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di Liliana Adamo
TTIP, l’acronimo ormai lo conosciamo tutti o quasi. Se approvato, questo gigantesco cappio costruito per sancire l’egemonia ultraliberista delle lobby d’oltreoceano, determinerebbe la morte per soffocamento dell’autodeterminazione politica europea, vale a dire la rappresentazione di quei principi democratici su cui si è legittimata l’idea d’Unione Europea con i suoi ventotto stati membri. C’è la convinzione che la crisi economica prodotta nel 2008 da un sistema che non gradisce rigettare i propri criteri, possa risolversi rincarandone le dosi.
Il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Trans Atlantic Trade and Investment Partnership), è un accordo commerciale di libero scambio tuttora in corso, sancito nel 2013 tra Ue e Usa. Obiettivo? Integrare i due mercati, limitando tributi doganali, norme e procedure d’omologazione, standard di sicurezza applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie.
Via libera dunque, alla circolazione delle merci, al flusso degli investimenti, all’accesso ai rispettivi mercati come agli appalti pubblici. Sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel e dal suo nutrito staff strategicamente collocato nei meandri decisionali della Commissione Ue, il trattato potrebbe essere esteso ad altri paesi in cui sono già in vigore consensi analoghi, come quelli iscritti al North American Free Trade Agreement (NAFTA) e dell’Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA). In questo modo si darà l’avvio alla più grande area disponibile di un mercato completamente svincolato, nella condivisione di un’incondizionata deregolamentazione.
Ma quali sarebbero gli effetti e gli esiti di tale “rivoluzione”? In primo luogo va detto che il TTPI è un accordo sottobanco; per meglio dire, è una trattativa tra superburocrati e delegati di varie lobbie (europee e americane), portata avanti in completa “riservatezza”: Fino a quando Wikileaks di Julian Assange ne svelò i contenuti e l’Ue dovette renderli pubblici, ma solo nell’ottobre 2014. In ultima ratio, il TTPI, dovrà essere sottoposto al benestare e al controllo della Commissione europea, dal Consiglio dei Capi di Stato e di governo.
A questo proposito va detto che, dall’aprile scorso, proprio all’interno dell’Europarlamento qualcosa ha iniziato a vacillare: con la ferrea governance nata dall’alleanza tra il Ppe (Partito popolare europeo) e i socialdemocratici (S&D), con il popolare Jean Claude Junker a capo della Commissione e il socialdemocratico Martin Schulz alla presidenza del Parlamento, si dava per scontato che il Trattato fosse approvato senza troppi problemi, grazie a una maggioranza schiacciante (che include, tra l’altro, anche il partito dei Conservatori, quello dei Riformisti e dei Liberaldemocratici dell’Alde).
Ebbene, così non è stato. A sorpresa, accogliendo una montagna d’emendamenti (di Verdi e Sinistra radicale), sei Commissioni su quattordici (fra cui, Occupazione, Ambiente, Petizioni e Affari Costituzionali), hanno votato contro la clausola più discutibile, chiamata Isds (Investor state dispute settlement), la quale punta a introdurre un unico arbitrato per risolvere le dispute fra Stati e società multinazionali, giudicato palesemente favorevole a quest’ultime.
Che metà del Parlamento europeo impugnasse questa mozione nodale, nessuno se lo sarebbe aspettato, men che mai la delegazione di superburocrati nel frattempo riunita a New York, dove si teneva il nono round dei negoziati Usa/Ue; di fatto, almeno sul piano politico, la riunione veniva sconfessata da sei commissioni su quattordici.Il TTIP sarà presentato agli occhi dei cittadini europei nella solita orchestrazione cui ci hanno abituati da anni: l’accordo produrrà crescita economica, calo considerevole della disoccupazione, benessere diffuso senza danni all’ambiente. E’ la dura legge d’ogni deregulation in campo liberalista e finanziario: sostituire il marketing alla ragione, il Pil al benessere fatto di cooperazione e impegno per l’economia reale, nella difesa della salute e dell’ambiente.
Secondo lo statunitense Joseph Stiglitz (Premio Nobel per l’economia) l’accordo comporterebbe, già dai primissimi impatti, una sostanziale riduzione delle garanzie e mancanza di tutela nei diritti dei consumatori. Per di più, uno studio della Tufts University del Massachusetts, individua una frammentazione del mercato interno europeo e calo del Pil, non certo una crescita.
La ratifica consisterebbe in rilevanti freni legali che tuttora regolano settori cruciali come banche, assicurazioni, telecomunicazioni, servizi postali. L’introduzione del famigerato arbitrato internazionale (l’Isds cui abbiamo già parlato ndr), concederebbe alle imprese d’intentare cause ai governi per “perdita di profitti”, qualora gli stessi governi (eletti con sovranità popolare), “autorizzassero” legislazioni potenzialmente “dannose” alle loro aspettative di guadagno. E’ già accaduto, con il caso Vattenfal/governo tedesco sulla chiusura delle centrali nucleari (dopo il dramma di Fukushima), o nella circostanza di Veolia contro governo egiziano, sull’aumento del salario minimo dei lavoratori.
Nonostante le mozioni contrarie sull’arbitrato internazionale, l’Isds rappresenta comunque una parte di un documento ufficiale, e non basteranno pareri contrari (tra l’altro non vincolanti), per fermare l’avanzata del TTIP al varco dei voti durante la sessione plenaria che si terrà al Parlamento Europeo, in giugno. Ciò nondimeno il percorso è tutt’altro che in discesa, grazie a ben 898 emendamenti che si sono abbattuti come una scure sulla bozza del Rapporto in esame. Rispetto al passato, tanto attivismo nel Parlamento europeo è già una novità interessante.
Il commissario al commercio europeo, Cecilia Malmstrom, si sforza di rassicurare gli europei. Le partnership americane non ci trascineranno in invasioni di manzo agli ormoni, non sostituiranno le nostre eccellenze con cibi Ogm, nessuna minaccia alla buona sanità e alle scuole pubbliche, nessun rischio che l’Europa si trasformi in bieca succursale del capitalismo d’oltreoceano che, ampliandosi, andrebbe a danneggiare direttamente le economie dei paesi sottosviluppati. Gli standard di qualità e democrazia non saranno toccati.
Ciò è rincuorante, ma non corrisponde alla realtà: i cinque miti da sfatare (per la Commissione Ue), implicano, in primis, esattamente quegli standard europei; gli stessi che, dopo decenni di conquiste, servono a proteggere le persone e il pianeta. Basta solo riflettere su come standard Usa e Ue siano maledettamente differenti. E se l’Europa sembra impegnata nella difesa dei suoi modelli affinchè prevalga l’indipendenza dei regolatori, il principio di precauzione (cardine della politica ambientale e delle regole sul consumo) e gsi garantisca ai governi l’approvazione di leggi che difendono i diritti dei lavoratori e dei più deboli, non si può dire facciano altrettanto le multinazionali che si appresterebbero a ritagliarsi una buona fetta di torta.Il secondo mito da sfatare, riguarda la sicurezza alimentare. Per la Commissione Ue, il modo in cui noi regoliamo le questioni dei cibi geneticamente modificati e tutto ciò che concerne questa materia, resteranno invariati: niente carne d’animali clonati, vitelli ormonati, o polli al cloro. E invece Usa e Ue andranno di pari passo per facilitare importazioni ed esportazioni esattamente nel settore alimentare. Ma come potranno se sussistono regole completamente divergenti? Chi dei due partner dovrà modificare i propri standard di sicurezza? E che fine farebbero quelle migliaia di piccole - medie aziende e produttori agricoli che rischiano d’uscire dal mercato sotto i colpi dei colossi su scala industriale?
Terzo mito: le tariffe. La concorrenza tra i due partner (per non parlare di Cina e paesi asiatici), impone già prezzi ridotti, il TTIP non è altro che un tentativo di smantellare le norme europee, giudicate troppo “ferree” per il libero scambio commerciale. Anche in questo caso, la replica insiste su quei settori le cui tariffe sono ritenute “troppo alte”, alimentari e tessili, per esempio. Il TTIP annullerebbe le tariffe che ancora pesano sull’export europeo verso gli Stati Uniti, contribuendo a favorire lo scambio tra i due.
Come per molti altri accordi su base commerciale, il TTIP sembrerebbe una panacea di presunti benefici per la gente, i prezzi diminuiranno grazie alla concorrenza tra imprese transatlantiche con conseguente aumento d’occupazione. In realtà, la cosa non si risolve così facilmente; nei dettagli, si va ben oltre la semplice rimozione di costi e apertura dei mercati, poiché il trattato si concentra in primo luogo sulla rimozione delle normative sociali e ambientali, concentrando il potere economico e politico nelle mani delle major. Esse valutano queste regole come ostacolo ai profitti.
Lo spiega a chiare lettere la stessa Commissione Europea: lo sbarramento al libero commercio non è (tanto) il dazio dovuto alla dogana, bensì i cosiddetti blocchi “oltre confine”, come i diversi standard ambientali o di sicurezza per le automobili (…). L’obiettivo della trattativa sta nel ridurre i costi “non necessari” per le imprese, le lungaggini burocratiche…Usa e Ue puntano all’armonizzazione e al “reciproco riconoscimento” per le rispettive normative in vista della “più vasta area di libero scambio sul pianeta”.
Quarto mito: i diritti dei governi. Si è detto come il TTIP consentirà alle più potenti aziende americane di poter far causa ai governi (e far pagare i cittadini), qualora, regole emanate con nuove leggi, ostacolassero l’utile delle stesse. Questo è uno degli sviluppi più controversi dell’intero trattato, anche se la replica di Bruxelles insiste nel propinare il piano Isds camuffandolo in sottigliezze linguistiche e cioè che si delibera un sistema per appianare le controversie tra le parti, rinsaldando, per esempio, i poteri regolatori dei governi, consentendo pubblico accesso alle udienze e ai documenti dei tribunali dove si discute delle cause. In pratica, un contentino pro forma.
Quinto mito: i servizi pubblici. L’accordo commerciale, almeno per ciò che riguarda l’Ue, tranquillizza: chiunque è libero di gestire i servizi pubblici come meglio crede e non certo privatizzarli. Scuole, ospedali, ecc. sono beni comuni fondamentali e ogni governo sarà libero di decidere se tale servizio dovrà restare pubblico o metterlo nelle mani di un privato. Per di più (bontà loro), nel caso di mancato rinnovo di un contratto stipulato, nessun governo è passibile di risarcimento.
Partiamo da un presupposto: il primo e fondamentale servizio pubblico è quello sanitario. Per gli investitori internazionali la sanità rappresenta un giro d’affari di valore incalcolabile, una “mucca da mungere”, esattamente. Il Servizio sanitario britannico (UK’s National Health service), è già in fase di destrutturazione affinché si consenta agli investitori transnazionali di “entrare nell’affare”, acquisendone le parti più redditizie. La svendita di servizi sanitari europei alle imprese private è già iniziata e, di fatto, andrà avanti fino a diventare un processo irreversibile. La crisi finanziaria e le politiche d’austerity hanno minato un diritto, ritenuto finora inalienabile nei paesi europei, quello alla salute, a un’assistenza di qualità a prezzi accessibili. Eclatante l’esempio della Grecia, dove, pazienti malati di cancro, sono impossibilitati a pagare farmaci salva-vita, da quando lo Stato ha tagliato le sovvenzioni alla sanità pubblica, su esplicita richiesta dei finanziatori internazionali. Non basta, in Spagna, gli immigrati rischiano la revoca dei trattamenti anti AIDS, a causa di tagli alla spesa pubblica.
Se il TTIP punta ad “armonizzare” le normative sanitarie Usa/Ue, l’esito sarà di un’inevitabile spirale verso il basso con ridotti standard sanitari. Inoltre, l’apertura del sistema sanitario europeo alla concorrenza di operatori Usa, provenienti dal settore privato, altro non produrrà che aumento dei costi per i cittadini, limitando ulteriormente la possibilità d’accesso alle cure mediche, in un momento già economicamente difficile.
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di Michele Paris
Il dipartimento di Giustizia americano ha annunciato mercoledì l’ammissione di responsabilità da parte di cinque grandi banche internazionali nella creazione di una sorta di “cartello” per la manipolazione del mercato dei cambi delle valute. L’ennesimo patteggiamento che ha coinvolto i colossi finanziari ha comportato l’insolita accettazione delle accuse di condotta criminale e di quelle relative alla legislazione anti-trust, ma, come nei casi precedenti, le conseguenze effettive per i responsabili saranno del tutto trascurabili.
Quattro banche - Citigroup, JPMorgan Chase, Barclays e Royal Bank of Scotland (RBS) - si sono dichiarate colpevoli delle accuse mosse loro dal governo USA, mentre un quinto istituto - la svizzera UBS - pur essendo stata anch’essa accusata di avere manipolato il mercato delle valute, non è stata incriminata per questa ragione.
La condotta di UBS, cioè, ha spinto il dipartimento di Giustizia di Washington a revocare un precedente patteggiamento che aveva risparmiato alla banca l’incriminazione in un altro scandalo, quello del LIBOR, ovvero il tasso di riferimento interbancario. UBS ha dovuto così ammettere la propria colpevolezza in quest’ultima vicenda, caratterizzata dalla manipolazione del tasso di interesse da cui dipendono ogni giorno transizioni finanziarie in tutto il mondo per migliaia di miliardi di dollari.
Complessivamente, le cinque banche coinvolte dovranno pagare sanzioni per circa 5,6 miliardi di dollari, pari a una minima parte dei loro profitti annuali. Inoltre, buona parte della sanzione potrà essere dedotta dalle tasse.
Come hanno chiarito i giornali americani, a livello pratico nessuno di questi istituti bancari subirà conseguenze negative per i propri affari. Secondo il New York Times, “nonostante il divieto previsto dagli enti di vigilanza statunitensi”, vista l’ammissione di colpa, “queste banche si erano date da fare dietro le quinte” per ottenere apposite esenzioni che consentano loro di continuare a condurre affari negli ambiti finanziari più redditizi.
La Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC), ad esempio, ha già emesso numerose esenzioni di questo genere a favore delle cinque banche, in grado perciò di operare come se nulla fosse accaduto.
Oltre a ciò, il Dipartimento di Giustizia ha come al solito evitato di incriminare un solo dipendente o top manager delle banche colpevoli, accontentandosi con ogni probabilità dei già avvenuti licenziamenti dei rispettivi impiegati coinvolti nella trama criminale.
Le commissioni delle prime dieci banche del pianeta sulle operazioni relative ai mercati valutari sono state pari a 11,6 miliardi di dollari nel 2014, in calo da un picco di quasi 22 miliardi nel 2008. Secondo la stampa finanziaria, i margini di guadagno in questo settore sarebbero minori rispetto ad altri, ma le banche continuano a operarvi sia per fornire un servizio richiesto da clienti consolidati sia per cercare di attrarne di nuovi.Il mercato dei cambi sembra essere particolarmente esposto ad abusi, poiché le agenzie federali di vigilanza negli Stati Uniti non hanno un mandato formale per sorvegliare le operazione che vengono svolte. Per fare ciò esistono speciali commissioni ma sono spesso create dalle stesse banche.
La “riforma” del sistema finanziario approvata dal Congresso americano dopo la crisi del 2008, inoltre, aveva escluso svariate transazioni in valute straniere dalle nuove regolamentazioni implementate.
Le operazioni incriminate delle cinque banche sarebbero avvenute tra il 2007 e il 2013. Lo schema preferito prevedeva che un operatore doveva acquisire un quantitativo importante di una certa valuta per poi disfarsene in un momento cruciale, così da influenzare l’andamento delle quotazioni. Queste iniziative erano in genere coordinate con gli operatori delle altre banche attraverso “chat room” on-line.
La gravità dei fatti è apparsa evidente dalle durissime parole pronunciate dalle autorità americane per descrivere le azioni delle banche. L’assistente direttore dell’FBI, Andrew McCabe, ha affermato che “il crimine è stato commesso su vastissima scala”, mentre il neo-ministro della Giustizia, Loretta Lynch, ha parlato di una “cospirazione sconvolgente”.
Queste denunce stridono però fortemente con i modesti provvedimenti punitivi stabiliti dal patteggiamento. Anzi, se simili dichiarazioni dovrebbero servire a convincere il pubblico della durezza del governo nei confronti di Wall Street, l’effetto risulta esattamente opposto, non facendo altro che sottolineare l’esiguità della pena erogata.
La più recente vicenda relativa al mercato delle valute si aggiunge allo scandalo ancora più clamoroso della manipolazione del LIBOR, scoppiato nel 2012 e nel quale erano coinvolte anche queste stesse banche.
L’elenco delle attività criminali operate da Wall Street è però molto lungo e comprende, tra l’altro, il riciclaggio del denaro dei cartelli del narcotraffico messicano, la truffa dei mutui, l’occultamento di massicce perdite dovute a investimenti speculativi e il coinvolgimento nelle operazioni illegali del finanziere ora in carcere, Bernie Madoff.
All’ampiezza e alla varietà dei crimini commessi dai grandi istituti finanziari non è mai corrisposto un solo caso di condanna esemplare, bensì quasi sempre sono stati concordati patteggiamenti tra i responsabili e il governo americano con sanzioni relativamente contenute e, in ogni caso, quasi mai pagate per intero.Negli ambienti finanziari e sulla stampa, poi, i guai giudiziari delle banche non fanno più scalpore, come confermano anche i significativi guadagni registrati mercoledì dai titoli di UBS, Barclays e RBS.
Le autorità politiche e giudiziarie, a loro volta, hanno più volte riconosciuto pubblicamente come i giganti finanziari debbano operare di fatto al di sopra della legge, poiché l’adozione di seri provvedimenti nei loro confronti determinerebbe rischi eccessivi per la stabilità del sistema.
Così, mentre le proteste popolari nelle città americane contro la brutalità della polizia e la devastazione sociale provocata dalla crisi economica vengono represse con tutto il peso dell’apparato della sicurezza e del sistema giudiziario, i crimini infinitamente più gravi dell’industria finanziaria sono sempre perdonati o, tutt’al più, scontati senza sforzo con multe più o meno ridicole, considerate a tutti gli effetti come una sorta di tassa per continuare a fare affari al di fuori dei vincoli della legge.
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di Carlo Musilli
Nessuno la nomina, ma tutti ne parlano. Le parole "bad bank" non compaiono in documenti ufficiali e raramente vengono pronunciate, eppure il tema è al centro di un negoziato in corso da mesi fra Roma e Bruxelles. Il Tesoro vorrebbe creare un veicolo di matrice pubblica in cui far confluire parte delle sofferenze bancarie italiane, ovvero i crediti che probabilmente non saranno mai restituiti a causa delle difficoltà in cui versano i debitori. Oggi è in questa condizione circa il 10% del totale dei prestiti: una quota altissima, che spinge le banche a limitare ulteriormente il credito.
La bad bank sarebbe quindi "cattiva" per il contenuto, ma rappresenterebbe la manna dal cielo per gli altri istituti, perché consentirebbe loro di pulire i bilanci velocemente e a costo zero, liberando risorse per l'economia reale (ma solo in teoria, perché quei soldi potrebbero tranquillamente essere usati dalle banche anche per speculare sui mercati finanziari).
Nella sua recente apparizione alla Borsa Italiana, il premier Matteo Renzi ha detto che la costituzione di questo nuovo strumento è "una priorità assoluta". Perché allora tante esitazioni? L'ostacolo principale che fin qui ha impedito la realizzazione del progetto è di natura giuridica: se messa in pratica tout court, la bad bank si configura come un aiuto di Stato ed è quindi proibita dalle norme comunitarie.
Per quanto riguarda la trattativa in corso, da Via XX Settembre arrivano segnali d'insofferenza: "Bisogna fare presto, prima finiamo e meglio è", ha detto al termine dell'Ecofin della scorsa settimana il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, che in precedenza aveva definito "negativo l’atteggiamento tecnico dei servizi della Commissione". La direzione generale sulla Concorrenza dell'Esecutivo comunitario ha bocciato anche l'ultimo progetto del Tesoro, che prevedeva una garanzia pubblica per favorire la creazione di un mercato su cui vendere i crediti in sofferenza.
D'altra parte, sembra che il dissidio da risolvere sia tutto interno a Bruxelles, combattuta fra l'esigenza tecnica di non violare le sue stesse regole e il desiderio politico di aiutare le banche. Dopo aver bollato ogni ipotesi d'intervento come aiuto di Stato illegittimo, infatti, la stessa Commissione ha chiesto a Roma di adottare misure che favoriscano "una riduzione dei prestiti deteriorati delle banche", come si legge nelle raccomandazioni all'Italia contenute nel rapporto semestrale sugli squilibri macroeconomici. Le due parole magiche non compaiono, ma è evidente che lo strumento principe per ottenere il risultato chiesto da Bruxelles è proprio la bad bank.
Sulla stessa linea anche Mario Draghi, che a fine marzo ha lanciato un messaggio chiaro al governo Renzi, pur rispettando il tabù: "Condizione indispensabile perché i capitali arrivino alle imprese - ha detto nel corso di un'audizione a Montecitorio, la prima da quando è diventato presidente della Bce - è avere un settore bancario sano. I prestiti deteriorati devono emergere rapidamente e devono essere adottate misure per risolvere il problema. La Bce guarda con molto favore alle iniziative che alleggeriscono i bilanci delle banche dalle sofferenze, liberando risorse a favore delle imprese". Pochi giorni prima, durante un convegno all'Accademia dei Lincei, Ignazio Visco era stato ancora più esplicito. Secondo il governatore di Bankitalia, per affrontare il problema delle sofferenze bancarie è opportuno "un intervento diretto dello Stato che, nel rispetto della disciplina europea sulla concorrenza, favorisca lo sviluppo di un mercato secondario di queste attività", contribuendo "a liberare risorse di cui beneficerebbero in primo luogo le imprese".
E mercoledì scorso Via Nazionale ha affidato al Boston Consulting Group un servizio di consulenza da 379.500 euro (Iva esclusa) proprio per la creazione della bad bank. L’appalto è stato affidato senza gara, "con procedura negoziata per l’urgenza che caratterizza la definizione del progetto", spiega l’istituto centrale.
Tutto questo con un unico obiettivo finale, ovvero dare continuità al principio che regola il rapporto Stati-banche almeno dal 2008: finché gli affari vanno bene, i profitti rimangono in pancia alle aziende; non appena il vento cambia, viene coinvolto tutto il Paese. L'idea stessa di una bad bank pubblica è l'ultimo prodotto di questa filosofia che impone di privatizzare gli utili e socializzare le perdite.
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di Carlo Musilli
Mentre la bancarotta della Grecia si avvicina, l'unica vera novità arrivata negli ultimi giorni dal fronte Atene-Bruxelles è il depotenziamento di Yanis Varoufakis al tavolo dei negoziati. In termini giornalistici è una gran notizia, perché il soggetto in questione ha la personalità mediatica di una rockstar più che di un ministro delle Finanze, ma la rilevanza pratica dell'episodio rischia di essere sopravvalutata.
Se restiamo alla cronaca, i fatti dicono che il premier Alexis Tsipras ha rinnovato la squadra dei tecnici incaricati di trattare con Ue e Fmi, affidandone il coordinamento al viceministro degli Esteri, Euclid Tsakalotos. Molti hanno letto questa decisione come un commissariamento di Varoufakis, sacrificato dal primo ministro per ammorbidire la linea e favorire l'accordo con i creditori. Altri invece leggono la mossa come una reazione al tentativo internazionale d'isolare il ministro greco. La prima interpretazione è piaciuta molto praticamente a tutti, compresi gli investitori, che hanno reagito facendo salire le Borse. Ma siamo sicuri che abbiano ragione loro?
Dopo l'investitura di Tsakalotos, il governo ellenico ha ribadito di avere fiducia in Varoufakis, che conserva il proprio ruolo nell'Esecutivo e ottiene anche la responsabilità di supervisionare il lavoro dei nuovi negoziatori. "Sono io che imposto il tono: sono sempre io il responsabile nella trattativa con l'Eurogruppo" ha rivendicato il ministro in un'intervista al quotidiano tedesco Die Zeit. E ha precisato: "Ho la presidenza del gruppo negoziale. Prendo io le decisioni e mantengo un rapporto molto collegiale con gli altri ministri di Eurolandia, nonostante i negoziati siano molto difficili". A conferma di ciò, all'Eurogruppo dell'11 maggio, prossima data utile per sbloccare gli aiuti internazionali da 7,2 miliardi e rinviare il rischio default, la Grecia sarà rappresentata ancora una volta da Varoufakis.
Perché mai allora tanta enfasi sulla new entry Tsakalotos? La sua nomina è stata certamente una mossa tattica, ma al momento non c'è alcuna prova che coincida con un cambiamento di rotta nella linea negoziale di Atene. L'interpretazione più verosimile è perciò che Tsipras abbia voluto gettare nella partita una figura meglio inserita nel contesto dei tecnici europei (Tsakalotos, professore ed economista formato a Oxford, porta la camicia nei pantaloni e usa toni meno aggressivi rispetto a Varoufakis).
Non si tratta però solo di etichetta, ma di lavorare sui rapporti personali: l'obiettivo è evitare che l'antipatia suscitata a Bruxelles dal ministro delle Finanze - spesso inutilmente narcisista - ostacoli ulteriormente una trattativa di per sé complicatissima.
L'acme drammatico dello spettacolo "Varoufakis contro tutti" è stato raggiunto a fine aprile, durante l'Ecofin informale di Riga. In quell'occasione, il ministro greco è stato definito da vari colleghi un "incompetente", un "perditempo" e un "giocatore d’azzardo". L'ostilità più accesa pare sia stata come sempre quella del presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, non nuovo a scontri memorabili con Varoufakis. A guardare solo i curriculum, tuttavia, si rimane un po' disorientati. Si scopre infatti che il "professionista Dijsselbloem " è laureato in economia agraria, ha falsificato il proprio curriculum inventando un master mai conseguito e si è meritato dal Financial Times il soprannome di "Dijsselblood", perché "ogni volta che apre bocca il sangue scorre sui mercati".
Invece "l'incompetente Varoufakis " ha una laurea in matematica e statistica, un dottorato in economia, ha insegnato nelle università di tre continenti e gode della stima e dell'appoggio del premio Nobel Joseph Stiglitz e di James Galbraith.
Sul terreno delle competenze, perciò, la battaglia è impari, ma forse anche inutile. A prescindere da chi abbia ragione, un'atmosfera da saloon non conviene a nessuno. Tsipras lo sa e per allentare la tensione ha scelto di modificare la propria squadra, ma ciò non significa che l'alterego di Varoufakis diventerà il miglior amico di Dijsselbloem.
E' quantomeno avventato, infatti, supporre che la maggiore flemma di Tsakalotos corrisponda a posizioni più concilianti con l'Europa, come dimostra una dichiarazione riportata su vari giornali internazionali: "Se non prendiamo in considerazione la possibilità di far saltare i negoziati, è ovvio che i creditori faranno passare le stesse misure che hanno imposto al precedente governo” ha detto il viceministro degli Esteri lo scorso 26 marzo.
A rincarare la dose ed a smentire preventivamente eventuali illusioni da parte di Bruxelles, ha poi aggiunto: “Siamo intenzionalmente ambigui con i creditori perché devono rendersi conto che, nel caso in cui le cose vadano male, siamo pronti alla rottura. Se così non fosse, non potremmo negoziare". Insomma, se per Bruxelles Varoufakis è il malvagio Mr Hyde, è probabile che Tsakalotos non sarà l'inerme Dr. Jekyll.
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di Carlo Musilli
L'unica certezza è che i soldi stanno per finire. Secondo l'agenzia Reuters, la Grecia ha in cassa appena due miliardi di euro: Atene ha smentito la notizia, ma è indubbio che ormai la bancarotta sia alle porte, a meno che non si sblocchi la trattativa con Bruxelles per la nuova tranche di aiuti da 7,2 miliardi di euro. Fra maggio e giugno il Paese deve restituire 2,5 miliardi al Fmi, mentre fra luglio e agosto scadranno bond in mano alla Bce per altri 6,7 miliardi.
I debiti nei confronti dell'Eurotower, peraltro, dovrebbero richiedere un nuovo intervento internazionale, poiché quello attualmente in discussione riguarda una proroga degli aiuti soltanto fino a giugno. Nel frattempo, Atene deve continuare a pagare stipendi pubblici e pensioni.
Il momento della verità dovrebbe arrivare il 24 aprile, quando a Riga si terrà un Eurogruppo decisivo per le sorti della Grecia. I segnali positivi, fin qui, sono molto pochi: la cosiddetta "ex Troika" (Ue, Bce e Fmi) continua a giudicare insoddisfacente il pacchetto di riforme presentato dal governo greco per ottenere lo sblocco dei fondi concordati lo scorso febbraio. Da parte sua, l'Esecutivo targato Syriza non vuole tradire il programma con cui ha vinto le elezioni, fondato su tre pilastri: stop all'austerità, lotta alla crisi umanitaria e rilancio della crescita.
Alexis Tsipras ha detto a Reuters che il suo governo sta cercando un modo per rispettare sia "il mandato popolare" sia "il quadro operativo dell'Eurozona". Ma il Premier greco ha anche precisato che, ad oggi, il disaccordo fra Atene e Bruxelles riguarda quattro capitoli: mercato del lavoro, sicurezza sociale, aumento dell’Iva e privatizzazioni. Non proprio dettagli secondari.
Intanto, il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis continua a invocare una ristrutturazione del debito pubblico, poiché solo una revisione delle scadenze consentirebbe al Paese di riattivare la crescita e di tornare a finanziarsi sul mercato, uscendo dal circolo (altrimenti infinito) della crisi e degli aiuti internazionali. D'altra parte, argomenta Varoufakis, l'incidenza del debito greco sul debito complessivo dell'Eurozona è assai limitata.
Il problema centrale della vicenda greca, tuttavia, non è di natura tecnica, ma politica. L'obiettivo numero uno di Bruxelles è evitare di creare un precedente. Se i greci ottenessero quello che chiedono, rianimerebbero probabilmente il proprio Paese, ma dimostrerebbero anche che il dissenso può avere successo e che la via tracciata da Bruxelles non è la sola percorribile. A quel punto, anche in altri Paesi gli elettori potrebbero mandare al governo formazioni contrarie alla politica economica dell'Eurogruppo (vedi Podemos in Spagna) e l'assetto del potere all'interno dell'Eurozona sarebbe messo in discussione.
Dal punto di vista tecnico, invece, la questione è diversa. Gli effetti dell'austerity sui conti pubblici e sulla vita dei cittadini sono documentati: fra il 2009 e il 2014 la Grecia ha visto il tasso di disoccupazione salire dal 16 a 25% e il debito impennarsi dal 125 a 175,5% del Pil, a sua volta crollato del 25%. Nello stesso periodo, le banche tedesche e francesi hanno ridotto la propria esposizione verso il Paese ellenico rispettivamente da 45 a 13,51 e da 78,82 a 1,81 miliardi di dollari, scaricando la zavorra sulle spalle dei contribuenti europei. La massima parte degli aiuti inviati ad Atene, infatti, è stata usata dalle banche elleniche per ripagare i propri debiti con gli istituti di credito internazionali che avevano speculato in Grecia prima della crisi. In questo quadro, se nessuna delle due parti cederà, l'unica alternativa sarà il fallimento, che agli Stati europei costerebbe 194,7 miliardi di euro (di cui 41 solo all'Italia) e potrebbe portare con sé l'uscita della Grecia dalla moneta unica, anche se non è affatto detto che questa sia davvero una strada percorribile, se non altro perché nei trattati europei non è contemplata alcuna procedura per il ritorno alle monete nazionali.
In ogni caso, da mesi si ripete che ormai l'addio di Atene all'Eurozona non provocherebbe un effetto contagio mortifero, perché la congiuntura è migliore rispetto al 2010, la Bce sta inondando di liquidità i mercati con il Qe e i bilanci delle banche sono stati ripuliti. Ai mercati, però, la sola ipotesi del "Grexit" continua a non piacere, come dimostra il recente andamento di Borse e spread. Lo stesso Mario Draghi ha dovuto ammettere che "nel caso in cui la crisi dovesse precipitare entreremmo in acque inesplorate".
Se la Grecia uscisse dall'euro, in effetti, sarebbe smentito il dogma dell'irreversibilità della moneta unica: i mercati potrebbero tornare a speculare su chi sembra destinato a diventare la seconda vittima, mentre investitori e risparmiatori potrebbero scegliere di spostare il proprio denaro altrove per precauzione.
Ma non corriamo troppo, il Grexit è un'ipotesi per molti versi ancora nebulosa. La bancarotta, invece, è dietro l'angolo.