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di Carlo Musilli
Non conta chi ha vinto, ma cosa è cambiato. Fuori dal Vecchio Testamento, Golia batte sempre Davide, per cui nella guerra negoziale fra Atene e Bruxelles era inevitabile che prevalessero le ragioni europee. Lo sapevano anche Tsipras e Varoufakis, che - pur essendo neofiti della politica - hanno dato una lezione di sano pragmatismo a molti rivoluzionari da salotto. L'accordo siglato venerdì con l'Eurogruppo sarà anche lontano dalle richieste iniziali dell'Esecutivo greco, ma non è una disfatta.
In sintesi, Atene ottiene un prolungamento di quattro mesi degli aiuti internazionali, ma lo sblocco dei fondi è subordinato all'approvazione da parte dell'Eurogruppo delle misure che il governo Tsipras intende varare in deroga al memorandum con la Troika.
Una prima parte della lista sarà presentata lunedì, mentre martedì i ministri finanziari dell'Eurozona si riuniranno in teleconferenza per discuterne. Solo dopo questa verifica partirà l'esborso dei finanziamenti. Nei mesi successivi, inoltre, i creditori giudicheranno l'intero programma del nuovo governo greco.
Com'era ovvio, l'Europa hanno vinto su più fronti: Atene archivia il taglio del debito e s'impegna a non introdurre unilateralmente misure non previste dal memorandum, così come a non cancellare di propria iniziativa quelle già varate su richiesta della Troika (soprattutto in tema di licenziamenti, pensioni e contratti collettivi). L'iter delle riforme sarà supervisionato da Ue, Bce e Fmi, ovvero dalla vecchia Troika, anche se questo nome non sarà più usato per consentire a Tsipras di simulare un cambiamento agli occhi del proprio elettorato.
La proroga degli aiuti vale quattro mesi, e non sei, come chiedeva Atene, il che significa che lascerà scoperti luglio e agosto, quando scadranno debiti con la Bce per 6,7 miliardi: a quel punto la Grecia, per evitare la bancarotta, sarà costretta a un nuovo negoziato. Infine, gli 11,5 miliardi rimasti nel fondo salva-banche torneranno al fondo salva-Stati, e non potranno essere usati per finanziare parte del programma di Syriza, come invece chiedeva Tsipras.
Da parte sua, il governo greco ha tempo fino a giugno per allestire un nuovo programma di riforme (in verità, era proprio questa la scadenza chiesta originariamente da Varoufakis). Sarà sempre necessario il benestare dei creditori, ma ora Atene ha la possibilità d'introdurre nuovi interventi per modificare il vecchio piano di austerità targato Samaras, che tra l'altro prevedeva un aumento dell'Iva e nuovi tagli per 2,5 miliardi entro la fine di questo mese.
Come alternativa al rigore, Tispras punta molto sulla lotta alla corruzione e all'evasione, un fronte su cui è certamente più credibile (anche agli occhi di Bruxelles) sia dei conservatori di Nea Demokratia sia dei socialisti del Pasok, che hanno fatto del clientelismo una ragione d'essere. Non basta, ma aiuta.
La speranza più grande per la Grecia è però un'altra, ovvero la possibilità di liberare risorse riducendo l'avanzo primario previsto per il 2015. Oggi le regole stabiliscono che il bilancio ellenico si chiuda in attivo (prima di pagare gli interessi sul debito) per una cifra pari al 3% del Pil, ma Tsipras vuole ridurre questo vincolo all'1,5%. Così facendo, otterrebbe cinque miliardi di euro da utilizzare per politiche espansive. E' la prospettiva più concreta per Atene di ricavare fondi da destinare all'economia reale, e sembra che su questo genere di flessibilità l'Eurogruppo sia disposto a trattare: "Noterete un ottimo esempio di costruttiva ambiguità del testo dell'accordo su questo punto", ha sottolineato Varoufakis.
Alcuni risultati, quindi, la Grecia li ha ottenuti. Certo, sembrano poca cosa rispetto alle parole d'ordine con cui Syriza ha vinto le elezioni (tagliare il debito, cacciare la Troika, stracciare il memorandum...), ma in una trattativa così sbilanciata, con un potere negoziale che si riduceva di giorno in giorno (il 28 febbraio sarebbe scaduto il precedente accordo e a quel punto Atene avrebbe dovuto trovare il modo di pagare stipendi pubblici e pensioni), Tsipras e Varoufakis non potevano che sparare in alto per raccogliere il possibile: chiedere 100 per ottenere 30. E così è andata.
Per il governo greco, adesso, le difficoltà si spostano in patria. Bisognerà far digerire alla frangia più intransigente di Syriza e soprattutto alla popolazione il rinvio di una parte delle misure umanitarie, come la luce e le case a prezzi popolari. D'altra parte, tre greci su quattro vogliono rimanere nell'euro e devono accettare che è impossibile riuscirci senza compromessi. L'uscita dall'austerità e la ricostruzione del Paese sono obiettivi di lungo termine.
L'unica certezza è che, fin qui, la cura della Troika ha fatto bene solo alle banche tedesche e francesi, che fra il 2009 e il 2014 hanno ridotto la propria esposizione verso la Grecia rispettivamente da 45 a 13,51 e da 78,82 a 1,81 miliardi dollari, scaricando il peso sulle spalle dei contribuenti europei. Per l'economia ellenica, invece, la medicina si è rivelata tossica.
Se ci fosse ancora bisogno di prove in questo senso, venerdì l'Ocse si è prodotta in un siparietto grottesco quanto significativo, pubblicando online il rapporto annuale "Going for Growth". Nel testo compariva una classifica dei Paesi in base al grado di risposta dato dalle riforme nel periodo 2007-2014. E chi c'era al primo posto? Già, la Grecia. Un Paese che solo nel 2009-2014 ha visto la disoccupazione salire dal 16 a 25% e il debito schizzare dal 125 a 175,5% del Pil, a sua volta crollato del 25%.
Basta fare due più due per capire cosa pensare di quelle riforme. Deve averlo notato anche qualcuno d'influente, visto che, subito dopo la pubblicazione, l'Ocse si è affrettata a cancellare quella tabella, per poi reinserirla in un formato molto meno visibile (ormai le informazioni circolavano in rete, l'autocensura completa sarebbe stata clamorosa). Chissà se la telefonata è partita da Bruxelles o da Berlino.
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di Carlo Musilli
Trovare un accordo che permetta alle due parti di salvare la faccia è complicato, soprattutto perché ormai bisogna correre. Dopo l'insuccesso di mercoledì scorso, oggi a Bruxelles i ministri delle Finanze europei si riuniscono nuovamente per cercare un'intesa con il governo Tsipras sul destino della Grecia dopo il 28 febbraio, giorno in cui scadrà il vecchio memorandum siglato con la Troika. Il tempo a disposizione è poco, anche perché alcuni Paesi (come Germania, Olanda e Finlandia) devono ottenere il via libera dei rispettivi Parlamenti per approvare proroghe o nuovi documenti.
Se lo stallo non si sbloccherà, a breve Atene dovrà porsi il problema di come pagare stipendi e pensioni. La bancarotta però non converrebbe a nessuno, perché in quel caso i creditori non rivedrebbero più un euro. Intanto, giusto per aggiungere pressione alle trattative, mercoledì 18 la Bce potrebbe decidere di chiudere la linea di credito d'emergenza (Ela) destinata alle banche greche e recentemente alzata a 65 miliardi.
Il governo ellenico vorrebbe un accordo ponte da qui alla fine di maggio, in modo da riscrivere i patti nei prossimi mesi senza lo spauracchio del default. In generale, le principali richieste dei greci sono cinque. Primo: cancellare il 30% delle riforme previste dal vecchio accordo con la Troika, sostituendole con dieci misure concordate con l'Ocse. Secondo: trasformare i crediti internazionali in bond legati alla crescita del Pil greco e modificare i titoli in mano alla Bce in obbligazioni perpetue. Terzo: ridurre il surplus di bilancio dal 3 all'1,5% nel 2015 e dal 4,5 all'1,5% nel 2016. Quarto: essere autorizzati a emettere titoli di Stato a tre mesi per altri 8 miliardi di euro, necessari a coprire le spese dell'immediato futuro. Quinto: incassare 1,9 miliardi d'interessi maturati dalla Bce su vecchi bond ellenici. Per il momento, su nessuno di questi punti si vedono schiarite.
Intanto, le condizioni dell'economia greca, dopo l'effimera ripresa dei mesi scorsi, sono tornate a peggiorare. Venerdì Eurostat ha fatto sapere che nel quarto trimestre del 2014 il Pil ellenico si è contratto dello 0,2% rispetto al periodo luglio-settembre. Giovedì, invece, i dati sulle entrate fiscali di gennaio hanno evidenziato un buco di un miliardo rispetto alle attese (per una differenza del 23%). Inoltre, secondo JP Morgan, dall'inizio del 2015 sono defluiti dai depositi bancari 21 miliardi di euro e la paura è che nei prossimi giorni le file ai bancomat si allunghino ancora.
Di questi numeri Tsipras non può non tenere conto, ma i dati che più interessano al premier greco sono quelli prodotti dall'austerità. Le cure firmate dalla Troika hanno prodotto negli scorsi anni il crollo verticale del Pil (che ha perso circa un quarto del proprio valore) e un'impennata della disoccupazione dal 16 al 25%. Il debito, invece, è salito dal 125 al 175,5% del prodotto interno lordo.
Altre statistiche decisive dal punto di vista di Atene, ma assai meno note nel resto d'Europa, sono quelle che dipingono il quadro della crisi umanitaria in cui è caduto il popolo greco. Secondo un rapporto delle Università di Cambridge, Oxford e Londra pubblicato l'anno scorso dalla rivista medica britannica The Lancet, in Grecia la mortalità infantile nei primi mesi di vita è aumentata del 43% a seguito dei tagli alla spesa pubblica e al dimezzamento del bilancio della Sanità imposti dalla Troika.
Il Centro ellenico per il controllo e la prevenzione delle malattie parla invece di un incremento del 21% dei bambini morti alla nascita e del ritorno dal 2010 della malaria, oltre alla recrudescenza dell’Hiv per il venir meno dell'assistenza ai tossicodipendenti. Un rapporto di Medici del Mondo della fine del 2013, inoltre, afferma che oltre il 27% della popolazione non riesce più a versare i contributi e si trova senza copertura sanitaria.
Ma com'è stato possibile uno smantellamento simile della sanità, vista la quantità di miliardi garantiti ad Atene dai piani di salvataggio? In realtà, i soldi dei fondi salva Stati (provenienti dalle tasche di tutti i contribuenti europei) sono stati trasferiti in varie tranche alla Banca centrale greca, che a sua volta li ha girati agli istituti di credito ellenici, i quali hanno usato quel denaro in massima parte per pagare i loro debiti con le banche internazionali, soprattutto tedesche e francesi. L'austerità, insomma, tutela alcuni interessi finanziari particolari, ma il suo fallimento rispetto agli obiettivi ufficiali è dimostrato.
A questo proposito, non saranno mai ricordate abbastanza le parole pronunciate l'anno scorso dal danese Poul Thomsen, capo della Troika in Grecia: “Scusate, i nostri calcoli erano sbagliati. Abbiamo usato moltiplicatori scorretti. Non avevamo previsto che l’austerità avrebbe abbattuto i consumi e mandato a picco il Pil. E avremmo dovuto ristrutturare i debiti molto prima”. Come premio, a novembre Thomsen è stato promosso responsabile europeo del Fondo monetario internazionale.
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di Carlo Musilli
Nessuno deve pensare che sia così semplice. E’ questo il punto. Tutti sanno che la bancarotta della Grecia sarebbe un autogol continentale e quasi tutti si rendono conto che la medicina della Troika è avvelenata (nel 2009-2014 la disoccupazione è salita dal 16 a 25% e il debito dal 125 a 175,5% del Pil, che a sua volta è crollato del 25%). Ma il dilemma al centro del valzer d'incontri fra le autorità europee e il governo targato Syriza è innanzitutto una questione di metodo. Agli occhi di Bruxelles, se Tsipras & Co. vincessero la partita dettando le condizioni, creerebbero un precedente inaccettabile.
Dal giorno dopo, qualsiasi forza europea anti-austerità vincesse le elezioni potrebbe ragionevolmente pretendere di stracciare gli accordi siglati con i creditori (magari perché a firmare l'intesa era stato il governo precedente) e di riscrivere un nuovo patto come meglio crede. Lo spettro sullo sfondo è quello di Podemos, partito spagnolo di sinistra alternativa dato per favorito alle politiche del prossimo novembre.
Per stroncare sul nascere questa possibilità, l'Europa ha già Syriza nel mirino. Bruxelles sembra disposta a riscadenzare il debito di Atene, ma gli altri progetti del nuovo governo ellenico saranno ostacolati con ogni forza. E non solo perché ritenuti troppo costosi, ma anche per lanciare un messaggio al resto dell'Eurozona (Spagna in testa): nessun governo può scrivere da solo le proprie regole, nemmeno se ha vinto le elezioni promettendo di recuperare la sovranità perduta.
In realtà, a Roma come a Parigi non dispiacerebbe un (parziale) successo di Tsipras, l'unica ariete che può incrinare i bastioni del rigore alla tedesca, ma se italiani e francesi si esponessero troppo a sostegno della battaglia di Atene darebbero adito a sospetti sul futuro dei rispettivi conti pubblici. Per cui si tirano indietro: "Gli diamo una mano, ma non gli diamo ragione", sintetizzava Matteo Renzi con i suoi dopo l'incontro di martedì con il neopremier greco.
In questo scenario, mercoledì sera la Bce ha comunicato che, a partire dall'11 febbraio, non accetterà più i titoli di Stato greci come garanzia presentabile dalle banche elleniche per finanziarsi presso la stessa Eurotower. Non si tratta però di una sanzione vera e propria, quanto della sospensione di un privilegio: fino a oggi i titoli di Atene sono stati ammessi come collaterali in deroga alla norma, visto che ormai da anni sono considerati spazzatura e non rispettano perciò il requisito di un rating investment grade. L'eccezione alla regola era stata approvata alla luce degli accordi fra la Grecia e la Troika, ma ora che quel memorandum è stato rinnegato dal governo greco non ci sono più le condizioni per proseguire con la deroga.
Intanto, però, la Bce ha aumentato di 9,5 miliardi di euro il tetto ai finanziamenti di emergenza per gli istituti ellenici, portando il totale a 59,5. Questo canale di liquidità alternativo, che era già attivo, si chiama Emergency Liquidity Assistance (Ela) e permette all’Eurotower di fornire alla Banca centrale greca finanziamenti per gli istituti in crisi. L'aumento del tetto si riferisce proprio all'importo che la Banca nazionale greca può erogare in base allo schema Ela, ma è bene ricordare che il Consiglio della Bce può chiudere completamente anche questo rubinetto in una qualsiasi delle sue riunioni bisettimanali (la prossima è il 18 febbraio).
Al di là dei conti, lo stop dell’Eurotower ai finanziamenti in cambio di titoli greci ha un valore smaccatamente politico. Non a caso, il giorno scelto per la sospensione del credito è lo stesso in cui l'Eurogruppo si riunirà d'urgenza, alla vigilia del prossimo Consiglio Ue. In attesa di questi appuntamenti, Draghi ha voluto spingere le parti a trovare un compromesso e con la mossa sui collaterali ha peggiorato la posizione negoziale dei greci, per convincerli a non tirare troppo la corda.
Da parte sua, Atene vorrebbe un accordo ponte da qui alla fine di maggio, in modo da riscrivere i patti nei prossimi mesi senza il timore della bancarotta. A fine mese, infatti, la Grecia rimarrà a secco di denaro per la scadenza di alcuni prestiti, e poiché non accetterà gran parte dell'ultima tranche di aiuti della Troika (che comporterebbe nuove misure di austerità), ma al tempo stesso non otterrà nemmeno il sostanzioso aiuto che chiedeva alla Bce (non solo il credito alle banche, ma anche l'autorizzazione a emettere titoli a breve termine e la restituzione di 1,9 miliardi d'interessi su vecchi bond ellenici), dovrà trovare vie alternative per pagare stipendi e pensioni. A meno che Syriza non si riduca a più miti consigli: in quel caso i forzieri della Bce si aprirebbero nuovamente.
Tsipras ha parlato di "ricatto", ma nessun capo di Stato o di governo europeo gli ha dato ragione. E con queste premesse i greci siederanno al tavolo delle trattative per cancellare i vecchi accordi, che, come spiega il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, “antepongono la questione del pagamento dei debiti alla riparazione dell'economia. E questo significa che la Grecia non potrà mai riprendersi”.
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di Carlo Musilli
Ormai la forza dell'abitudine dovrebbe prevalere, ma Jens Weidman, numero uno della Bundesbank, non riesce proprio ad accettare l'ultima sconfitta rimediata nel board della Bce. Secondo il governatore tedesco, il quantitative easing varato giovedì dall'Eurotower, che inietterà nel sistema 60 miliardi al mese da marzo 2015 almeno fino a settembre 2016, "non è un normale strumento di politica monetaria e comporta particolari svantaggi e pericoli all'interno dell'Eurozona".
Rischi peraltro inutili da correre, visto che "ci sono indicazioni secondo le quali il tasso d'inflazione straordinariamente basso è solo un fenomeno temporaneo - ha detto ancora Weidman in un'intervista al Welt am Sonntag -. Ma all'interno del board della Bce la maggioranza era preoccupata che la gente si abituasse ai prezzi stagnanti, poiché ciò può innescare una spirale verso il basso".
Già venerdì il presidente della BuBa si era scagliato contro il Qe: "E' certo che il piano di acquisti andrà a ridurre la pressione su paesi come l'Italia e la Francia - aveva detto -, ma sarebbe pericoloso non proseguire sulla strada delle riforme già avviate". Insinuazioni a cui Ignazio Visco, numero uno della Banca d'Italia, aveva replicato con gelo artico: "No, non penso che sia così".
In effetti, è piuttosto assurdo che il governatore tedesco si permetta di mettere bocca sul lavoro dei governi e dei parlamenti di due Stati sovrani. La potenza finanziaria e politica della Bundesbank è evidente, ma lo scollamento fra la gerarchia formale delle istituzioni e quella reale ha raggiunto vette insostenibili. Qualcuno riesce a immaginare Visco che si mette a bacchettare Angela Merkel e il Bundestag? Fantascienza. Eppure - in teoria - i rapporti istituzionali sono esattamente gli stessi.
Senza contare che la Germania guadagnerà più degli altri Paesi dal Qe. Gli acquisti di bond lanciati dall'Eurotower produrranno infatti "redditi da operazioni monetarie" che saranno messi in comune e redistribuiti fra le banche centrali nazionali in proporzione alle quote detenute nel capitale della Bce. Ciò significa che alla Bundesbank andrà una fetta pari a circa il 25% della torta, mentre alla Banque de France e a Bankitalia spetterà rispettivamente il 20 e il 17%.
Quanto all'andamento dei prezzi, Weidmann continua a sminuire il rischio di deflazione e su questo punto i suoi argomenti sono più solidi. E' vero che sul -0,2% annuo segnato a dicembre nell'Eurozona ha pesato in modo decisivo il crollo del listino energetico (-6,3%), a sua volta legato al recente tonfo del petrolio voluto dall'Opec. E' vero anche che in nessun Paese europeo si è innescata ancora la "spirale" evocata dal governatore tedesco, ovvero quel circolo vizioso per cui - in piena deflazione - i consumatori rinviano gli acquisti sperando che in futuro arriveranno ulteriori ribassi, mentre le aziende non vendono e devono perciò continuare a ridurre i prezzi.
Anche ammettendo tutto questo, però, occorre ricordare a Weidmann che il primo mandato della Banca centrale europea è proprio la tutela della stabilità dei prezzi, e che, senza il Qe, l'inflazione in Eurolandia sarebbe tornata positiva di miseri decimali, ben lontani dal target ufficiale della Bce, ovvero un tasso annuo "inferiore ma vicino al 2%".
Per fortuna, nel Consiglio direttivo dell'Eurotower la maggioranza non era d'accordo con il Presidente della Bundesbank. Non lo era nemmeno quando si votò per le Omt (strumento mai utilizzato dalla Bce, ma che con il solo effetto-annuncio ha sconfitto la tempesta speculativa contro l'euro), né quando si trattò di tagliare i tassi, né quando si decise di varare altri strumenti espansivi come le aste Tltro o gli acquisti di Abs e covered bond. Per fortuna, con il Signor Nein e con i suoi seguaci, la maggioranza dei governatori non è d'accordo quasi mai.
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di Antonio Rei
Con mossa rapida e decisa il governo Renzi finge di risolvere un problema e al tempo stesso fa un bel regalo ai mercati finanziari. Dopo una diatriba durata vent'anni, la riforma delle banche popolari viene scritta di corsa e infilata alla chetichella in un decreto legge, il cosiddetto Investment compact, che - c'è da scommetterci - sarà ratificato in Parlamento a colpi di fiducia. La nuova norma prevede che gli istituti con un patrimonio superiore agli otto miliardi di euro debbano trasformarsi in società per azioni entro 18 mesi dall'arrivo del regolamento attuativo di Bankitalia, che fisserà le regole della metamorfosi.
Le banche che abbandoneranno forzatamente lo statuto cooperativo sono in tutto 10, di cui sette quotate in Borsa (Banco Popolare, Ubi Banca, Popolare Emilia Romagna, Popolare di Milano, Popolare di Vicenza , Veneto Banca, Popolare di Sondrio) e tre assenti da Piazza Affari (Credito valtellinese, Popolare di Bari e Popolare dell'Etruria e del Lazio).
Per chi rimane fuori dal perimetro dell'obbligo, l'Esecutivo ha pensato bene di abbattere le soglie necessarie all'approvazione in assemblea di fusioni e passaggi da cooperativa a Spa. La riforma prevede infatti che alla seconda convocazione (quella che tradizionalmente conta davvero, visto che alla prima il capitale rappresentato non è quasi mai sufficiente) basti la maggioranza dei due terzi dei votanti, senza alcun limite. In teoria, se Bankitalia non risolverà questo nodo, potrebbe bastare l'1% del capitale per deliberare in tema di fusioni o cambiamenti di statuto. Finora invece il quorum era stabilito dalle singole banche e per decisioni simili erano previste soglie ben più stringenti.
Con il passaggio da popolari a Spa, inoltre, le banche perderanno una serie di caratteristiche. Innanzitutto, sarà eliminato il voto capitario (il principio per cui in assemblea ogni testa vale un voto, a prescindere dalle differenti partecipazioni in mano agli azionisti) e si passerà al sistema delle società per azioni (in cui il potere decisionale è ripartito fra i soci in proporzione alle diverse quote). Gli istituti diranno poi addio a due limiti: il numero minimo di soci (200) e la partecipazione massima in mano a ciascuno di essi (1%).
La somma di tutti questi cambiamenti produce una novità decisiva: le popolari, trasformandosi in Spa, diventeranno scalabili. Finora non lo sono state, perciò la nomina degli amministratori ha richiesto un ampio consenso fra tutti gli azionisti. Fra qualche mese, invece, le dieci maggiori popolari potranno essere acquistate da chiunque abbia abbastanza denaro per farlo, in Italia o all'estero. Si dice che il polo aggregante sarà la Bpm e che nel valzer delle fusioni dovranno entrare anche Mps e Carige, affamate di capitale dopo la bocciatura agli stress test della Bce.
A prescindere dal risultato, questo genere di risiko gonfia nel breve periodo i prezzi delle azioni e per questo piace ai mercati, che non a caso nelle ultime sedute di Borsa hanno premiato i titoli delle popolari con rialzi da favola.
Intanto, mentre Piazza Affari si lecca i baffi, a Roma qualcuno protesta per la scelta di condurre l'intera operazione via decreto. E' una decisione illegittima, poiché questo strumento è previsto dalla Costituzione solo per interventi di particolare urgenza, mentre la necessità di aggiustare la governance delle popolari (oggetto di ripetuti abusi) è un argomento su cui si dibatte da prima della Macarena.
Nessuno si scandalizza, perché ormai l'articolo 77 della Carta è diventato una barzelletta, eppure il governo ha provato a impalcare delle giustificazioni, sostenendo che con le aggregazioni si faciliti la ripresa del credito.
Peccato che in Italia, negli ultimi anni, proprio le popolari siano l'unica realtà bancaria ad aver aumentato i prestiti. E ciò non deve stupire: non stiamo parlando di un eden finanziario, ma le banche cooperative, nate dall'esigenza di favorire lo sviluppo delle singole comunità, sono per natura più legate al territorio. Ora devono pagare il conto perché, di fronte a problemi come l'uso disinvolto del voto capitario o il sistema di deleghe poco trasparente, il Governo ha scelto di rinnegare il concetto stesso di cooperativa. E per imitare chi vanta banche "too big to fail" si è inventato le "too big to cooperate".