di Carlo Musilli

In credibile ma vero, un candidato alla Casa Bianca getta sul piatto della campagna elettorale una delle più gravi malattie di Wall Street. Hillary Clinton, già segretario di Stato nella prima presidenza Obama e oggi in corsa per i democratici, ha promesso di tassare l'Hft in caso di vittoria alle presidenziali del 2016.

L'acronimo sta per High frequency trading, ovvero gli scambi di Borsa ad alta velocità operati in modo automatico sulla base di algoritmi. Si tratta di una pratica che, agendo su volumi immensi, garantisce lauti profitti ai colossi della finanza, che riescono a speculare anche sulle minime variazioni dei prezzi registrate ogni secondo, mobilitando masse spesso in grado di condizionare l'andamento dei titoli trattati. Allo stesso tempo, quindi, l'Hft danneggia gli investitori medio-piccoli, perché rende impossibile la trasparenza sui prezzi e genera altissima volatilità, destabilizzando i mercati.

Ora, Hillary Clinton non è mai stata in cattivi rapporti con le banche d'affari americane, per cui l'ipotesi di stangare i re della Borsa risulta piuttosto sorprendente e si spiega solo con un calcolo politico in vista delle primarie democratiche. Evidentemente, l'ex first lady punta a recuperare i voti dei progressisti, un bacino elettorale che al momento sembra spostarsi verso candidati ben più di sinistra, come il senatore "socialista" Bernie Sanders.

"La crescita dell'high-frequency trading ha avuto un peso sui  nostri mercati consentendo strategie di scambio scorrette e speculative", ha detto uno dei consiglieri della Clinton. L'idea per combattere questa pratica, spiegano dallo staff della candidata dem, consiste nel tassare le transazioni con un numero eccessivo di cancellazioni.

Ma l'Hft non è un problema solo americano. "Nei principali paesi europei - si legge in un documento Consob del dicembre 2012 - la quota di scambi riconducibili ad operatori identificati come high frequency traders è cresciuta costantemente negli ultimi anni e attualmente oscilla tra circa il 10 e il 40% a seconda dei paesi".

Quanto ai possibili effetti di questa pratica, "il dibattito accademico - prosegue la Commissione - ha evidenziato, senza tuttavia giungere a risultati univoci, la possibilità che la crescente diffusione dell'high frequency trading amplifichi l'impatto sistemico di shock e influisca negativamente sull'integrità e sulla qualità del mercato (efficienza informativa dei prezzi, volatilità e liquidità)".

L'Hft è perciò una delle armi più potenti in mano ai pescecani della speculazione, che investono alla ricerca di guadagni immediati, distorcendo il mercato a danno di chi non ha la loro potenza di fuoco. La divaricazione fra la terraferma dell'economia reale e la nube della finanza speculativa ha raggiunto così il suo apice.

Investire con raziocinio e competenza, puntando sulle società quotate che producono risultati giorno dopo giorno, è ormai un'attività marginale per chi ha in mano le sorti dei mercati. Di fronte alle possibilità messe a disposizione dalle piattaforme informatiche combinate a sofisticati algoritmi, i rendimenti di lungo periodo sono davvero poco attraenti.

In uno scenario simile, che la tassa proposta dalla Clinton sia in grado di correggere anche solo in parte questi squilibri è tutto da dimostrare, anche perché al momento siamo ancora nel campo degli slogan. Eppure, il semplice fatto che l'high frequency trading sia entrato nel dibattito pubblico americano in modo così esplicito è un avvenimento che merita di essere segnato sul calendario.

di Carlo Musilli

La nuova legge di Stabilità ancora non c'è - arriverà entro il 15 ottobre - ma nel suo tessuto già s'intravede il contorno dei buchi. Le preoccupazioni nascono dalla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza approvata venerdì scorso dal Consiglio dei ministri, un testo che dovrebbe costituire la base di lavoro per la prossima manovra.

In sostanza, il governo fa affidamento su un ipotetico tesoretto da quasi 18 miliardi che l'Ue dovrebbe concedere al nostro Paese per il 2016 in termini di maggiore flessibilità. "L’indebitamento netto - si legge nella relazione al Parlamento allegata alla Nota - potrà aumentare rispetto al profilo tendenziale fino ad un importo massimo di 17,9 miliardi nel 2016 (che include, ove riconosciuti in sede europea, i margini di flessibilità correlati all’emergenza immigrazione fino a un importo di 3,3 miliardi), 19,2 miliardi nel 2017, 16,2 miliardi nel 2018 e 13,9 miliardi nel 2019".

In altre parole, l'Italia chiede all'Europa il permesso di avere un deficit maggiore del previsto non solo nel 2016, ma anche nel 2017 (+1,1 punti di Pil), nel 2018 (+0,9 punti) e nel 2019 (+0,7). Il governo ritiene infatti che "una riduzione ancora più corposa del deficit strutturale nel 2017 sarebbe controproducente e che un calo complessivo di 0,7 punti nel biennio 2017-2018 (e di due punti di Pil in termini di disavanzo nominale) costituisca già uno sforzo fiscale straordinario". Di conseguenza, il pareggio di bilancio subirà un ulteriore slittamento dal 2017 al 2018 (inizialmente era previsto per il 2014).

Ora, il Patto di stabilità e crescita europeo elenca tre possibili "clausole di flessibilità", ovvero ragioni per le quali a un Paese può essere concesso di deviare temporaneamente dagli obiettivi di bilancio a medio termine: 1) l'avversità del ciclo economico; 2) l'approvazione di importanti riforme strutturali; 3) la cosiddetta "golden rule", vale a dire la possibilità di scorporare dal deficit le spese per investimenti cofinanziati con l'Europa.

Della prima clausola non possiamo più avvalerci, perché quest'anno il Pil italiano è tornato in positivo (il governo ha perfino rivisto al rialzo le stime, portandole da +0,7 a +0,9%). Così, per riempire il vuoto, abbiamo tirato in ballo l'emergenza immigrazione: siccome dobbiamo far fronte a innumerevoli sbarchi, abbiamo bisogno di risorse aggiuntive (quei 3,3 miliardi di cui sopra, pari a 0,2 punti di Pil).

In teoria il ragionamento fila, sennonché quei soldi non sarebbero davvero impiegati per i migranti, ma per finanziare la nostra prossima manovra di bilancio, e in particolare i tagli delle tasse promessi da Renzi. E' difficile che a Bruxelles sfugga un dettaglio del genere, tanto più che il nostro stesso ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha ammesso di "non conoscere esattamente" questa presunta regola che legherebbe flessibilità e migranti.  

Per quanto riguarda gli altri margini di manovra chiesti dall'Italia, circa 5,4-5,5 miliardi sono legati alla clausola sugli investimenti e i rimanenti 9,1-9,2 miliardi alle concessioni per le riforme. Di quest’ultima quota, il governo aveva già ottenuto flessibilità per 0,4 punti di Pil (7,3 miliardi) e ora chiede di poter contare su altri 1,7/1,8 miliardi in più. A tal proposito, l'Ufficio parlamentare di bilancio ricorda che "sarà la Commissione europea a verificare sia l’esistenza delle condizioni per usufruire della flessibilità sia quanta flessibilità concedere" e che "ciò dipenderà dal tipo di riforme e dalla loro effettiva realizzabilità".

Dall'Ue, per ora, non arrivano indicazioni: "Valuteremo la posizione fiscale dell’Italia in rapporto al Patto di stabilità e crescita in autunno, nella nostra opinione sulla bozza della Legge di bilancio, una volta che l’avremo ricevuta", ha detto all'Ansa la portavoce del commissario europeo agli Affari economici.

Insomma, se alla fine l'Europa sbloccherà tutti i 17,9 miliardi previsti, il governo avrà trovato senza difficoltà le coperture per buona parte di quella manovra da 27 miliardi annunciata la settimana scorsa dal Premier. Se invece Bruxelles dovesse impuntarsi anche soltanto su una delle richieste dell'Italia, nella legge di Stabilità si apriranno delle falle da sigillare con le solite invenzioni contabili d'autunno.

di Carlo Musilli

Dopo una delle settimane peggiori degli ultimi anni, chiusa con un ribasso del 6,5%, lunedì Piazza Affari ha registrato un crollo memorabile: -5,96% in una sola seduta. Per ritrovare un tonfo simile dobbiamo risalire al novembre 2011, quando in Europa scoppiava la crisi del debito sovrano, lo spread volava a 575 punti base e i rendimenti sui Btp decennali schizzavano all'8 percento.

Eppure, il crollo di ieri non riguarda solo l'Italia o i Pigs, ma coinvolge tutte le principali Borse mondiali (Francoforte -4,7%, Parigi -5,3%, Londra -4,6%, Tokyo -4,6%, Dow Jones, Nasdaq e S&P500 rispettivamente -3,5%, -3,8% e -3,9%), trainate al ribasso dai crolli in sequenza del listino di Shanghai (-8,45% lunedì, dopo il -11% della settimana scorsa).

Ma come si è arrivati a tanto? Andiamo con ordine. A metà agosto, la tripla svalutazione dello yuan decisa da Pechino ha determinato prima una crisi borsistica locale, poi una crisi della moneta cinese e di buona parte delle valute emergenti, infine un contagio su scala mondiale. Inizialmente si pensava che il problema cinese fosse circoscritto agli interessi del gigante asiatico, tant'è vero che in un primo momento - mentre le Borse cinesi crollavano - i listini europei tenevano botta. Ciò si spiega con le limitazioni imposte dalla Cina stessa: gli operatori stranieri possono investire poco sui listini di Shanghai e Shenzhen, perciò l'esposizione diretta degli operatori occidentali ai mercati cinesi è estremamente ridotta.

In seguito, però, fra gli investitori globali si è diffuso il timore che il governo cinese - dopo essersi dimostrato incapace di gestire efficacemente la crisi della Borsa - fallisca anche nel tentativo di dare nuovo slancio alla crescita del Pil, che sta rallentando (anche se le stime parlano comunque di un +6,8% per quest'anno, di un +6,5% per il 2016 e di un +6% per la fine del decennio).

Pechino, dal canto suo, non ha fatto molto per allontanare queste parure, dal momento che fin qui non sono state prese misure efficaci per rilanciare gli investimenti fissi, l'export e soprattutto i consumi interni, che dovrebbero essere stimolati (alzando i salari) per compensare il rallentamento della domanda in altre aree del mondo.

Il cuore del problema, dunque, non è economico, ma politico. A spaventare i mercati non sono (ancora) i numeri, ma le scarse capacità dimostrate dalla dirigenza del Partito nella gestione della crisi. Il vero dilemma è nelle riforme promesse e finora rimaste sulla carta perché osteggiate dai gruppi di dirigenti del Partito che preferiscono continuare a puntare tutto sulle esportazioni.

Anche sul versante azionario il quadro è simile. Pur avendo perso circa il 35% rispetto ai livelli massimi, la Borsa cinese rimane in crescita di quasi il 100% rispetto all'anno scorso. Tuttavia, non è escluso che la correzione continui sui mercati europei, perlomeno finché il governo di Pechino non convincerà gli investitori globali di avere di nuovo la situazione sotto controllo.

D'altra parte, gli strumenti per agire non mancano: esistono circa 5mila miliardi di riserve bloccate che possono essere liberate per sostenere l'economia cinese. Usa e Europa, inoltre, vorrebbero che la Cina tagliasse con più decisione i tassi d'interesse (quello a un anno è ancora al 4 e mezzo percento, contro i livelli prossimi allo zero delle economie occidentali).

Se questi cambiamenti avverranno, il governo cinese riuscirà a rassicurare definitivamente i mercati occidentali. Eppure, non si tratta di una partita che interessa solamente Washington e Bruxelles. Negli ultimi anni, infatti, la Cina è stata il principale sostegno dell'Occidente durante la crisi finanziaria, ma anche un fattore decisivo per la crescita degli altri Paesi emergenti, soprattutto di quelli africani.

di Carlo Musilli

Anche se la Grecia dichiarasse bancarotta oggi e non restituisse più un euro del proprio debito pubblico, la Germania avrebbe comunque guadagnato dalla crisi di Atene ben 10 miliardi di euro. E' quanto emerge da uno studio dell'istituto tedesco di ricerca economica Iwh, che ha condotto delle simulazioni per stabilire gli effetti sulle casse pubbliche tedesche della vicenda greca.

Secondo l'analisi, negli ultimi cinque anni - ovvero da quando è iniziato il calvario di Atene sui mercati - la Germania ha risparmiato in tutto circa 100 miliardi di euro in termini d'interessi sul debito pubblico, una somma superiore al 3% del Pil della prima economia europea. Iwh ricorda che il 3 gennaio 2010 - prima che divampasse l'incendio finanziario greco - il rendimento del Bund decennale era al 3,2%, mentre ieri si attestava allo 0,66%.

A innescare questo crollo dei tassi sui titoli di Stato tedeschi è stata proprio la crisi ellenica, poiché il clima d'incertezza sul futuro di Atene e quindi dell'Eurozona ha spinto gli investitori a proteggere il proprio denaro puntando sui titoli più sicuri: primi fra tutti i Bund, considerati alla stregua di un bene rifugio e perciò sommersi dagli acquisti quando sui mercati si rischia il collasso.

In altri termini, i tassi d'interesse sui bond tedeschi calano ogni volta che arriva una brutta notizia dalla Grecia e "nel corso della crisi del debito di Eurolandia - scrive Iwh -, la Germania ha beneficiato in modo sproporzionato di questo effetto".

L'istituto di ricerca ha calcolato inoltre che l'esposizione della Germania alla Grecia, comprendendo anche il terzo piano di aiuti ancora da approvare, è di 90 miliardi. Ma Berlino ne ha già risparmiati 100 sui rendimenti, perciò anche in caso di default greco rimarrebbe in attivo di 10 miliardi. In questo modo la Germania esce vincitrice dalla crisi anche sul versante delle finanze pubbliche.

Per quanto riguarda invece la finanza privata, la questione si è chiusa con le grandi manovre messe in atto negli ultimi anni per salvare le banche. Il meccanismo è noto: i soldi dei Fondi salva Stati (provenienti dalle tasche di tutti i contribuenti europei) venivano trasferiti alla Banca centrale greca, la quale a sua volta li girava agli istituti di credito ellenici, che li usavano in massima parte per pagare i propri debiti nei confronti delle altre banche europee.

Così fra il 2009 e il 2014 gli istituti tedeschi hanno ridotto la propria esposizione verso la Grecia da 45 a 13,51 miliardi di euro, scaricando il peso sulle spalle dei contribuenti di tutta l'Unione. Solo che la Germania, grazie al contemporaneo crollo dei tassi d'interesse sul proprio debito, è riuscita a fare in modo che la crisi producesse un guadagno anche per le casse pubbliche, al contrario di quanto è avvenuto in tutti gli altri Paesi coinvolti nel salvataggio di Atene.

Alla luce di tutto questo, non sorprende che la Germania continui ad opporsi alla ristrutturazione del debito greco, un intervento che invece Fmi e Usa chiedono a gran voce, poiché rappresenta l'unica strada praticabile per rimettere l'economia ellenica su una traiettoria di sostenibilità, sottraendola al perverso e potenzialmente infinito schema Ponzi degli aiuti internazionali (debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi). Eppure, dal loro punto di vista, i tedeschi hanno ragione. Perché mai risolvere in modo definitivo una crisi così redditizia?

di Carlo Musilli

Quanto guadagna il mega-direttore galattico di fantozziana memoria rispetto ai comuni mortali? Non è una semplice curiosità, ma una domanda a cui, negli Stati Uniti, bisognerà rispondere per legge. La settimana scorsa la Securities and Exchange Commission - l’equivalente Usa della nostra Consob -  ha annunciato che dal 2018 le aziende americane quotate dovranno rivelare a quanto ammonta la differenza di retribuzione fra il Ceo e l’impiegato medio.

A guardare i numeri, si tratta quasi sempre di un abisso. Secondo i calcoli dell’Economic Policy Institute, un think tank statunitense non-profit, due anni fa negli Usa gli amministratori delegati hanno incassato mediamente 295,9 volte più dei loro sottoposti.

Il rapporto, tuttavia, è piuttosto variabile a seconda dell’azienda: stando a una classifica di Payscale su dati di Equilar, si va dal 422/1 di Larry Merlo (Cvs) al 268/1 di Rupert Murdoch (Fox), fino al 139/1 di Jeffrey Immelt (General Electric) e al 113/1 di Alan Mulally (Ford).

La disparità di trattamento è comunque molto più ampia di quella a cui siamo abituati nel nostro Paese, se è vero che - come si legge nell’ultimo Annuario R&S a cura dell’Ufficio Studi Mediobanca -, un lavoratore medio dei grandi gruppi italiani dovrebbe lavorare 36 anni (non tre secoli) prima di raggiungere la cifra incassata nel solo 2014 dai top manager della sua stessa azienda.

Per quanto riguarda l’evoluzione nel tempo, la voragine che separa i compensi dei Ceo americani da quelli dei dipendenti si è ampliata progressivamente negli ultimi decenni e - a quanto pare - nemmeno la valanga finanziaria del 2008 è riuscita a frenare questa tendenza. Sempre l’Economic Policy Institute scrive che i soldi incassati dai boss delle società Usa sono lievitati del 937% fra il 1978 e il 2013, mentre nello stesso periodo gli stipendi dei lavoratori di fascia media sono aumentati soltanto del 10,2 percento. E negli anni Ottanta il rapporto fra le retribuzioni era ancora di circa 30/1.

In questo contesto, la nuova norma introdotta dalla Sec (peraltro con una maggioranza risicatissima: tre voti a due) non ha un valore didascalico né moralistico, ma decisamente pratico. In teoria, che un Ceo guadagni molto più dei suoi sottoposti è normale, perché ha più responsabilità e - si spera - competenze e capacità di livello superiore. Il problema nasce quando si passa da una ragionevole disparità a una pioggia incontrollata di soldi, perché la facilità nell’attribuzione dei bonus spinge all’assunzione di rischi eccessivi.

E’ una regola perversa che vale per i Ceo come per i normali trader: chi scommette più o meno alla cieca incassa un premio se vince, ma non rischia quasi nulla se perde. E proprio questo squilibrio è fra le cause più rilevanti di molti disastri finanziari d’età contemporanea.

Non a caso, la nuova norma sulla trasparenza dei compensi era contenuta nel Dodd-Frank Act, la riforma messa a punto nel 2010 per correggere alcune delle storture più pericolose di Wall Street. L’obiettivo principale era ridurre l’esposizione al rischio dei colossi della finanza, in modo da evitare che un disastro come quello del 2008 possa ripetersi. Purtroppo, il pacchetto di misure è rimasto in gran parte lettera morta a causa del fuoco incrociato di Repubblicani e lobby finanziarie.

La regola che entrerà in vigore dal 2017 (i primi dati saranno pubblicati l’anno successivo) è quindi una piccola ma significativa vittoria per l’amministrazione Obama. “L’obbligo della trasparenza nelle remunerazioni darà informazioni importanti agli investitori e agli altri attori del mercato”, ha commentato dopo il via libera alla norma uno dei commissari della Sec, la democratica Kara Stein.

D’altra parte, quello che si richiede di elaborare alle società quotate è un indice statistico e - come tale - sarà certamente manipolato in ogni modo possibile. La stessa Sec ha stabilito che le aziende potranno utilizzare il metodo di calcolo che “funziona meglio per le proprie circostanze” e determinare una retribuzione mediana basata su una campionatura dei propri dipendenti, non una media ponderata sul loro numero complessivo.

Non bisogna poi dimenticare che molti bonus vengono attribuiti ai dirigenti sotto forma di stock option (opzioni su azioni) e perciò possono essere incassati anche a distanza di anni. Quanto ai dipendenti, negli Stati Uniti la retribuzione non è determinata solo dallo stipendio, ma anche dall’assistenza sanitaria, altro elemento che potrebbe non rientrare nel calcolo del nuovo indice.

Fatte salve tutte queste riserve, è interessante notare che i compensi stratosferici dei mega-direttori galattici di Wall Street non sono più un segreto ormai da qualche anno. La domanda a cui la maggior parte delle aziende non vorrebbe rispondere, perciò, è un’altra: “Quanto li pagate i comuni mortali?”.


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