di Antonio Rei

Con mossa rapida e decisa il governo Renzi finge di risolvere un problema e al tempo stesso fa un bel regalo ai mercati finanziari. Dopo una diatriba durata vent'anni, la riforma delle banche popolari viene scritta di corsa e infilata alla chetichella in un decreto legge, il cosiddetto Investment compact, che - c'è da scommetterci - sarà ratificato in Parlamento a colpi di fiducia. La nuova norma prevede che gli istituti con un patrimonio superiore agli otto miliardi di euro debbano trasformarsi in società per azioni entro 18 mesi dall'arrivo del regolamento attuativo di Bankitalia, che fisserà le regole della metamorfosi.

Le banche che abbandoneranno forzatamente lo statuto cooperativo sono in tutto 10, di cui sette quotate in Borsa (Banco Popolare, Ubi Banca, Popolare Emilia Romagna, Popolare di Milano, Popolare di Vicenza , Veneto Banca, Popolare di Sondrio) e tre assenti da Piazza Affari (Credito valtellinese, Popolare di Bari e Popolare dell'Etruria e del Lazio).

Per chi rimane fuori dal perimetro dell'obbligo, l'Esecutivo ha pensato bene di abbattere le soglie necessarie all'approvazione in assemblea di fusioni e passaggi da cooperativa a Spa. La riforma prevede infatti che alla seconda convocazione (quella che tradizionalmente conta davvero, visto che alla prima il capitale rappresentato non è quasi mai sufficiente) basti la maggioranza dei due terzi dei votanti, senza alcun limite. In teoria, se Bankitalia non risolverà questo nodo, potrebbe bastare l'1% del capitale per deliberare in tema di fusioni o cambiamenti di statuto. Finora invece il quorum era stabilito dalle singole banche e per decisioni simili erano previste soglie ben più stringenti.

Con il passaggio da popolari a Spa, inoltre, le banche perderanno una serie di caratteristiche. Innanzitutto, sarà eliminato il voto capitario (il principio per cui in assemblea ogni testa vale un voto, a prescindere dalle differenti partecipazioni in mano agli azionisti) e si passerà al sistema delle società per azioni (in cui il potere decisionale è ripartito fra i soci in proporzione alle diverse quote). Gli istituti diranno poi addio a due limiti: il numero minimo di soci (200) e la partecipazione massima in mano a ciascuno di essi (1%).

La somma di tutti questi cambiamenti produce una novità decisiva: le popolari, trasformandosi in Spa, diventeranno scalabili. Finora non lo sono state, perciò la nomina degli amministratori ha richiesto un ampio consenso fra tutti gli azionisti. Fra qualche mese, invece, le dieci maggiori popolari potranno essere acquistate da chiunque abbia abbastanza denaro per farlo, in Italia o all'estero. Si dice che il polo aggregante sarà la Bpm e che nel valzer delle fusioni dovranno entrare anche Mps e Carige, affamate di capitale dopo la bocciatura  agli stress test della Bce.

A prescindere dal risultato, questo genere di risiko gonfia nel breve periodo i prezzi delle azioni e per questo piace ai mercati, che non a caso nelle ultime sedute di Borsa hanno premiato i titoli delle popolari con rialzi da favola.

Intanto, mentre Piazza Affari si lecca i baffi, a Roma qualcuno protesta per la scelta di condurre l'intera operazione via decreto. E' una decisione illegittima, poiché questo strumento è previsto dalla Costituzione solo per interventi di particolare urgenza, mentre la necessità di aggiustare la governance delle popolari (oggetto di ripetuti abusi) è un argomento su cui si dibatte da prima della Macarena.

Nessuno si scandalizza, perché ormai l'articolo 77 della Carta è diventato una barzelletta, eppure il governo ha provato a impalcare delle giustificazioni, sostenendo che con le aggregazioni si faciliti la ripresa del credito.

Peccato che in Italia, negli ultimi anni, proprio le popolari siano l'unica realtà bancaria ad aver aumentato i prestiti. E ciò non deve stupire: non stiamo parlando di un eden finanziario, ma le banche cooperative, nate dall'esigenza di favorire lo sviluppo delle singole comunità, sono per natura più legate al territorio. Ora devono pagare il conto perché, di fronte a problemi come l'uso disinvolto del voto capitario o il sistema di deleghe poco trasparente, il Governo ha scelto di rinnegare il concetto stesso di cooperativa. E per imitare chi vanta banche "too big to fail" si è inventato le "too big to cooperate".

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