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di Carlo Musilli
Metti insieme il regno delle class action, gli Stati Uniti, e i prodotti finanziari più redditizi e oscuri, i derivati. Il risultato è un’azione legale (l’ennesima) contro le 10 banche più potenti del pianeta: Goldman Sachs, JPMorgan Chase, Citigroup, Bank of America, Merrill Lynch, Barclays, Credit Suisse, BNP Paribas, Deutsche Bank, UBS e Royal Bank of Scotland.
La settimana scorsa questo dream team della finanza mondiale è finito sotto accusa per aver creato un cartello che, “almeno dal 2007”, avrebbe impedito l’ingresso d’intermediari non bancari sul mercato degli “interest rate swap”, un tipo particolare di derivati.
A presentare l’azione giudiziaria sono stati il Public School Teachers’ Pension e il Retirement Fund of Chicago, due fondi pensione che sostengono di aver pagato più del dovuto i contratti di swap a causa delle limitazioni alla concorrenza generate dal presunto cartello.
Insieme alle banche, sono state citate in giudizio davanti alla Corte distrettuale di Manhattan anche due piattaforme di scambio degli swap: Icap e Tradeweb. Quest'ultima è controllata al 40% dall'agenzia di stampa anglo-canadese Thomson Reuters, che però non è stata accusata di alcun illecito.
Il caso ha suscitato grande clamore non solo per i nomi degli istituti coinvolti, ma anche per il peso nel sistema finanziario globale degli “interest rate swap”. Con questa espressione si fa riferimento ai contratti swap più diffusi, attraverso i quali due parti si scambiano - per un periodo di tempo prestabilito - pagamenti calcolati sulla base di tassi d’interesse differenti e predefiniti, applicati a una somma di riferimento. In sostanza, non c'è scambio di capitali, ma solo di flussi corrispondenti al differenziale fra i due tassi d’interesse (di solito uno fisso e uno variabile).
Il mercato degli “interest rate swap” è ciclopico: vale circa 320mila miliardi di dollari, una cifra difficile da immaginare. Solo per avere un termine di paragone, basti pensare che il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti è pari a circa 16.700 miliardi, venti volte meno del business legato agli Irs.
Insomma, da soli questi derivati costituiscono una larga fetta di quell’attività speculativa che non ha nulla a che vedere con l’economia reale e che garantisce ai colossi di Wall Street la massima parte dei loro guadagni. E’ come una gigantesca nube finanziaria che sovrasta la realtà produttiva senza più bisogno d’intrattenere con essa alcun rapporto.
Proprio dalla folle compravendita di derivati (tossici) è iniziata la crisi del 2007, che, nata negli Usa, ha poi attraversato l’Atlantico per trasformarsi a poco a poco nella crisi dei debiti sovrani europei. All’epoca il peccato originale fu nei “credit default swaps” legati ai mutui subprime, ovvero titoli derivati che funzionavano come assicurazioni sulla fragile vita dei mutui immobiliari più criminali della storia contemporanea. Non più tardi dello scorso settembre si è conclusa negli Stati Uniti un’altra class action che aveva come oggetto proprio i Cds (il cui mercato a fine 2014 valeva 16mila miliardi di dollari). In quel caso erano coinvolte 12 banche - fra cui Goldman Sachs, JP Morgan Chase e Citigroup -, accusate dagli investitori di aver manipolato il mercato dei “credit default swaps” per controllare le informazioni, limitare la concorrenza e manipolare i prezzi.
Alla fine gli istituti, pur senza ammettere alcuna responsabilità, hanno patteggiato, accettando di pagare un risarcimento da 1,87 miliardi di dollari. Una conclusione analoga a quella di molte altre cause intentate contro banche americane per il far west che ancora regna nel mondo dei derivati.
E alle banche non potrebbe andare meglio di così: per quanto costoso, il patteggiamento chiude la causa particolare senza mettere in discussione il sistema generale. Non sarà perciò una grande sorpresa se anche la class action aperta la settimana scorsa si chiuderà in questo modo. In fondo, non è bastata una crisi globale per regolamentare il mercato in cui si fanno soldi dai soldi.
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di Carlo Musilli
Di fronte al terrorismo, l'Europa riesce finalmente a mettere nel cassetto il vangelo secondo Maastricht. Dopo i fatti di Parigi, il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha ammesso che la Francia "deve affrontare dei costi supplementari" per la sicurezza e queste spese non possono "ricevere lo stesso trattamento delle altre" rispetto al Patto di Stabilità. Un principio che, secondo il premier italiano Matteo Renzi, è "positivo, giusto e sacrosanto", perciò dovrà "valere anche per gli altri Stati: figurarsi se uno sta attento allo 'zero virgola' sulla sicurezza".
L'apertura alla flessibilità in funzione anti-terrorismo è arrivata dopo che Bruxelles aveva già concesso indulgenza contabile sulle spese eccezionali annunciate da François Hollande. A spiegare la presa di posizione politica e ideologica alla base di questa scelta è stato Pierre Moscovici, commissario europeo agli Affari economici nonché ex ministro francese delle Finanze: "Una cosa è chiara nelle circostanze attuali - ha detto - in questo momento terribile la sicurezza dei cittadini in Francia e in Europa è la priorità assoluta e la Commissione Ue lo capisce pienamente".
Com'era ovvio, nessuno ha protestato quando il premier francese Manuel Valls ha fatto sapere che i parametri di budget concordati da Parigi con l'Ue "saranno ampiamente superati" e che l’Europa "dovrà comprendere" tali necessità della Francia e permetterle di utilizzare nuovi fondi per Polizia, Gendarmeria e Intelligence. Per la verità, è ormai da anni che la Francia non rispetta i vincoli di bilancio europei e di solito quando ha bisogno di una deroga non la chiede, semmi la annuncia, e Bruxelles si limita a mettere il timbro in silenzio.
Stavolta però il trattamento di favore riservato a Parigi non ha a che vedere con il potere politico-economico di cui la Francia dispone, ma con la gravità della minaccia terrorista che incombe su tutta l'Europa. Di conseguenza, qualsiasi concessione a Hollande e a Valls in termini di finanza pubblica non varrà più solo per loro, ma dovrà essere estesa a ogni membro dell'Eurozona. In questo modo entra in vigore una nuova regola finora mai enunciata con tanta chiarezza: il patto di Sicurezza vince su quello di Stabilità.
E' chiaro a tutti che si tratta di un principio "giusto e sacrosanto", per dirla con Renzi. La domanda a cui rispondere, semmai, è un'altra: era davvero necessario arrivare a questo punto per capire che il rispetto dei vincoli di bilancio non è il primo obiettivo da perseguire quando in gioco c'è la vita delle persone? In nessun Pese i conti pubblici esplodono se a fine anno il deficit è al 3,2 piuttosto che al 2,9% del Pil. E questo non significa che sia giustificabile o auspicabile una spesa pubblica fuori controllo, ma che in caso di necessità gli Stati hanno il dovere d'intervenire, deficit o non deficit. L'urgenza imposta dal terrorismo è particolarmente evidente e oggi, giustamente, siamo tutti convinti che la tutela della sicurezza fisica dei cittadini sia più importante delle questioni di budget. Quello che si fa più fatica a comprendere è per quale ragione finora l'Europa non abbia dato lo stesso valore alla sicurezza sociale.
Per quanto in lieve diminuzione, lo scorso settembre i disoccupati nell'Eurozona erano ancora 17,3 milioni, pari a un tasso del 10,8%, secondo Eurostat. A ottobre, inoltre, lo stesso istituto di statistica comunitario ha fatto sapere che nel 2014 le persone a rischio povertà o esclusione sociale nell’Unione europea erano 122 milioni, circa il 25% del totale, contro il 23,8% del 2008. In altre parole, solo l'anno scorso un europeo su quattro versava "in condizione di grave deprivazione di beni materiali". Peggio della media l'Italia, dove nel 2014 la quota delle persone a rischio povertà ha raggiunto il 28,1%, in aumento del 2,8% rispetto al 2008.
Purtroppo a Bruxelles questi numeri vengono ancora considerati dei danni collaterali tutto sommato accettabili. O, perlomeno, non sono visti come una motivazione sufficiente per interrompere il culto del vangelo secondo Maastricht.
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di Carlo Musilli
Costerà meno, ma non diventerà né più semplice né più equo. Per ora sono queste le sole certezze sul nuovo canone Rai. La legge di Stabilità arrivata in Parlamento la settimana scorsa prevede che nel 2016 l'importo da pagare calerà da 113,5 a 100 euro e che l'imposta sarà inserita nella bolletta elettrica. I dettagli tecnici sulle modalità di pagamento e sulle sanzioni sono demandati a un decreto del Tesoro che dovrà essere emanato di concerto con il ministero dello Sviluppo economico e con l'Autorità per l'Energia entro i 45 giorni successivi all'approvazione della manovra.
La novità del canone in bolletta dovrebbe abbattere l'evasione: le risorse così recuperate nel biennio 2016-2018 (e in eccesso rispetto ai bilanci di previsione Rai, s'intende) saranno destinate al fondo per la riduzione della pressione fiscale. Il governo, per prudenza, non quantifica il maggiore gettito che prevede d'incassare, ma la somma non deve essere irrisoria, considerando che oggi il tasso di evasione del canone è stimato al 27% (pari a 540 milioni di euro l’anno), il più alto fra quelli di tutte le imposte italiane e di tutti i canoni radiotelevisivi d'Europa. Il pagamento sarà probabilmente diviso in sei rate da 16,66 euro l'una e inizierà con la prima bolletta della luce successiva alla scadenza del pagamento della tassa sulla tv, fissata al 31 gennaio.
L’imposta sarà dovuta solo per la prima casa, partendo dal presupposto che l'esistenza di una fornitura di "energia elettrica nel luogo ove è situata la residenza fa presumere la detenzione o l'utenza di un apparecchio atto o adattabile alla ricezione del servizio pubblico radiotelevisivo". Chi non ha in casa né una televisione né una radio (tablet e smartphone, per ora, sono esclusi dalla norma) potrà richiedere l'esenzione inviando un'autocertificazione all'Agenzia delle entrate. Ciò implica che dall'anno prossimo gli evasori, oltre a dover pagare una sanzione amministrativa (fin qui si è parlato di 500 euro, ma in molti pensano che sarebbe una multa eccessiva), saranno perseguibili anche in sede penale, perché violeranno la legge 445 del 2000 sull'autocertificazione.
Insomma, le novità non sono poche e andranno digerite in breve tempo. La difficoltà tecnica più complicata da superare riguarda l'inserimento del canone nelle bollette, visto che in Italia - dopo la liberalizzazione del 2007 - le società autorizzate a emettere fatture elettriche sono ben 461, si fanno una concorrenza spietata e (giustamente) non hanno alcun interesse a collaborare per diventare esattori dello Stato.
Già l'anno scorso le utility coinvolte mettevano in luce diversi problemi legati a questa innovazione. Innanzitutto, con l’aggiunta del canone aumenterebbero per le imprese gli oneri di gestione e di riscossione, il che potrebbe riflettersi sulle bollette, rischiando di annullare i risparmi prodotti dalla riduzione del canone. Gli utenti, poi, sono liberi di cambiare fornitore anche più volte nel corso di un anno e ciò provocherà verosimilmente un gran caos nella riscossione dell'imposta sulla tv pubblica.
Anche l'equazione bolletta della luce = presenza di una tv o di una radio in casa, per quanto in apparenza ragionevole, rischia di risolversi in uno di quei pasticci che producono fiumi di ricorsi. In gioco ci sarebbe nientemeno che il principio di uguaglianza stabilito dalla Costituzione, visto che i contribuenti in possesso di tv o radio, ma che al contempo non sono intestatari di una bolletta elettrica, risulterebbero esentati.
D'altra parte, al di là dello sconto di 13 euro e 50 centesimi l'anno, gli stessi contribuenti hanno poco di cui rallegrarsi. Le nuove norme in arrivo, infatti, non risolvono nemmeno uno dei problemi strutturali legati al canone, che è sempre stato e continuerà a essere uno tributi più odiati dagli italiani. Almeno per due ragioni. Primo: è slegato dal reddito, perciò contraddice il principio della progressività delle imposte, anch'esso stabilito dalla Costituzione. Secondo: ora che il monopolio è un lontano ricordo e il mercato radiotelevisivo è più che aperto, quello offerto dalla Rai non è più un servizio essenziale e andrebbe pagato solo da chi vuole usufruirne. In altri termini, dovremmo essere liberi di scegliere se versare il canone e guardare la Rai, oppure risparmiare il denaro e ritrovarci con la Rai oscurata. Si può obiettare che il servizio pubblico deve essere sostenuto da tutti perché è concepito nell'interesse della collettività e non delle famiglie Berlusconi (Mediaset Premium) e Murdoch (Sky). In teoria il ragionamento è più che giusto, ma nella pratica conviene far pace con la realtà. Davvero qualcuno crede ancora alla favola del pluralismo garantito dal servizio pubblico?
La Rai è sempre stata il regno della lottizzazione fra i partiti e la riforma della governance varata da questo governo non favorisce affatto l'indipendenza dell'azienda. Al contrario: non solo conferma il dominio della politica sulla Rai, ma accentra addirittura il potere, visto che il nuovo super-amministratore delegato sarà nominato dal Cda su proposta del Tesoro, quindi dell'Esecutivo. Quanti italiani pagherebbero 100 euro l'anno per consentire tutto questo, se potessero scegliere?
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di Michele Paris
Un nuovo rapporto pubblicato recentemente dalla banca Credit Suisse ha delineato l’aggravarsi delle disparità di reddito e di ricchezza nel pianeta, registrando un tristissimo primato. L’1% della popolazione mondiale è cioè giunta nel 2015 a possedere oltre la metà delle ricchezze, mentre il resto dell’umanità - ovvero circa 4,8 miliardi di adulti - si spartisce il resto della torta, peraltro in maniera altrettanto ineguale.
Lo studio riassume i dati raccolti in una piramide che mostra immediatamente le disparità che caratterizzano la suddivisione dei beni disponibili a livello globale, stimati attorno ai 250 mila miliardi di dollari. 3,4 miliardi di adulti posseggono beni non superiori ai 10 mila dollari, un altro miliardo tra i 10 mila e i 100 mila dollari, 349 milioni tra i 100 mila e un milione.
Allo strettissimo vertice della piramide si trova la vera ricchezza, con 34 milioni di persone che detengono più di un milione di dollari. Tra di essi, 29,8 milioni vantano beni tra 1 e 5 milioni di dollari, 2,5 milioni tra 5 e 10 milioni, 1,34 milioni tra 10 e 50 milioni, per poi arrivare alla vera aristocrazia planetaria, quella che decide le sorti di praticamente tutte le popolazioni, vale a dire 123.800 individui con più di 50 milioni di dollari ciascuno.
Poco meno della metà di questi super-ricchi vive negli Stati Uniti, circa un quarto in Europa e il resto quasi tutti in Giappone e in Cina. Lo sbilanciamento nella distribuzione delle ricchezze è dovuto principalmente al capitalismo USA, come conferma il fatto che questo paese ha un numero così elevato di multi-milionari a fronte del 5% della popolazione del pianeta.
Esaminando i numeri proposti dall’istituto bancario svizzero, emerge come il 71% degli adulti che popola il pianeta è costretto a vivere con appena il 3% delle ricchezze complessive, laddove un minuscolo 0,7% controlla beni pari al 45,2% del totale. Ancora, il 10% della popolazione può contare sull’87,7% delle ricchezze, lasciando al 90% degli adulti appena il 12,3% dei beni totali. Come già ricordato, l’1% detiene infine il 50,4% dei beni, una soglia altamente simbolica che secondo alcuni studi precedenti sarebbe stata superata solo nei prossimi anni.A dare l’idea della scarsità di beni che possiedono coloro che si trovano alla base della piramide basta citare un dato, cioè che sono sufficienti poco più di 3 mila dollari per essere inclusi nella metà più “ricca” della popolazione mondiale.
Per rientrare nel 10% più benestante di dollari ne bastano invece quasi 69 mila. La definizione di ricchezza considerata da Credit Suisse comprende, oltre al denaro, proprietà immobiliari e titoli azionari, mentre dal conteggio sono esclusi i debiti.
Come conferma il rapporto, le disuguaglianze sono rapidamente aumentate in tutto il mondo dopo la crisi finanziaria scaturita da Wall Street nel 2008. A generare un ulteriore spostamento verso l’alto della ricchezza sono stati e continuano a essere soprattutto i programmi pubblici di salvataggio delle grandi banche e l’espansione del credito di fatto a costo zero che, invece di stimolare l’economia reale, ha ingigantito le rendite parassitarie.
Significative sono anche le differenze tra i vari continenti o paesi del mondo. Se la ricchezza complessiva degli Stati Uniti è cresciuta finora nel 2015 di 4 mila 600 miliardi di dollari, nonostante un calo a livello globale di 12 mila 700 miliardi, principalmente a causa del rafforzamento del dollaro, i paesi dell’Unione Europea, la Russia e il Giappone hanno fatto segnare flessioni importanti. Quella della Cina è poi salita di 1.500 miliardi di dollari, anche se lo studio prende in considerazione i dati fino al 30 giugno scorso, tralasciando quindi il recente crollo del mercato azionario in questo paese.
Simili differenze hanno ovviamente riflessi rilevanti all’interno del sistema capitalistico globale. Infatti, la crescita e la perdita di ricchezza soprattutto delle potenze mondiali contribuisce a inasprire i conflitti o, quanto meno, a peggiorare le relazioni tra i paesi, come conferma l’aggravamento delle tensioni in molte aree del globo, a cominciare dal Medio Oriente e dall’Asia sud-orientale.
La sempre maggiore concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi è il sintomo anche dello stato di avanzato deterioramento in cui versa lo stesso capitalismo planetario, con tutte le conseguenze distruttive che ne derivano per le popolazioni del pianeta.La disponibilità virtualmente illimitata di beni per un numero ristrettissimo di ultra-ricchi determina infatti automaticamente un degrado delle condizioni di vita di tutti gli altri, principalmente a causa di effetti devastanti in vari ambiti, dall’assistenza sanitaria allo stato delle infrastrutture e all’educazione.
Uno scenario, quello che si sta delineando, che non può che alimentare tensioni sociali sempre più esplosive, dirette alla riappropriazione di risorse enormi, dirottate deliberatamente verso l’alto e che sarebbero invece abbondantemente sufficienti a garantire i bisogni fondamentali dell’intera popolazione del pianeta.
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di Carlo Musilli
In credibile ma vero, un candidato alla Casa Bianca getta sul piatto della campagna elettorale una delle più gravi malattie di Wall Street. Hillary Clinton, già segretario di Stato nella prima presidenza Obama e oggi in corsa per i democratici, ha promesso di tassare l'Hft in caso di vittoria alle presidenziali del 2016.
L'acronimo sta per High frequency trading, ovvero gli scambi di Borsa ad alta velocità operati in modo automatico sulla base di algoritmi. Si tratta di una pratica che, agendo su volumi immensi, garantisce lauti profitti ai colossi della finanza, che riescono a speculare anche sulle minime variazioni dei prezzi registrate ogni secondo, mobilitando masse spesso in grado di condizionare l'andamento dei titoli trattati. Allo stesso tempo, quindi, l'Hft danneggia gli investitori medio-piccoli, perché rende impossibile la trasparenza sui prezzi e genera altissima volatilità, destabilizzando i mercati.
Ora, Hillary Clinton non è mai stata in cattivi rapporti con le banche d'affari americane, per cui l'ipotesi di stangare i re della Borsa risulta piuttosto sorprendente e si spiega solo con un calcolo politico in vista delle primarie democratiche. Evidentemente, l'ex first lady punta a recuperare i voti dei progressisti, un bacino elettorale che al momento sembra spostarsi verso candidati ben più di sinistra, come il senatore "socialista" Bernie Sanders.
"La crescita dell'high-frequency trading ha avuto un peso sui nostri mercati consentendo strategie di scambio scorrette e speculative", ha detto uno dei consiglieri della Clinton. L'idea per combattere questa pratica, spiegano dallo staff della candidata dem, consiste nel tassare le transazioni con un numero eccessivo di cancellazioni.
Ma l'Hft non è un problema solo americano. "Nei principali paesi europei - si legge in un documento Consob del dicembre 2012 - la quota di scambi riconducibili ad operatori identificati come high frequency traders è cresciuta costantemente negli ultimi anni e attualmente oscilla tra circa il 10 e il 40% a seconda dei paesi".
Quanto ai possibili effetti di questa pratica, "il dibattito accademico - prosegue la Commissione - ha evidenziato, senza tuttavia giungere a risultati univoci, la possibilità che la crescente diffusione dell'high frequency trading amplifichi l'impatto sistemico di shock e influisca negativamente sull'integrità e sulla qualità del mercato (efficienza informativa dei prezzi, volatilità e liquidità)". L'Hft è perciò una delle armi più potenti in mano ai pescecani della speculazione, che investono alla ricerca di guadagni immediati, distorcendo il mercato a danno di chi non ha la loro potenza di fuoco. La divaricazione fra la terraferma dell'economia reale e la nube della finanza speculativa ha raggiunto così il suo apice.
Investire con raziocinio e competenza, puntando sulle società quotate che producono risultati giorno dopo giorno, è ormai un'attività marginale per chi ha in mano le sorti dei mercati. Di fronte alle possibilità messe a disposizione dalle piattaforme informatiche combinate a sofisticati algoritmi, i rendimenti di lungo periodo sono davvero poco attraenti.
In uno scenario simile, che la tassa proposta dalla Clinton sia in grado di correggere anche solo in parte questi squilibri è tutto da dimostrare, anche perché al momento siamo ancora nel campo degli slogan. Eppure, il semplice fatto che l'high frequency trading sia entrato nel dibattito pubblico americano in modo così esplicito è un avvenimento che merita di essere segnato sul calendario.