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di Carlo Musilli
Dopo mesi di annunci e rassicurazioni, ieri la Banca centrale europea ha dato il via libera alle nuove e tanto sospirate “misure non convenzionali” di politica monetaria. Il tasso di riferimento è calato dallo 0,25 allo 0,15%, nuovo minimo storico, mentre quello sui depositi è sceso per la prima volta sotto lo zero (-0,1%), il che renderà svantaggioso per le banche parcheggiare la propria liquidità nelle casse virtuali dell’Eurotower.
Il presidente Mario Draghi, che non ha escluso per il futuro un vero e proprio quantitative easing in stile Fed, ha poi annunciato un ulteriore pacchetto d’interventi: nuove ondate di prestiti in scadenza nel 2018 per il sistema bancario; stop alle operazioni settimanali con cui la Bce riassorbe la liquidità che ha creato comprando titoli di Stato durante la crisi del debito, pari a circa 165 miliardi di euro; lavoro preparatorio per l'acquisto di Abs (Asset backed securities, titoli cartolarizzati garantiti da crediti e mutui), ma soltanto di quelli “semplici, trasparenti e veri, cioè basati su prestiti reali e non derivati”.
Si tratta di misure ampiamente attese dai mercati (che ieri hanno festeggiato: Piazza Affari +1,5%, spread in calo a 163 punti base) e più volte sollecitate sia dal Fondo monetario internazionale sia dall’Ocse - con cui non sono mancate le scaramucce - ma fin qui rinviate dall’Eurotower per ragioni in primo luogo politiche. Cos’è cambiato nell’Eurozona rispetto ad aprile o a maggio? Assolutamente nulla, sennonché ormai le elezioni europee sono archiviate e nessuno può accusare la Bce di aver agito con un occhio alle urne.
Gli obiettivi fondamentali delle “misure non convenzionali” sono due. Il primo è sventare il pericolo deflazione, ovvero l’inflazione negativa, che si ha quando i prezzi non solo riducono il loro ritmo di crescita (in quel caso si parla di disinflazione), ma addirittura calano. Il taglio dei tassi d'interesse riduce il costo del denaro e aumenta la massa monetaria, il che dovrebbe produrre due risultati: limare la forza eccessiva dell’euro sul dollaro (anche per rendere più competitive le esportazioni) e appunto riaccendere l’inflazione.
Statuto alla mano, è proprio questo il primo obiettivo della Bce: vigilare sulla stabilità dei prezzi, puntando a un’inflazione media annua inferiore ma vicina al 2%. Un obiettivo ora molto lontano, visto che proprio ieri lo stesso istituto centrale ha tagliato ulteriormente le previsioni sull’inflazione, portando le stime sul 2014 dall’1 allo 0,7%.
Il rischio è l’ingresso in una spirale deflattiva: la debolezza della domanda induce le imprese a ridurre i prezzi, fenomeno che a sua volta spinge consumatori e aziende a rinviare gli acquisti, nella speranza che in futuro i prezzi calino ancora. E così via, in un circolo di aspettative che si auto-avverano, con le imprese che progressivamente tagliano i costi e, nel peggiore dei casi, falliscono. Una situazione di questo tipo si è verificata in Giappone fra il 2000 e il 2006. Il secondo obiettivo della Bce è allentare il credit crunch. Vanno in questa direzione i nuovi maxi-prestiti alle banche, che si differenziano profondamente dai due LTRO (Long-term refinancing operations) risalenti al dicembre 2011 e febbraio 2012. Il nuovo acronimo è TLTRO (Targeted longer-term refinancing operations), e quella T iniziale segnala un’innovazione decisiva: stavolta le banche otterranno la liquidità soltanto se finanzieranno l’economia reale.
In una prima fase gli istituti potranno prendere in prestito fino al 7% del totale dei loro impieghi verso il settore privato non finanziario, al netto dei prestiti per i mutui in circolazione al 30 aprile 2014. Saranno condotte due aste, a settembre e dicembre di quest'anno, per le quali è previsto un ammontare di circa 400 miliardi di euro. Dal marzo 2015 e al giugno 2016 le banche potranno richiedere altri finanziamenti trimestralmente fino a tre volte l'ammontare dei loro finanziamenti al settore privato non finanziario dell'Eurozona (sempre esclusi i mutui).
Nelle due precedenti operazioni LTRO non solo questo vincolo non esisteva, ma, poiché la Bce accettava come garanzia dalle banche i titoli di Stato dei Paesi Ue, agli istituti di credito era ufficialmente permesso speculare sulla differenza fra i tassi d’interesse irrisori pagati a Francoforte e quelli molto alti ottenuti dagli Stati sovrani. In sostanza, allora le banche usarono l’oceano di liquidità arrivato dall’Eurotower per fare trading e guadagnare, mentre alle famiglie e alle imprese arrivarono le briciole. Stavolta il trucco non dovrebbe funzionare.
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di Carlo Musilli
"La Grecia vede finalmente la luce in fono al tunnel" e "nel 2015 crescerà più dell'Italia". Dette così, queste due frasi a effetto in circolazione da qualche giorno funzionano. Peccato che la prima sia falsa e la seconda - pur corretta in termini percentuali - non abbia alcun senso, perché il paragone in sé è un'assurdità. Purtroppo per i greci, le previsioni diffuse la settimana scorsa dal Fondo monetario internazionale hanno generato alcuni equivoci di portata rilevante.
Partiamo dai numeri. Secondo l'ultimo "World Economic Outlook" dell'Fmi, nel 2014 i Pil di Italia e Grecia cresceranno entrambi dello 0,6% (in tutta l'Eurozona faranno peggio solo Finlandia, Slovenia e Cipro), mentre l'anno prossimo Atene metterà a segno un balzo del 2,9%, contro l'anemico +1,1% del nostro Paese. A ben guardare, nel 2015 la crescita ellenica batterà anche quelle di Germania (+1,6%) e Francia (+1,5%), le due maggiori economie dell'area euro.
Com'è possibile? Gli economisti del Fondo monetario non sono impazziti, la vera follia è stilare una classifica sulla base di quei dati. Ciò che attende la Grecia è un semplice rimbalzo dopo la recessione ininterrotta degli ultimi sei anni. Dal 2008 a oggi Atene ha bruciato circa un quarto del proprio Pil, di gran lunga la contrazione più grave rispetto a quella accumulata in qualsiasi altro Paese di Eurolandia.
A fronte di quel baratro, il recupero dell'anno prossimo non sarà particolarmente significativo, perché quando si parla di percentuali è bene ricordare una piccola legge: se oggi perdo l'1% e domani guadagno l'1%, rimango comunque in rosso. Esempio pratico: se il mio capitale è 100 e perdo l'1%, resto con 99, perché l'1% di 100 è 1; quando poi recupero l'1%, il mio capitale non torna a 100, ma si ferma a 99,99, perché l'1% di 99 è 0,99. Può sembrare un'inezia, ma non lo è affatto se si applica questa logica ai numeri di un prodotto interno lordo.
Quanto ai valori assoluti, secondo i calcoli della Banca mondiale, nel 2012 il Pil pro capite dell’Italia è stato pari a 33.048,75 dollari, mentre quello della Grecia è arrivato a 22.082,89 dollari. Nello stesso anno, il Pil del nostro Paese valeva in tutto 2.013 miliardi di dollari, circa nove volte più di quello ellenico, che si fermava a 249,1 miliardi. E' evidente che stiamo parlando di grandezze incommensurabili e di andamenti economici molto differenti. Sbandierare il tasso di crescita che la Grecia porterà a casa nel 2015 è quindi un'operazione strumentale, pura propaganda.
Quel +2,9% aiuterà purtroppo a sedimentare la vulgata secondo cui Atene sta finalmente vedendo i frutti di un'austerità dura ma necessaria. Non è così, e lo certifica ancora una volta il Fondo monetario: sempre secondo i numeri riportati nel "World economic outlook", il tasso di disoccupazione ellenico si attesterà al 26,3% nel 2014 e al 24,4% nel 2015, più del doppio di quello che si registrerà in Italia e addirittura cinque volte quello atteso in Germania.
Il debito pubblico, invece, a fine 2013 ha nuovamente superato il livello considerato insostenibile nel 2011, salendo al 173,8% del Pil, dal 170,3% del 2011, e l'Fmi prevede che quest'anno crescerà ancora, fino al 174,7%. Sono quindi già svaniti gli effetti della ristrutturazione decisa nel 2012, che aveva abbattuto il debito al 157,2% del Pil. La Grecia è anche il primo Paese dell'Eurozona ad essere entrato ufficialmente in deflazione, registrando a marzo una decrescita dei prezzi pari allo 0,2% su base annua.
Per quanto riguarda le reali condizioni delle persone, secondo un recente rapporto dell'Unicef la vita dei bambini nel Paese ellenico è peggiorata in seguito ai tagli alle prestazioni sociali e al numero crescente di genitori disoccupati, e ciò ha aumentato i livelli di povertà e reso insufficiente l'accesso alle cure mediche. Il numero di bambini che in Grecia erano a rischio povertà o di esclusione sociale nel 2012 è aumentato a 686.009 unità, ovvero il 35,4% del totale, rispetto al 30,4% del 2011. Inoltre è emerso che 292.000 bambini, cioè il 13,2% di tutti i minori in Grecia, vivono attualmente con genitori disoccupati. Nel 2008, prima della crisi, erano 88.000.
Nonostante la situazione resti drammatica, la settimana scorsa Atene è tornata per la prima volta in quattro anni sul mercato dei titoli di Stato. E il risultato è stato eccellente: sono stati collocati bond a cinque anni per tre miliardi di euro, ma la domanda da parte degli investitori ha raggiunto addirittura i 20 miliardi. I rendimenti medi si sono attestati al 4,95%, ben al di sotto delle previsioni, che indicavano una forbice tra il 5,25 e il 5,50%.
L'exploit non è però legato ad alcuna fantomatica ripresa, bensì all'attuale congiuntura del mercato: con i tassi della Bce al minimo storico dello 0,25% (e la prospettiva di ulteriori tagli), la liquidità abbonda e rendimenti alti come quelli sui titoli ellenici sono una tentazione irresistibile. Peraltro, ora che la malattia della recessione sta abbandonando l'Eurozona, nessuno scommette più sull'uscita della Grecia dall'euro. Il vento è cambiato sui mercati finanziari, ma questo non significa affatto che i greci stiano meglio, o che abbiano delle reali prospettive di risollevarsi. Lo sa bene anche Angela Merkel, che la settimana scorsa ad Atene si è prodotta in un riuscitissimo esercizio d'ipocrisia. "Continueremo a sostenere la Grecia" che è "sulla strada giusta", ha detto la cancelliera, ribadendo poi "la necessità di proseguire sulla strada delle riforme per rafforzare la competitività del Paese", sviluppi necessari, "per aiutare la dinamica dell'Ue nei mercati internazionali".
Secondo Syriza, il principale partito greco di sinistra all'opposizione, "la visita della Merkel ad Atene puntava a premiare l'azione catastrofica del governo Samaras-Venizelos, a controllare che l'austerità continui, che le banche siano regalate ai grandi gruppi d'interesse, che la proprietà pubblica sia svenduta e che gli stipendi siano ridotti al livello di quelli bulgari".
La maggior parte dei greci considera la cancelliera responsabile dell'austerità che li ha colpiti (dal taglio di stipendi e pensioni all'aumento delle tasse, passando per decine di migliaia di licenziamenti nel settore pubblico) e un anno e mezzo fa la accolse mettendo a ferro e fuoco la propria capitale. Questa volta non si sono verificati episodi simili, ma solo perché la polizia aveva vietato tutte le dimostrazioni nel centro di Atene e i trasporti pubblici erano stati sospesi per l'intera giornata.
Grazie a questa interruzione della democrazia, la Merkel ha potuto confermare alla Germania che non ci saranno nuovi pacchetti di salvataggio per la Grecia e che un nuovo haircut sul debito ellenico è escluso. La cancelliera, lei sì, è davvero "sulla strada giusta". Perlomeno in vista delle elezioni europee.
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di Carlo Musilli
La pièce teatrale di Karlsruhe si è arricchita di un nuovo atto. Venerdì scorso, infatti, la Corte costituzionale tedesca ha fatto sapere di aver rinviato alla Corte europea di Giustizia il verdetto sulla legittimità del piano Omt varato dalla Banca centrale europea. Una scelta a suo modo storica, dal momento che mai prima d’ora i giudici costituzionali della Germania avevano abbandonato il palcoscenico per fare spazio ai colleghi del Lussemburgo.
A questo punto il finale appare scontato: il piano della Bce dovrebbe ricevere la conferma definitiva, segnando un’importante vittoria per il numero uno dell’Eurotower, Mario Draghi. I tempi, ad ogni modo, non saranno brevi: per il via libera bisognerà aspettare ancora dei mesi.
Oggetto del contendere sono le Outright Monetary Transactions (Omt) varate dalla Bce nel settembre 2012, al picco della crisi dei debiti sovrani. Il piano consente all'istituto centrale di acquistare sul mercato secondario (dove vengono scambiati i bond già in circolazione) i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, in modo da raffreddare gli spread. Chi vuole attivare la procedura deve sottoscrivere un memorandum con la Commissione Ue e la stessa Banca centrale, impegnandosi a risanare i propri conti e a varare le riforme strutturali necessarie.
Il programma Omt finora non è mai stato messo in pratica, ma il solo effetto-annuncio è bastato a spegnere l'incendio sui mercati. Gli speculatori si sono ritrovati in mano un'arma scarica: chi in passato ha scommesso contro Paesi come Italia e Spagna, puntando sui rialzi dello spread, oggi sa benissimo che il gioco non funzionerebbe, perché la potenza di fuoco della Bce è insuperabile.
Sotto il governo Monti, ad esempio, lo spread italiano ha iniziato a calare proprio per questo motivo, non certo per l'affidabilità delle leggi firmate dai professori. Insomma, la sola esistenza teorica delle Omt si è rivelata sufficiente e al momento non c'è motivo di ritenere che alcun Paese dell'Eurozona abbia interesse ad attivare la procedura.
Ora, la Corte costituzionale tedesca ritiene che il piano vada oltre "il mandato di politica monetaria della Banca centrale europea", calpestando "il potere degli Stati membri" e violando "il divieto di finanziamento monetario al budget". Gli stessi giudici avanzano però una concessione: "E' possibile - scrivono - che se le norme che regolano le Omt fossero interpretate in maniera restrittiva siano conformi alla legge". La Germania, quindi, è manifestamente contraria alle Omt, ma sceglie di non pronunciare alcun verdetto e di rimettere tutto nelle mani dell'Europa. Una mossa tutt'altro che inattesa, ma che si carica di un preciso valore politico. I mercati vorrebbero che la Bce mettesse in campo un programma di stimoli economici sul modello del quantitative easing targato Federal Reserve, così da accendere la ripresa dell'Eurozona.
Karlsruhe ora accetta la tregua sul fronte delle Omt, ma allo stesso tempo suggerisce a Draghi di non forzare la mano nei prossimi mesi, lasciando chiaramente intendere di non essere disponibile a tollerare alcuna forma di aiuto di Stato mascherato.
Ma come si spiega tanta ostilità da parte dei tedeschi? E' il caso di ricordare che la Germania ha fatto ottimi affari quando gli spread erano alle stelle, accumulando un tesoro che dal 2009 a oggi si aggira fra gli 80 e i 100 miliardi di euro. Quando il caos regnava sul mercato dei debiti pubblici, infatti, gli investitori puntavano sui titoli di Stato tedeschi come beni-rifugio, consentendo a Berlino di rifinanziare il proprio debito a tassi bassissimi.
In alcuni casi i rendimenti sono scesi perfino sotto lo zero e il Paese è riuscito nell'impresa fantascientifica di guadagnare denaro mentre ne chiedeva in prestito. Il meccanismo ha coinvolto anche le banche private e le aziende tedesche, che hanno raccolto denaro pagando tassi d'interesse nettamente inferiori a quelli delle loro concorrenti europee.
La debolezza dei suoi stessi partner è stata un vantaggio decisivo per la Germania negli ultimi anni. E il teatrino di Karlsruhe cerca solo di evitare che qualcosa cambi nei rapporti di forza.
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di Carlo Musilli
Un immenso teatrino per chiudere affari, stringere rapporti e - davanti alle telecamere - friggere aria. Il palcoscenico è a Davos, in Svizzera, dove ogni anno si svolge il World economic forum. L'ultima edizione, la 44esima, si è tenuta la settimana scorsa: gli invitati erano 2.500 tra grandi della finanza e dell'economia, rappresentanti di Stati e di governi.
Per l'Italia, fra gli altri, erano presenti Davide Serra, finanziere amico di Matteo Renzi, Mario Greco, ad di Generali, Paolo Scaroni, numero uno di Eni, Federico Ghizzoni, Ceo di Unicredit, i ministri degli Esteri e del Tesoro Emma Bonino e Fabrizio Saccomanni e il governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Hanno timbrato il cartellino anche gli alfieri di Intesa Sanpaolo, Geox, Sace, Illy e Ariston.
Stavolta la friggitoria d'aria voleva manifestare una qualche preoccupazione per il sociale, ma come sempre si è rimasti sul terreno delle dichiarazioni d'intenti, dei progetti aleatori. Nel frattempo, quello che davvero stava accadendo a Davos era la solita celebrazione autoreferenziale dello status quo. Lo stesso che ha prodotto gli squilibri contro cui oggi si finge di combattere.
Mettiamo da parte le tesi complottiste di chi vede nel Wef una misteriosa riunione di malefici burattinai, una sorta di edizione ripulita del tanto romanzato Bilderberg. Quello che conta davvero, a Davos, sono le relazioni fra capitale privato e istituzioni pubbliche: i Ceo e gli alti dirigenti delle multinazionali più ricche volano ogni inverno in Svizzera per capire dove conviene dirottare investimenti e speculazioni, mentre i politici fanno a gara per convincerli a puntare sui loro Paesi. Questo è l'obiettivo fondamentale, il resto è contorno mediatico, fra dibattiti e workshop.
In verità, il Forum di quest'anno ha provato a rifarsi l'immagine parlando di "capitalismo sostenibile" e "responsabile" per "rimodellare il mondo" in ambiti universali come la salute, l'ambiente e il lavoro. Buone intenzioni che stridono con la realtà storica, fotografata da Oxfam in un rapporto pubblicato giusto alla vigilia del Wef. Secondo l' Oxford Commitee for Famine Relief (una confederazione di 17 organizzazioni non governative), sul nostro pianeta appena 85 persone gestiscono una quantità di ricchezza pari a quella detenuta da altri 3,5 miliardi d'individui, oltre la metà della popolazione mondiale.
Una distribuzione delle risorse che difficilmente potrebbe essere più sbilanciata, e che - secondo Oxfam - è stata prodotta dalle élite economiche mondiali facendo pressione sulle classi dirigenti politiche per truccare le regole del gioco, erodendo il funzionamento delle istituzioni democratiche. "Il rapporto dimostra con esempi e dati provenienti da molti Paesi che viviamo in un mondo nel quale le élite che detengono il potere economico hanno ampie opportunità di influenzare i processi politici - spiega Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International -, rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole. Un sistema che si perpetua, perché gli individui più ricchi hanno accesso a migliori opportunità educative, sanitarie e lavorative, regole fiscali più vantaggiose, e possono influenzare le decisioni politiche in modo che questi vantaggi siano trasmessi ai loro figli".
Stando alle affermazioni di principio, l'ultimo Forum di Davos avrebbe dovuto segnare una svolta per correggere questo sistema. Peccato che in Svizzera non ci fosse nessuno a rappresentare gli interessi di quei 3,5 miliardi di poveri. Erano presenti, invece, i vertici di aziende indagate e/o condannate in varie parti del mondo per reati finanziari e/o fiscali. C'era perfino il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, il cui governo è accusato di corruzione. In effetti è comprensibile, visto che, tra quota di partecipazione e biglietto, il soggiorna a Davos costa più di 50mila euro a persona, creando un indotto per l'economia locale che in pochi giorni vale tra i 25 e i 45 milioni di franchi svizzeri.
Se davvero volessero fare qualcosa per l'altra metà del pianeta, in linea puramente teorica, i leader politici potrebbero costringere le multinazionali globali a versare tasse adeguate ai loro profitti, a pagare in modo dignitoso i dipendenti, a farsi carico di alcuni oneri sociali. Invece conversano amabilmente fra le montagne svizzere, blandiscono i facoltosi manager, stringono mani e sorridono. Il commento migliore a questa prassi ultraquarantennale è forse quello di Boris Johnson: "Davos - sostiene il sindaco di Londra - è una costellazione di ego coinvolti in massicce orge di adulazione reciproca".
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di Michele Paris
Mentre l’élite parassitaria del pianeta si apprestava a riunirsi nell’annuale conferenza del World Economic Forum a Davos, in Svizzera, uno studio di un’organizzazione umanitaria britannica ha messo in evidenza le sbalorditive disuguaglianze che caratterizzano la distribuzione dei redditi nel sistema capitalistico mondiale. Secondo Oxfam, cioè, le 85 persone più ricche del pianeta sono giunte oggi a possedere beni pari a quelli della metà più povera della popolazione della terra, vale a dire 3,5 miliardi di persone.
Questo ristrettissimo gruppo di plutocrati rappresenta una minima parte dell’1% della popolazione mondiale più facoltosa, la quale a sua volta si appropria del 46% della ricchezza globale, ovvero 110 mila miliardi di dollari. Per comprendere ancora meglio la totale irrazionalità dell’intero sistema, questa distribuzione si traduce in una realtà nella quale lo stesso 1% detiene una ricchezza - rigorosamente intoccabile - 65 volte superiore a quella complessiva della metà più povera della popolazione terrestre.
A fronte della retorica vomitata quotidianamente dalle classi politiche di molti paesi, a cominciare dall’amministrazione Obama negli Stati Uniti, che promettono iniziative per ridurre le disuguaglianze sociali e di reddito, in questi anni la ricchezza prodotta è stata diretta pressoché interamente verso il vertice della piramide sociale.
Infatti, come mette in risalto lo studio di Oxfam, in relazione agli USA, l’1% della popolazione ha beneficiato addirittura del 95% della ricchezza creata dal 2009 ad oggi, mentre il 90% degli americani ha dovuto passare attraverso un processo di impoverimento. Complessivamente, il solito 1% del totale ha potuto incrementare i propri averi del 150% tra il 1980 e il 2012, grazie a politiche ideate e messe in atto appositamente a questo scopo da tutti i governi succedutisi al potere.
A livello globale, nonostante l’abbondanza delle risorse disponibili, oltre un miliardo di persone deve sopravvivere con meno di un dollaro al giorno, mentre più di tre miliardi non superano i 2,5 dollari. In concomitanza con la pubblicazione del rapporto Oxfam, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha a sua volta aggiunto i propri numeri alla drammatica situazione planetaria, affermando che i disoccupati nel mondo sono aumentati di altri 5 milioni nel solo 2013 e che le prospettive non saranno migliori per l’anno appena iniziato.Queste tendenze sono dovute in primo luogo alla finanziarizzazione delle economie soprattutto occidentali, nelle quali la creazione di ricchezza è sempre più svincolata dalla produzione di beni, essendo legata prevalentemente alla speculazione finanziaria.
Il trasferimento di ricchezze dalle classi più povere a quelle più ricche è anche il risultato di altre politiche deliberate come quelle a cui si è assistito ovunque dopo l’esplosione della crisi nel 2008, fatte di austerity, compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori, licenziamenti, smantellamento del welfare, ma anche di salvataggi pubblici degli istituti finanziari e immissione sui mercati di quantità enormi di denaro da parte delle varie banche centrali.
In questo scenario, appare quanto meno paradossale che l’evento di Davos - dove, sborsando circa 40 mila dollari ciascuno, sono presenti alcuni dei principali responsabili della situazione dipinta da Oxfam - abbia tra i suoi argomenti centrali di discussione proprio le crescenti ineguaglianze sociali.
Nella località sulle Alpi svizzere, piuttosto, l’élite mondiale sta celebrando un’annata caratterizzata da profitti record per le corporations e dai livelli senza precedenti raggiunti da molti indici di borsa. Secondo i resoconti dei media, a Davos sono presenti quest’anno 80 miliardari e centinaia di milionari che, tra un party e l’altro, prenderanno parte a workshop e seminari su vari argomenti, dal presunto “ritorno” dell’Unione Europea alle strategie per migliorare la “competitività” di aziende e paesi.
Tra il compiacimento e le espressioni di approvazione reciproca per avere ingigantito i propri patrimoni, la conferenza del World Economic Forum è però attraversata anche quest’anno da una diffusa sensazione di precarietà e, soprattutto, di terrore per le conseguenze sociali provocate dalla devastazione causata in questi anni.L’appuntamento di Davos si era infatti aperto con un rapporto sui rischi per il pianeta o, meglio, per l’oligarchia che controlla ovunque le leve del potere. Il primo dei rischi identificati, in maniera più che appropriata, è apparso essere appunto la disparità nella distribuzione delle ricchezze, con riferimenti allarmati alle rivoluzioni di Egitto e Tunisia del 2011.
L’economista del World Economic Forum, Jennifer Blanke, ha tenuto a ricordare che “il malcontento può portare alla dissoluzione dell’edificio sociale, specialmente quando i giovani sentono di non avere alcun futuro”.
Ad unirsi al coro delle voci preoccupate per le esplosioni sociali causate dalle differenze di reddito sono stati in molti alla vigilia di Davos, compreso Papa Francesco, allineandosi sostanzialmente alla vuota retorica del presidente Obama che in queste settimane si sta proponendo come paladino della lotta alle disuguaglianze dopo cinque anni trascorsi ad adoperarsi per l’obiettivo esattamente contrario.
Le proposte che emergeranno a Davos, così come quelle dello stesso Obama o del resto della classe politica mondiale, non avranno tuttavia nulla a che vedere con iniziative di autentica riforma sociale per rimediare anche in parte alle colossali disparità economiche.
Ciò che uscirà dal World Economic Forum saranno tutt’al più le consuete esortazioni ad abbassare le tasse sulle grandi aziende o a liquidare le rimanenti regolamentazioni che ostacolerebbero la crescita del settore privato, senza dimenticare l’impegno a ridurre ulteriormente la spesa e il debito pubblico dei vari paesi.
Tutte parole in codice insomma che, dietro l’apparente scrupolo egualitario, nascondono sempre e comunque politiche volte unicamente a favorire l’élite economico-finanziaria globale a discapito del resto della popolazione.