di Antonio Rei

Quale storia raccontano gli ultimi numeri Istat sul mercato del lavoro italiano? A giugno la disoccupazione giovanile è calata dello 0,3%, al 36,5% (il livello più basso dall’ottobre del 2012), mentre quella generale è aumentate dello 0,1%, tornando all’11,6% (il numero di disoccupati è aumentato di 27mila unità, +0,9%). Il tasso di occupazione è salito invece dello 0,1% (+71 mila unità), arrivando al 57,3% (il massimo dal 2009), e gli inattivi - quelli che non hanno un lavoro e nemmeno lo cercano - sono diminuiti dello 0,1% (-51mila unità), al 35,1%. Bene: tutto ciò rappresenta un successo per il governo, o piuttosto un fallimento?

Se ci basassimo soltanto sulle reazioni politiche, dovremmo pensare che siano veri entrambi i punti di vista, a seconda che ci piaccia di più dare ragione alla maggioranza o all’opposizione. Peccato che i numeri diano torto a tutti.

In effetti alcune statistiche, per loro natura, hanno la tendenza a ingannare chi le legge. Quelle sul lavoro sono in cima a questa classifica, perché tratteggiano una realtà complicata e vanno lette, messe in relazione e interpretate nel loro insieme. Purtroppo la comunicazione di massa, soprattutto se istituzionale, non ha il tempo né l’interesse ad approfondire, per cui ogni mese ci tocca assistere al solito teatrino della bagarre fra entusiasti esaltati, come il premier Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, e cassandre catastrofiste come i vari esponenti forzaitalioti e pentastellati.

Iniziamo da questi ultimi. Il Movimento 5 Stelle accusa il Presidente del Consiglio di “esultare perché la disoccupazione è aumentata dello 0,1%”, ma non è così. Il tasso di disoccupazione calcolato dall'Istat corrisponde al rapporto fra i disoccupati e il totale della forza lavoro: se gli inattivi diminuiscono perché alcune persone iniziano a cercare un impiego - indipendentemente dal fatto che lo trovino o meno - la forza lavoro aumenta, perciò è più facile che il tasso di disoccupazione salga.

Allo stesso modo, il Premier forza la realtà dei numeri con i soliti proclami trionfalistici: “Fatti non parole. Da febbraio 2014 a oggi l’Istat certifica più di 599mila posti di lavoro. Sono storie, vite, persone. Questo è il #JobsAct”. In realtà no, questo non è il #JobsAct. È innegabile che negli ultimi mesi si siano verificate delle variazioni positive, soprattutto nel secondo trimestre di quest’anno, periodo durante il quale il tasso di occupazione è cresciuto dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e addirittura dell’1% su base annua.

Tuttavia, a ben vedere, i nuovi occupati tra maggio e giugno sono tutti autonomi, visto che quel saldo positivo di 71mila unità è dato dalla differenza fra i lavoratori indipendenti in più (78 mila) e i dipendenti in meno (esatto: sono diminuiti di 7 mila unità). Tra aprile e giugno, inoltre, i lavoratori con contratto a tempo determinato sono aumentati del 2,6% e quelli a tempo indeterminato solo dello 0,2%. I nuovi occupati, perciò, non sono affatto dipendenti che hanno conquistato finalmente il posto fisso, come recita la vulgata sul Jobs Act.

A chi invece si esalta per il calo della disoccupazione giovanile (che, ricordiamo, fa riferimento alla fascia d’età 15-24 anni, in cui il tasso di attività è assai più basso che nelle altre), bisogna far notare che l’incremento maggiore di occupati (+46mila) si è registrato fra gli over 50, mentre nella fascia fra i 25 e i 34 anni (quindi non più “giovani”, almeno in termini statistici), la disoccupazione è aumentata al 16,9% mentre la percentuale di inattivi è del 26,8%.

Non solo: con la riduzione degli incentivi per le assunzioni stabili (da gennaio lo sgravio è sceso a 3.250 euro l’anno per ogni neoassunto, dagli 8.060 euro del 2015), nell’ultimo trimestre le aziende hanno ricominciato ad assumere molto più con contratti precari (60mila) che a tutele crescenti (27mila). Quando gli incentivi scompariranno del tutto, è prevedibile che anche le tutele crescenti diventeranno un ricordo.

Insomma, se vogliamo tirare le somme con un minimo di onestà dobbiamo arrenderci al fatto che la realtà è grigia. Quando escono nuove statistiche si ha sempre la tentazione di scegliere una percentuale e aggrapparvisi per sostenere una visione bianca o nera, che però non corrisponde (quasi) mai a quella raccontata dai numeri. La verità, poco esaltante e probabilmente anche poco giornalistica, è che il mercato del lavoro italiano - una volta assorbito il doping degli incentivi 2015 - sta percorrendo una traiettoria positiva, ma il miglioramento non è né dell’entità né della qualità che racconta il governo.

Anzi, come fa notare Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera e esponente della minoranza Pd, se la tendenza del secondo trimestre “si dovesse confermare, diminuirebbe la qualità dell’occupazione e riprenderebbe vigore il lavoro precario”. Questo è il #JobsAct.

di Carlo Musilli

Si può lavorare per 10 anni da controllore e poi, con una piroetta degna del Bol'šoj, passare dalla parte del controllato? Sì, a quanto pare la legge lo consente. Perciò Josè Manuel Barroso, che dal 2004 al 2014 è stato presidente della Commissione europea, oggi è più che lieto di accettare l’offerta di lavoro arrivata da Goldman Sachs, di cui diventerà consulente per la gestione della Brexit e presidente non esecutivo della divisione con sede a Londra. Come biasimarlo? I Golia di Wall Street pagano meglio dei contribuenti.

Eppure, il caso ha suscitato un tale clamore che la settimana scorsa più di cinquanta deputati europei hanno sottoscritto una lettera indirizzata al mediatore europeo Emily O’Reilly per contestare la nomina accettata dal portoghese. “Considerando il ruolo centrale della Commissione nel gestire le conseguenze della crisi economica e finanziaria a livello europeo - si legge nel testo - chiediamo al Mediatore europeo di valutare se la nomina dell’ex Presidente della Commissione europea José Manuel Barroso a Presidente non esecutivo della Goldman Sachs International possa rappresentare una violazione del dovere di onestà e discrezione”.

In realtà, O’Reilly si era già espressa sulla questione il 12 luglio, chiedendo alla Commissione europea di rivedere il codice di condotta per specificare come debbano comportarsi gli ex commissari e introdurre delle sanzioni per chi viola le norme.

Ma non è finita: “Allo stesso tempo - prosegue la lettera - chiediamo di valutare se la risposta data dall’attuale Commissione a tale nomina possa costituire una violazione dell’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni)”. Fin a questo momento, infatti, l’Esecutivo comunitario (che insieme al Consiglio Ue è l’unica istituzione ad avere il potere di revocare la pensione europea a Barroso) si è limitato a prendere atto della scelta del portoghese. E l’attuale presidente ha detto, per bocca del suo portavoce, che non intende “né commentare, né dare giudizi”.

A Parigi, però, non la pensano allo stesso modo: “Barroso fa il gioco degli anti-europeisti - ha accusato il sottosegretario francese agli affari europei, Harlem Desir - lo invito solennemente a rinunciare a questo incarico, particolarmente scandaloso tenuto conto del ruolo avuto da questa banca nella crisi finanziaria del 2008, ma anche con riferimento ai conti truccati dei bilanci pubblici della Grecia. Moralmente, politicamente e deontologicamente sarebbe un errore da parte di Barroso, il peggiore servizio che un ex presidente di un’istituzione europea potrebbe rendere al progetto europeo, in un momento storico in cui, al contrario, esso ha bisogno di essere sostenuto, affiancato e rafforzato”.

Per essere più incisivo di O’Reilly, Desir ha chiesto esplicitamente a Bruxelles d’inasprire il codice di comportamento, in base al quale oggi gli ex commissari devono ottenere da Bruxelles un’autorizzazione per lavorare in gruppi privati nei 18 mesi successivi alla fine del loro mandato: “È necessario allungare la durata del divieto - ha tuonato il francese - ampliare le incompatibilità e rafforzare i controlli”.

Insomma, le reazioni di sdegno non sono mancate, ma in realtà il tuffo carpiato di Barroso non ha lasciato nessuno a bocca aperta. Gli incesti fra politica e finanza sono più comuni dei cavoletti a Bruxelles. Un’abitudine. D’altra parte, alzare le spalle e pensare “così va il mondo” è da sudditi rassegnati, ma anche dare giudizi morali risulta facile quanto inutile. Potrebbe forse essere più produttivo affrontare la questione delle porte girevoli in termini di credibilità.

Il ragionamento è semplice, lineare. Se per 10 anni sei stato a capo dell’istituzione che aveva il compito di far rispettare le regole, ma poi ti sposti in una banca che ha avuto un ruolo centrale nel causare la crisi del 2008 con la truffa dei subprime, fai nascere dei seri dubbi sul modo in cui hai svolto il tuo primo incarico. “Chissà con quale integrità e trasparenza avrà guidato la Commissione?”, ad esempio. Oppure: “Dopo lo scoppio della crisi, quanti sforzi avrà compiuto Barroso per aumentare i controlli sul sistema finanziario, riducendo i margini di manovra delle banche nell’interesse della giustizia sociale?”. Ecco, l’assunzione in Goldman Sachs suggerisce risposte abbastanza chiare.

Ma l’aspetto ancora più grave è che il triplo axel di Barroso getta discredito anche sull’istituzione che ha rappresentato, peraltro in uno dei momenti di massima impopolarità che l’Ue abbia mai conosciuto. Ne riduce ulteriormente la credibilità, appunto, mettendo a rischio la già scarsa fiducia di cui gli organismi comunitari ancora godono. Certo, non è che dopo di lui sia iniziata una festa: il successore di Barroso alla guida della Commissione è pur sempre Jean Claude Juncker, ex primo ministro del Lussemburgo negli anni in cui il suo Paese stringeva accordi fiscali segreti con centinaia di aziende europee. Chissà quale contratto stanno preparando per lui.

di Carlo Musilli

Due mostri si aggirano per il sistema finanziario europeo: gli Npl (non performing loans) e i derivati. I primi, meglio noti come crediti deteriorati, sono attività in cui i debitori non riescono più a ripagare i creditori (oggi rappresentano il principale problema delle banche italiane). I secondi, molto diffusi in nord Europa, sono essenzialmente rischi: a ogni titolo corrisponde un sottostante che, a seconda della struttura del derivato stesso, produrrà un guadagno o una perdita.

Npl e derivati sono perciò questioni molto diverse, eppure sono già aperte le scommesse su quale delle due sarà all’origine della prossima crisi finanziaria. L’Economist, come sempre, punta il dito contro le banche italiane, mentre il Fondo Monetario Internazionale ha scritto in un recente report sugli istituti tedeschi che Deutsche Bank è “una delle banche importanti a livello globale che più di tutte contribuisce ai rischi sistemici, seguita da Hsbc e da Credit Suisse”.

Ma andiamo con ordine, partendo dalla malattia degli Npl. Il nostro Paese è il primo in Europa per la mole dei crediti deteriorati, che dal 2008 a oggi è lievitata arrivando a circa 360 miliardi di euro. Secondo la European Banking Authority, per gli istituti italiani la percentuale di mancato recupero sul totale dei crediti è del 16,7%. La media europea è pari al 5,8%, mentre lo stesso dato relativo alle banche tedesche è al 3,1%, ma soltanto perché in Germania l'intervento statale sugli Npl è avvenuto già nelle prime fasi della crisi finanziaria (2009-2010), molto prima che l’Europa varasse le regole severe del bail-in. Le nuove norme, infatti, proibiscono gli aiuti di Stato e impongono il salvataggio delle banche dall’interno, ovvero con il contributo degli azionisti, degli obbligazionisti e in alcuni casi anche dei correntisti con depositi superiori ai 100mila euro.

In questo contesto, la gravità della situazione italiana è stata rilevata dalla Bce con l’ultima tornata di stress test, che peraltro saranno ripetuti a fine luglio e potrebbero rivelare nuovi buchi di bilancio cui far fronte. Le strade percorribili sono due: aumentare il patrimonio delle banche o ridurre l’ammontare dei crediti deteriorati. Il governo Renzi - appoggiato da Bankitalia, Abi, Confindustria e dallo stesso Fmi - vorrebbe agire su entrambi i fronti utilizzando soldi pubblici e, per riuscirci, punta a ottenere una deroga al bail in.

Ma attenzione: non è richiesto alcun cambiamento delle regole. L’articolo 45 della comunicazione sugli aiuti di stato alle banche, pur confermando la necessità di un contributo degli azionisti e degli obbligazionisti, prevede che si possa intervenire con soldi pubblici nel caso in cui l’applicazione pedissequa del bail-in metta a rischio la stabilità del sistema finanziario. Il governo italiano si appella a questo principio in primo luogo per salvare il Monte dei Paschi di Siena e la Commissione Ue sembra propensa a trovare un compromesso esentando dal contributo gli investitori non istituzionali (ma non quelli istituzionali, tra i quali vi sono le banche stesse).

Stavolta in gioco non c’è una qualche banchetta di provincia, ma il terzo istituto di credito italiano. Matteo Renzi sa benissimo che non può permettersi di lasciare che a pagare per la mala gestione di Mps siano investitori retail e risparmiatori, perché le ripercussioni sarebbero pesantissime a livello tanto finanziario quanto politico. Un disastro del genere nel cuore della sua Toscana, peraltro in una Banca la cui storia recente è legata a filo doppio al Partito Democratico, e con il referendum costituzionale alle porte? No, è decisamente una prospettiva inaccettabile per il Premier.

Ecco perché si sta pensando a un piano in almeno due fasi. L’obiettivo primario è alleggerire il peso dei crediti deteriorati che gravano sul Monte, pari a 47 miliardi di euro. Una parte di questi Npl potrebbero essere ceduti a un nuovo fondo (Giasone?) capitalizzato con 5-6 miliardi da Atlante (che ha ancora 1,7 miliardi a disposizione), insieme alla Sga (bad bank dell'ex Banco di Napoli) e alla Cassa depositi e prestiti, oltre che alle altre banche e casse previdenziali che volessero entrare nella partita. A quel punto scatterà la fase due: poiché la cessione degli Npl dovrà avvenire a prezzi scontati, nel bilancio di Mps si apriranno nuove perdite che dovranno essere colmate con un nuovo aumento di capitale. La Banca potrebbe anche emettere bond convertendi garantiti dallo Stato con parte dello scudo da 150 miliardi che Bruxelles ha recentemente approvato.

Insomma, la posta in gioco è altissima, eppure Renzi afferma che nel panorama del credito europeo “non c'è un problema italiano”: la vera fonte di preoccupazione, semmai, sono “i derivati della banche tedesche”.

Su questo secondo fronte la posizione degli istituti italiani è molto diversa. Secondo uno studio pubblicato la settimana scorsa dalla Cgia di Mestre sulla base di dati Eba relativi allo scorso marzo, le banche di Finlandia, Regno Unito e Germania hanno più del 20% del loro attivo in derivati, contro il 12,9% della media europea e il 5,3% di quella italiana. L’analisi, inoltre, stima che l'ammontare dei derivati in capo alle banche tedesche sia di almeno 813 miliardi di euro, contro i 123 di quelle italiane.

“Non è da escludere che i derivati possano rappresentare un rischio sistemico - scrive il centro studi - specie in questa fase di turbolenza dei mercati finanziari; non è forse un caso che nel corso dell'ultimo anno le banche stesse hanno cercato di ridurre l'incidenza di questi prodotti nei loro bilanci”.

A livello europeo, in effetti, prevale la tendenza a ridimensionare il peso di questi prodotti, tanto che tra il marzo del 2015 e il marzo del 2016 l’incidenza dei derivati sull'attivo delle banche è scesa dal 15,2% al 12,9%. Un calo importante, ma ancora non sufficiente.


di Carlo Musilli

Prima la bocciatura dalla Federal Reserve, poi l’anatema del Fondo monetario, che l’ha definita una delle principali fonti di “rischi sistemici” per il sistema finanziario globale. È un doppio colpo quello che la settimana scorsa si è abbattuto su Deutsche Bank, provocando una nuova ondata di vendite sul titolo in Borsa. La tegola numero uno è arrivata dalla Fed.

La Banca centrale americana ha fatto sapere che per il secondo anno di fila la controllata statunitense del colosso tedesco non ha superato gli stress test, la cosiddetta “Comprehensive Capital Analysis and Review”. Insieme alla divisione Usa di Santander (alla terza bocciatura consecutiva, un record), la costola di Deutsche è stata criticata per “una generale debolezza sostanziale” nei piani sui capitali e per aver compiuto scarsi progressi rispetto ai test del marzo 2015.

Poche ore dopo è caduta la tegola numero due, molto più pesante. L’Fmi ha scritto che Deutsche è “una delle banche importanti a livello globale che più di tutte contribuisce ai rischi sistemici, seguita da Hsbc e da Credit Suisse”. Il Fondo sottolinea che “la rilevanza di Deutsche Bank aumenta la necessità di saper gestire i rischi; occorre inoltre monitorare attentamente l’esposizione transfrontaliera, così come la capacità delle banche di rilevanza sistemica di elaborare nuove procedure di risoluzione”.

Il contraccolpo sui mercati non si è fatto attendere, ed è stato violento. Giovedì alla Borsa di Francoforte le azioni della Banca sono scese fino a 12,05 euro, il minimo degli ultimi trent’anni, per risalire a quota 12,53 alla chiusura di venerdì. Secondo il Financial Times, dopo Brexit i fondi di George Soros e Marshall Wace, uno dei più importanti hedge fund della City, hanno scommesso milioni su un’ulteriore caduta del titolo Deutsche, che la settimana scorsa ha perso un quinto del proprio valore e nell’ultimo anno è crollato addirittura del 55%.

Gli allarmi di Fed e Fmi, perciò, non sono arrivati a ciel sereno. Lo scorso anno Deutsche Bank ha registrato una perdita di 6,8 miliardi di euro e in questi mesi il nuovo amministratore delegato John Cryan ha avviato una profonda ristrutturazione dell’istituto. In un’intervista pubblicata sabato sullo Spiegel, il manager ha assicurato che non ci sarà bisogno di un aumento di capitale.

L’impegno principale è un altro: chiudere entro quest’anno il maggior numero possibile di contenziosi, che incidono pesantemente sui conti dell’istituto. Deutsche, infatti, vanta un poco onorevole primato: è il gruppo bancario che ha pagato di più fra multe e accordi stragiudiziali (oltre 12 miliardi solo negli ultimi tre anni), frutto di una lunghissima serie di scandali che hanno coinvolto l’istituto a varie longitudini (dalla manipolazione del Libor a quella delle valute, dalle operazioni dubbie su oro e argento al sospetto di evasione fiscale, dal riciclaggio all'aggiramento delle sanzioni contro la Russia).

Per quanto riguarda invece l’aspetto esclusivamente finanziario, come sottolinea il Fondo monetario nello studio sulle banche tedesche pubblicato la settimana scorsa, il problema più grave di Deutsche è la vulnerabilità ai bassi tassi d’interesse. La questione, naturalmente, non riguarda la redditività di mutui e prestiti, ma l’esposizione dell’istituto ai derivati tossici, che dopo la crisi finanziaria globale si è ridotta molto meno rispetto a quella degli altri colossi.

Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, l’istituto tedesco è esposto in derivati per 50mila miliardi di dollari, una cifra pari a duemila volte la sua capitalizzazione di mercato e a circa 15 volte il Pil tedesco. La Bri, inoltre, ritiene che soltanto su Deutsche Bank e Morgan Stanley pesi il 20% dell'esposizione globale in derivati.

E all’interno di questa montagna di titoli, le maggiori difficoltà dell’istituto tedesco sono legate ad alcune scommesse sbagliate sui tassi: più questi rimangono a livelli bassi, più le posizioni assunte da Deutsche ne risentono. Non a caso nelle scorse settimane David Folkerts-Landau, capo economista del gruppo, si è scagliato con ferocia contro la politica monetaria della Banca centrale europei, che prevede di mantenere ancora a lungo i tassi a questi livelli. Del resto, nel consiglio direttivo della Bce il più acerrimo nemico di Mario Draghi è da sempre Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e fervente paladino degli interessi di Deutsche Bank.

di Carlo Musilli

Impiccato con una corda d’oro (un privilegio raro). Geordie, protagonista di una famosa ballata britannica, faceva questa fine per aver rubato cervi nel parco del re. A sorpresa, gli elettori del Regno Unito hanno scelto di imitarlo votando in maggioranza per uscire dall’Ue. Nel loro caso, la corda d’oro è stata il referendum del 23 giugno. E ora tutto è a rischio: il Pil in crescita, la sterlina forte, lo Stato sociale solido, la potenza commerciale e il ruolo di principale polo finanziario del continente. I cittadini britannici hanno compromesso tutto questo sedotti dal populismo e dalla disinformazione di massa.

Nessuno ci credeva, ma il fantasma della Brexit si è presentato venerdì all’apertura dei mercati, scatenando il panico. Le Borse europee hanno bruciato 411 miliardi di capitalizzazione: Milano (-12,48%) ha archiviato la seduta peggiore di sempre, con flessioni superiori a quelle seguite all'11 settembre e al crack di Lehman Brothers. Non è andata meglio a Madrid (-12,35%), mentre Francoforte e Parigi hanno perso fra il 6 e l'8%.

La vera sorpresa è stata Londra, che, dopo un avvio molto negativo, ha limitato le perdite al -3,15%, ma grazie a una composizione dell'indice che privilegia le materie prime legate all'oro e i titoli difensivi come i farmaceutici. D’altra parte, le vere difficoltà per la City arriveranno quando le grandi banche mondiali sposteranno attività e posti di lavoro in altre capitali europee, in modo da non perdere il vantaggio di avere il proprio quartier generale continentale in territorio comunitario.

Quanto al mercato del debito, venerdì lo spread Btp-Bund è salito da 132 a 161 punti base, limitando i danni solo grazie alla rete di protezione garantita dalla Banca centrale europea. Sul fronte dei cambi, invece, la sterlina ha toccato i minimi dal 1985 sul dollaro, a 1,3406, per poi risalire a 1,3732, che rappresenta comunque il livello più basso dalla primavera 2009. Rispetto all'euro, la moneta britannica scambia a 0,815, sui valori di giugno 2014.

E adesso che succede? Le conseguenze della Brexit in termini finanziari ed economici si articolano su diversi piani. Al di là della reazione immediata dei mercati, inevitabilmente scomposta, il dato più significativo da tenere in considerazione nel medio periodo è proprio il valore della sterlina. La sua svalutazione, che secondo molti analisti rischia di arrivare fino al 15-20% rispetto ai livelli pre-Brexit, sarà favorevole per le aziende che esportano, ma al contempo spingerà l’inflazione e peserà quindi sui bilanci di famiglie e imprese, che ridurranno consumi e investimenti.

La Banca d’Inghilterra non potrà aiutare su questo fronte: per farlo dovrebbe alzare i tassi d’interesse, invece è prevedibile che sceglierà di tagliarli ulteriormente, azzerandoli, e di far ripartire il quantitative easing per fornire liquidità al sistema e tutelare i livelli di produzione e occupazione. Secondo il ministero del Tesoro britannico, in uno scenario intermedio il prodotto interno lordo potrebbe subire una riduzione del 3,6% nei due anni successivi all’uscita dall’Unione, portando con sé la perdita di 520mila posti di lavoro. L’ipotesi peggiore prevede invece un calo del Pil del 6% e 820mila occupati in meno.

Dal punto di vista del commercio, inoltre, è tutto da dimostrare che il Regno Unito sia in grado di negoziare accordi di maggior favore con i suoi partner, poiché nessuno (nemmeno Usa e Cina) ha interesse a dimostrare che l’addio a Bruxelles sia conveniente.

“Ci aspettiamo un divorzio difficile, lungo e costoso - scrivono gli analisti di Blackrock - con la separazione delle leggi del Regno Unito da quelle dell’Ue e la firma di accordi commerciali con una Ue ‘rigettata’. E riteniamo che le potenziali perdite per le esportazioni di servizi e di flussi d'investimento saranno di gran lunga superiori ai benefici derivanti dai minori pagamenti all’Unione”. Questo significa che, con l’uscita dall’Ue, le risorse a disposizione dello Stato non aumenteranno affatto: al contrario, diminuiranno, danneggiando anche quello Stato sociale che i sostenitori della Brexit dicono di voler proteggere.

Il quadro generale, perciò, è più che fosco. Senza voler toccare gli aspetti politici (la probabile secessione della Scozia e la possibile riunificazione dell’Irlanda, ad esempio), le sole prospettive economico-finanziarie fanno capire quanto il 23 giugno sia stato un giorno triste per la storia britannica. Intendiamoci: dalla City non usciranno i Cavalieri dell’Apocalisse, ma le conseguenze della Brexit si faranno sentire a ogni longitudine e i cittadini britannici pagheranno il prezzo più salato. Del resto, lo hanno scelto loro. È un privilegio raro.


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