di Carlo Musilli

Il nuovo sport invernale dei mercati europei è il tiro alla banca italiana. Dopo l’ecatombe di lunedì, quando praticamente tutti i titoli degli istituti hanno subito ribassi superiori al 5% a Piazza Affari, ieri l’ondata di vendite ha travolto ancora Monte Paschi (-14,3%), Carige (-11%), Unicredit (-3,4%) e Banco Popolare (-6,3%). Perché mai tanto accanimento?

Non esistono motivazioni plausibili sotto il profilo patrimoniale per giustificare una tempesta di ribassi così improvvisa e generalizzata. E’ vero, i mercati vivono anche - se non soprattutto - di sentimenti irrazionali e reazioni inconsulte, ma quello che è andato in scena a Milano nelle ultime sedute ha i connotati di un attacco speculativo apparecchiato in piena lucidità dai grandi fondi.

Si dice che le vendite a tappeto siano state innescate da una notizia in particolare: l’avvio di una nuova indagine Bce sulle banche italiane per quel che riguarda i cosiddetti crediti deteriorati (non performing loans, in English). Si tratta di tutti quei prestiti la cui riscossione è incerta sia in termini di rispetto delle scadenze sia per l’ammontare dell’esposizione: comprendono sia le sofferenze (che si hanno quando il debitore è insolvente) sia gli incagli (cioè quando il debitore è in difficoltà temporanea).

Proprio le sofferenze sono il tallone d’Achille del sistema bancario italiano. Appena ieri l’Abi ha certificato che la loro somma è tornata a superare i 200 miliardi di euro, pari al 17% del totale dei prestiti concessi dagli istituti di credito. Lo stesso dato in Germania è al 3%, in Francia al 4% e in Spagna al 7%.

Ma basta una verifica della Bce a spiegare il panico che si è scatenato sui mercati? Difficile, se non altro perché il monitoraggio da parte dell’Eurotower era stato annunciato lo scorso 12 gennaio e ieri la stessa Banca Centrale Europea ha ricordato che si tratta di procedure standard. Le ha fatto eco l’Abi, spiegando che “la richiesta rivolta a un campione di banche europee, tra cui anche alcune banche italiane”, rappresenta “un esercizio ordinario di raccolta di informazioni” e dunque “non di un’azione di vigilanza mirata all'adozione di misure specifiche nei confronti di alcune banche”. Anche il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha sottolineato che l'attività “della Bce è una delle solite rassegne che periodicamente avviene: non c'è alcun motivo specifico per le vendite” in Borsa.

Non solo: appena un mese fa tutti i più grandi istituti italiani hanno superato l’indagine Srep (Supervisory review and evaluation process), ovvero i test della Bce su capitale, liquidità, governance e modello di business. In particolare, Mediobanca, Intesa Sanpaolo e la Banca Popolare di Milano si sono piazzate in seconda categoria, mentre la maggioranza si è collocata nella terza fascia (è il caso di Unicredit, Ubi, Bper, Carige e perfino Mps, la più bersagliata a Piazza Affari).

A guardare i dati, perciò, sembra proprio che il problema numero uno delle banche italiane non sia di natura contabile, ma politica. L’impressione è che l’Europa utilizzi gli istituti di credito come strumenti per distribuire ricompense e punizioni a figli e figliastri. Lo dimostra, ad esempio, l’incredibile disparità di trattamento in tema di salvataggi.

Il 19 ottobre scorso Bruxelles ha approvato il piano per evitare il crack della tedesca HSH Nordbank, che prevedeva aiuti di Stato. Nemmeno due mesi dopo, però, ha proibito all’Italia di usare il Fondo Interbancario (finanziato dagli istituti, non dai contribuenti) per salvare Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti. Non solo: la Commissione Ue ha minacciato di aprire una procedura d’infrazione contro il nostro Paese per aiuti di Stato e ha di fatto costretto il Governo e Bankitalia ad attivare la risoluzione che ha causato le ormai note perdite ai risparmiatori titolari di bond subordinati delle banche.

Un’altra vicenda da ricollegare all’alta tensione fra Roma e Bruxelles è lo psicodramma legato alla bad bank di sistema, la società di matrice pubblica che il governo Renzi vorrebbe creare per gestire, ristrutturare e rivendere i crediti deteriorati delle banche italiane. Ad altri Paesi europei, come la Spagna, è stato concesso di utilizzare questo strumento: l’Italia, invece, è in trattative ormai da mesi e non riesce a superare il no della commissaria Margrethe Verstagen, dietro cui c’è la secca opposizione tedesca.

In questa partita, il bail in poteva essere una moneta di scambio efficace. Il nostro Paese avrebbe potuto forse chiedere il via libera alla bad bank in cambio dell’approvazione in Parlamento delle nuove norme sui salvataggi bancari dall’interno (che prevedono il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e depositi superiori ai 100mila euro). Invece Camera e Senato hanno trasformato il bail in legge senza battere ciglio e solo dopo al Governo è venuto in mente di scagliarsi contro l’eurocrazia opprimente dei burocrati. Lancia in resta, ma senza niente in mano.

di Carlo Musilli

Dopo nove anni di congelamento, a Teheran inizia il disgelo. Unione europea, Stati Uniti e Onu hanno revocato le sanzioni contro l’Iran, che torna così ad avere un ruolo di peso sulla scena economica e politica mondiale. La decisione è arrivata dopo che l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) ha dato il via libera all'applicazione degli accordi di Vienna, certificando che le autorità iraniane hanno rispettato gli impegni sul nucleare sottoscritti lo scorso 14 luglio con sei potenze (i cinque membri del Consiglio di Sicurezza Onu - Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina - più la Germania). Rimangono in vigore solo le sanzioni Usa legate alla sperimentazione dei missili balistici e al rispetto dei diritti umani.

L’accordo sul nucleare iraniano prevede che Teheran fornisca garanzie sul fatto che non si doterà dell’arma atomica. L’Occidente, in cambio, revocherà gradualmente le sanzioni adottate a partire dal 2006, tra cui il congelamento dei beni di individui e società collegate al programma di arricchimento.

Dal 2013, a causa degli embarghi internazionali, l’Iran ha perso qualcosa come 5 miliardi di dollari al mese. A fronte di una popolazione di oltre 77 milioni di persone, sotto le sanzioni il Pil del Paese ammontava a poco più di 400 miliardi di dollari (per avere un termine di paragone, basti pensare che l’Italia ha circa 60 milioni di abitanti e un Pil da 2.150 miliardi). A questo punto, perciò, davanti a Teheran si spalancano le porte della crescita, che naturalmente passerà per la ripresa delle esportazioni di petrolio e gas naturale, di cui l’Iran detiene rispettivamente il 9,3% e il 18,2% delle riserve mondiali.

Dal greggio, Teheran ricava già l’80% del proprio export e a breve conta di poter esportare mezzo milione di barili in più ogni giorno. Il problema è che dovrà reinserirsi in un mercato dominato da sovrapproduzione e prezzi bassissimi.  La prima responsabile di questo scenario è l’Arabia Saudita - nemica dell’Iran a livello economico, politico e religioso -, che ha interesse a tenere il barile a prezzi stracciati per danneggiare i principali concorrenti (su tutti i produttori americani di shale oil) e conquistare così quote di mercato a livello globale.

L’egemonia di Riyadh sullo scacchiere del petrolio è però fortemente minacciata dal ritorno sulla scena di Teheran (non a caso ieri l'indice Tasi della Borsa saudita, che è aperta la domenica, ha chiuso in calo del 5,44%, scivolando ai minimi dal marzo 2011). Per questa ragione, oltre che per la contesa in Iraq e in Siria, dove l’Iran è alleato di Assad e di Putin, nelle ultime settimane la tensione fra i due Paesi è salita alle stelle. L’Arabia di re Salman - fondamentalista sunnita - ha dato inizio all’escalation con l’esecuzione dell’Imam sciita Nimr al-Nimr, cui hanno fatto seguito l’assalto all’ambasciata saudita nella capitale iraniana e la decisione di Riyadh d’interrompere le relazioni diplomatiche con il Paese rivale.

L’Arabia non è però riuscita a mettere in discussione l’applicazione degli accordi di Vienna e a questo punto è prevedibile che continuerà ancora a lungo la battaglia sul prezzo del barile, nel tentativo sempre più affannoso di rimanere il dominus internazionale del petrolio. L’Iran, dal canto suo, punta a indirizzare nel più breve tempo possibile il proprio greggio verso i mercati asiatici (in particolare India e Cina, visto che Giappone e Corea del Sud già compravano petrolio iraniano, con gli Stati Uniti che chiudevano un occhio). Secondo alcuni osservatori internazionali, 13 super petroliere sarebbero già pronte a partire.

L’eccesso di petrolio sul mercato, perciò, aumenterà ancora invece di ridursi e ciò avrà conseguenze di varia natura per l’Europa. Da una parte, il prezzo dei carburanti sempre più basso rallenterà ancora l’inflazione, riducendo l’efficacia delle misure monetarie espansive varate dalla Bce. Dall’altra, molte aziende che hanno già incrementato i propri guadagni grazie al minor costo dell’energia beneficeranno del ritorno sulla scena dell’Iran anche perché - una volta ritirate tutte le sanzioni - Teheran ha le carte in regola per diventare il più grande mercato del Medio Oriente per l’export occidentale.

La settimana scorsa il ministro dei Trasporti iraniano ha annunciato l’intenzione di comprare 114 aerei Airbus, mentre il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha tolto il bando per l’export verso l’Iran di aerei civili. Quanto all’Italia, la Sace, società che si occupa di assicurare le operazioni di export delle nostre aziende, stima che la fine delle sanzioni contro l’Iran potrebbe portare a un incremento dell’export italiano nel Paese fino a tre miliardi di euro nei prossimi quattro anni. Con l’eccezione dell’Arabia Saudita, perciò, il disgelo di Teheran conviene a tutti.

di Carlo Musilli

Il 2016 delle Borse è iniziato nel segno della Cina e del petrolio. Dopo un avvio di settimana da incubo, ieri i mercati europei hanno limitato i danni nel finale: Piazza Affari, che per quasi tutta la giornata aveva perso più del 2%, è riuscita poi a dimezzare il rosso, chiudendo in calo dell’1,14%. E’ andata peggio a Francoforte (-2,29%), Londra (-2,05%) e Parigi (-1,7%), ma anche in questo caso si tratta di cali inferiori a quelli registrati per gran parte della seduta.

Il salvagente è arrivato dalle autorità cinesi, che hanno deciso di sospendere da venerdì sera il blocco automatico delle contrattazioni in caso di rialzi o ribassi eccessivi. Il meccanismo, entrato in funzione proprio questa settimana, avrebbe dovuto ridurre la volatilità, ma ha provocato l’effetto opposto.

Lunedì gli scambi sono stati interrotti alle 13 e 28 locali perché la Borsa di Shanghai (dopo alcuni dati deludenti relativi alla manifattura) è arrivata a perdere più del 7%. Il tonfo ha portato con sé tutta l’Europa, che ha festeggiato il nuovo anno con un classico black monday (Francoforte -4,2%, Milano -3,2%, Parigi -2,4% e Londra -2,39%).

Il blocco per eccesso di ribasso della Borsa di Shanghai è scattato nuovamente giovedì, ad appena 14 minuti dall’avvio della seduta. Stavolta a preoccupare gli investitori è stata la nuova svalutazione dello yuan da parte di Pechino, una mossa che agli occhi dei mercati ha confermato un sospetto diffuso ormai da tempo, ovvero che il rallentamento dell’economia cinese sia in realtà più grave di quanto segnalato dai già fiacchi dati ufficiali.

L’altra anomalia che aggrava il clima di pessimismo riguarda il prezzo del petrolio, sempre più basso. Solo due anni fa un barile di greggio costava più di 100 dollari, mentre oggi siamo sotto i 35 e la tendenza al ribasso continua. Il crollo prolungato si spiega con il combinato composto di due fattori: da una parte il rallentamento della congiuntura (ieri la World Bank ha tagliato ancora le previsioni sulla crescita del Pil mondiale nel 2016), che fa prevedere un ulteriore indebolimento della domanda globale; dall’altra la politica dell’Opec, decisa a non tagliare la produzione malgrado il calo delle richieste.

A guidare il cartello dei Paesi produttori di petrolio è l’Arabia Saudita, che ha scelto di ridurre gli introiti legati al greggio (danneggiando, e non poco, i propri conti pubblici) pur di mantenere i prezzi a livelli minimi. Questa strategia ha il chiaro obiettivo di conquistare quote di mercato a danno dei concorrenti, fra cui le compagnie statunitensi di shale oil, che ricavano l’oro nero in patria con la tecnica della fratturazione della roccia. Le quotazioni internazionali a questi livelli, infatti, rendono economicamente insostenibile la produzione tramite fracking (come quella di energia da fonti rinnovabili). 

In questo modo, i sauditi difendono il proprio ruolo di dominus sul mercato globale del greggio - l’Arabia è il primo produttore al mondo con 10,15 milioni di barili al giorno - e al tempo stesso conservano un margine di controllo sul più importante dei loro alleati, gli Stati Uniti. Finché Washington dipenderà dal petrolio saudita, è prevedibile che non farà mancare supporto politico a Riyadh.

Negli ultimi giorni, però, questo scenario è diventato più incerto per il riaccendersi delle tensioni fra Arabia Saudita e Iran. L’escalation è iniziata il 2 gennaio, quando il regime sunnita ha giustiziato (insieme ad altre 46 persone) il leader sciita Nimr al-Nimr. In seguito sono arrivati l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran, la rottura dei rapporti diplomatici fra i due Pasi e varie altre manifestazioni di ostilità, di reazione in reazione. 

Riyadh ha innescato tutto questo in risposta all’intesa dello scorso luglio sul nucleare iraniano. L’accordo è inviso ai sauditi perché prevede la graduale cancellazione delle sanzioni contro Teheran, che quindi con il tempo tornerà sulla scena internazionale come interlocutore politico e come produttore di petrolio, minacciando la leadership araba sul mercato del greggio e ostacolando il progetto di espansione politica e religiosa del regime sunnita nella zona del Golfo e del Medio Oriente. In un contesto simile, c’è il rischio che la guerra sul prezzo del petrolio sfugga di mano agli stessi sauditi.

di Carlo Musilli

Entro i prossimi 18 mesi si terrà in Svizzera un referendum potenzialmente rivoluzionario per il destino delle banche. La conferma è arrivata lunedì scorso, quando il Governo federale ha certificato la raccolta delle 100mila firme necessarie a indire la consultazione. L’obiettivo dei promotori è consentire soltanto all’istituto centrale di creare moneta.

L’iniziativa è nota come “Moneta intera”, espressione che fa riferimento al denaro emesso direttamente dalla Banca nazionale. Questi soldi rappresentano soltanto il 10% dei mezzi di pagamento che circolano in Svizzera, mentre il restante 90% è denaro elettronico che gli istituti creano ogni volta che aprono una linea di credito.

Secondo il “Movimento svizzero per la moneta sovrana”, che ha promosso il referendum, quando le banche private creano moneta vìolano la Costituzione federale. Al primo comma dell’articolo 99, infatti, la Carta parla chiaro: “Il settore monetario compete alla Confederazione; essa soltanto ha il diritto di battere moneta e di emettere banconote”.

Lo scopo della Moneta intera è proprio far rispettare questa regola, ovviamente permettendo alla Banca centrale di emettere anche moneta elettronica, perché è impensabile tornare a un sistema in cui tutti i soldi in circolazione siano banconote fruscianti o monetine metalliche.

Se il referendum avrà esito positivo, “le banche non potranno più creare denaro per conto proprio - spiega il Movimento - ma solo prestare il denaro che hanno ricevuto a disposizione dai risparmiatori, dalle altre banche o, quando necessario, dalla Banca nazionale. Le banche non avranno più un indebito vantaggio nei confronti degli altri attori del mercato, perché non potranno più creare denaro loro stesse”.

Se e quando sarà introdotta la “Moneta intera”, quindi, “su tutti i conti che servono al traffico dei pagamenti - continua il Movimento - si troverà solo denaro elettronico garantito dalla Banca nazionale. La banca dovrà gestire questi conti come dei depositi titoli. Il denaro apparterrà al titolare del conto e non andrà perso in caso di fallimento della banca, ma non saranno pagati interessi. Chi preferisse ricevere interessi anziché avere denaro sicuro potrà, com’è stato fino ad ora, affidare il proprio denaro alla banca tramite un conto risparmio o altre forme d’investimento”.

In sintesi, con la “Moneta intera” le banche private potrebbero effettuare prestiti per un ammontare non superiore a quello dei depositi di cui dispongono. In questo modo - secondo i promotori del referendum - si limiterebbe drasticamente il margine di speculazione degli istituti, impedendo la creazione di bolle alimentate da flussi eccessivi di credito. I risparmiatori sarebbero così protetti dalle operazioni spericolate, quando non fraudolente, realizzate da molte banche negli ultimi anni.

L’obiettivo è nobile, ma la strada proposta dal Movimento nasconde gravi pericoli. Appare evidente che fra le conseguenze della Moneta intera rientrerebbe anche una feroce stretta creditizia, visto che gli istituti non potrebbero prestare più di quello che hanno in cassa. La liquidità in circolazione crollerebbe di colpo, aumentando i costi di rifinanziamento delle banche e di conseguenza anche quelli di famiglie e imprese.

Senza contare l’ennesima ricaduta sull’inflazione, che alla fine calerebbe ulteriormente per effetto della minore liquidità in circolazione e del calo dei prestiti. Può sembrare una conseguenza positiva, ma non lo è: un’inflazione eccessiva è certamente dannosa (in primo luogo perché erode il potere d’acquisto), ma la sua assenza lo è altrettanto, perché scoraggia investimenti, credito e consumi, condannando il sistema economico all’immobilità e allontanando le prospettive di ripresa. E’ esattamente questo uno dei principali motivi di difficoltà dell’economia europea: la mancata risposta a un evidente bisogno d’inflazione per riaccendere i consumi interni.

Nel suo impianto generale, perciò, la riforma proposta dal referendum svizzero appare come un eccesso di reazione allo strapotere delle banche. Ciò che andrebbe colpito è l’esercizio abusivo della leva finanziaria da parte degli istituti di credito, a cui bisognerebbe impedire di usare i soldi dei risparmiatori per investire sul mercato azionario e soprattutto per speculare su prodotti derivati ad alto rendimento e altissimo rischio.

In questo modo i clienti sarebbero tutelati dalla spregiudicatezza delle loro banche. Il progetto che sta prendendo piede in Svizzera, al contrario, si risolverebbe in una misura recessiva, perché affonderebbe il credito al consumo invece di stimolarlo. Certo, le banche ne uscirebbero danneggiate, ma insieme a loro anche il resto del sistema economico.

di Carlo Musilli

Mentre l’Europa arranca per far rispettare la regola del 3%, una delle principali economie del pianeta fa decollare volontariamente il proprio deficit. E’ l’Arabia Saudita, che si appresta a chiudere il 2015 con un disavanzo di circa 130 miliardi di dollari, pari a 118 miliardi di euro (più di tre volte l’ultima legge di Stabilità italiana). Per Riyadh si tratta del terzo bilancio consecutivo in rosso, ma i conti di quest’anno destano particolare attenzione, visto che nel 2014 il deficit non era andato oltre i 17,5 miliardi di dollari (15,9 miliardi di euro).

A determinare questa situazione è stata la scelta di mantenere un elevato livello di spesa pubblica malgrado il petrolio - che oggi assicura il 90% delle entrate del Paese - continui a perdere valore.

Tuttavia, l’Arabia Saudita non deve adattare le proprie politiche economiche all’andamento capriccioso delle materie prime: in quanto capofila dell’Opec, è stata proprio Riyadh ad abbattere le quotazioni del greggio, inducendo il cartello fra i Paesi esportatori di petrolio a non tagliare la produzione nonostante il calo della domanda globale. Una politica che ha fatto crollare il prezzo del barile di oltre il 60% dall’agosto del 2014.

A ben vedere, perciò, il maxi deficit è un investimento che l’Arabia mette in campo con un obiettivo preciso: danneggiare i Paesi produttori estranei all’Opec, colpendo direttamente i concorrenti più pericolosi (Usa e Canada) e i principali alleati della Siria di Assad (Russia e Iran). In particolare, il primo concorrente da mettere fuori gioco è lo shale oil americano. Con il crollo delle quotazioni sui mercati internazionali, Riyadh punta a ridurre la convenienza economica del fracking, la tecnica di estrazione di petrolio e gas tramite la fratturazione della roccia che ha permesso agli Usa di ridurre la dipendenza dall’energia estera.

Secondo Bernstein Research, un terzo della produzione di shale non sarebbe conveniente con il prezzo del Wti sotto gli 80 dollari al barile, mentre Morgan Stanley stima che il punto di pareggio sia a circa 77 dollari al barile. Goldman Sachs e Credit Suisse, invece, ritengono che per i grandi giacimenti i profitti siano assicurati anche con il prezzo sotto i 60 dollari. Ormai però le quotazioni sono cadute a picco oltre ogni immaginazione e il Wti viaggia sui 36-37 dollari al barile.

D'altra parte, agli Stati Uniti non dispiacciono gli altri obiettivi del piano saudita, a cominciare dagli effetti sull'Iran: più scende il prezzo del petrolio e meno conveniente diventa il programma nucleare di Teheran, che è stato concepito anche per conservare petrolio e gas da vendere sui mercati internazionali. Dal punto di vista degli Usa, però, la conseguenza più importante del crollo petrolifero è il colpo inferto alla Russia, nemica anche dei sauditi in quanto alleata del regime di Damasco ed esportatrice di energia in Europa.

Insieme alle rinnovate sanzioni economiche per la crisi ucraina e al rallentamento generale dell'economia, il calo del greggio ha affossato il rublo, che ieri è crollato al livello più basso da oltre un anno contro il dollaro. Le Autorità russe hanno recentemente affermato che il Paese è tecnicamente uscito dalla recessione, ma la nuova caduta del petrolio ha rimesso in discussione lo scenario: la Banca centrale prevede che se il barile restasse ai livelli attuali nel 2016, il Pil potrebbe scendere di oltre il 2% dopo il -3,7% di quest’anno.

Quanto alle previsioni sull’andamento del petrolio, secondo un report pubblicato la settimana scorsa da Goldman Sachs, l’eccesso di offerta è destinato a durare fino alla seconda metà del 2016 e il prezzo del greggio potrebbe scendere addirittura a 20 dollari il barile prima che domanda e offerta tornino a una situazione di sostanziale pareggio.

L’Opec, invece, prima di Natale ha pubblicato nuove stime in cui parla di prezzi in rialzo nei prossimi cinque anni: secondo quanto si legge nel rapporto, la quotazione del greggio raggiungerà il target di 70 dollari al barile entro il 2020, per poi impennarsi a 95 dollari al barile nel 2040. Si tratta però di numeri da prendere con molta cautela, visto che mai come oggi è evidente quanto l’andamento del petrolio sia del tutto estraneo alla logica del libero mercato.

Al di là dei calcoli tecnici e per quanto la domanda possa salire in futuro, è evidente che il prezzo del greggio resterà basso (o bassissimo) finché l’Arabia Saudita riterrà che la politica di sovrapproduzione sia per lei vantaggiosa sullo scacchiere globale.

Al momento, il deficit alto è un prezzo che Riyadh paga volentieri e senza sforzo, visto che, per finanziare il nuovo disavanzo, 80 miliardi di dollari arrivano da riserve valutarie e altri 20 da bond immessi sul mercato. Alla luce di tutto ciò, il debito pubblico è atteso al 5,8% del Pil quest'anno, contro il 2% dell'anno scorso. E, considerato il quadro generale, non è un conto troppo salato.


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