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di Carlo Musilli
Inizia oggi il Quantitative easing, la maxi operazione messa a punto dalla Bce per inondare di nuova liquidità il sistema finanziario dell'Eurozona. L'operazione prevede l'acquisto di titoli pubblici e privati per 60 miliardi di euro al mese fino al settembre 2016. L'importo complessivo sarà almeno di 1.140 miliardi (circa il 12% del Pil europeo), ma l'intervento potrà essere prolungato.
In via ufficiale, l'obiettivo numero uno è riportare l’inflazione a un tasso “inferiore ma vicino al 2% annuo”, target oggi lontanissimo, visto che a febbraio l’area valutaria ha registrato in media una deflazione dello 0,3%. Il Qe dovrebbe poi liberare fondi nei bilanci bancari e gli istituti potrebbero utilizzare queste risorse in più per far ripartire il credito.
Con la creazione di nuova moneta, inoltre, la Bce indebolirà ulteriormente l’euro, avvantaggiando le esportazioni (ma penalizzando l’import). L’aumento della domanda di bond, infine, farà calare ulteriormente i tassi sul mercato obbligazionario.
Fin qui, la vulgata. Passiamo ora ad alcune zone del Qe meno battute dai riflettori. Innanzitutto, il Paese che guadagnerà più di ogni altro dal Quantitative easing è la Germania, poiché gli acquisti di titoli di Stato saranno ripartiti in proporzione alle quote detenute dai vari istituti centrali nazionali nel capitale della Bce, e la Bundesbank è in testa con il 25,6%, seguita dalla Banque de France (20,1%) e da Bankitalia (17,5%). I Paesi più in difficoltà dell'Eurozona, Grecia e Cipro, saranno invece del tutto esclusi dal Qe per ragioni tecniche.
L'operazione della Bce, inoltre, sosterrà indirettamente le quotazioni di Borsa, come già ha fatto nelle ultime settimane grazie al solo effetto annuncio. Con i rendimenti dei bond destinati a rimanere bassissimi, infatti, gli investitori spostano i capitali sui mercati azionari.
Per quanto riguarda le banche, il Qe consentirà loro di ridurre l'esposizione ai debiti sovrani, aumentando la liquidità (l'Eurotower comprerà titoli di Stato solo sul mercato secondario, ovvero dove i bond sono già scambiati, e non alle aste di emissione). Non c'è però alcuna garanzia che queste risorse saranno impiegate per sostenere famiglie e imprese.
D'altra parte, gli istituti di credito non hanno ampliato la platea dei beneficiari dei prestiti nemmeno dopo le prime aste Tltro, operazioni con cui la Bce concede alle banche denaro a buon mercato a condizione che lo utilizzino per finanziare l'economia reale. Nel caso del Qe questo vincolo non esiste nemmeno, perciò è prevedibile che gli istituti dell'Eurozona sceglieranno d'indirizzare la maggior parte della liquidità in arrivo verso investimenti finanziari assai più remunerativi.
Veniamo ora alle eventuali perdite. Sulla Bce graveranno solo quelle legate al 20% degli acquisti totali (di cui il 12% in titoli nazionali e l’8% in obbligazioni emesse da Bei, Esm e altre istituzioni transnazionali). Per il restante 80% dei bond acquistati, invece, non è prevista alcuna condivisione dei rischi: saranno le singole Banche centrali nazionali a dover registrare le rispettive (ed eventuali) passività.
Si tratta ovviamente di una concessione alla Germania, ma stride con l'appello ribadito più volte da Mario Draghi affinché i Paesi dell'Eurozona cedano un'altra fetta della loro sovranità a Bruxelles. Quando si tratta di scrivere le leggi, insomma, il centro decisionale dovrebbe essere uno solo, ma nella gestione del rischio la musica è diversa: ognuno per sé.
Il meccanismo risponde a una logica perversa che i disastri degli ultimi anni non sono riusciti a scalfire. All'origine della crisi c'è la finanza privata, cui è stato concesso di privatizzare gli utili e di socializzare le perdite (come andare al casinò, scommettere pesante e tenersi i soldi in caso di vincita, ma spalmare i debiti su tutta la città in caso di sconfitta). Ora però si è sedimentata l'errata convinzione che il problema sia la finanza pubblica e che la soluzione debba essere affidata proprio alla finanza privata.
I responsabili della crisi vengono così gonfiati di liquidità (ponendo le basi per alimentare nuove bolle speculative), mentre alle vittime (i cittadini) s'impone l'austerità. Peraltro dicendo loro che si tratta di una cura necessaria per ridare fiducia ai mercati.
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di Carlo Musilli
L’accordo con l’Eurogruppo sulla proroga al piano di aiuti non è un traguardo per la Grecia, ma un punto di partenza. Primo, perché i soldi non sono ancora arrivati. Secondo, perché anche quando arriveranno, dureranno poco. Con questa consapevolezza Atene dovrà affrontare i negoziati dei prossimi mesi, che saranno ben più decisivi di quelli andati in scena nelle ultime settimane. Da qui in avanti le trattative riguarderanno la pratica delle riforme, non più la teoria, e consentiranno perciò di misurare il cambiamento introdotto dal governo Tsipras nei rapporti con la Troika.
La lista di misure inviata martedì a Bruxelles è un antipasto: a fine Aprile l’Esecutivo greco dovrà prende impegni assai più stringenti, presentando un piano di riforme dettagliato e ricco di numeri. Proprio l’aspetto contabile era il grande assente nella lettera firmata dal ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, tanto che Bce e Fmi hanno subito manifestato perplessità, rinviando il giudizio a quando Atene metterà mano alla calcolatrice.
Sarà proprio quello il primo passaggio decisivo: l’ultima tranche di aiuti da 7 miliardi prenderà la strada del Partenone solo se e quando la Troika darà il via libera al piano che la Grecia presenterà fra due mesi. E, tanto per cambiare, Wolfgang Schaeuble ha immediatamente fatto capire l’aria che tira: “Se i greci rispetteranno gli impegni presi, allora potranno ricevere i versamenti rimanenti – ha tuonato ieri il ministro delle Finanze tedesco – altrimenti, non ci sarà alcun versamento. Non vedranno neanche un euro”.
Meno acre, ma non più rassicurante, Angela Merkel: “Considerato quello che si sentiva solo qualche settimana fa – ha detto la cancelliera – gli impegni presi dalla Grecia sono una buona notizia. Ma non mi faccio illusioni: la strada da fare resta lunga e impegnativa”.
Anche una volta superato lo scoglio di Aprile, tuttavia, il governo ellenico potrà tirare un sospiro di sollievo assai breve. Atene aveva chiesto una proroga di sei mesi, ma l’Eurogruppo ha deciso di concederne solo quattro. E non è un caso: gli aiuti garantiranno la sopravvivenza dello Stato solo fino a giugno, lasciando scoperto il periodo luglio-agosto, quando scadranno bond ellenici in mano alla Bce dal valore di 6,7 miliardi di euro. Soldi che la Grecia non avrà in cassa.
A meno di una soluzione drastica, insomma, lo spettro della bancarotta non smetterà di perseguitare il governo Tsipras. Sarà sempre dietro l'angolo. Viste le condizioni miserevoli da cui parte, che non consentono affatto di pronosticare l'arrivo di una solida ripresa in futuro, Atene non sarà mai in grado di finanziare in autonomia il proprio debito pubblico da 324 miliardi, pari al 181% del Pil. Ad oggi, non è autorizzata nemmeno ad emettere titoli di Stato a tre mesi. La Grecia, come ricordava Varoufakis in un'intervista a Repubblica d'inizio febbraio, "è fallita dal 2010". E quando un debitore fallisce, i creditori possono accanirsi quanto vogliono: fallimento era, fallimento rimane. Negli ultimi cinque anni i soldi dei contribuenti europei sono stati utilizzati in massima parte per pagare i debiti degli istituti di credito ellenici con le banche internazionali, soprattutto francesi e tedesche. Non sono stati usati per far ripartire l'economia greca che, al contrario, ha visto il Pil perdere un quarto del proprio valore a causa dell'austerità, mentre il debito pubblico ha spiccato il volo.
In un'altra intervista, stavolta al Financial Times, Varoufakis aveva spiegato il piano di Syriza per rendere sostenibile il debito greco. Si tratterebbe di un doppio swap tra vecchi titoli di Stato e nuovi bond, che sarebbero di due tipi: da una parte obbligazioni indicizzate alla crescita economica nominale, dall'altra quelli che il ministro greco ha definito "bond perpetui", da sostituire ai titoli in mano alla Banca centrale europea.
Dalla Germania, invece, filtrano voci che parlano di un terzo piano di aiuti per Atene, una soluzione che confermerebbe l'attuale situazione di stallo chissà ancora per quanti anni. Sarà questa la trattativa su cui la Grecia si giocherà la maggior parte del proprio futuro. Dovrà trattare, ma nella consapevolezza che è Bruxelles ad avere i soldi dalla parte del manico.
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di Carlo Musilli
Non conta chi ha vinto, ma cosa è cambiato. Fuori dal Vecchio Testamento, Golia batte sempre Davide, per cui nella guerra negoziale fra Atene e Bruxelles era inevitabile che prevalessero le ragioni europee. Lo sapevano anche Tsipras e Varoufakis, che - pur essendo neofiti della politica - hanno dato una lezione di sano pragmatismo a molti rivoluzionari da salotto. L'accordo siglato venerdì con l'Eurogruppo sarà anche lontano dalle richieste iniziali dell'Esecutivo greco, ma non è una disfatta.
In sintesi, Atene ottiene un prolungamento di quattro mesi degli aiuti internazionali, ma lo sblocco dei fondi è subordinato all'approvazione da parte dell'Eurogruppo delle misure che il governo Tsipras intende varare in deroga al memorandum con la Troika.
Una prima parte della lista sarà presentata lunedì, mentre martedì i ministri finanziari dell'Eurozona si riuniranno in teleconferenza per discuterne. Solo dopo questa verifica partirà l'esborso dei finanziamenti. Nei mesi successivi, inoltre, i creditori giudicheranno l'intero programma del nuovo governo greco.
Com'era ovvio, l'Europa hanno vinto su più fronti: Atene archivia il taglio del debito e s'impegna a non introdurre unilateralmente misure non previste dal memorandum, così come a non cancellare di propria iniziativa quelle già varate su richiesta della Troika (soprattutto in tema di licenziamenti, pensioni e contratti collettivi). L'iter delle riforme sarà supervisionato da Ue, Bce e Fmi, ovvero dalla vecchia Troika, anche se questo nome non sarà più usato per consentire a Tsipras di simulare un cambiamento agli occhi del proprio elettorato.
La proroga degli aiuti vale quattro mesi, e non sei, come chiedeva Atene, il che significa che lascerà scoperti luglio e agosto, quando scadranno debiti con la Bce per 6,7 miliardi: a quel punto la Grecia, per evitare la bancarotta, sarà costretta a un nuovo negoziato. Infine, gli 11,5 miliardi rimasti nel fondo salva-banche torneranno al fondo salva-Stati, e non potranno essere usati per finanziare parte del programma di Syriza, come invece chiedeva Tsipras.
Da parte sua, il governo greco ha tempo fino a giugno per allestire un nuovo programma di riforme (in verità, era proprio questa la scadenza chiesta originariamente da Varoufakis). Sarà sempre necessario il benestare dei creditori, ma ora Atene ha la possibilità d'introdurre nuovi interventi per modificare il vecchio piano di austerità targato Samaras, che tra l'altro prevedeva un aumento dell'Iva e nuovi tagli per 2,5 miliardi entro la fine di questo mese.
Come alternativa al rigore, Tispras punta molto sulla lotta alla corruzione e all'evasione, un fronte su cui è certamente più credibile (anche agli occhi di Bruxelles) sia dei conservatori di Nea Demokratia sia dei socialisti del Pasok, che hanno fatto del clientelismo una ragione d'essere. Non basta, ma aiuta.
La speranza più grande per la Grecia è però un'altra, ovvero la possibilità di liberare risorse riducendo l'avanzo primario previsto per il 2015. Oggi le regole stabiliscono che il bilancio ellenico si chiuda in attivo (prima di pagare gli interessi sul debito) per una cifra pari al 3% del Pil, ma Tsipras vuole ridurre questo vincolo all'1,5%. Così facendo, otterrebbe cinque miliardi di euro da utilizzare per politiche espansive. E' la prospettiva più concreta per Atene di ricavare fondi da destinare all'economia reale, e sembra che su questo genere di flessibilità l'Eurogruppo sia disposto a trattare: "Noterete un ottimo esempio di costruttiva ambiguità del testo dell'accordo su questo punto", ha sottolineato Varoufakis.
Alcuni risultati, quindi, la Grecia li ha ottenuti. Certo, sembrano poca cosa rispetto alle parole d'ordine con cui Syriza ha vinto le elezioni (tagliare il debito, cacciare la Troika, stracciare il memorandum...), ma in una trattativa così sbilanciata, con un potere negoziale che si riduceva di giorno in giorno (il 28 febbraio sarebbe scaduto il precedente accordo e a quel punto Atene avrebbe dovuto trovare il modo di pagare stipendi pubblici e pensioni), Tsipras e Varoufakis non potevano che sparare in alto per raccogliere il possibile: chiedere 100 per ottenere 30. E così è andata.
Per il governo greco, adesso, le difficoltà si spostano in patria. Bisognerà far digerire alla frangia più intransigente di Syriza e soprattutto alla popolazione il rinvio di una parte delle misure umanitarie, come la luce e le case a prezzi popolari. D'altra parte, tre greci su quattro vogliono rimanere nell'euro e devono accettare che è impossibile riuscirci senza compromessi. L'uscita dall'austerità e la ricostruzione del Paese sono obiettivi di lungo termine.L'unica certezza è che, fin qui, la cura della Troika ha fatto bene solo alle banche tedesche e francesi, che fra il 2009 e il 2014 hanno ridotto la propria esposizione verso la Grecia rispettivamente da 45 a 13,51 e da 78,82 a 1,81 miliardi dollari, scaricando il peso sulle spalle dei contribuenti europei. Per l'economia ellenica, invece, la medicina si è rivelata tossica.
Se ci fosse ancora bisogno di prove in questo senso, venerdì l'Ocse si è prodotta in un siparietto grottesco quanto significativo, pubblicando online il rapporto annuale "Going for Growth". Nel testo compariva una classifica dei Paesi in base al grado di risposta dato dalle riforme nel periodo 2007-2014. E chi c'era al primo posto? Già, la Grecia. Un Paese che solo nel 2009-2014 ha visto la disoccupazione salire dal 16 a 25% e il debito schizzare dal 125 a 175,5% del Pil, a sua volta crollato del 25%.
Basta fare due più due per capire cosa pensare di quelle riforme. Deve averlo notato anche qualcuno d'influente, visto che, subito dopo la pubblicazione, l'Ocse si è affrettata a cancellare quella tabella, per poi reinserirla in un formato molto meno visibile (ormai le informazioni circolavano in rete, l'autocensura completa sarebbe stata clamorosa). Chissà se la telefonata è partita da Bruxelles o da Berlino.
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di Carlo Musilli
Trovare un accordo che permetta alle due parti di salvare la faccia è complicato, soprattutto perché ormai bisogna correre. Dopo l'insuccesso di mercoledì scorso, oggi a Bruxelles i ministri delle Finanze europei si riuniscono nuovamente per cercare un'intesa con il governo Tsipras sul destino della Grecia dopo il 28 febbraio, giorno in cui scadrà il vecchio memorandum siglato con la Troika. Il tempo a disposizione è poco, anche perché alcuni Paesi (come Germania, Olanda e Finlandia) devono ottenere il via libera dei rispettivi Parlamenti per approvare proroghe o nuovi documenti.
Se lo stallo non si sbloccherà, a breve Atene dovrà porsi il problema di come pagare stipendi e pensioni. La bancarotta però non converrebbe a nessuno, perché in quel caso i creditori non rivedrebbero più un euro. Intanto, giusto per aggiungere pressione alle trattative, mercoledì 18 la Bce potrebbe decidere di chiudere la linea di credito d'emergenza (Ela) destinata alle banche greche e recentemente alzata a 65 miliardi.
Il governo ellenico vorrebbe un accordo ponte da qui alla fine di maggio, in modo da riscrivere i patti nei prossimi mesi senza lo spauracchio del default. In generale, le principali richieste dei greci sono cinque. Primo: cancellare il 30% delle riforme previste dal vecchio accordo con la Troika, sostituendole con dieci misure concordate con l'Ocse. Secondo: trasformare i crediti internazionali in bond legati alla crescita del Pil greco e modificare i titoli in mano alla Bce in obbligazioni perpetue. Terzo: ridurre il surplus di bilancio dal 3 all'1,5% nel 2015 e dal 4,5 all'1,5% nel 2016. Quarto: essere autorizzati a emettere titoli di Stato a tre mesi per altri 8 miliardi di euro, necessari a coprire le spese dell'immediato futuro. Quinto: incassare 1,9 miliardi d'interessi maturati dalla Bce su vecchi bond ellenici. Per il momento, su nessuno di questi punti si vedono schiarite.
Intanto, le condizioni dell'economia greca, dopo l'effimera ripresa dei mesi scorsi, sono tornate a peggiorare. Venerdì Eurostat ha fatto sapere che nel quarto trimestre del 2014 il Pil ellenico si è contratto dello 0,2% rispetto al periodo luglio-settembre. Giovedì, invece, i dati sulle entrate fiscali di gennaio hanno evidenziato un buco di un miliardo rispetto alle attese (per una differenza del 23%). Inoltre, secondo JP Morgan, dall'inizio del 2015 sono defluiti dai depositi bancari 21 miliardi di euro e la paura è che nei prossimi giorni le file ai bancomat si allunghino ancora.
Di questi numeri Tsipras non può non tenere conto, ma i dati che più interessano al premier greco sono quelli prodotti dall'austerità. Le cure firmate dalla Troika hanno prodotto negli scorsi anni il crollo verticale del Pil (che ha perso circa un quarto del proprio valore) e un'impennata della disoccupazione dal 16 al 25%. Il debito, invece, è salito dal 125 al 175,5% del prodotto interno lordo.
Altre statistiche decisive dal punto di vista di Atene, ma assai meno note nel resto d'Europa, sono quelle che dipingono il quadro della crisi umanitaria in cui è caduto il popolo greco. Secondo un rapporto delle Università di Cambridge, Oxford e Londra pubblicato l'anno scorso dalla rivista medica britannica The Lancet, in Grecia la mortalità infantile nei primi mesi di vita è aumentata del 43% a seguito dei tagli alla spesa pubblica e al dimezzamento del bilancio della Sanità imposti dalla Troika.
Il Centro ellenico per il controllo e la prevenzione delle malattie parla invece di un incremento del 21% dei bambini morti alla nascita e del ritorno dal 2010 della malaria, oltre alla recrudescenza dell’Hiv per il venir meno dell'assistenza ai tossicodipendenti. Un rapporto di Medici del Mondo della fine del 2013, inoltre, afferma che oltre il 27% della popolazione non riesce più a versare i contributi e si trova senza copertura sanitaria.
Ma com'è stato possibile uno smantellamento simile della sanità, vista la quantità di miliardi garantiti ad Atene dai piani di salvataggio? In realtà, i soldi dei fondi salva Stati (provenienti dalle tasche di tutti i contribuenti europei) sono stati trasferiti in varie tranche alla Banca centrale greca, che a sua volta li ha girati agli istituti di credito ellenici, i quali hanno usato quel denaro in massima parte per pagare i loro debiti con le banche internazionali, soprattutto tedesche e francesi. L'austerità, insomma, tutela alcuni interessi finanziari particolari, ma il suo fallimento rispetto agli obiettivi ufficiali è dimostrato.
A questo proposito, non saranno mai ricordate abbastanza le parole pronunciate l'anno scorso dal danese Poul Thomsen, capo della Troika in Grecia: “Scusate, i nostri calcoli erano sbagliati. Abbiamo usato moltiplicatori scorretti. Non avevamo previsto che l’austerità avrebbe abbattuto i consumi e mandato a picco il Pil. E avremmo dovuto ristrutturare i debiti molto prima”. Come premio, a novembre Thomsen è stato promosso responsabile europeo del Fondo monetario internazionale.
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di Carlo Musilli
Nessuno deve pensare che sia così semplice. E’ questo il punto. Tutti sanno che la bancarotta della Grecia sarebbe un autogol continentale e quasi tutti si rendono conto che la medicina della Troika è avvelenata (nel 2009-2014 la disoccupazione è salita dal 16 a 25% e il debito dal 125 a 175,5% del Pil, che a sua volta è crollato del 25%). Ma il dilemma al centro del valzer d'incontri fra le autorità europee e il governo targato Syriza è innanzitutto una questione di metodo. Agli occhi di Bruxelles, se Tsipras & Co. vincessero la partita dettando le condizioni, creerebbero un precedente inaccettabile.
Dal giorno dopo, qualsiasi forza europea anti-austerità vincesse le elezioni potrebbe ragionevolmente pretendere di stracciare gli accordi siglati con i creditori (magari perché a firmare l'intesa era stato il governo precedente) e di riscrivere un nuovo patto come meglio crede. Lo spettro sullo sfondo è quello di Podemos, partito spagnolo di sinistra alternativa dato per favorito alle politiche del prossimo novembre.
Per stroncare sul nascere questa possibilità, l'Europa ha già Syriza nel mirino. Bruxelles sembra disposta a riscadenzare il debito di Atene, ma gli altri progetti del nuovo governo ellenico saranno ostacolati con ogni forza. E non solo perché ritenuti troppo costosi, ma anche per lanciare un messaggio al resto dell'Eurozona (Spagna in testa): nessun governo può scrivere da solo le proprie regole, nemmeno se ha vinto le elezioni promettendo di recuperare la sovranità perduta.
In realtà, a Roma come a Parigi non dispiacerebbe un (parziale) successo di Tsipras, l'unica ariete che può incrinare i bastioni del rigore alla tedesca, ma se italiani e francesi si esponessero troppo a sostegno della battaglia di Atene darebbero adito a sospetti sul futuro dei rispettivi conti pubblici. Per cui si tirano indietro: "Gli diamo una mano, ma non gli diamo ragione", sintetizzava Matteo Renzi con i suoi dopo l'incontro di martedì con il neopremier greco.
In questo scenario, mercoledì sera la Bce ha comunicato che, a partire dall'11 febbraio, non accetterà più i titoli di Stato greci come garanzia presentabile dalle banche elleniche per finanziarsi presso la stessa Eurotower. Non si tratta però di una sanzione vera e propria, quanto della sospensione di un privilegio: fino a oggi i titoli di Atene sono stati ammessi come collaterali in deroga alla norma, visto che ormai da anni sono considerati spazzatura e non rispettano perciò il requisito di un rating investment grade. L'eccezione alla regola era stata approvata alla luce degli accordi fra la Grecia e la Troika, ma ora che quel memorandum è stato rinnegato dal governo greco non ci sono più le condizioni per proseguire con la deroga.
Intanto, però, la Bce ha aumentato di 9,5 miliardi di euro il tetto ai finanziamenti di emergenza per gli istituti ellenici, portando il totale a 59,5. Questo canale di liquidità alternativo, che era già attivo, si chiama Emergency Liquidity Assistance (Ela) e permette all’Eurotower di fornire alla Banca centrale greca finanziamenti per gli istituti in crisi. L'aumento del tetto si riferisce proprio all'importo che la Banca nazionale greca può erogare in base allo schema Ela, ma è bene ricordare che il Consiglio della Bce può chiudere completamente anche questo rubinetto in una qualsiasi delle sue riunioni bisettimanali (la prossima è il 18 febbraio).Al di là dei conti, lo stop dell’Eurotower ai finanziamenti in cambio di titoli greci ha un valore smaccatamente politico. Non a caso, il giorno scelto per la sospensione del credito è lo stesso in cui l'Eurogruppo si riunirà d'urgenza, alla vigilia del prossimo Consiglio Ue. In attesa di questi appuntamenti, Draghi ha voluto spingere le parti a trovare un compromesso e con la mossa sui collaterali ha peggiorato la posizione negoziale dei greci, per convincerli a non tirare troppo la corda.
Da parte sua, Atene vorrebbe un accordo ponte da qui alla fine di maggio, in modo da riscrivere i patti nei prossimi mesi senza il timore della bancarotta. A fine mese, infatti, la Grecia rimarrà a secco di denaro per la scadenza di alcuni prestiti, e poiché non accetterà gran parte dell'ultima tranche di aiuti della Troika (che comporterebbe nuove misure di austerità), ma al tempo stesso non otterrà nemmeno il sostanzioso aiuto che chiedeva alla Bce (non solo il credito alle banche, ma anche l'autorizzazione a emettere titoli a breve termine e la restituzione di 1,9 miliardi d'interessi su vecchi bond ellenici), dovrà trovare vie alternative per pagare stipendi e pensioni. A meno che Syriza non si riduca a più miti consigli: in quel caso i forzieri della Bce si aprirebbero nuovamente.
Tsipras ha parlato di "ricatto", ma nessun capo di Stato o di governo europeo gli ha dato ragione. E con queste premesse i greci siederanno al tavolo delle trattative per cancellare i vecchi accordi, che, come spiega il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, “antepongono la questione del pagamento dei debiti alla riparazione dell'economia. E questo significa che la Grecia non potrà mai riprendersi”.