di Carlo Musilli

Prima la bocciatura dalla Federal Reserve, poi l’anatema del Fondo monetario, che l’ha definita una delle principali fonti di “rischi sistemici” per il sistema finanziario globale. È un doppio colpo quello che la settimana scorsa si è abbattuto su Deutsche Bank, provocando una nuova ondata di vendite sul titolo in Borsa. La tegola numero uno è arrivata dalla Fed.

La Banca centrale americana ha fatto sapere che per il secondo anno di fila la controllata statunitense del colosso tedesco non ha superato gli stress test, la cosiddetta “Comprehensive Capital Analysis and Review”. Insieme alla divisione Usa di Santander (alla terza bocciatura consecutiva, un record), la costola di Deutsche è stata criticata per “una generale debolezza sostanziale” nei piani sui capitali e per aver compiuto scarsi progressi rispetto ai test del marzo 2015.

Poche ore dopo è caduta la tegola numero due, molto più pesante. L’Fmi ha scritto che Deutsche è “una delle banche importanti a livello globale che più di tutte contribuisce ai rischi sistemici, seguita da Hsbc e da Credit Suisse”. Il Fondo sottolinea che “la rilevanza di Deutsche Bank aumenta la necessità di saper gestire i rischi; occorre inoltre monitorare attentamente l’esposizione transfrontaliera, così come la capacità delle banche di rilevanza sistemica di elaborare nuove procedure di risoluzione”.

Il contraccolpo sui mercati non si è fatto attendere, ed è stato violento. Giovedì alla Borsa di Francoforte le azioni della Banca sono scese fino a 12,05 euro, il minimo degli ultimi trent’anni, per risalire a quota 12,53 alla chiusura di venerdì. Secondo il Financial Times, dopo Brexit i fondi di George Soros e Marshall Wace, uno dei più importanti hedge fund della City, hanno scommesso milioni su un’ulteriore caduta del titolo Deutsche, che la settimana scorsa ha perso un quinto del proprio valore e nell’ultimo anno è crollato addirittura del 55%.

Gli allarmi di Fed e Fmi, perciò, non sono arrivati a ciel sereno. Lo scorso anno Deutsche Bank ha registrato una perdita di 6,8 miliardi di euro e in questi mesi il nuovo amministratore delegato John Cryan ha avviato una profonda ristrutturazione dell’istituto. In un’intervista pubblicata sabato sullo Spiegel, il manager ha assicurato che non ci sarà bisogno di un aumento di capitale.

L’impegno principale è un altro: chiudere entro quest’anno il maggior numero possibile di contenziosi, che incidono pesantemente sui conti dell’istituto. Deutsche, infatti, vanta un poco onorevole primato: è il gruppo bancario che ha pagato di più fra multe e accordi stragiudiziali (oltre 12 miliardi solo negli ultimi tre anni), frutto di una lunghissima serie di scandali che hanno coinvolto l’istituto a varie longitudini (dalla manipolazione del Libor a quella delle valute, dalle operazioni dubbie su oro e argento al sospetto di evasione fiscale, dal riciclaggio all'aggiramento delle sanzioni contro la Russia).

Per quanto riguarda invece l’aspetto esclusivamente finanziario, come sottolinea il Fondo monetario nello studio sulle banche tedesche pubblicato la settimana scorsa, il problema più grave di Deutsche è la vulnerabilità ai bassi tassi d’interesse. La questione, naturalmente, non riguarda la redditività di mutui e prestiti, ma l’esposizione dell’istituto ai derivati tossici, che dopo la crisi finanziaria globale si è ridotta molto meno rispetto a quella degli altri colossi.

Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, l’istituto tedesco è esposto in derivati per 50mila miliardi di dollari, una cifra pari a duemila volte la sua capitalizzazione di mercato e a circa 15 volte il Pil tedesco. La Bri, inoltre, ritiene che soltanto su Deutsche Bank e Morgan Stanley pesi il 20% dell'esposizione globale in derivati.

E all’interno di questa montagna di titoli, le maggiori difficoltà dell’istituto tedesco sono legate ad alcune scommesse sbagliate sui tassi: più questi rimangono a livelli bassi, più le posizioni assunte da Deutsche ne risentono. Non a caso nelle scorse settimane David Folkerts-Landau, capo economista del gruppo, si è scagliato con ferocia contro la politica monetaria della Banca centrale europei, che prevede di mantenere ancora a lungo i tassi a questi livelli. Del resto, nel consiglio direttivo della Bce il più acerrimo nemico di Mario Draghi è da sempre Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e fervente paladino degli interessi di Deutsche Bank.

di Carlo Musilli

Impiccato con una corda d’oro (un privilegio raro). Geordie, protagonista di una famosa ballata britannica, faceva questa fine per aver rubato cervi nel parco del re. A sorpresa, gli elettori del Regno Unito hanno scelto di imitarlo votando in maggioranza per uscire dall’Ue. Nel loro caso, la corda d’oro è stata il referendum del 23 giugno. E ora tutto è a rischio: il Pil in crescita, la sterlina forte, lo Stato sociale solido, la potenza commerciale e il ruolo di principale polo finanziario del continente. I cittadini britannici hanno compromesso tutto questo sedotti dal populismo e dalla disinformazione di massa.

Nessuno ci credeva, ma il fantasma della Brexit si è presentato venerdì all’apertura dei mercati, scatenando il panico. Le Borse europee hanno bruciato 411 miliardi di capitalizzazione: Milano (-12,48%) ha archiviato la seduta peggiore di sempre, con flessioni superiori a quelle seguite all'11 settembre e al crack di Lehman Brothers. Non è andata meglio a Madrid (-12,35%), mentre Francoforte e Parigi hanno perso fra il 6 e l'8%.

La vera sorpresa è stata Londra, che, dopo un avvio molto negativo, ha limitato le perdite al -3,15%, ma grazie a una composizione dell'indice che privilegia le materie prime legate all'oro e i titoli difensivi come i farmaceutici. D’altra parte, le vere difficoltà per la City arriveranno quando le grandi banche mondiali sposteranno attività e posti di lavoro in altre capitali europee, in modo da non perdere il vantaggio di avere il proprio quartier generale continentale in territorio comunitario.

Quanto al mercato del debito, venerdì lo spread Btp-Bund è salito da 132 a 161 punti base, limitando i danni solo grazie alla rete di protezione garantita dalla Banca centrale europea. Sul fronte dei cambi, invece, la sterlina ha toccato i minimi dal 1985 sul dollaro, a 1,3406, per poi risalire a 1,3732, che rappresenta comunque il livello più basso dalla primavera 2009. Rispetto all'euro, la moneta britannica scambia a 0,815, sui valori di giugno 2014.

E adesso che succede? Le conseguenze della Brexit in termini finanziari ed economici si articolano su diversi piani. Al di là della reazione immediata dei mercati, inevitabilmente scomposta, il dato più significativo da tenere in considerazione nel medio periodo è proprio il valore della sterlina. La sua svalutazione, che secondo molti analisti rischia di arrivare fino al 15-20% rispetto ai livelli pre-Brexit, sarà favorevole per le aziende che esportano, ma al contempo spingerà l’inflazione e peserà quindi sui bilanci di famiglie e imprese, che ridurranno consumi e investimenti.

La Banca d’Inghilterra non potrà aiutare su questo fronte: per farlo dovrebbe alzare i tassi d’interesse, invece è prevedibile che sceglierà di tagliarli ulteriormente, azzerandoli, e di far ripartire il quantitative easing per fornire liquidità al sistema e tutelare i livelli di produzione e occupazione. Secondo il ministero del Tesoro britannico, in uno scenario intermedio il prodotto interno lordo potrebbe subire una riduzione del 3,6% nei due anni successivi all’uscita dall’Unione, portando con sé la perdita di 520mila posti di lavoro. L’ipotesi peggiore prevede invece un calo del Pil del 6% e 820mila occupati in meno.

Dal punto di vista del commercio, inoltre, è tutto da dimostrare che il Regno Unito sia in grado di negoziare accordi di maggior favore con i suoi partner, poiché nessuno (nemmeno Usa e Cina) ha interesse a dimostrare che l’addio a Bruxelles sia conveniente.

“Ci aspettiamo un divorzio difficile, lungo e costoso - scrivono gli analisti di Blackrock - con la separazione delle leggi del Regno Unito da quelle dell’Ue e la firma di accordi commerciali con una Ue ‘rigettata’. E riteniamo che le potenziali perdite per le esportazioni di servizi e di flussi d'investimento saranno di gran lunga superiori ai benefici derivanti dai minori pagamenti all’Unione”. Questo significa che, con l’uscita dall’Ue, le risorse a disposizione dello Stato non aumenteranno affatto: al contrario, diminuiranno, danneggiando anche quello Stato sociale che i sostenitori della Brexit dicono di voler proteggere.

Il quadro generale, perciò, è più che fosco. Senza voler toccare gli aspetti politici (la probabile secessione della Scozia e la possibile riunificazione dell’Irlanda, ad esempio), le sole prospettive economico-finanziarie fanno capire quanto il 23 giugno sia stato un giorno triste per la storia britannica. Intendiamoci: dalla City non usciranno i Cavalieri dell’Apocalisse, ma le conseguenze della Brexit si faranno sentire a ogni longitudine e i cittadini britannici pagheranno il prezzo più salato. Del resto, lo hanno scelto loro. È un privilegio raro.

di Carlo Musilli

Reddito minimo garantito e reddito di cittadinanza non sono la stessa cosa. Il tema è tornato al centro della cronaca per via del referendum in Svizzera e di un intervento del governatore di Bankitalia al festival dell’economia di Trento, ma occorre sottolineare alcune differenze. Partiamo dalla cronaca. Domenica gli elettori svizzeri si sono espressi con chiarezza bulgara: circa il 78% di loro ha bocciato la proposta di concedere a tutti i cittadini, dalla nascita alla morte, quello che loro chiamano un “reddito di base incondizionato”.

In sostanza, i minorenni avrebbero ricevuto ogni mese 625 franchi (pari a 560 euro), mentre per gli adulti l’assegno sarebbe stato di 2.500 franchi (circa 2.250 euro). I lavoratori che guadagnano cifre inferiori avrebbero incassato un’integrazione, mentre ai disoccupati sarebbe andato l’intero importo. Nulla sarebbe cambiato per chi guadagna almeno 2.500 franchi al mese. Per comprendere gli ordini di grandezza bisogna tenere presente che il salario medio in Svizzera sfiora i 6.500 franchi e che la soglia di povertà si attesta a 2.220 franchi.

L’iniziativa, lanciata dal proprietario del Caffè Basilea Daniel Haeni e promossa da un gruppo indipendente, ha destato clamore e interesse un po’ ovunque, ma i sondaggi avevano chiarito subito che il referendum sarebbe stato bocciato con ampio margine. Secondo i promotori, la misura era necessaria perché in Svizzera si perdono posti di lavoro a causa dell'automazione dei diversi settori produttivi e perché sempre più persone svolgono mansioni non riconosciute e non pagate, come la cura dei bambini o di parenti malati o anziani.

Il governo svizzero, invece, si era dichiarato contrario a questa forma di sostegno del reddito perché il costo sarebbe stato di circa 25 miliardi di franchi a livello federale. Un conto troppo salato, malgrado il progetto fosse di sostituire con il nuovo reddito tutti gli strumenti di welfare oggi attivi.

Anche Ignazio Visco si è appellato all’insostenibilità finanziaria per bocciare l’ipotesi d’introdurre in Italia un sostegno al reddito generalizzato. Secondo il numero uno della Banca d’Italia, un sussidio universale di “500 euro a ogni cittadino per 12 mesi vale il 20% del Pil: non è possibile da pensare”, perciò non è questa la risposta ai problemi del mercato del lavoro.

Ora, è bene chiarire che i numeri citati da Visco non fanno riferimento a una misura analoga a quella bocciata dagli svizzeri. Il governatore italiano, infatti, non parlava di reddito minimo garantito, ma di reddito di cittadinanza, che si distingue dal primo per la sua natura universalistica.

In altri termini, il reddito di cittadinanza non è subordinato alle condizioni economiche o patrimoniali dei singoli cittadini: viene distribuito a tutti, senza alcuna distinzione fra ricchi e poveri. Il vantaggio, in teoria, è che non disincentiva la ricerca di un lavoro, dal momento che non esistono soglie di reddito oltre le quali non si ha più diritto all’assegno. Per la stessa ragione, tuttavia, la misura risulta costosissima, oltre che socialmente iniqua.

Di conseguenza, i calcoli citati da Visco prevedono che quei famosi 500 euro mensili siano corrisposti a tutti i 50 milioni di cittadini italiani con più di 18 anni. Compresi Silvio Berlusconi e Guido Barilla, per intenderci. Solo così si arriva alla cifra astronomica di 300 miliardi di euro, appunto il 20% del nostro prodotto interno lordo.

Il reddito minimo garantito è invece uno strumento molto diverso, perché in questo caso il sussidio viene concesso soltanto dopo accertamenti sul reddito e sul patrimonio di chi ne fa richiesta. Seppure in forme molto diverse, programmi di questo tipo esistono nella grande maggioranza dei Paesi europei, inclusa la Grecia. Se lo adottassimo anche noi potremmo perfino ridurre sprechi e sovrapposizioni, perché il nuovo sussidio sostituirebbe molte prestazioni che oggi vengono corrisposte senza alcun coordinamento.

Secondo stime citate nel 2013 da Tito Boeri, oggi presidente dell’Inps, un reddito minimo garantito da 500 euro costerebbe fra gli 8 e i 10 miliardi di euro. Una cifra molto meno impossibile da pensare.

di Carlo Musilli

Parole altisonanti, risultati irrilevanti. Il G7 giapponese si è chiuso con le solite dichiarazioni magniloquenti, ma non è riuscito a indicare una strada plausibile per raggiungere gli obiettivi fissati. Nel documento finale della riunione fra i 7 capi di Stato e di governo - una volta erano 8, ma ormai la Russia è fuori dal tavolo per motivi politici - si legge che “la crescita globale” è “una priorità urgente”.

La preoccupazione è ovvia, visto che le economie avanzate invece di accelerare sul cammino della ripresa rallentano, mentre le emergenti nel migliore dei casi perdono abbrivio (vedi la Cina) e nel peggiore entrano nel tunnel della contrazione (vedi il Brasile e l’ostracizzata Russia).

Ora, per rilanciare la crescita potenziale, in teoria, bisogna dosare tre strumenti: politica fiscale, politica monetaria e riforme strutturali. Il problema è che, come in varie riunioni precedenti, neanche stavolta i convitati del G7 sono riusciti a ricomporre la loro divisione di fondo.

Da una parte ci sono i sostenitori di politiche fiscali più accomodanti, con in prima fila il Premier giapponese Shinzo Abe (che deve fronteggiare, oltre alla mancata crescita, anche gli spauracchi decennali della deflazione e del debito pubblico lunare), dall’altra la solita Germania, che in ogni sede continua a opporsi strenuamente a qualsiasi utilizzo della leva fiscale. Del resto, l’economia tedesca è l’unica capace di trarre profitto dall’austerità altrui - che innesca la guerra delle esportazioni, in cui la vittoria teutonica è scontata, almeno al momento - per cui è comprensibile che a ogni longitudine del globo Berlino continui a contraddire chi cerca di convincerla a sterzare sulla strada dello sviluppo.

Di fronte a una contrapposizione così macroscopica, il G7 non è riuscito ad andare oltre il solito compromesso già affermato in vari comunicati del G20. Con l’obiettivo chimerico di una crescita non meglio precisata, tutti i membri del gruppo sono invitati a utilizzare le leve di politica economica a loro disposizione, ma senza che ciò comprometta la sostenibilità fiscale di ciascuno. In termini pratici, questo significa che, rispetto a ieri, non cambia assolutamente nulla.

Dal punto di vista politico, invece, un seppur minimo risultato è stato raggiunto. In sostanza, il G-7 è riuscito a restringere il perimetro del prossimo G20, che si terrà a settembre sotto la presidenza cinese, imponendo in agenda una serie di temi, come l’importanza degli investimenti infrastrutturali pubblici. Secondo il Fondo monetario internazionale, è da questa via che passa la soluzione del conflitto fra chi vorrebbe sostenere la domanda aggregata e chi preferisce intervenire sull’offerta tramite riforme strutturali. Potrebbe essere questo un modo per uscire dallo stallo, anche perché i recenti risultati delle presidenziali austriache hanno ricordato a tutti quanto l’inerzia in tema di politica economica stia giovando ai populismi di ogni Paese.

Finora, però, l’unica certezza è che le sole istituzioni delle economie avanzate ad adoperarsi più o meno all’unisono per incentivare la ripresa sono le banche centrali (anche se la Fed, che ha iniziato la politica espansiva ben prima della Bce, sta imboccando ora la strada del riassestamento dei tassi verso l’alto). I rendimenti a zero, se non negativi, e i programmi di acquisto bond non sono però sufficienti da soli a invertire il trend del rallentamento planetario.

Intanto, Abe ha ricorda ai suoi colleghi che il crollo del 55% del prezzo delle materie prime dal 2014 a oggi è analogo per entità a quello registrato prima del disastro di Lehman Brothers. La campana suona, ma le contromisure non arrivano. Quello che servirebbe, oltre all’intervento dei banchieri centrali, è una chiara strategia di politica economica espansiva da parte di chi detiene il potere esecutivo. E l’ultimo G7, come i precedenti, ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo lontani dalla meta.

di Carlo Musilli

“Uno shock che metterebbe in pericolo l'economia mondiale”. Così i ministri delle Finanze del G7 hanno definito la possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. L’obiettivo è fare pressione sugli elettori del Regno Unito, che il 23 giugno si esprimeranno sulla Brexit via referendum, ma anche prendere atto di un quadro globale in cui i rischi si sono moltiplicati rispetto a pochi mesi fa. "Le incertezze sono aumentate - scrivono i ministri nel documento finale della riunione di due giorni in Giappone - mentre i conflitti geopolitici, il terrorismo, il flusso di rifugiati e lo shock di un’eventuale uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea complicano il clima economico globale”.

I grandi della Terra sposano perciò in massa la causa del No alla Brexit, sostenuta in primo luogo dal governo Cameron: “Se usciamo dall’Unione europea - ha detto George Osborne, cancelliere dello Scacchiere, intervistato dalla Bbc in Giappone - ci sarà un immediato shock economico per i mercati finanziari. La gente non saprà cosa riserva il futuro e nel lungo termine tutti saranno più poveri. Ciò colpirà negativamente il valore delle abitazioni e al tempo stesso chi comprerà la prima casa dovrà far fronte a tassi dei mutui in salita, senza contare che ottenere un mutuo sarà più difficile. È una situazione in cui tutti perdono”.

Domenica David Cameron ha rincarato la dose. In un’intervista al Sun on Sunday, il Premier britannico ha detto che, in caso di divorzio da Bruxelles, il costo della spesa settimanale aumenterebbe del 3%, pari a una media di oltre 120 sterline l'anno, mentre i prezzi del vestiario salirebbero del 5% e la crescita degli stipendi rallenterebbe bruscamente.

Ma come si arriverebbe a tutto questo? In realtà, nessuno può sapere con certezza e nel dettaglio cosa accadrebbe in caso di Brexit, soprattutto sul lungo periodo , ma la maggior parte dei tecnici concorda nel prevedere conseguenze fosche, quando non apocalittiche. I punti di vista principali da cui affrontare l’argomento sono quattro: commerciale, finanziario, monetario e politico.

Il primo punto è quello su cui più si concentrano i favorevoli all’uscita. I principali argomenti di chi sostiene il Sì, infatti, sono due: la Gran Bretagna farebbe fortuna fuori dall’Ue perché risparmierebbe miliardi di sterline diretti ogni anno alle casse di Bruxelles e soprattutto perché sarebbe libera di siglare i propri accordi commerciali con il resto del mondo.

Quest’ultima affermazione è perlomeno azzardata, perché il resto del mondo eviterà d’incentivare la dissoluzione dell’Ue: cinesi e americani, ad esempio, hanno già escluso la possibilità di siglare con Londra patti commerciali di maggior favore per i britannici dopo l’eventuale addio all’Unione. Ancora più netto il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble: “Non devono sperare che un voto per uscire dall'Ue possa significare l'avvio di nuovi negoziati sullo status della Gran Bretagna”.

Veniamo al secondo punto, la finanza. Londra è il principale centro finanziario d’Europa e per molte banche internazionali è la base da cui operare nel nostro continente. Per risparmiare sui costi e costruire economie di scala i grandi gruppi hanno concentrato buona parte delle loro operazioni europee in Inghilterra, contando sulla possibilità di vendere in 28 stati senza l’obbligo di ottenere autorizzazioni dalla autorità di ogni singolo Paese. Con la Brexit questa organizzazione rischia di implodere e il contraccolpo per Londra sarebbe davvero pesante.

Nella City operano 250 banche mondiali, l’industria finanziaria dà lavoro a 1 milione e 400mila persone e versa ogni anno tasse per 28 miliardi di sterline, il 12% delle entrate fiscali del Regno Unito. Ora, in caso di Brexit, è evidente che nessun grande istituto rimarrà a guardare. Secondo il Financial Times, Deutsche Bank (che a Londra ha novemila dipendenti) ha istituito un gruppo di lavoro per valutare i rischi della rottura Uk-Ue e per ipotizzare il trasloco fuori dalla capitale inglese. Si è schierata apertamente per il No alla Brexit anche Hsbc, primo istituto del credito britannico con 51 milioni di clienti nel mondo, mentre i colossi americani Citigroup e Morgan Stanley hanno già indicato in Dublino l’alternativa a Londra.

Del resto, sempre Osborne aveva già avvertito che, secondo i calcoli del Tesoro britannico, 285mila posti di lavoro in Gran Bretagna sono direttamente collegati all’export di servizi finanziari verso la Ue: uscire sarebbe perciò “catastrofico per l’occupazione e per gli stipendi”.

Per quanto riguarda le conseguenze monetarie, l’allarme Brexit è arrivato dallo stesso governatore della Banca d'Inghilterra, Mark Carney: in caso di uscita dall’Ue “la sterlina si svaluterebbe ulteriormente, anche in modo violento - ha detto - spingendo l'inflazione oltre gli obbiettivi. La domanda aggregata calerebbe, rispetto alle nostre previsioni, a causa della stretta finanziaria, della riduzione di valore degli asset e dell'incertezza sui rapporti commerciali del Regno Unito. Le famiglie frenerebbero i consumi e le imprese gli investimenti. Anche le condizioni finanziarie globali potrebbero mutare, con ripercussioni sulle esportazioni. In un quadro di questo genere, il Comitato di politica monetaria dovrebbe misurarsi con una scelta difficile, stretto fra l'esigenza di stabilizzare l'inflazione e quella di tutelare produzione e occupazione”.

In altre parole, la Banca d’Inghilterra si ritroverebbe a un bivio davvero scomodo: alzare i tassi per frenare l’inflazione (che ha un costo immediato per famiglie e imprese) o tenerli bassi per non affossare il Pil e il mercato del lavoro. “Lasciare l'Unione europea ci costringerebbe quindi a dovere scegliere fra due sconfitte”, riassume Osborne.

Un po’ di numeri: secondo un rapporto del National Institute of Economic and Social Research (Niesr), dopo l’eventuale vittoria del Sì, la sterlina perderebbe immediatamente il 20%, mentre il Pil britannico subirebbe una contrazione dell’1% nel 2017 e del 2,3% nel 2018, ma potrebbe calare anche del 3,7% entro il 2030.

Se invece gli elettori decideranno di restare nell’Unione, lo studio sostiene che il Pil aumenterà del 2% nel 2016 e del 2,7% l’anno prossimo. Stando all’Ocse, invece, l’addio a Bruxelles farebbe calare il Pil britannico di 3 punti percentuali entro il 2020 (pari a un costo per famiglia di 2.200 sterline ai prezzi attuali), mentre da qui al 2030 la riduzione sarebbe di 5 punti in uno scenario intermedio.

Infine, la politica. L’uscita volontaria dall’Ue non ha precedenti, perciò, se si realizzasse, aprirebbe una via che in molti vorrebbero seguire. I movimenti antieuropeisti che già prosperano in tutto il continente ne uscirebbero ulteriormente rafforzati, mentre i mercati ricomincerebbero a scommettere su quale sarebbe il prossimo membro dell’Unione ad abbandonare la nave. E, come ai tempi del rischio Grexit, non è difficile immaginare quali Paesi saranno in cima alla lista dei bookmakers.


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