di Carlo Musilli

C'è l'ombra di Mario Draghi sul cataclisma valutario scatenato dalla Svizzera. Spaventata dal quantitative easing della Bce ormai alle porte, giovedì scorso la Banca centrale elvetica (Bns) ha cancellato il limite minimo fin qui imposto al cambio fra la propria valuta e la moneta unica (1,20 franchi per un euro, pari a 0,83 euro per un franco). La mossa ha fatto impennare la divisa svizzera, che venerdì sera ha chiuso a quota 0,97 per un euro, registrando in due giorni un guadagno del 20,7%.

Le conseguenze dello shock sono molte e per la maggior parte negative. Nell'immediato, la Borsa di Zurigo è sprofondata e vari broker sono entrati in crisi, mentre agli sportelli delle banche si allungavano le file per comprare gli euro con i franchi e guadagnare sul balzo del cambio. Nel lungo termine, la Svizzera ha avvantaggiato le proprie aziende importatrici, che pagheranno meno, mentre ha sacrificato quelle attive nell'export, condannate a vendere merci più care (secondo Morgan Stanley, solo le società quotate alla Borsa di Zurigo producono all'estero in media l'85% del fatturato). Non solo: il franco forte aggraverà anche il problema della deflazione, perché renderà più convenienti le materie prime, contribuendo a tenere bassi i prezzi al consumo.

Perché mai tanto masochismo? In realtà, non c'erano alternative. La Banca centrale svizzera avrebbe continuato volentieri a controllare il cambio franco-euro, ma ormai non poteva più permetterselo. La politica difensiva era iniziata nel 2010, quando la crisi dei debiti sovrani aveva fatto impennare gli acquisti sul franco, considerato un bene rifugio. All'epoca, la Bns aveva imposto il limite minimo al cambio per evitare che la moneta diventasse troppo forte. L'obiettivo, caldeggiato dalla Confindustria svizzera e da alcuni settori della finanza, era tutelare le aziende esportatrici, le stesse che oggi vengono abbandonate.

Il problema è che questa operazione ha avuto un costo sempre meno sostenibile. Per tenere artificialmente basse le quotazioni della valuta, la Banca centrale ha venduto franchi e comprato titoli denominati in dollari ed euro (principalmente titoli di Stato tedeschi e francesi). Così facendo, l'istituto si è a poco a poco saturato di monete straniere, facendo lievitare il rapporto riserve/Pil fino alle soglie dell'80% (contro il valore a una sola cifra della maggior parte dei Paesi avanzati). Per effetto del vincolo imposto ex lege, inoltre, il franco ha seguito l'euro nella traiettoria discendente del cambio con il dollaro, arrivando a perdere 15 punti percentuali nell'ultimo anno sulla moneta statunitense. 

In questo scenario già difficile, la Bns ha avuto paura di ciò che sarebbe accaduto dopo il prossimo consiglio direttivo della Bce, in agenda il 22 gennaio. Dalla riunione del board, infatti, i mercati attendono il varo del quantitative easing, programma di acquisto generalizzato di titoli pubblici e privati da parte dell'Eurotower. I termini della maxi-operazione non sono ancora chiari, ma è ovvio che la liquidità in arrivo da Francoforte indebolirà ulteriormente l'euro rispetto al dollaro. Berna ha voluto scongiurare il nuovo calo, che avrebbe messo a rischio lo status di moneta forte del franco.

L'ennesima flessione dell'euro, inoltre, produrrà un'altra fuga degli investitori, che lasceranno la moneta comunitaria per comprare beni rifugio come la valuta svizzera. Questa prevedibile nuova ondata di acquisti, se il limite minimo per il cambio fosse stato ancora in vigore, avrebbe costretto la Bns a fare ancora man bassa di euro e a perdere altri soldi, vista la tendenza ribassista della valuta unica. Di fronte a una prospettiva simile, Berna ha semplicemente gettato la spugna.

In qualche modo, il rapporto Bns-Bce fa pensare a una frase del film Per un pugno di dollari: "Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile - diceva Ramòn -, l'uomo con la pistola è un uomo morto". La Svizzera se n'è accorta in tempo e si è arresa.

di Carlo Musilli

Sul calendario dei mercati, la casella del 22 gennaio è cerchiata in rosso. In quella data si riunirà il Consiglio direttivo della Bce e tutti si aspettano il via libera al quantitative easing, un programma per l'acquisto generalizzato di titoli da parte dell'istituto centrale, sulla scorta di quanto già messo in atto dalla Fed statunitense e dalla Bank of Japan. Le incognite, tuttavia, sono molte. I primo luogo, la riunione del board si terrà appena tre giorni prima delle elezioni anticipate greche, dunque la tempistica non sembra delle più adatte per un annuncio simile, considerando che tanto Bruxelles quanto Francoforte temono la vittoria di Syriza, partito di sinistra alternativa guidato da Alexis Tsipras attualmente in testa ai sondaggi e intenzionato a rinegoziare nuovamente il debito pubblico ellenico.

Non è poi chiaro nemmeno a quanto ammonterà il Qe, né su quale genere di titoli si concentrerà. Nei mesi scorsi  erano arrivate alcune indicazioni: gli acquisti - aveva detto Draghi - riguarderanno ogni genere di titoli, esclusi quelli legati all'oro (ma inclusi, quindi, i bond pubblici), ed espanderanno il bilancio della Bce fino a riportarlo ai livelli d'inizio 2012 (il che significherebbe pompare nel sistema almeno altri mille miliardi).

Su entrambi questi aspetti il banchiere italiano ha dovuto fronteggiare l'opposizione del tedesco Jens Weidman, presidente della Bundesbank. La mediazione potrebbe aver portato ad alcuni compromessi, almeno stando a due notizie circolate la settimana scorsa. Primo: l'agenzia Bloomberg ha scritto che gli uffici della Bce hanno presentato al Consiglio dei governatori diverse opzioni di acquisto titoli, ma solo fino a 500 miliardi di euro, un ammontare che deluderebbe i mercati (come termine di paragone, si pensi che il Qe della Fed è arrivato a 4.500 miliardi di dollari).

Secondo: stando a Il Sole 24 Ore, la Bce avrebbe alzato i coefficienti patrimoniali richiesti ai 15 istituti italiani sottoposti alla vigilanza unica, portandoli dal 7% minimo imposto da Basilea 3 a una media del 10,5%. Ciò implicherebbe nuovi aumenti di capitale, che risulterebbero quanto mai difficoltosi, soprattutto per la malandata Mps. La stretta sui requisiti potrebbe rappresentare una sorta di contropartita per far accettare alla Germania gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce, ma di fatto vanificherebbe il Qe, perché costringerebbe le banche a ridurre ulteriormente il credito. Un vero paradosso, che però Bankitalia ha smentito.

L'unico aspetto realmente chiaro, al momento, è il movente che spinge Draghi a premere l'acceleratore per il Qe, ossia il combinato composto di stagnazione del Pil e di caduta dei prezzi. A dicembre, secondo la stima preliminare diffusa mercoledì scorso da Eurostat, l'Eurozona è entrata in deflazione per la prima volta dal 2009, con i prezzi al consumo che hanno fatto segnare un -0,2% su base annua, contro il +0,3% registrato a novembre.

E' vero, non si è ancora attivata la mortifera spirale deflattiva (fenomeno per il quale chi consuma rinvia gli acquisti in attesa di ulteriori ribassi, mentre chi produce non vende e abbassa ulteriormente i prezzi, in un circolo vizioso difficilissimo da invertire) e sul calo pesa in modo decisivo il costo dell'energia dopo il recente crollo del petrolio pilotato dall'Arabia Saudita tramite l'Opec. Eppure, statuto alla mano, proprio la stabilità dei prezzi è il primo mandato della Bce e anche un'inflazione minima sarebbe comunque lontanissima dagli obiettivi ufficiali dell'istituto, che punta a una media annua "inferiore ma vicina al 2 percento".

In teoria, il primo strumento per far viaggiare i prezzi è il taglio dei tassi d'interesse, ma su questo fronte l'Eurotower non può più intervenire, avendo già portato il tasso di riferimento al minimo storico (e ormai intoccabile) dello 0,05%. Non solo: negli ultimi mesi la Bce ha affiancato al taglio dei rendimenti altre misure straordinarie, ovvero le aste Tltro (prestiti agevolati alle banche) e gli acquisti di Abs e covered bond.

Purtroppo, l'insieme di queste tre misure non è riuscito a far ripartire il motore economico europeo, dal momento che le prime due aste Tltro sono state un fallimento per le scarse richieste arrivate dalle banche e gli acquisti di titoli diversi dai bond pubblici non sono stati in grado di muovere masse sufficienti di liquidità. Ecco perché il quantitative easing è la speranza estrema, l'ultima arma nelle mani della Bce. Non c'è più margine d'errore: se anche stavolta il colpo mancherà il bersaglio, nel caricatore non rimarranno più pallottole.

di Michele Paris

Secondo un recente rapporto compilato dall’agenzia di stampa americana Bloomberg, la ricchezza complessiva dei 400 uomini più facoltosi del pianeta è cresciuta di quasi 100 miliardi di dollari nel solo 2014, mentre è poco meno che raddoppiata dall’inizio della crisi economica globale nel 2008. I dati, riportati dall’annuale "Bloomberg Billionaires Index", dimostrano dunque ancora una volta che concetti come recessione, disoccupazione, precarietà o povertà dilagante in questi anni non hanno mai riguardato il ristretto vertice della piramide sociale.

Per costoro, al contrario, la crisi del capitalismo internazionale è stata un’occasione storica per incrementare in maniera sensibile la ricchezza accumulata a spese della grande maggioranza della popolazione.

Ciò che mette in evidenza la ricerca è poi il fatto che questa esplosione dei livelli di ricchezza è stata in sostanza determinata non dalle libere forze del mercato, bensì dalle politiche stesse dei governi e delle banche centrali dei vari paesi, impegnati nell’immettere quantità di denaro senza precedenti nel sistema finanziario.

Secondo l’Indice di Bloomberg, dunque, i beni dei 400 super-ricchi sono saliti di 92 miliardi di dollari lo scorso anno, raggiungendo un totale sbalorditivo di 4.100 miliardi. Questa cifra risulta ad esempio superiore al prodotto interno lordo della Germania, cioè la quarta economia del pianeta, e corrisponde a poco meno della metà di quello della Cina, la seconda economia del pianeta e un paese di oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti.

In media, la ricchezza di ogni singolo individuo appartenente all’elenco è aumentata di 240 milioni di dollari nel 2014 ma un’analisi per ognuno di essi mostra notevoli differenze. L’investitore americano Warren Buffett, accreditato da Bloomberg della seconda posizione tra i paperoni del pianeta, ha visto crescere i propri “asset” di ben 13,7 miliardi di dollari in quella che per lui è stata senza dubbio un’annata alquanto fruttuosa.

La ricchezza totale detenuta da Buffett è assestata ora - o meglio al momento della compilazione dell’Indice - a 74,5 miliardi di dollari, ovvero poco più della ricchezza totale prodotta nel 2013 da un intero paese come la Libia.

Il modello di business che ha consentito a Buffett di competere per le prime posizioni della classifica degli uomini più ricchi del mondo corrisponde in sostanza all’acquisizione di aziende che producono profitti da record grazie al taglio senza scrupoli dei costi e del personale.

Ancor più, come già ricordato, sono state le politiche di “quantitative easing” delle varie banche centrali ad alimentare le impennate degli indici di borsa e le ricchezze di investitori/speculatori, dietro l’apparenza di strategie presentate come necessarie per stimolare la crescita economica.

La ricchezza dei 400 uomini più ricchi del pianeta è così direttamente legata ai picchi toccati dalle borse, da quella americana a quella giapponese o cinese. Il Dow Jones di Wall Street, ad esempio, ha sfondato per la prima volta i 18 mila punti alla fine dell’anno, più che triplicando il livello raggiunto nel marzo del 2009.

Tra gli altri protagonisti del Bloomberg Index spiccano i businessmen cinesi. Due dei tre miliardari che hanno guadagnato di più nel 2014 vengono appunto dalla Cina. Il primo è Jack Ma, CEO di Alibaba Group, il quale ha raccolto 25,1 miliardi in seguito all’offerta pubblica di azioni della sua compagnia di e-commerce.

L’altro è Wang Jianlin di Dalia Wanda, un gruppo operante in vari settori tra cui quello edilizio e del turismo, che ha visto crescere i propri beni di oltre 12 miliardi di dollari in un solo anno.

Gli americani sono in ogni caso ben rappresentati, con Mark Zuckerberg di Facebook che ha fatto segnare +10,6 miliardi di dollari nel 2014 per un totale di beni a sua disposizione pari a 35,3 miliardi, ma anche il solito Bill Gates (+9,1 miliardi; totale 87,6 miliardi) e Larry Ellison di Oracle (+5,7 miliardi; totale 49,4 miliardi).

In definitiva, a differenza del periodo di crescita della ricchezza seguito al secondo dopoguerra, quello attuale è sostanzialmente di natura parassitaria e quasi del tutto svincolato dall’impulso all’attività produttiva, così che non si riflette in nessun miglioramento generale degli standard di vita della popolazione. Anzi, l’economia reale continua a declinare o tutt’al più a rimanere stagnante, mentre montagne di denaro sono sottratte agli investimenti.

Al rapido arricchimento di pochi grazie alla crisi e alle politiche messe in atto dai governi corrisponde l’impoverimento di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, come confermano numerose indagini sui livelli scandalosi di disuguaglianza raggiunti un po’ ovunque.

Mentre nel pianeta il numero di disoccupati ha toccato per la prima volta i 200 milioni e 860 milioni di persone vivono in povertà, un recente studio dell’OCSE ha messo in luce come oggi il 10% della popolazione più ricca guadagna in media 9,5 volte di più del 10% dei più poveri. Il rapporto tra le entrate del vertice e quelle della base della piramide sociale era pari a 7 a 1 negli anni Ottanta.

Tra i 34 paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico le differenze sono però marcate. Se per paesi come l’Italia, il Giappone o la Gran Bretagna questo rapporto è di 10 a 1, la forbice si allarga per Grecia, Israele o Stati Uniti (tra 13 e 16 a 1) per raggiungere livelli vicini addirittura a 30 a 1 nei casi di Messico e Cile.

di Carlo Musilli

Sulla scacchiera del petrolio, in quest'ultima parte dell'anno, le strategie dei giocatori si fanno più scoperte. Le quotazioni sono calate di circa il 40% in meno di sei mesi, con il Brent che la settimana scorsa è sceso per la prima volta in cinque anni sotto li muro dei 60 dollari al barile, salvo poi risalire leggermente.

Il crollo è dovuto al combinato composto di due fattori: la flessione della domanda globale (a dicembre l'Agenzia internazionale dell'Energia ha tagliato le stime per la quarta volta in cinque mesi) e la mancata reazione dell'Opec, che ha deciso di non ridurre la produzione, mantenendola a 30 milioni di barili al giorno.

Nel corso di un forum sull'energia ad Abu Dhabi, il ministro del Petrolio saudita, Ali al-Naimi, ha confermato che Riyadh non toccherà gli attuali livelli di produzione anche se i Paesi non Opec decideranno di diminuirla: "Se vogliono tagliarla sono i benvenuti - ha detto -, ma certamente l'Arabia Saudita non lo farà", pur essendo "al 100% insoddisfatta" dell'attuale costo del petrolio. Affermazioni apparentemente contraddittorie, che però rispondono a una logica precisa.

In effetti, il Brent sotto i 90 dollari al barile causerà un deficit di bilancio nelle casse saudite, ma è un prezzo che Riyadh pagherà volentieri in vista di obiettivi superiori. A grandi linee, il disegno è fare in modo che l'Opec danneggi i Paesi produttori estranei al cartello, colpendo direttamente i concorrenti più pericolosi (Usa e Canada) e i principali alleati della Siria di Assad (Russia e Iran), oltre a uno scomodo rivale come il Venezuela.

Sul primo fronte, il calo delle quotazioni del petrolio punta a ridurre la convenienza economica del fracking, la tecnica di estrazione di petrolio e gas tramite la fratturazione della roccia che ha permesso agli Usa di ridurre la dipendenza dall’energia estera e che presto potrebbe trasformarli in un esportatore netto (di gas). Sul ritorno economico del fracking i pareri sono discordanti: secondo Bernstein Research, un terzo della produzione non sarebbe conveniente con il prezzo del Wti di sotto di 80 dollari al barile (oggi è a 57), mentre Morgan Stanley stima che il punto di pareggio sia a circa 77 dollari al barile. Goldman Sachs e Credit Suisse ritengono invece che per i grandi giacimenti i profitti sarebbero assicurati anche al di sotto dei 60 dollari.

D'altra parte, alla Casa Bianca non dispiacciono affatto gli altri obiettivi del piano saudita, a cominciare dagli effetti sull'Iran. Più scende il prezzo del petrolio, infatti, e meno conveniente diventa il programma nucleare di Teheran, che è stato concepito anche per conservare petrolio e gas da vendere sui mercati internazionali.

Sempre dal punto di vista di Washington, però, la conseguenza più importante del tonfo petrolifero è il durissimo colpo inferto alla Russia, nemica anche dei sauditi in quanto alleato del regime di Damasco ed esportatrice di energia in Europa. Insieme alle rinnovate sanzioni economiche per la crisi ucraina e al rallentamento generale dell'economia, il calo del greggio ha innescato una serie di pesanti attacchi speculativi contro il rublo (il cui valore si è praticamente dimezzato) e potrebbe traghettare Mosca verso almeno un paio d'anni di recessione.

Infine, il calo dei prezzi del petrolio ha almeno un altro effetto gradito agli Usa, ovvero lo schiaffo al chavismo in Venezuela. Secondo un report di Moody's, il Paese sudamericano rischierebbe la bancarotta se le quotazioni del greggio si stabilizzassero intorno a quota 60 dollari al barile. Le esportazioni venezuelane dipendono per il 96,1% dal petrolio, che garantisce anche il 65% delle entrate statali. E non è un caso che gli avvoltoi della speculazione abbiano puntato il mirino proprio su Caracas, portando i rendimenti dei titoli pubblici decennali alle soglie del 24% e lo spread con il Bund addirittura oltre il 2.300 punti base.

Quanto all'Italia, il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha ripetuto più volte che il petrolio a 60 dollari "potrebbe essere una buona notizia", perché garantirebbe al nostro Paese uno "0,5% di crescita in più". Intanto, però, ci pensa il Fisco a fare in modo che i consumi non traggano il massimo vantaggio dal calo delle quotazioni.

Secondo stime dell'Unione petrolifera pubblicate la settimana scorsa, il prezzo del greggio è tornato sui livelli del novembre 2010, ma rispetto ad allora la benzina costa circa 27 centesimi in più (23 dovuti alle tasse e quattro all'effetto cambio), mentre il gasolio è più caro di 33 centesimi (28 per le accise e cinque per il cambio). Inoltre, nuovi aumenti fiscali sono previsti fino al 2021 da diverse clausole di salvaguardia contenute in vari provvedimenti legislativi. E pensare che oggi, al netto dei rincari sulle accise, in Italia la benzina costerebbe meno di 1,4 euro al litro e il gasolio meno di 1,2. Prezzi del genere, però, nel nostro Paese sono destinati a rimanere un miraggio. Nemmeno fossimo nel deserto saudita.

di Antonio Rei

Tra le varie favole che si raccontano sull'economia italiana, ce n'è una che fa più danni delle altre. L'ultima istituzione a raccontarla è stata l'agenzia di rating Standard & Poors', che sabato ha aggiunto un meno alla valutazione sul merito di credito del nostro Paese, perché "un forte aumento del debito, accompagnato da una crescita perennemente debole e dalla bassa competitività, non è compatibile con un rating BBB".

Sui primi due punti nessuno può dare torto a S&P. Il terzo, invece, è una fandonia che ormai sentiamo raccontare da tempo immemore. Non è affatto vero che la competitività italiana sui mercati internazionali sia bassa: i numeri ufficiali smentiscono questa tesi ormai cristallizzata nell'opinione comune.

Secondo i dati diffusi dall'Istat lo scorso 17 novembre, nei primi nove mesi del 2014 il saldo commerciale dell'Italia fuori dall'Unione europea - ovvero la differenza fra esportazioni e importazioni - è stato positivo per 28,2 miliardi di euro, in miglioramento rispetto al surplus da 19 miliardi registrato nello stesso periodo del 2013. Inoltre, se non consideriamo il commercio di energia, che pesa moltissimo sull'import, il risultato s'impenna di oltre il 100%, arrivando a quota 61,7 miliardi. Tra gennaio e settembre 2014, in generale, l'export è salito dell'1,4%, mentre l'import è sceso dell'1,9%. In tutto il 2013, infine, il saldo è stato positivo per 29,230 miliardi.

In un report successivo, pubblicato il 24 novembre, l'Istituto di statistica ha comunicato che - secondo le stime preliminari - lo scorso ottobre l'avanzo commerciale extra Ue è stato pari a 4,038 miliardi (contro il surplus di 2,805 miliardi dell'ottobre 2014), il livello più alto dal gennaio del 1993. Al netto dei prodotti energetici il dato sale a 6,8 miliardi, con esportazioni e importazioni in crescita rispettivamente dell'1,6 e del 7,5%. I mercati di sbocco più dinamici sono stati Turchia (+13,1%), Stati Uniti (+9,8%) e Cina (+4,8%).

Ora, nessuno vuole dipingere un quadro assurdamente ottimistico della congiuntura attraversata dall'Italia, ma è inevitabile porsi una domanda: in che modo si conciliano i calcoli dell'Istat con la vulgata della "bassa competitività"? Risposta: in alcun modo. Si può pensare che surplus così ampi siano stati prodotti dal progressivo crollo delle importazioni, ma i numeri smentiscono anche questa interpretazione.

Al contrario, la verità è che sui mercati internazionali, specie quelli globalmente più ricettivi, le aziende italiane continuano a dar prova non solo di resistenza, ma perfino di dinamismo. Da questo punto di vista alcuni comparti del Made in Italy hanno un che di eroico, considerando che nei mesi scorsi la forza dell'euro sul dollaro ha rappresentato un ostacolo non da poco alle esportazioni.

Ma allora perché tanta enfasi nel raccontare la fiaba della "bassa competitività"? Viene da pensare che l'obiettivo principale dei cantastorie sia glissare sulla vera natura dei problemi che affliggono il nostro sistema produttivo. E cioè che la crisi attuale e la stagnazione del prossimo futuro hanno tutt'altra origine: la debolezza della domanda interna.

I consumi degli italiani, quelli sì, sono crollati nel baratro. Stando a una ricerca pubblicata la settimana scorsa da Confcommercio, nel 2014 si sono attestati allo stesso livello del 1997. Rispetto al picco del 2007 sono stati erosi circa duemila euro a testa di spesa, per un calo complessivo del 12%. L'allarme dell'associazione riguarda anche il reddito reale pro-capite, che nel 2013-2014 sarebbe tornato addirittura ai livelli del 1986, perdendo circa 2.700 euro negli ultimi sette anni.

Purtroppo, in quasi tutti gli allarmi lanciati da Bruxelles, dai centri studi delle banche e dalle agenzie di rating la parola "consumi" si legge solo nei paragrafi secondari. Questa faccia del problema non è mai segnalata come una delle priorità da affrontare: è piuttosto vista come una conseguenza lineare dell'alto tasso di disoccupazione, che a sua volta viene giudicato un danno collaterale accettabile pur di non mettere in discussione i vincoli di bilancio. Di rilanciare la domanda interna con una politica di (vero) sostegno ai redditi, non si parla nemmeno.


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