di Carlo Musilli

Entro i prossimi 18 mesi si terrà in Svizzera un referendum potenzialmente rivoluzionario per il destino delle banche. La conferma è arrivata lunedì scorso, quando il Governo federale ha certificato la raccolta delle 100mila firme necessarie a indire la consultazione. L’obiettivo dei promotori è consentire soltanto all’istituto centrale di creare moneta.

L’iniziativa è nota come “Moneta intera”, espressione che fa riferimento al denaro emesso direttamente dalla Banca nazionale. Questi soldi rappresentano soltanto il 10% dei mezzi di pagamento che circolano in Svizzera, mentre il restante 90% è denaro elettronico che gli istituti creano ogni volta che aprono una linea di credito.

Secondo il “Movimento svizzero per la moneta sovrana”, che ha promosso il referendum, quando le banche private creano moneta vìolano la Costituzione federale. Al primo comma dell’articolo 99, infatti, la Carta parla chiaro: “Il settore monetario compete alla Confederazione; essa soltanto ha il diritto di battere moneta e di emettere banconote”.

Lo scopo della Moneta intera è proprio far rispettare questa regola, ovviamente permettendo alla Banca centrale di emettere anche moneta elettronica, perché è impensabile tornare a un sistema in cui tutti i soldi in circolazione siano banconote fruscianti o monetine metalliche.

Se il referendum avrà esito positivo, “le banche non potranno più creare denaro per conto proprio - spiega il Movimento - ma solo prestare il denaro che hanno ricevuto a disposizione dai risparmiatori, dalle altre banche o, quando necessario, dalla Banca nazionale. Le banche non avranno più un indebito vantaggio nei confronti degli altri attori del mercato, perché non potranno più creare denaro loro stesse”.

Se e quando sarà introdotta la “Moneta intera”, quindi, “su tutti i conti che servono al traffico dei pagamenti - continua il Movimento - si troverà solo denaro elettronico garantito dalla Banca nazionale. La banca dovrà gestire questi conti come dei depositi titoli. Il denaro apparterrà al titolare del conto e non andrà perso in caso di fallimento della banca, ma non saranno pagati interessi. Chi preferisse ricevere interessi anziché avere denaro sicuro potrà, com’è stato fino ad ora, affidare il proprio denaro alla banca tramite un conto risparmio o altre forme d’investimento”.

In sintesi, con la “Moneta intera” le banche private potrebbero effettuare prestiti per un ammontare non superiore a quello dei depositi di cui dispongono. In questo modo - secondo i promotori del referendum - si limiterebbe drasticamente il margine di speculazione degli istituti, impedendo la creazione di bolle alimentate da flussi eccessivi di credito. I risparmiatori sarebbero così protetti dalle operazioni spericolate, quando non fraudolente, realizzate da molte banche negli ultimi anni.

L’obiettivo è nobile, ma la strada proposta dal Movimento nasconde gravi pericoli. Appare evidente che fra le conseguenze della Moneta intera rientrerebbe anche una feroce stretta creditizia, visto che gli istituti non potrebbero prestare più di quello che hanno in cassa. La liquidità in circolazione crollerebbe di colpo, aumentando i costi di rifinanziamento delle banche e di conseguenza anche quelli di famiglie e imprese.

Senza contare l’ennesima ricaduta sull’inflazione, che alla fine calerebbe ulteriormente per effetto della minore liquidità in circolazione e del calo dei prestiti. Può sembrare una conseguenza positiva, ma non lo è: un’inflazione eccessiva è certamente dannosa (in primo luogo perché erode il potere d’acquisto), ma la sua assenza lo è altrettanto, perché scoraggia investimenti, credito e consumi, condannando il sistema economico all’immobilità e allontanando le prospettive di ripresa. E’ esattamente questo uno dei principali motivi di difficoltà dell’economia europea: la mancata risposta a un evidente bisogno d’inflazione per riaccendere i consumi interni.

Nel suo impianto generale, perciò, la riforma proposta dal referendum svizzero appare come un eccesso di reazione allo strapotere delle banche. Ciò che andrebbe colpito è l’esercizio abusivo della leva finanziaria da parte degli istituti di credito, a cui bisognerebbe impedire di usare i soldi dei risparmiatori per investire sul mercato azionario e soprattutto per speculare su prodotti derivati ad alto rendimento e altissimo rischio.

In questo modo i clienti sarebbero tutelati dalla spregiudicatezza delle loro banche. Il progetto che sta prendendo piede in Svizzera, al contrario, si risolverebbe in una misura recessiva, perché affonderebbe il credito al consumo invece di stimolarlo. Certo, le banche ne uscirebbero danneggiate, ma insieme a loro anche il resto del sistema economico.

di Carlo Musilli

Mentre l’Europa arranca per far rispettare la regola del 3%, una delle principali economie del pianeta fa decollare volontariamente il proprio deficit. E’ l’Arabia Saudita, che si appresta a chiudere il 2015 con un disavanzo di circa 130 miliardi di dollari, pari a 118 miliardi di euro (più di tre volte l’ultima legge di Stabilità italiana). Per Riyadh si tratta del terzo bilancio consecutivo in rosso, ma i conti di quest’anno destano particolare attenzione, visto che nel 2014 il deficit non era andato oltre i 17,5 miliardi di dollari (15,9 miliardi di euro).

A determinare questa situazione è stata la scelta di mantenere un elevato livello di spesa pubblica malgrado il petrolio - che oggi assicura il 90% delle entrate del Paese - continui a perdere valore.

Tuttavia, l’Arabia Saudita non deve adattare le proprie politiche economiche all’andamento capriccioso delle materie prime: in quanto capofila dell’Opec, è stata proprio Riyadh ad abbattere le quotazioni del greggio, inducendo il cartello fra i Paesi esportatori di petrolio a non tagliare la produzione nonostante il calo della domanda globale. Una politica che ha fatto crollare il prezzo del barile di oltre il 60% dall’agosto del 2014.

A ben vedere, perciò, il maxi deficit è un investimento che l’Arabia mette in campo con un obiettivo preciso: danneggiare i Paesi produttori estranei all’Opec, colpendo direttamente i concorrenti più pericolosi (Usa e Canada) e i principali alleati della Siria di Assad (Russia e Iran). In particolare, il primo concorrente da mettere fuori gioco è lo shale oil americano. Con il crollo delle quotazioni sui mercati internazionali, Riyadh punta a ridurre la convenienza economica del fracking, la tecnica di estrazione di petrolio e gas tramite la fratturazione della roccia che ha permesso agli Usa di ridurre la dipendenza dall’energia estera.

Secondo Bernstein Research, un terzo della produzione di shale non sarebbe conveniente con il prezzo del Wti sotto gli 80 dollari al barile, mentre Morgan Stanley stima che il punto di pareggio sia a circa 77 dollari al barile. Goldman Sachs e Credit Suisse, invece, ritengono che per i grandi giacimenti i profitti siano assicurati anche con il prezzo sotto i 60 dollari. Ormai però le quotazioni sono cadute a picco oltre ogni immaginazione e il Wti viaggia sui 36-37 dollari al barile.

D'altra parte, agli Stati Uniti non dispiacciono gli altri obiettivi del piano saudita, a cominciare dagli effetti sull'Iran: più scende il prezzo del petrolio e meno conveniente diventa il programma nucleare di Teheran, che è stato concepito anche per conservare petrolio e gas da vendere sui mercati internazionali. Dal punto di vista degli Usa, però, la conseguenza più importante del crollo petrolifero è il colpo inferto alla Russia, nemica anche dei sauditi in quanto alleata del regime di Damasco ed esportatrice di energia in Europa.

Insieme alle rinnovate sanzioni economiche per la crisi ucraina e al rallentamento generale dell'economia, il calo del greggio ha affossato il rublo, che ieri è crollato al livello più basso da oltre un anno contro il dollaro. Le Autorità russe hanno recentemente affermato che il Paese è tecnicamente uscito dalla recessione, ma la nuova caduta del petrolio ha rimesso in discussione lo scenario: la Banca centrale prevede che se il barile restasse ai livelli attuali nel 2016, il Pil potrebbe scendere di oltre il 2% dopo il -3,7% di quest’anno.

Quanto alle previsioni sull’andamento del petrolio, secondo un report pubblicato la settimana scorsa da Goldman Sachs, l’eccesso di offerta è destinato a durare fino alla seconda metà del 2016 e il prezzo del greggio potrebbe scendere addirittura a 20 dollari il barile prima che domanda e offerta tornino a una situazione di sostanziale pareggio.

L’Opec, invece, prima di Natale ha pubblicato nuove stime in cui parla di prezzi in rialzo nei prossimi cinque anni: secondo quanto si legge nel rapporto, la quotazione del greggio raggiungerà il target di 70 dollari al barile entro il 2020, per poi impennarsi a 95 dollari al barile nel 2040. Si tratta però di numeri da prendere con molta cautela, visto che mai come oggi è evidente quanto l’andamento del petrolio sia del tutto estraneo alla logica del libero mercato.

Al di là dei calcoli tecnici e per quanto la domanda possa salire in futuro, è evidente che il prezzo del greggio resterà basso (o bassissimo) finché l’Arabia Saudita riterrà che la politica di sovrapproduzione sia per lei vantaggiosa sullo scacchiere globale.

Al momento, il deficit alto è un prezzo che Riyadh paga volentieri e senza sforzo, visto che, per finanziare il nuovo disavanzo, 80 miliardi di dollari arrivano da riserve valutarie e altri 20 da bond immessi sul mercato. Alla luce di tutto ciò, il debito pubblico è atteso al 5,8% del Pil quest'anno, contro il 2% dell'anno scorso. E, considerato il quadro generale, non è un conto troppo salato.

di Carlo Musilli

Come gli animali nella fattoria di Orwell, in Europa tutte le banche sono uguali, ma alcune sono più uguali delle altre. E così Bruxelles permette alla Germania di salvare i propri istituti con soldi pubblici, ma quando il caso riguarda l’Italia vede l’ombra degli aiuti di Stato anche nelle operazioni che prevedono l’impiego di soli fondi privati. Il destino di Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFerrara dimostra questa regola non scritta.

“Siamo convinti di aver fatto il massimo possibile”, ha detto il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, in un’intervista a La Repubblica. Il problema è che si tratta del “massimo possibile” concesso agli italiani, non a tutti. Via Nazionale, infatti, era pronta a salvare i quattro istituti in crisi attraverso il Fondo Interbancario di Tutela dei depositi: l’operazione non avrebbe comportato “alcun sacrificio per i creditori delle quattro banche - ha spiegato in audizione alla Camera Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza di Bankitalia - ma è stata impedita dalla preclusione manifestata da uffici della Commissione Europea, da noi non condivisa, che hanno ritenuto di assimilare ad aiuti di Stato gli interventi del Fondo”.

In sostanza, Bruxelles considera il Fondo Interbancario alla stregua di un fondo pubblico perché le banche vi contribuiscono per obbligo di legge e perché, in caso di salvataggio, sarebbe il governo a determinare l’impiego delle risorse. Perciò la Commissione ha vietato all’Italia di percorrere questa strada e “a fronte del rapido degenerare delle situazioni aziendali – ha proseguito Barbagallo – l’Unità di Risoluzione della Banca d’Italia ha attivato, in tempi assai contenuti, i poteri introdotti dal nuovo quadro normativo europeo in materia di gestione delle crisi”. E così facendo ha azzerato il valore delle obbligazioni subordinate emesse dalle banche, causando perdite per complessivi 329,2 milioni di euro a 10.559 investitori.

Questo rigore inflessibile dell’Europa, tuttavia, scompare quando in gioco ci sono gli alfieri europei dell’intransigenza e dell’austerità. Il 19 ottobre scorso la Commissione Ue ha approvato senza alcuna obiezione il piano di salvataggio della HSH Nordbank, che prevede aiuti dallo Stato tedesco sotto forma di garanzie per 3 miliardi di euro. L’istituto, controllato dal Land dello Schleswig-Holstein e dal Comune di Amburgo, dal 2011 aveva già ricevuto aiuti di Stato altre due volte.

Ricapitoliamo: per salvare le banche, Bruxelles ha proibito all’Italia di usare fondi privati, minacciando di aprire una procedura d’infrazione per aiuti di Stato e chiedendo di colpire obbligazionisti o correntisti, mentre alla Germania ha concesso senza battere ciglio di impiegare soldi interamente pubblici. Come si giustifica una simile disparità di trattamento? L’argomentazione dei tecnici europei è semplice: nel caso tedesco si trattava del prosieguo di una serie di salvataggi iniziata prima che le nuove regole sulla risoluzione delle crisi bancarie vedessero la luce. In sostanza, i risparmiatori tedeschi sono stati graziati - al contrario di quelli italiani - perché la loro banca era in crisi da più tempo.

L’assurdità di questa spiegazione è di immediata evidenza, ma vale comunque la pena di ricordare che quello della HSH Nordbank è solo l’ultimo di una serie di salvataggi delle banche tedesche, e anche uno dei meno costosi. Negli anni più neri della crisi - tra il 2008 e il 2012 - la Germania ha speso 259 miliardi di euro per non far affondare i propri istituti (contro i 15 utilizzati dall’Italia).

Ad esempio, Commerzbank ha usufruito di garanzie statali per circa 30 miliardi, oltre ai 18 miliardi di liquidità stanziata dal governo tedesco. Altri crediti e garanzie pubbliche sono stati messi in campo per ripulire i bilanci della Westdeutsche Landesbank, che è stata lasciata fallire solo dopo il trasferimento dei crediti deteriorati in una bad bank garantita dalle casse pubbliche.

E come dimenticare i vari piani di salvataggio della Grecia? Per l’economia reale ellenica sono stati pressoché inutili, in compenso le banche greche hanno avuto il denaro per ripagare gli istituti tedeschi e francesi, che così - dopo aver speculato - hanno scaricato la propria esposizione sulle spalle dei contribuenti europei. Il tutto mentre Berlino dava lezioni sul rispetto delle regole.

di Carlo Musilli

Se punti tutto sul rosso e la pallina della roulette cade sul nero, perdi. Finisce così, non hai diritto ad alcun rimborso. Ma se il croupier, pagato dal casinò, ti ha indotto a rischiare spiegandoti male le regole del gioco, allora il discorso cambia. E’ più o meno in questi termini che si pone il dilemma etico-giuridico nato dopo il salvataggio di Pop Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti.

La procedura attivata per risolvere le crisi dei quattro istituti ha causato gravi perdite a molti piccoli risparmiatori. Dalla sera alla mattina queste persone hanno visto sparire tutti i soldi investiti nelle obbligazioni subordinate della propria banca, titoli ad alto rendimento e quindi ad alto rischio. Chi di loro ha diritto a essere risarcito, almeno in parte, con fondi pubblici?

Rispondere a questa domanda è difficile, perché non tutti i risparmiatori coinvolti sono uguali. E’ probabile che molti non fossero nelle condizioni di comprendere l’entità del rischio cui si esponevano quando hanno comprato i bond: davanti a decine di pagine scritte in linguaggio tecnico, di solito, si firma quello che c’è da firmare, fidandosi dei consigli (interessati) che arrivano dall’altra parte della scrivania.

Ma anche ammettendo la malafede delle banche (che andrà dimostrata in tribunale), il quadro non può essere completo. A molte altre persone, infatti, non sarebbe giusto concedere alcun indennizzo. Si pensi a chi, pur avendo gli strumenti per capire il pericolo associato all’investimento, ha scelto di non informarsi per superficialità o per pigrizia. Oppure agli investitori mossi da semplice fame speculativa, visto che i bond subordinati garantivano tassi d’interesse fino al 6-7 per cento.

Il problema è che, sotto il profilo giuridico, risulta complicato stabilire quali vittime siano innocenti e in quali casi siano state raggirate dalle banche. A questo punto, perciò, bisogna fare una scelta e il criterio della condizione economica generale sembra sensato: se dobbiamo selezionare qualcuno da aiutare, è giusto cominciare da chi dopo la perdita dell’investimento si ritrova con le difficoltà materiali più gravi.

Alcuni risparmiatori, poi, sostengono di aver chiesto indietro il denaro dopo aver ricevuto una comunicazione relativa all’aumento del rischio dell’investimento (ma prima che fosse necessario il salvataggio), e di aver ricevuto un rifiuto da parte delle banche ala loro richiesta di uscire. Se ciò fosse vero e dimostrabile, probabilmente gli investitori avrebbero diritto a un indennizzo completo.

Insomma, non esiste una soluzione valida per tutti: è necessario valutare caso per caso. Al governo e al Parlamento, però, si richiede anche qualcosa di più, ovvero nuove norme per impedire che situazioni come questa si ripetano in futuro (magari con banche più grandi).

In primo luogo, come sostiene da tempo la Banca d’Italia, bisognerebbe proibire la vendita alle persone fisiche di strumenti finanziari ad altissimo rischio come i bond subordinati in questione, che andrebbero riservati ai soli investitori istituzionali, certamente più attrezzati nella valutazione dei pro e dei contro legati a ogni investimento.

Alle banche, inoltre, non dovrebbe essere consentito di smerciare autonomamente le proprie emissioni, perché così facendo operano in evidente conflitto d’interessi. Se un impiegato (per mantenere il posto) deve piazzare i titoli della stessa banca per cui lavora, ha un tornaconto personale sulle transazioni ed è incentivato a non agire nell’interesse esclusivo del cliente. 

In alcuni casi particolari, infine, si può immaginare di prevedere l’obbligo di doppia firma sui moduli di sottoscrizione degli investimenti, in modo da tutelare ulteriormente il risparmiatore dal rischio di raggiro. Perché quando punti alla roulette devi sapere cosa stai facendo.

di Antonio Rei

Si dice che le previsioni economiche servano soprattutto a rivalutare l’astrologia. In effetti, a questo punto sarebbe interessante sapere cosa pensano Branko e Paolo Fox del Pil italiano nel 2015, visto che negli ultimi giorni è andato in scena un simpatico “teatro dello zero virgola” molto simile a quello dell’assurdo.

In principio fu il Documento di economia e finanza, in cui tre mesi fa il governo scrisse che quest’anno l’economia del nostro Paese sarebbe cresciuta dello 0,9 percento. Anzi, a essere precisi la stima fu corretta al rialzo dal precedente +0,7% e, naturalmente, il ritocco fu annunciato in tono trionfale dal premier Matteo Renzi. Con il senno di poi viene da chiedersi chi glielo abbia fatto fare.

Già, perché la settimana scorsa il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha dato il via a una gustosa girandola di dubbi e ripensamenti. Prima, in un’intervista al Corriere della Sera, ha espresso il timore che la difficile situazione internazionale prodotta dai fatti di Parigi si ripercuota sulla crescita italiana. Il giorno dopo si è smentito.

A quel punto è entrata in gioco l’Istat, che prima ha seminato il panico conquistando titoli strillati sui giornali, poi ha aggiustato il tiro snocciolando una spiegazione iper-tecnica da cui emerge in modo chiaro soltanto che nessun giornalista italiano è laureato in statistica.

In sostanza, l’Istituto ha scritto che ad oggi la previsione è di un +0,7% rispetto al 2014 (la stessa del governo prima della revisione estiva), ma il dato “non è immediatamente confrontabile con la previsione formulata dal governo, pari a +0,9%, come invece messo in evidenza dalla stampa”. E perché mai no?

Suvvia, è intuitivo: il 2015 ha avuto ben tre giornate lavorative in più rispetto all’anno scorso e, “sulla base delle regolarità empiriche registrate in serie storica si può stimare che tre giorni in più abbiano un effetto al rialzo dell’ordine di +0,1 punti percentuali”. Morale della favola: per l’Istat quest’anno si cresce dello 0,8%. Sarà un buon compromesso per tagliare la testa al toro?

Deve essere piaciuto perlomeno a Renzi, che, impreziosendo l’ennesima presentazione dell’ultima fatica letteraria di Bruno Vespa, ha messo in scena un siparietto mica male: “Noi - ha detto - abbiamo fatto a inizio anno una previsione dello 0,7% ; poi, visto che le cose andavano meglio, l'Istat ha portato la stima allo 0,9% (idem il Governo, ma ora l’amnesia torna utile, ndr), forse chiudiamo allo 0,8 percento. I dati sono ancora in movimento, comunque migliori delle previsioni di inizio anno”. Poi però è arrivato in diretta un messaggino stizzito da via XX Settembre: “Sulla crescita del Pil, +0,8 o + 0,9%, la mia posizione è quella di Padoan. Lo dico perché - ha aggiunto - sono stato appena richiamato all'ordine dal ministro: mi ha scritto di tenere la linea dello 0,9%”.

Infine, Padoan stesso si è deciso a chiudere la querelle con un’affermazione che getta una luce grottesca sull’intero dibattito: “Il ministero non cambia le sue previsioni - ha detto il numero uno del Tesoro - ma se ci dovesse essere un risultato inferiore allo 0,9%, ciò avrebbe effetti marginali sulla finanza pubblica”. E allora che ne abbiamo parlato a fare così a lungo? Perché accapigliarsi per uno 0,1 o 0,2% in più o in meno? E’ politica, bellezza.

In termini reali, che il Pil cresca dello 0,7, dello 0,8 o dello 0,9% non cambia nulla a nessuno: si tratta comunque di una ripresa debole, che non può contare su una decisa ripartenza né degli investimenti né dei consumi interni e perciò resta esclusiva conseguenza di fattori esterni al nostro Paese (il prezzo del petrolio, l’euro debole, l’oceano di liquidità in arrivo dalla Bce).

Quel decimale ha molto più a che vedere con le vicende di Palazzo che con quelle economiche. E’ la prima volta che una statistica così rilevante come il Pil sbugiarda la vanagloria di questo governo, il cui sport preferito in ambito economico è attribuirsi meriti altrui.

Magari esiste anche qualcuno disposto a credere che gli 80 euro abbiano rilanciato la domanda, che il Jobs act abbia rianimato il mercato del lavoro o che “la fiducia e la consapevolezza nei propri mezzi” facciano miracoli, ma prima o poi la distanza fra le chiacchiere del Premier e il mondo reale diventerà sempre più evidente. In fondo, per qualsiasi cosa, si comincia sempre da uno 0,1.


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