di Carlo Musilli

La nuova legge di Stabilità ancora non c'è - arriverà entro il 15 ottobre - ma nel suo tessuto già s'intravede il contorno dei buchi. Le preoccupazioni nascono dalla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza approvata venerdì scorso dal Consiglio dei ministri, un testo che dovrebbe costituire la base di lavoro per la prossima manovra.

In sostanza, il governo fa affidamento su un ipotetico tesoretto da quasi 18 miliardi che l'Ue dovrebbe concedere al nostro Paese per il 2016 in termini di maggiore flessibilità. "L’indebitamento netto - si legge nella relazione al Parlamento allegata alla Nota - potrà aumentare rispetto al profilo tendenziale fino ad un importo massimo di 17,9 miliardi nel 2016 (che include, ove riconosciuti in sede europea, i margini di flessibilità correlati all’emergenza immigrazione fino a un importo di 3,3 miliardi), 19,2 miliardi nel 2017, 16,2 miliardi nel 2018 e 13,9 miliardi nel 2019".

In altre parole, l'Italia chiede all'Europa il permesso di avere un deficit maggiore del previsto non solo nel 2016, ma anche nel 2017 (+1,1 punti di Pil), nel 2018 (+0,9 punti) e nel 2019 (+0,7). Il governo ritiene infatti che "una riduzione ancora più corposa del deficit strutturale nel 2017 sarebbe controproducente e che un calo complessivo di 0,7 punti nel biennio 2017-2018 (e di due punti di Pil in termini di disavanzo nominale) costituisca già uno sforzo fiscale straordinario". Di conseguenza, il pareggio di bilancio subirà un ulteriore slittamento dal 2017 al 2018 (inizialmente era previsto per il 2014).

Ora, il Patto di stabilità e crescita europeo elenca tre possibili "clausole di flessibilità", ovvero ragioni per le quali a un Paese può essere concesso di deviare temporaneamente dagli obiettivi di bilancio a medio termine: 1) l'avversità del ciclo economico; 2) l'approvazione di importanti riforme strutturali; 3) la cosiddetta "golden rule", vale a dire la possibilità di scorporare dal deficit le spese per investimenti cofinanziati con l'Europa.

Della prima clausola non possiamo più avvalerci, perché quest'anno il Pil italiano è tornato in positivo (il governo ha perfino rivisto al rialzo le stime, portandole da +0,7 a +0,9%). Così, per riempire il vuoto, abbiamo tirato in ballo l'emergenza immigrazione: siccome dobbiamo far fronte a innumerevoli sbarchi, abbiamo bisogno di risorse aggiuntive (quei 3,3 miliardi di cui sopra, pari a 0,2 punti di Pil).

In teoria il ragionamento fila, sennonché quei soldi non sarebbero davvero impiegati per i migranti, ma per finanziare la nostra prossima manovra di bilancio, e in particolare i tagli delle tasse promessi da Renzi. E' difficile che a Bruxelles sfugga un dettaglio del genere, tanto più che il nostro stesso ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha ammesso di "non conoscere esattamente" questa presunta regola che legherebbe flessibilità e migranti.  

Per quanto riguarda gli altri margini di manovra chiesti dall'Italia, circa 5,4-5,5 miliardi sono legati alla clausola sugli investimenti e i rimanenti 9,1-9,2 miliardi alle concessioni per le riforme. Di quest’ultima quota, il governo aveva già ottenuto flessibilità per 0,4 punti di Pil (7,3 miliardi) e ora chiede di poter contare su altri 1,7/1,8 miliardi in più. A tal proposito, l'Ufficio parlamentare di bilancio ricorda che "sarà la Commissione europea a verificare sia l’esistenza delle condizioni per usufruire della flessibilità sia quanta flessibilità concedere" e che "ciò dipenderà dal tipo di riforme e dalla loro effettiva realizzabilità".

Dall'Ue, per ora, non arrivano indicazioni: "Valuteremo la posizione fiscale dell’Italia in rapporto al Patto di stabilità e crescita in autunno, nella nostra opinione sulla bozza della Legge di bilancio, una volta che l’avremo ricevuta", ha detto all'Ansa la portavoce del commissario europeo agli Affari economici.

Insomma, se alla fine l'Europa sbloccherà tutti i 17,9 miliardi previsti, il governo avrà trovato senza difficoltà le coperture per buona parte di quella manovra da 27 miliardi annunciata la settimana scorsa dal Premier. Se invece Bruxelles dovesse impuntarsi anche soltanto su una delle richieste dell'Italia, nella legge di Stabilità si apriranno delle falle da sigillare con le solite invenzioni contabili d'autunno.

di Carlo Musilli

Dopo una delle settimane peggiori degli ultimi anni, chiusa con un ribasso del 6,5%, lunedì Piazza Affari ha registrato un crollo memorabile: -5,96% in una sola seduta. Per ritrovare un tonfo simile dobbiamo risalire al novembre 2011, quando in Europa scoppiava la crisi del debito sovrano, lo spread volava a 575 punti base e i rendimenti sui Btp decennali schizzavano all'8 percento.

Eppure, il crollo di ieri non riguarda solo l'Italia o i Pigs, ma coinvolge tutte le principali Borse mondiali (Francoforte -4,7%, Parigi -5,3%, Londra -4,6%, Tokyo -4,6%, Dow Jones, Nasdaq e S&P500 rispettivamente -3,5%, -3,8% e -3,9%), trainate al ribasso dai crolli in sequenza del listino di Shanghai (-8,45% lunedì, dopo il -11% della settimana scorsa).

Ma come si è arrivati a tanto? Andiamo con ordine. A metà agosto, la tripla svalutazione dello yuan decisa da Pechino ha determinato prima una crisi borsistica locale, poi una crisi della moneta cinese e di buona parte delle valute emergenti, infine un contagio su scala mondiale. Inizialmente si pensava che il problema cinese fosse circoscritto agli interessi del gigante asiatico, tant'è vero che in un primo momento - mentre le Borse cinesi crollavano - i listini europei tenevano botta. Ciò si spiega con le limitazioni imposte dalla Cina stessa: gli operatori stranieri possono investire poco sui listini di Shanghai e Shenzhen, perciò l'esposizione diretta degli operatori occidentali ai mercati cinesi è estremamente ridotta.

In seguito, però, fra gli investitori globali si è diffuso il timore che il governo cinese - dopo essersi dimostrato incapace di gestire efficacemente la crisi della Borsa - fallisca anche nel tentativo di dare nuovo slancio alla crescita del Pil, che sta rallentando (anche se le stime parlano comunque di un +6,8% per quest'anno, di un +6,5% per il 2016 e di un +6% per la fine del decennio).

Pechino, dal canto suo, non ha fatto molto per allontanare queste parure, dal momento che fin qui non sono state prese misure efficaci per rilanciare gli investimenti fissi, l'export e soprattutto i consumi interni, che dovrebbero essere stimolati (alzando i salari) per compensare il rallentamento della domanda in altre aree del mondo.

Il cuore del problema, dunque, non è economico, ma politico. A spaventare i mercati non sono (ancora) i numeri, ma le scarse capacità dimostrate dalla dirigenza del Partito nella gestione della crisi. Il vero dilemma è nelle riforme promesse e finora rimaste sulla carta perché osteggiate dai gruppi di dirigenti del Partito che preferiscono continuare a puntare tutto sulle esportazioni.

Anche sul versante azionario il quadro è simile. Pur avendo perso circa il 35% rispetto ai livelli massimi, la Borsa cinese rimane in crescita di quasi il 100% rispetto all'anno scorso. Tuttavia, non è escluso che la correzione continui sui mercati europei, perlomeno finché il governo di Pechino non convincerà gli investitori globali di avere di nuovo la situazione sotto controllo.

D'altra parte, gli strumenti per agire non mancano: esistono circa 5mila miliardi di riserve bloccate che possono essere liberate per sostenere l'economia cinese. Usa e Europa, inoltre, vorrebbero che la Cina tagliasse con più decisione i tassi d'interesse (quello a un anno è ancora al 4 e mezzo percento, contro i livelli prossimi allo zero delle economie occidentali).

Se questi cambiamenti avverranno, il governo cinese riuscirà a rassicurare definitivamente i mercati occidentali. Eppure, non si tratta di una partita che interessa solamente Washington e Bruxelles. Negli ultimi anni, infatti, la Cina è stata il principale sostegno dell'Occidente durante la crisi finanziaria, ma anche un fattore decisivo per la crescita degli altri Paesi emergenti, soprattutto di quelli africani.

di Carlo Musilli

Anche se la Grecia dichiarasse bancarotta oggi e non restituisse più un euro del proprio debito pubblico, la Germania avrebbe comunque guadagnato dalla crisi di Atene ben 10 miliardi di euro. E' quanto emerge da uno studio dell'istituto tedesco di ricerca economica Iwh, che ha condotto delle simulazioni per stabilire gli effetti sulle casse pubbliche tedesche della vicenda greca.

Secondo l'analisi, negli ultimi cinque anni - ovvero da quando è iniziato il calvario di Atene sui mercati - la Germania ha risparmiato in tutto circa 100 miliardi di euro in termini d'interessi sul debito pubblico, una somma superiore al 3% del Pil della prima economia europea. Iwh ricorda che il 3 gennaio 2010 - prima che divampasse l'incendio finanziario greco - il rendimento del Bund decennale era al 3,2%, mentre ieri si attestava allo 0,66%.

A innescare questo crollo dei tassi sui titoli di Stato tedeschi è stata proprio la crisi ellenica, poiché il clima d'incertezza sul futuro di Atene e quindi dell'Eurozona ha spinto gli investitori a proteggere il proprio denaro puntando sui titoli più sicuri: primi fra tutti i Bund, considerati alla stregua di un bene rifugio e perciò sommersi dagli acquisti quando sui mercati si rischia il collasso.

In altri termini, i tassi d'interesse sui bond tedeschi calano ogni volta che arriva una brutta notizia dalla Grecia e "nel corso della crisi del debito di Eurolandia - scrive Iwh -, la Germania ha beneficiato in modo sproporzionato di questo effetto".

L'istituto di ricerca ha calcolato inoltre che l'esposizione della Germania alla Grecia, comprendendo anche il terzo piano di aiuti ancora da approvare, è di 90 miliardi. Ma Berlino ne ha già risparmiati 100 sui rendimenti, perciò anche in caso di default greco rimarrebbe in attivo di 10 miliardi. In questo modo la Germania esce vincitrice dalla crisi anche sul versante delle finanze pubbliche.

Per quanto riguarda invece la finanza privata, la questione si è chiusa con le grandi manovre messe in atto negli ultimi anni per salvare le banche. Il meccanismo è noto: i soldi dei Fondi salva Stati (provenienti dalle tasche di tutti i contribuenti europei) venivano trasferiti alla Banca centrale greca, la quale a sua volta li girava agli istituti di credito ellenici, che li usavano in massima parte per pagare i propri debiti nei confronti delle altre banche europee.

Così fra il 2009 e il 2014 gli istituti tedeschi hanno ridotto la propria esposizione verso la Grecia da 45 a 13,51 miliardi di euro, scaricando il peso sulle spalle dei contribuenti di tutta l'Unione. Solo che la Germania, grazie al contemporaneo crollo dei tassi d'interesse sul proprio debito, è riuscita a fare in modo che la crisi producesse un guadagno anche per le casse pubbliche, al contrario di quanto è avvenuto in tutti gli altri Paesi coinvolti nel salvataggio di Atene.

Alla luce di tutto questo, non sorprende che la Germania continui ad opporsi alla ristrutturazione del debito greco, un intervento che invece Fmi e Usa chiedono a gran voce, poiché rappresenta l'unica strada praticabile per rimettere l'economia ellenica su una traiettoria di sostenibilità, sottraendola al perverso e potenzialmente infinito schema Ponzi degli aiuti internazionali (debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi). Eppure, dal loro punto di vista, i tedeschi hanno ragione. Perché mai risolvere in modo definitivo una crisi così redditizia?

di Carlo Musilli

Quanto guadagna il mega-direttore galattico di fantozziana memoria rispetto ai comuni mortali? Non è una semplice curiosità, ma una domanda a cui, negli Stati Uniti, bisognerà rispondere per legge. La settimana scorsa la Securities and Exchange Commission - l’equivalente Usa della nostra Consob -  ha annunciato che dal 2018 le aziende americane quotate dovranno rivelare a quanto ammonta la differenza di retribuzione fra il Ceo e l’impiegato medio.

A guardare i numeri, si tratta quasi sempre di un abisso. Secondo i calcoli dell’Economic Policy Institute, un think tank statunitense non-profit, due anni fa negli Usa gli amministratori delegati hanno incassato mediamente 295,9 volte più dei loro sottoposti.

Il rapporto, tuttavia, è piuttosto variabile a seconda dell’azienda: stando a una classifica di Payscale su dati di Equilar, si va dal 422/1 di Larry Merlo (Cvs) al 268/1 di Rupert Murdoch (Fox), fino al 139/1 di Jeffrey Immelt (General Electric) e al 113/1 di Alan Mulally (Ford).

La disparità di trattamento è comunque molto più ampia di quella a cui siamo abituati nel nostro Paese, se è vero che - come si legge nell’ultimo Annuario R&S a cura dell’Ufficio Studi Mediobanca -, un lavoratore medio dei grandi gruppi italiani dovrebbe lavorare 36 anni (non tre secoli) prima di raggiungere la cifra incassata nel solo 2014 dai top manager della sua stessa azienda.

Per quanto riguarda l’evoluzione nel tempo, la voragine che separa i compensi dei Ceo americani da quelli dei dipendenti si è ampliata progressivamente negli ultimi decenni e - a quanto pare - nemmeno la valanga finanziaria del 2008 è riuscita a frenare questa tendenza. Sempre l’Economic Policy Institute scrive che i soldi incassati dai boss delle società Usa sono lievitati del 937% fra il 1978 e il 2013, mentre nello stesso periodo gli stipendi dei lavoratori di fascia media sono aumentati soltanto del 10,2 percento. E negli anni Ottanta il rapporto fra le retribuzioni era ancora di circa 30/1.

In questo contesto, la nuova norma introdotta dalla Sec (peraltro con una maggioranza risicatissima: tre voti a due) non ha un valore didascalico né moralistico, ma decisamente pratico. In teoria, che un Ceo guadagni molto più dei suoi sottoposti è normale, perché ha più responsabilità e - si spera - competenze e capacità di livello superiore. Il problema nasce quando si passa da una ragionevole disparità a una pioggia incontrollata di soldi, perché la facilità nell’attribuzione dei bonus spinge all’assunzione di rischi eccessivi.

E’ una regola perversa che vale per i Ceo come per i normali trader: chi scommette più o meno alla cieca incassa un premio se vince, ma non rischia quasi nulla se perde. E proprio questo squilibrio è fra le cause più rilevanti di molti disastri finanziari d’età contemporanea.

Non a caso, la nuova norma sulla trasparenza dei compensi era contenuta nel Dodd-Frank Act, la riforma messa a punto nel 2010 per correggere alcune delle storture più pericolose di Wall Street. L’obiettivo principale era ridurre l’esposizione al rischio dei colossi della finanza, in modo da evitare che un disastro come quello del 2008 possa ripetersi. Purtroppo, il pacchetto di misure è rimasto in gran parte lettera morta a causa del fuoco incrociato di Repubblicani e lobby finanziarie.

La regola che entrerà in vigore dal 2017 (i primi dati saranno pubblicati l’anno successivo) è quindi una piccola ma significativa vittoria per l’amministrazione Obama. “L’obbligo della trasparenza nelle remunerazioni darà informazioni importanti agli investitori e agli altri attori del mercato”, ha commentato dopo il via libera alla norma uno dei commissari della Sec, la democratica Kara Stein.

D’altra parte, quello che si richiede di elaborare alle società quotate è un indice statistico e - come tale - sarà certamente manipolato in ogni modo possibile. La stessa Sec ha stabilito che le aziende potranno utilizzare il metodo di calcolo che “funziona meglio per le proprie circostanze” e determinare una retribuzione mediana basata su una campionatura dei propri dipendenti, non una media ponderata sul loro numero complessivo.

Non bisogna poi dimenticare che molti bonus vengono attribuiti ai dirigenti sotto forma di stock option (opzioni su azioni) e perciò possono essere incassati anche a distanza di anni. Quanto ai dipendenti, negli Stati Uniti la retribuzione non è determinata solo dallo stipendio, ma anche dall’assistenza sanitaria, altro elemento che potrebbe non rientrare nel calcolo del nuovo indice.

Fatte salve tutte queste riserve, è interessante notare che i compensi stratosferici dei mega-direttori galattici di Wall Street non sono più un segreto ormai da qualche anno. La domanda a cui la maggior parte delle aziende non vorrebbe rispondere, perciò, è un’altra: “Quanto li pagate i comuni mortali?”.

di Fabrizio Casari

In molti si chiedono come mai la UE ha preferito schiacciare un paese membro, fondatore dell’Unione, piuttosto che, con lungimiranza politica, decidere di salvare la Grecia e, con lei, l’idea di una Europa unita come obiettivo auspicabile per centinaia di milioni di cittadini europei. Si sarebbero potuti attivare strumenti ordinari e straordinari per assimilarne il debito (pari a poco più di quello di una grande regione italiana) e reintegrarlo in un programma di condivisione a lungo termine attraverso gli strumenti di garanzia che prevedono i trattati europei.

E ci si chiede anche se la dimensione ragioneristica a doppio standard, quella per capirci che rinegozia il debito austriaco e si rifiuta di negoziare quello greco, sia la base della comunità europea.

Ci sono due ordini di costatazione da fare. La prima è di natura squisitamente strutturale: basta con l’illusione di 19 o dei 28, sono le banche che guidano l’Europa. I governi dei principali paesi della UE sono solo il terminale politico dei consigli d’amministrazione delle grandi banche d’affari. Inutile quindi evocare Kohl o Mitterrand per poi misurare la miseria politica della Merkel o Hollande.

La politica è uscita di scena dal 1989, quando con la fine del sistema sovietico finiva la “grande paura” e il capitale finanziario poté finalmente seppellire la dimensione del capitalismo inclusivo per liberare le energie della sua dimensione più selvaggia e rapace. La grande finanza ha quindi preso il posto della politica e i figuranti che vediamo scendere dalle auto blu in favore di telecamere sono solo i ventriloqui della finanza internazionale (che li crea e li distrugge se vuole) che li obbliga a dire e a fare quello che vogliono sia detto e fatto.

In secondo luogo c’è l’aspetto politico, persino prioritario su quello finanziario, ma comunque anch’esso ad esclusivo appannaggio della grande finanza. Il sistema bancario, che con il rigore di bilancio e la fine prematura della dimensione pubblica dell’economia ha realizzato e realizza la più grande ricapitalizzazione delle sue imprese, socializzando le perdite e privatizzando i profitti, ha nella costruzione artificiale del denaro sul denaro il punto centrale del suo processo di accumulazione.

Un governo o più governi di sinistra che mettessero in discussione il comando centralizzato sulle economie europee e proponessero una inversione dei termini, oltre che della ragioni e degli obiettivi della linea economica e finanziaria da seguire, semplicemente romperebbero il giocattolo che raccoglie miliardi di profitti e scarica miliardi di debiti. Mettere in discussione anche solo il Fiscal compact, di per sé, sancirebbe l’inizio della fine per la dominazione della finanza internazionale e il parallelo comando tedesco sull’Europa.

L’inappellabilità del dogma turbo monetarista non si fonda infatti sulla presunta infallibilità (che per definizione in economia, come in ogni altro campo, non esiste) delle tesi, bensì sull’osservanza stretta del comando economico-finanziario a guida tedesca e l’applicazione pedissequa delle suddette tesi si fonda sull’assoluta convenienza di esse per la Germania, affetta dalla sua ricorrente ansia dominatrice sul continente.

Per questo la crudeltà contro Atene. Con la logica della rappresaglia, obbiettivamente familiare ai tedeschi, si è voluto castigare la disobbedienza e il suo possibile contagio, soprattutto alla Spagna, dove la possibile vittoria di Podemos alle elezioni del prossimo ottobre suona come una minaccia fortissima all’asse di comando tedesco.

Anche perché la situazione economica della Spagna ed il suo peso politico è ben maggiore di quello di Atene; per questo sono intervenuti sia a scopo repressivo (Grecia) che preventivo (Spagna). Del resto, se alla Grecia si fosse sommata la Spagna, Italia, Portogallo e Francia difficilmente avrebbero potuto continuare a nascondersi.

La guerra dei banchieri e dei loro funzionari politici europei alla nuova Grecia è il portato di una vicenda politica che riguarda l’Europa intera e risulta miope, proprio da parte di Francia, Italia, Spagna e Portogallo, non cogliere l’occasione che Atene offre per alzare la voce contro il quarto Reich e continuare a tacere sui loro interessi nazionali. Convinti di poterla fare franca con trucchi contabili, omissioni politiche e benevolenze da basso impero, i governi del Sud Europa preferiscono ancora recitare la parte di chi tiene ad evidenziare l’obbedienza dovuta ai diktat della Bundesbank piuttosto che schierasi al lato di Atene.

La Grecia ha assunto su di sé tutto il peso della controffensiva dei poteri forti europei. E’ stata identificata come la grande minaccia, immediata e per il possibile effetto contagio: di colpo ha smesso di essere l’alunno preferito per diventare quello con gravi problemi di disciplina.

Siryza é considerato dalla UE il nemico per eccellenza, giacché ha chiesto di azzerare il memorandum puntato alla testa dei greci dalla Troika e l’immediata rinegoziazione del debito, così com’è evidentemente impagabile. Il referendum è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso, dal momento che l’idea di una partecipazione popolare alle scelte di politica economica mette in discussione alla radice l’idea del governo delle elites cui s’ispira Bruxelles. L’effetto emulativo in altri paesi avrebbe rischiato mettere definitivamente in discussione l’assenza di condivisione popolare sul comando di Bruxelles sull’Europa.

Alexis Tsipras cercherà di guidare la Grecia in uno dei momenti peggiori della sua storia. Non prevede indietreggiamenti nè uscite di scena, ma di gestire alcune decine di miliardi di euro nella direzione di un riequilibrio, pur parziale, delle differenze sociali profonde che in Grecia appaiono ora macroscopiche e di proseguire nella battaglia politica contro un modello di Europa ormai rivelatosi un cappio per la maggior parte degli europei.

Ci si chiede se Tsipras avrebbe dovuto rifiutare il cappio e dimettersi. Ma la Grecia in mano a chi sarebbe andata? Sarebbe opportuno cogliere la differenza tra le parole e il governare, tra il parlare a nome della Grecia e offrire ogni giorno il necessario a 11 milioni di greci. Quello che avrebbe potuto determinarsi, se Tsipras avesse rifiutato l’accordo (come suggeriva Varoufakis, pure non del tutto incolpevole di una gestione guasconesca e poco politica delle trattative). Varoufakis è un eccellente economista e, per quanto guidato da comprensibile risentimento, sa quel che dice. Ma il problema è quello che non dice. Il suo piano B prevedeva forse una soluzione sul modello argentino?

Perché le differenze sono enormi. In Argentina ebbe luogo un default controllato che inguaiò non poco i fondi speculativi che, come avvoltoi, si erano gettati sul paese sudamericano intasandolo di titoli tossici ad alta redditività e lasciandosi dietro un paese ridotto in macerie. Grazie alla finta parità monetaria compravano in pesos e vendevano in dollari. Con volo radente atterravano come presunti investitori, salvo che, immediatamente dopo il saccheggio, abbandonavano il paese da creditori.

Dal rifiuto del governo Kirchner di sottoscrivere quel piano di lacrime e sangue per il rientro del debito, frutto dell’intreccio perverso tra banche, fondi speculativi e vertici politici del paese ad essi legati, cominciò la rinascita argentina. Ma l’Argentina (potenza industriale e territoriale, demograficamente notevole, sostenuta da paesi importanti come il Brasile) non aveva il dollaro come moneta, aveva solo stabilito (follia pura di Menem, Cavallo e dei Chicago boys) la parità sul mercato dei cambi.

Quindi non dovette battere una nuova moneta e farla apprezzare internazionalmente, perché il peso era già moneta argentina in corso legale. Gli argentini guadagnavano e spendevano in pesos. Ciò nonostante, il coralito fece paura e tutti i risparmiatori pagarono un prezzo alto per recuperare dignità e prospettiva al paese.

Tutt’altro discorso per Atene. Le condizioni finanziarie della Grecia non consentono una uscita dall’Euro, dal momento che la scarsa solvibilità nei debiti, la sostanziale mancanza di liquidità, la ridotta capacità di export, non permetterebbe generare una moneta nazionale con un esito interessante nel mercato internazionale delle valute.

Perché uscire da una moneta ad alta quotazione internazionale per assumere una moneta nazionale a basso valore sul mercato dei cambi, è possibile solo in condizioni di autosufficienza sostanziale del paese stesso, con una liquidità disponibile significativa, un equilibrio tra import ed export ed un interessante stock di riserve valutarie. E uno dei costi maggiori sarebbe stato visibile nella difficoltà ad importare le merci di cui il paese ha bisogno. Si può comprare e vendere internamente in Dracma, ma tutto ciò che s’importa va pagato in dollari o euro. E come si acquisisce la divisa se la Dracma non dispone del valore utile allo scambio sul mercato valutario e le esportazioni languono?

La Dracma, che nella condizione attuale avrebbe potuto solo funzionare come moneta parallela, avrebbe visto presto giorni nerissimi, per l’ovvia constatazione che i cittadini e le imprese avrebbero cercato di acquisire divisa vendendo Dracma, con ciò generando una spinta inflattiva mostruosa e rapida, dagli effetti dirompenti per il sistema paese.

Fatto salvo dunque il drammatico quadro tecnico e monetario greco, non è però consentito di sottovalutare la forza di una proposta politica che vede nella ristrutturazione del debito l’unica possibilità concreta di onorarlo. Così come non è possibile rinviare la soluzione di un problema come quello di una tale diversità dei fondamentali economici dei diversi paesi da non poter nemmeno concepire un’armonia economica e finanziaria dell’eurozona.

Troppi e da troppo tempo parlano di un’incapacità della Grecia di riformarsi, senza dire però che la Grecia si è già “riformata” e che proprio quelle riforme, volute dalla Troika, hanno gettato l’economia nel caos. La verità è che nessun debito è in grado di essere onorato, per nessun paese d’Europa, Germania compresa, che pur guadagnando e speculando dalla sua posizione di forza a danno dei paesi europei più deboli, non ha un panorama dei conti che la mette al riparo da amari bilanci. Ma il debito è un’arma politica usata da qualcuno contro qualcun altro; non ha la sua restituzione come obiettivo, bensì il controllo dei paesi debitori da parte dei creditori.

L’ipotesi che Atene suggeriva (e che in molti, a cominciare dallo statista di Pontassieve, non hanno voluto valorizzare causa manifesta servitù) era quella di fermare il giro della giostra che prevede i bilanci dei paesi in teoriche compatibilità ma che condanna le loro popolazioni a concreta povertà. Atene chiedeva e chiede, al netto delle schermaglie dialettiche, che l’Europa si fermi a ragionare sulla praticabilità, prima ancora che l’utilità, delle politiche rigoriste; politiche che, nate da un errore tecnico, sono diventate dottrina indiscutibile e veleno per le vene dell’economia europea e internazionale.

Nonostante nel recente passato sia stata graziata dal suo rientro debitorio, sia nel dopoguerra che nel post riunificazione, oggi Berlino non vuole ascoltare le ragioni di chi denuncia lo stridente contrasto tra il benessere dei numeri e quello delle persone. Eppure, l’inutile crudeltà dell’austerity ha finora determinato un generale impoverimento del continente senza peraltro che i bilanci dei singoli paesi abbiano riscontrato numeri migliori.

Si può legittimamente pensare che lo scopo di quelle politiche fosse proprio rompere con il sistema socioeconomico ereditato dalla ricostruzione ad oggi, comunemente chiamato “modello renano”, ma quali che siano le interpretazioni è innegabile che le politiche di rigore di bilancio hanno reso i rispettivi bilanci ancor meno buoni. Né l’indebitamento si è ridotto, né i flussi di spesa pubblica, né gli investimenti, né l’occupazione hanno visto il segno positivo.

Le politiche di aggiustamento strutturale non hanno aggiustato niente. E decine di milioni di europei “riformati” sono allo stremo. E la democrazia sta persino peggio.



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