale dei crediti è del 16,7%. La media europea è pari al 5,8%, mentre lo stesso dato relativo alle banche tedesche è al 3,1%, ma soltanto perché in Germania l'intervento statale sugli Npl è avvenuto già nelle prime fasi della crisi finanziaria (2009-2010), molto prima che l’Europa varasse le regole severe del bail-in. Le nuove norme, infatti, proibiscono gli aiuti di Stato e impongono il salvataggio delle banche dall’interno, ovvero con il contributo degli azionisti, degli obbligazionisti e in alcuni casi anche dei correntisti con depositi superiori ai 100mila euro.

In questo contesto, la gravità della situazione italiana è stata rilevata dalla Bce con l’ultima tornata di stress test, che peraltro saranno ripetuti a fine luglio e potrebbero rivelare nuovi buchi di bilancio cui far fronte. Le strade percorribili sono due: aumentare il patrimonio delle banche o ridurre l’ammontare dei crediti deteriorati. Il governo Renzi - appoggiato da Bankitalia, Abi, Confindustria e dallo stesso Fmi - vorrebbe agire su entrambi i fronti utilizzando soldi pubblici e, per riuscirci, punta a ottenere una deroga al bail in.

Ma attenzione: non è richiesto alcun cambiamento delle regole. L’articolo 45 della comunicazione sugli aiuti di stato alle banche, pur confermando la necessità di un contributo degli azionisti e degli obbligazionisti, prevede che si possa intervenire con soldi pubblici nel caso in cui l’applicazione pedissequa del bail-in metta a rischio la stabilità del sistema finanziario. Il governo italiano si appella a questo principio in primo luogo per salvare il Monte dei Paschi di Siena e la Commissione Ue sembra propensa a trovare un compromesso esentando dal contributo gli investitori non istituzionali (ma non quelli istituzionali, tra i quali vi sono le banche stesse).

Stavolta in gioco non c’è una qualche banchetta di provincia, ma il terzo istituto di credito italiano. Matteo Renzi sa benissimo che non può permettersi di lasciare che a pagare per la mala gestione di Mps siano investitori retail e risparmiatori, perché le ripercussioni sarebbero pesantissime a livello tanto finanziario quanto politico. Un disastro del genere nel cuore della sua Toscana, peraltro in una Banca la cui storia recente è legata a filo doppio al Partito Democratico, e con il referendum costituzionale alle porte? No, è decisamente una prospettiva inaccettabile per il Premier.

Ecco perché si sta pensando a un piano in almeno due fasi. L’obiettivo primario è alleggerire il peso dei crediti deteriorati che gravano sul Monte, pari a 47 miliardi di euro. Una parte di questi Npl potrebbero essere ceduti a un nuovo fondo (Giasone?) capitalizzato con 5-6 miliardi da Atlante (che ha ancora 1,7 miliardi a disposizione), insieme alla Sga (bad bank dell'ex Banco di Napoli) e alla Cassa depositi e prestiti, oltre che alle altre banche e casse previdenziali che volessero entrare nella partita. A quel punto scatterà la fase due: poiché la cessione degli Npl dovrà avvenire a prezzi scontati, nel bilancio di Mps si apriranno nuove perdite che dovranno essere colmate con un nuovo aumento di capitale. La Banca potrebbe anche emettere bond convertendi garantiti dallo Stato con parte dello scudo da 150 miliardi che Bruxelles ha recentemente approvato.

Insomma, la posta in gioco è altissima, eppure Renzi afferma che nel panorama del credito europeo “non c'è un problema italiano”: la vera fonte di preoccupazione, semmai, sono “i derivati della banche tedesche”.

Su questo secondo fronte la posizione degli istituti italiani è molto diversa. Secondo uno studio pubblicato la settimana scorsa dalla Cgia di Mestre sulla base di dati Eba relativi allo scorso marzo, le banche di Finlandia, Regno Unito e Germania hanno più del 20% del loro attivo in derivati, contro il 12,9% della media europea e il 5,3% di quella italiana. L’analisi, inoltre, stima che l'ammontare dei derivati in capo alle banche tedesche sia di almeno 813 miliardi di euro, contro i 123 di quelle italiane.

“Non è da escludere che i derivati possano rappresentare un rischio sistemico - scrive il centro studi - specie in questa fase di turbolenza dei mercati finanziari; non è forse un caso che nel corso dell'ultimo anno le banche stesse hanno cercato di ridurre l'incidenza di questi prodotti nei loro bilanci”.

A livello europeo, in effetti, prevale la tendenza a ridimensionare il peso di questi prodotti, tanto che tra il marzo del 2015 e il marzo del 2016 l’incidenza dei derivati sull'attivo delle banche è scesa dal 15,2% al 12,9%. Un calo importante, ma ancora non sufficiente.



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